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Flessione dei Mercati Europei all’Inizio della Settimana: Il Caso Philips e l'Impatto del Medio Oriente
Le azioni europee iniziano la settimana in calo, con Philips in netto ribasso del 17% e un focus sulle tensioni geopolitiche in Medio Oriente
Le azioni europee iniziano la settimana in calo, con Philips in netto ribasso del 17% e un focus sulle tensioni geopolitiche in Medio Oriente. L’articolo di Sophie Kiderlin e Holly Ellyatt per CNBC offre una panoramica dettagliata dell’andamento dei mercati europei all’inizio della settimana. I principali indici europei hanno mostrato una tendenza al ribasso, invertendo i guadagni iniziali, a…
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LE COMPAGNIE PETROLIFERE TRA CAMBIAMENTI CLIMATICI, DATI INSABBIATI E GREENWASHING
Questo grafico riassume una delle azioni più squallide e vigliacche legate al mondo del negazionismo climatico. Mettetevi comodi, perchè ci sarà da mettersi le mani nei capelli.
A cavallo tra gli anni '70 e '80 una delle più grandi compagnie petrolifere, la Exxon Mobile, aveva prodotto tramite i propri scienziati diversi studi per valutare l'eventuale impatto dell'aumento di anidride carbonica in atmosfera. I risultati, molti dei quali ottenuti con un livello di precisione assolutamente comparabile a quelli prodotti a livello accademico, mostravano oltre ogni ragionevole dubbio che l'anidride carbonica prodotta bruciando di combustibili fossili era destinata a cambiare il clima, con possibilità di rischi catastrofici e irreversibili. Stiamo parlando di oltre QUARANT'ANNI FA.
Tanto per darvi un'idea del livello di consapevolezza che EXXON aveva nel 1982: il grafico qui sotto è preso da pagina 14 del report risultato dallo studio. Le curve nere indicano le previsioni dei modelli della EXXON (sono due per via dell'incertezza nei modelli), la curva rossa invece mostra i dati della concentrazione di CO2 osservati fino ad ottobre 2019, mentre la curva azzurra è la previsione del modello IPCC RCP6.0.
Non vi sto nemmeno a dire che questi risultati non furono comunicati al pubblico e solo recentemente un'inchiesta ha rivelato che EXXON conosceva le sorti del nostro pianeta già quasi 40 anni fa. I risultati del report sono stati ignorati e negli anni successivi EXXON ha speso il suo tempo a confondere l'opinione pubblica e a sfruttare la politica per continuare a produrre CO2 in modo indisturbato.
È incredibile il livello di accuratezza della previsione, ma è ancora più incredibile che questi documenti siano stati letti e *compresi* dalla dirigenza EXXON, e siano stati presentati come "ambigui", pur consapevoli del fatto che i risultati scientifici fossero solidi. Un modus operandi che non è esclusiva della Exxon ma anche ALTRE compagnie petrolifere nel corso degli ultimi venti anni hanno speso fior di quattrini per finanziare in modi più o meno oscuri le lobby del negazionismo climatico. Exxon dovrà difendere la propria posizione nei tribunali, ma quanto è emerso negli ultimi anni è qualcosa di assolutamente spaventoso.
Non solo: perché viene messo in atto un altro comportamento per cercare di limare o mascherare le responsabilitá delle compagnie petrolifere di fronte ai cambiamenti climatici. Il cosiddetto Greenwashing, ovvero citando Wikipedia '' la strategia di comunicazione di certe imprese finalizzata a costruire un'immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell'impatto ambientale, allo scopo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi per l'ambiente delle loro attività''. Cosa giá nota fin dagli anni '70 ma attualissima ancora oggi, messa in atto tramite media, giornali, e perfino divugatori utilizzati per diffondere addirittura dati errati e ovviamente al ribasso rispetto a quelli reali su temperature o concentrazione di gas serra in atmosfera. Quando certi meccanismi si intrufolano anche nel mondo di chi certe cose dovrebbe comunicarle in modo integro e con dignitá morale, capite che la situazione diventa sconfortante.
La scienza non ha bisogno di mentire. Bastano i dati a parlare. E, cosa ancora piú importante, bisogna saperli comunicare correttamente, senza vendere la propria dignitá per una manciata di soldi. Perchè, alla fine, negazionismo e complotti hanno le gambe molto corte.
Matteo, Galselo Wrapsy
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Appello al presidente della Repubblica per i ragazzi di ULTIMA GENERAZIONE
Al Presidente della Repubblica
Ci rivolgiamo a Lei dopo avere ascoltato il suo discorso, pronunciato nell’ultimo giorno dell’anno, in cui abbiamo colto l’evidente preoccupazione per il destino cui sembrano condannate le nuovissime generazioni.
Nei giorni successivi tre ragazzi hanno espresso la loro protesta e, ancor più, lo sgomento, provato ormai dalla maggioranza dei giovani di fronte all’incedere dell’apocalisse climatica. Lo hanno fatto disegnando, con vernice lavabile, una cascata di geroglifici sul portone del Senato. Non si dovrebbe in nessun caso sfuggire al compito di interpretare questo messaggio enigmatico e clamoroso!
Il Presidente del Senato ha invece ritenuto di rispondere a questa azione sostanzialmente innocua con una denuncia penale del tutto sproporzionata: essa pretende un’immediata sanzione contro i sentimenti e le manifestazioni della generazione che, con amara ironia, definisce se stessa come “ultima” ma che, nonostante tutto, concentra la propria attenzione vitale sul futuro del genere umano.
La nostra attività professionale ci ha permesso in questi anni di misurare gli effetti psichici indotti dalle condizioni in cui questa generazione è cresciuta: precarietà lavorativa, percezione di una crescente intollerabilità delle condizioni climatiche e ambientali, trauma prolungato dell’isolamento sanitario, spettacolo atroce di una guerra che promette di estendersi in ogni luogo della terra.
Queste condizioni hanno prodotto e stanno producendo effetti catastrofici su una generazione che sembra votata a vivere un malessere depressivo permanente prima di venire estinta dall’olocausto climatico. Il comunicato diffuso dagli “imbrattatori” del portone contiene più volte la parola disperazione. Un minimo di sensibilità dovrebbe consigliare a coloro che si sentono investiti del ruolo di governanti di prestare orecchio a un segnale tanto inquietante.
Di fronte a questo non è possibile accettare che si anteponga l’esercizio di una volontà punitiva insensibile e insensata alle azioni urgenti di contenimento della catastrofe climatica e di quella psichica che sta colpendo i nostri figli e i nostri nipoti.
In effetti, ciò che viene davvero vilipeso non sono le facciate di pietra e di legno della Repubblica ma le istanze di vita presenti e future minacciate da politiche economiche e ambientali asservite alle compagnie petrolifere e ai produttori di armi.
Di fronte a tutto questo risulta grottesco e inaccettabile che si chiedano i danni per la pulizia di un portone, mentre milioni di giovani fuggono all’estero per cercare una possibilità di sopravvivenza. Di fronte allo stridente contrasto tra questi fenomeni il nostro paese rischia di sprofondare nella vergogna e nella mortificazione.
Ci rivolgiamo a Lei perché possa rappresentare le ragioni di questa inedita “disperazione” ma anche quelle del desiderio condiviso e diffuso, soprattutto tra la popolazione giovanile, di opporsi a chi, per ignoranza o per cinismo, sta distruggendo quel poco che resta del futuro di tutti.
Paloma González Díaz-Carralero, psichiatra, psicoterapeuta psicoanalítica,Madrid
Teresa Castè psicologa, Universidad de Chile, psicoanalista, Santiago del Cile
Federico Suárez, psicoanalista, Madrid
Luciana Bianchera, psico- pedagogista, docente universitaria Mantova
Margarita Bazt, psicoanalista Città del Mexico
Loredana Boscolo, psichiatra Venezia
Leonardo Montecchi, psichiatra Rimini
Francesco Berardi, insegnante pensionato, autore del libro Il terzo Inconscio
Salvatore Inglese - Psichiatra, psicoterapeuta , Catanzaro
Massimo de Berardinis, psichiatra, Roma
Martha Elva Lopez Guzmàn, Psicoanalista del Círculo Psicoanalítico Mexicano.Psicóloga Universidad de Nuevo León, México
Antonio Tari Garcia, Psichiatra, Madrid
Elisabeth von Salis, Psicoanalista ACP, Psicoterapeuta, Zurigo, Svizzera
Thomas von Salis, Dr.med. Neuropsychiatra dell'infanzia e dell'adolescenza Zurigo, Svizzera
Loredana Betti, psicoanalista, Roma
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I vincitori del Premio Goldman per l'Ambiente si avvalgono dei tribunali per contestare progetti petroliferi Vincitori del Premio Goldman per l’Ambiente: una Lotta Legale contro i Progetti Petroliferi Ogni anno vengono inaugurate nuove miniere di carbone e compagnie petrolifere esplorano nuove zone del pianeta. Comunità indigene e attivisti utilizzano tribunali e azioni legislative per resistere. Resistenze e Vittorie In India, le proteste delle comunità Adivasi hanno fermato l’asta dei terreni per le miniere di carbone. In Sud Africa, gli abitanti di Mpondo hanno bloccato indagini sismiche di Shell Global. In Australia, popoli indigeni hanno impedito lo sviluppo di una miniera di carbone. Queste vittorie legali, negli ultimi tre anni, sono state celebrate con l’assegnazione del
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Le industrie minerarie russe distruggono l'Artico Polare
L’incubo ambientale dell’inquinamento industriale nell’Artico russo. L’elenco delle compagnie minerarie e petrolifere russe più sporche secondo Bellona. Fin dall’epoca sovietica, nell’Artico russo operano diverse grandi industrie che hanno un impatto distruttivo senza precedenti sull’ambiente e negli ultimi anni la zona artica della Russia (AZRF) ha vissuto un nuovo boom industriale, soprattutto con megaprogetti per l’estrazione delle risorse naturali. La Rotta del Mare del Nord (NSR) è in fase di sviluppo ed è la principale arteria di trasporto attraverso la quale questi megaprogetti opereranno ed esporteranno i loro prodotti. Il traffico merci lungo la NSR aumenterà dagli attuali 34 milioni di fino a 216,45 milioni di tonnellate all’anno nel 2030. SI tratta di petrolio, gas naturale liquefatto (GNL) e metalli non ferrosi. Entro il 2035, anche la produzione di carbone e i volumi di trasporto dovrebbero aumentare enormemente e le sanzioni internazionali contro la Russia per la guerra in Ucraina non hanno ancora influenzato in modo significativo la portata di questa attività. In un’inchiesta pubblicata dall’’ONG ambientalista scientifica Bellona si esprimono fortissime preoccupazioni per il fatto che, «Date le attuali politiche dello stato russo nell’Artico che non sono riuscite ad affrontare i problemi ambientali per decenni, l’attuazione di nuovi progetti su vasta scala per il suo sviluppo industriale potrebbe portare all’emergere di nuovi hot spot di problemi ambientali in una delle regioni più vulnerabili del mondo».
L’inchiesta esamina lo stato attuale dei 4 cluster industriali più problematici nell’Artico russo da un punto di vista ambientale: Norilsk è una città oltre il circolo polare artico nella regione di Krasnoyarsk, fondata dopo la scoperta del giacimento di rame-nichel di Norilsk nel 1910-20. Nel 1935, con il lavoro dei prigionieri di un Gulag sovietico, iniziò la costruzione dell’impresa che costituì la città, la Norilsk Mining and Metallurgical Combine e del suo villaggio. Nel 1953 Norilsk fu elevata allo status di città. Un potente impulso al suo sviluppo fu la scoperta nel 1960 di altri due grandi giacimenti di minerali di rame-nichel: i depositi Talnakh e Oktyabrsky. Dal 1989, la Norilsk Mining and Metallurgical Combine, come filiale polare, è entrata a far parte della società per azioni Norilsk Nickel. Ora l’impianto produce circa l’85% del nichel e del cobalto russi, circa il 70% del rame e oltre il 95% dei metalli del gruppo del platino, nonché argento, selenio, tellurio e zolfo. Da sempre è una potente fonte di impatti negativi per l’ambiente. La scorsa primavera, l’agenzia russa di vigilanza ambientale Rosprirodnadzo ha pubblicato le statistiche sull’inquinamento atmosferico in Russia per il 2022 e Norilsk si è classificata al primo posto, con l’emissione nell’aria di 1.787.000 tonnellate di sostanze inquinanti, il 10,5% delle emissioni atmosferiche della Federazione Russa. Secondo un rapporto di Norilsk Nickel, numerosi siti industriali della Divisione Polare della compagnia hanno prodotto 1.779.000 tonnellate di emissioni, la stragrande maggioranza delle quali erano biossido di zolfo (SO2). Secondo Rosprirodnadzor, le emissioni di SO2 a Norilsk nel 2022 sono state di 1.765.000 tonnellate. Per Greenpeace, «la Divisione Polare è la più grande fonte di inquinamento da anidride solforosa provocata dall’uomo al mondo». Delle restanti emissioni della Divisione Polare, i metalli pesanti – nichel e rame, nonché di cobalto, arsenico, ecc – hanno l’impatto più negativo sull’ambiente. Le acque reflue della metallurgia non ferrosa portano all’acidificazione dei corpi idrici. Nel 2022, questi scarichi delle imprese Norilsk Nickel erano 168 milioni di tonnellate, la maggior parte delle quali provenivano dalla Divisione Polare. Rifiuti liquidi che possono penetrare nell’ambiente in caso di fuoriuscite accidentali. La più grande fuoriuscita di questo tipo della Norilsk Nickel è avvenuta il 29 maggio 2020 sul territorio del CHPP-3 a Norilsk., quando circa 20.000 tonnellate di prodotti petroliferi finirono nel torrente Bezymianny e nei fiumi Daldykan e Ambarnaya che sfocia nel grande lago Pyasino, collegato al Mare di Kara, provocando danni ambientali che Rosprirodnadzor ha stimato in 147,8 miliardi di rubli. Quattro anni prima, nel 2016, c’era stata un’altra grave fuoriuscita a Norilsk, dove l’acqua contaminata proveniente dal bacino degli sterili dell’impianto metallurgico Nadezhda della Divisione Polare era finita nel fiume Daldykan. Norilsk Nickel ha prima negato l’incidente e poi lo ha ammesso solo una settimana dopo. Nei dintorni di Norilsk, quelle che in Russia vengono chiamate “Terre lunari”, conseguenza delle attività industriali della Divisione lo Polare, sono diventate la normalità. Uno studio del Giardino botanico della Siberia centrale (CSBS, Novosibirsk) ha stabilito che la diversità delle comunità vegetali nella regione industriale di Norilsk è inferiore del 70-80% rispetto alle aree incontaminate della tundra forestale. Lo studio “Ecological and conceptual consequences of Arctic pollution”, pubblicato nel settembre 2020 su Ecology Letters da un team internazionale di scienziati, ha concluso che, a partire dagli anni ’60, quando si verificò un forte aumento della produzione industriale a Norilsk, circa 24.000 Km2 di foresta boreale sono stati distrutti a causa delle emissioni atmosferiche di zolfo, rame e nichel. Nell’aprile 2018, le stesso ministero delle risorse naturali della Federazione Russa ha messo la la filiale polare di Norilsk Nickel nella classe di rischio più alta dell’elenco delle imprese che causano i maggiori danni all’ambiente. Già nel 2012, uno studio del Blacksmith Institute/Pure Earth, includeva Norilsk tra i 10 luoghi Più inquinati del mondo: «In un raggio di 30 chilometri dalla città non c’è un solo filo d’erba o arbusto vivente. La contaminazione è stata rilevata a più di 60 chilometri ». Nonostante tuto questo, Norilsk Nickel annuncia regolarmente l’attuazione di programmi ambientali nei suoi impianti di produzione. Nel 2017 ha avviato un programma per ridurre le emissioni nocive in tutti i sui siti industriali, assicurando che d sarebbero diminuite del 75% entro il 2023 rispetto al livello del 2015. Nel 2018 ha annunciato l’imminente lancio di un altro programma, in base al quale le emissioni di anidride solforosa della Divisione Polare sarebbero state ridotte del 45% entro il 2023 e del 90% entro il 2025, sempre rispetto al 2015, con una spesa di circa 6 miliardi di dollari per entrambi i programmi. All’epoca, il presidente di Norilsk Nickel Vladimir Potanin disse: «Il mio sogno è che Norilsk diventi non solo un centro metallurgico, ma anche turistico. Ma Bellona denuncia che «al momento, la differenza nelle emissioni dell’intera Norilsk Nickel tra il 2022 e l’anno di inizio 2015, quando ammontavano a 2.063.500 tonnellate, è di 244.500 tonnellate, ovvero meno del 12%. Per quanto riguarda il programma di riduzione delle emissioni di anidride solforosa presso la Divisione Polare, il cosiddetto. Programma sullo zolfo: è iniziato solo di recente, il 25 ottobre 2023». Il Kola MMC nella regione di Murmansk, il secondo grande sito industriale di Norilsk Nickel, ha invece ridotto significativamente le sue emissioni: dalle 117.000 tonnellate nel 2018 alle 16.000 tonnellate nel 2022. La stragrande maggioranza di queste emissioni è costituita da SO2, ma è troppo poco per rispetto alla Divisione Polare per influire sulle statistiche complessive di Norilsk Nickel e questo non significa che Kola MMC sia innocuo per l’ambiente. La Kola MMC si estende sui due siti produttivi di “Pechenganikel”, nel nord-ovest della regione, e di “Severonikel”, a 100 km a sud di Murmansk. Gli impianti di produzione della Kola MMC di Pechenganikel sorgono lungo una striscia di 25 Km tra il villaggio di Nikel e la città di Zapolyarny e il più grande di loro è la miniera di Severny, poi ci sono un’altra miniera, due cave e impianti di lavorazione, il più famoso dei quali fino a poco tempo fa era la fonderia nel villaggio di Nikel, che è stata chiusa nel 2020. L’impianto estrae minerali di solfuro di rame-nichel, li arricchisce ed effettua la lavorazione metallurgica in opaco, un prodotto intermedio dal quale si possono poi ottenere nichel, rame, acido solforico e cobalto. L’impresa di Monchegorsk lavora l’opaco di alta qualità importato. I prodotti principali sono concentrato di rame, anodi di nichel, polvere per forni a tubi di nichel e acido solforico. Il picco totale delle emissioni di entrambe le imprese c’è stato negli anni ’80, quando da solo Pechenganikel emetteva nell’atmosfera circa 400.000 tonnellate di anidride solforosa all’anno. Questo inquinamento provocò proteste di massa nel comune norvegese di Sør-Varanger che è a 30 Km in linea d’aria dal villaggio russodi Nikel. Con un calo generale della produzione dopo il crollo dell’Unione Sovietica negli anni ’90, anche le emissioni del Pechenganikel sono diminuite e nel 2000-2010 si sono stabilizzate entro un range di 100.000-160.000 tonnellate di inquinanti all’anno, ma ancora da 5 a 8 volte superiori a tutte le emissioni di SO2 provenienti da tutte le fonti in Norvegia, e Pechenganickel continua a essere il più grande inquinatore dell’aria di Sør-Varanger. Altre sostanze tossiche rilasciate dal sito includono metalli pesanti come cadmio, arsenico e piombo. A Monchegorsk dal 2018 al 2020 le emissioni dell’azienda erano diminuite da 117.000 a 83.000 tonnellate, e nel 2021, dopo la chiusura della fonderia nel villaggio di Nikel e dell’officina metallurgica a Monchegorsk, sono drasticamente diminuite a 20.000 tonnellate. Gli altri principali inquinanti emessi nell’atmosfera sono SO2, nichel e rame. Anche intorno agli impianti della Severonickel si sono formate Terre Lunari che si stanno espandendo. Le foreste nella regione di Monchegorsk sono state completamente o parzialmente bruciate fino a 40 km a sud dell’impianto lungo la pianura di Priimandrovskaya, e il terreno è avvelenato da metalli pesanti. Per le fonti idriche la situazione è simile: secondo Rosidromet, l’agenzia meteorologica russa, nonostante la chiusura della fonderia di Nikel, la MMC di Kola è ancora uno dei due principali inquinatori del bacino del fiume Pechenga. Nel 2022, il livello di inquinamento del fiume Hauki-lampi-joki nel bacino del Pechenga è aumentato da “sporco” a “estremamente sporco” a causa dell’elevato contenuto di composti di nichel e manganese, rispettivamente a 17-28 e 7-13 volte le concentrazioni massime consentite dalla legislazione russa. Bellona fa notare che «Lo stato delle piante e degli animali può essere influenzato da concentrazioni significativamente inferiori». Inoltre, nel bacino del Pechenga si registrano concentrazioni eccessive di rame, mercurio, zinco e solfati. Il contenuto di cresil ditiofosfato (utilizzato nell’arricchimento di minerali di metalli non ferrosi) negli ultimi anni ha raggiunto fino a 3 – 6 volte i valori minimi consentiti. Dal 2017 al 2022, anche l’acqua dei fiumi Nyuduay a Monchegorsk è stata valutata da Rosidromet come “sporca”. I principali inquinanti sono: composti di nichel e rame, le cui concentrazioni medie annuali nel piano a lungo termine variavano in media tra 21 – 54 e 49 – 96 volte i valori massimi consentiti MPC, e le concentrazioni massime erano rispettivamente di 31 – 124 e 93 – 299 volte superiori. Si è verificato anche un superamento della concentrazione massima consentita per il contenuto di composti di ferro, mercurio, manganese e solfati. Vorkuta si trova 150 km a nord del Circolo Polare Artico e 180 km dalla costa del Mar Glaciale Artico, nel bacino carbonifero di Pechora. A vorkuta l’estrazione del carbone iniziò nel 1931 sfruttando il lavoro forzato dei prigionieri del Gulag staliniano. La città è stata fondata nel 1936 e nei dintorni vennero aperte una serie di miniere e insediamenti, il più distante dei quali è l’ormai chiuso Halmer-Yu, situato a circa 90 km lungo l’autostrada che porta alla città. Amministrativamente fanno tutti parte del distretto urbano di Vorkuta con un’area di 24,2 mila km2. Attualmente, ci sono 4 miniere di carbone, inclusa quella di Yunyaginsky, la prima miniera di carbone al mondo oltre il circolo polare artico. All’inizio degli anni ’90 erano attive 13 miniere. Tutte le miniere attive e le miniere a cielo aperto appartengono all’impresa che ha formato la città, la Vorkutaugol, la più grande impresa mineraria della Federazione Russa che da dicembre 2021 fa parte di Russian Energy Group LLC. Inoltre, Vorkutaugol comprende un impianto di lavorazione centrale per la produzione di concentrato di carbone, un impianto meccanico, un’impresa di trasporti e una serie di altri impianti di produzione. L’elenco delle imprese di classe di pericolo 1, pubblicato dal ministero delle risorse naturali e dell’ambiente della Russia nel 2018, comprendeva tutte e 5 le miniere allora attive nella regione di Vorkuta e la centrale elettrica a carbone CHPP-2. Una di queste miniere, Severnaya, è stata chiusa e allagata nel 2016 dopo due incidenti con rilascio ed esplosione di metano, che hanno causato la morte di 36 persone. Uno dei principali inquinanti atmosferici della città, la CHPP-2, è stata convertita a gas nel 2021, così come l’intero sistema energetico della città. Nonostante questo, Vorkuta nel 2022 era ancora all’ottavo posto nella lista delle città russe con l’aria più inquinata, con emissioni totali di 168mila tonnellate, la maggior parte delle quali – 151mila tonnellate – sono idrocarburi senza composti organici volatili. Bellona fa notare che «Secondo questo indicatore, Vorkuta è al quarto posto nel Paese, dietro solo a tre distretti situati nella principale regione mineraria del Paese, Kuzbass. In uno di questi, il distretto di Mezhdurechensky, si trova la più grande miniera di carbone della Russia. Queste statistiche si spiegano con il fatto che l’estrazione del carbone è caratterizzata da elevate emissioni di metano, un gas serra 25 volte più potente dell’anidride carbonica. Il bacino carbonifero di Pechora, che comprende le miniere del distretto di Vorkuta (così come il vicino distretto urbano di Inta), è caratterizzato da un elevato contenuto di metano nei giacimenti di carbone, che varia da 12 a 38 metri cubi per tonnellata . Per fare un confronto, il contenuto medio di metano dei giacimenti di carbone in Polonia, Stati Uniti e India è rispettivamente di 8 -13, 7 – 14 e 5 – 8 m3 per tonnellata». Inoltre, anche le miniere chiuse producono metano: nel 2019 negli Usa, circa 200 miniere di carbone chiuse (di cui più di 500 operative) hanno prodotto l’8% delle emissioni totali di metano statunitensi, circa l’1% del totale di gas serra. L’estrazione sotterranea del carbone inquina anche le falde acquifere a causa del costante pompaggio dell’acqua nelle miniere, e l’inquinamento raggiunge gli strati profondi della roccia. Inoltre, mercurio, piombo, cadmio, arsenico, formaldeide, zolfo, biossido di silicio entrano nell’atmosfera dalle miniere e dalla discariche di carbone. Durante gli incendi si aggiungono emissioni di composti organici volatili, fuliggine, ceneri, anidride carbonica e monossido di carbonio e anidride solforosa. Miniere, discariche e tagli interrompono il profilo naturale del suolo, portando a disturbi della topografia e al degrado della copertura vegetale. Inoltre, le miniere di carbone si erodono facilmente, diventando fonti di inquinamento da polveri e sono soggette a combustione spontanea. Il governo di Komi, preoccupato per il problema delle discariche di carbone attorno a Vorkuta e Inta (un’altra città situata nel nord della repubblica autonoma), che iniziarono a formarsi negli anni ’30, sta cercando di inserirle nel registro statale dei siti di danno accumulato, il che può dare speranza per la loro bonifica. Le conseguenze ambientali negative dell’estrazione del carbone nella regione di Vorkuta sono accompagnate da una grave situazione socioeconomica. L’emigrazione della popolazione è iniziato nel 1991, anno che segnò il picco della popolazione cittadina con 117.000 residenti. A 30 anni dal crollo dell’Urss, nel 2021, il numero dei residenti era sceso a 57.000. Secondo Rosstat, l’ufficio statistico russo, «Vorkuta è la città russa che muore più velocemente». Case, quartieri e villaggi abbandonati sono diventati la normalità, Solo sul territorio di Vorkuta ci sono circa 100 grandi edifici abbandonati, 80 dei quali sono condomini che rientrano senza problemi nella categoria degli oggetti di danno ambientale accumulato. Un altro aspetto di questa crisi è la mancanza di fondi per mantenere le infrastrutture urbane in condizioni adeguate: nel 2022, alla vigilia di Capodanno, gli impianti di trattamento delle acque reflue di Vorkuta sono collassatii. Erano entrati in funzione nel 1976 e da allora non erano mai stati revisionati e l’ente gestore, il Vorkuta Vodokanal era fallito nel 2016. Le fogne della città hanno scaricato per quasi tre settimane in un ruscello vicino, finendo nei fiu mi Vorkuta e Usa e poi nel fiume Pechora, che sfocia nel Mare di Barents. Il Distretto di Usinsk si estende su 30.500 Km2 nel bacino del Pechora, nel nord della Repubblica autonoma dei Komi e un terzo del suo territorio si trova oltre il Circolo Polare Artico. Nel luglio 2020 è stato incluso nella Zona Artica della Federazione Russa. La regione di Usinsk è il centro della produzione di petrolio nella regione. Qui viene prodotto circa il 70% di tutto il petrolio della repubblica ed è per questo che è diventato famoso nel 1994, quando ha subito il più grande sversamento petrolifero sulla terraferma nella storia del mondo: almeno 200.000 tonnellate di petrolio sono fuoriuscite dall’oleodotto di emergenza. Per bonificare l’inquinamento la Russia ha dovuto prendere in prestito circa 100 milioni di dollari dalla Banca Mondiale. I lavori di raccolta del petrolio che aveva raggiunto il Mare di Barents e di bonifica dei siti di fuoriuscita sono stati completati solo nel 2010. Secondo gli ambientalisti russi ci vorranno almeno 100 anni perché il territorio si rigeneri. Ma successivamente si sono verificate regolarmente fuoriuscite di petrolio anche se non di dimensioni paragonabili a quella del 1994. Read the full article
#Articorusso#compagnieminerarie#compagniepetrolifere#DistrettodiUsinsk#inquinamentoindustriale#KolaMMC#MarglacialeArtico#NorilskNickel#Terrelunari#Vorkuta
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🇮🇹 Culo in vendita
Tutti i politici hanno comprato «azioni di guerra».
Molti hanno comprato $GD (General Dynamics). Molti repubblicani hanno investito pesantemente nelle società petrolifere ed energetiche, con acquisti di $XOM, $DVN e $CVX. I democratici hanno comprato sicurezza informatica $FTNT.
Queste aziende esercitano forti pressioni su TUTTI I POLITICI. Ciò è accaduto anche prima della guerra in Ukraina.
Vedi le operazioni complete: https://unusualwhales.com/politics
🇺🇸 Ass for sale
All politicians have been buying «war stocks».
Many bought defense company $GD (General Dynamics). Many Republicans bought heavy into oil & energy companies, with buys in $XOM, $DVN, $CVX. Democrats bought cybersecurity $FTNT.
These companies lobby heavily on ALL POLITICIANS. This happened before the Ukrainian war as well.
See full trades: https://unusualwhales.com/politics ———————————————— 📡Vai a ControNews 🎙Entra in Chat 🚨Sintonizzati sul SEGNALE
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Negli ultimi mesi non ricordo quante volte abbiano mandato in onda su diverse tv I tre giorni del Condor (1975), di Sydney Pollack. Probabilmente i programmatori non hanno alcuna cognizione, in un momento come questo, del suo contenuto devastante. Sul piano strettamente cinematografico interpreti e regista sono per bravura fuori da ogni parametro attuale. Da Robert Redford alla divina Faye Dunaway a Max von Sydow nei panni dell’europeo cinico e criminale usato dagli altrettanto criminali vertici della CIA. Spero che i miei amici non se lo siano fatto sfuggire. Nel gruppo di “lettori” che setaccia libri per conto del servizio segreto apparentemente per trovare notizie capaci di condurre su qualche traccia di complotto antiamericano uno, brutalmente ammazzato nel suo letto, fa di nome Heidegger! Con tanto di targhetta sul citofono. Ironia perfidissima nei confronti di un’Europa dalla quale forse il regista, di origini russa e ashkenazita, credeva di aspettarsi qualcosa di più.
Non riassumo la trama. Basterebbe questo film per smontare radicalmente il lessico nauseabondo della “narrazione” usato dai nostri gazzettieri. La narrazione è l’imbroglio, è il primo passo verso la creazione del simulacro. Probabilmente lo stesso film, in modi sottili e obliqui, potrebbe essere sottoposto alla stessa verifica di realtà che alla CIA riesce solo sterminando i “lettori” e facendo ritornare l’agenzia al principio di realtà abbandonato dalla solipsistica attività della sezione. La narrazione, la manipolazione delle decisioni attraverso il reperimento di narrati adeguati da sottoporre al decisore politico. Il rapporto emerso dalla lettura di libri non solo è assolutamente falso nel senso abituale del termine in quanto contenente informazioni false, è invenzione pura. Serve unicamente a scatenare una guerra, non ha alcun altro fine. Con la guerra salgono azioni di società petrolifere ecc. Per evitare l’esito disastroso la CIA fa fuori un pezzo di sé stessa. È il caso di sperare che avvenga così anche nel presente.
Nel 1975 erano passati solo quattro anni dalla pubblicazione sul “New York Times” dei Pentagon Papers, abrégé dei 47 volumi dell’inchiesta sul ruolo del Pentagono nella guerra del Vietnam la cui questione di fondo era l’inganno, come si espresse Hannah Arendt. Ogni giorno che passa, ogni giorno che Dio manda in terra da un anno a questa parte la questione è questa e solo questa: l’INGANNO!!!
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10 Gennaio 1943, Stalingrado : verso la vittoria finale
Il fronte è un corridoio tra due stanze una di fronte all'altra, è un pavimento che crolla tra i piani di una casa, dove noi combattiamo dal mattino alla sera. Le strade non si misurano più in metri, ma in cadaveri" ( tratto da "Ultime lettere da Stalngrado")
Sono ormai quasi sei mesi che Stalingrado resiste agli assalti della Luftwaffe, la temibile aeronautica dell'esercito nazista, e almeno tre che la battaglia si svolge nel pieno centro della città, casa per casa, strada per strada. La linea del fronte è dietro ogni pietra angolare, ogni azione di guerra dipende quasi esclusivamente dal valore e dal coraggio di ogni singolo soldato, dalla sua capacità di osservazione, dalla sua abilità nel combattere e nell'uccidere. Non la si può risolvere come una qualsiasi altra semplice battaglia, questa. Stalingrado non è una città come le altre, una volta superato questo baluardo Hitler potrà avere accesso alle risorse petrolifere del Caucaso, compromettendo per sempre le sorti dell'Unione Sovietica e della Seconda Guerra Mondiale. Il 28 luglio 1942, ad assedio appena iniziato, gli ordini di Stalin erano stati "Non un solo passo indietro", e così Stalingrado si era preparata resistere: i lavoratori delle fabbriche avevano imbracciato i fucili e smesso di lavorare, la fabbrica di trattori era stata trasformata in fabbrica per macchine da guerra e dalla Siberia, dove erano state spostate e ricostruite le fabbriche delle città sotto assedio, si aspettavano nuovi aerei, carri armati T-34, cannoni, mitragliatrici. I primi bombardamenti a tappeto, contrastati dalle aviatrici dell'Armata Rossa conosciute ai nazisti col nome di "streghe di Stalingrado", cominciano a fine agosto (alla fine saranno in tutto più di 2000, e verranno sganciate tutte le bombe disponibili per l'operazione) e a metà settembre l'esercito di Hitler è già riuscito ad entrare in città, dando vita ad una logorante guerriglia urbana che durerà 200 giorni e 200 notti. Alla fine di ottobre, la città era divisa in due, le posizioni difese dai sovietici si erano ormai ridotte a lembi di territorio non più larghi di 200 metri e la 6ª Armata tedesca del generale Friedrich Von Paulus, dopo aver tenacemente circondato Stalingrado, si riteneva ormai ad un passo dalla vittoria, nonostante le gravi perdite che contrassegnavano ogni giornata di battaglia. A novembre però il malessere è dilagante tra le file naziste, le vittorie non sono mancate ma ogni soldato vede morire più commilitoni che nemici da quando la battaglia si è spostata nel centro cittadino; i rifornimenti poi tardano ad arrivare, le azioni di sabotaggio lungo il Volga non sono inusuali e il lungo inverno russo non lascia tregua durante le pause tra un'offensiva e l'altra.
Nel frattempo, tra le file sovietiche era maturato il piano definitivo per il contrattacco, guidato dai comandanti Zhukov e Vasilevskij e dal maresciallo d'artiglieria Voronov, ai quali riuscì di organizzare la controffensiva di nascosto ai tedeschi; l'operazione Urano consisteva semplicemente nello scardinare il fronte più a nord dell'esercito di Von Paulus in modo da costringerlo a indietreggiare verso il Volga e una volta lì circondarlo con un'impressionante spiegamento di forze: dieci armate sovietiche, più di un milione di soldati, 1500 carri armati, 15000 pezzi d'artiglieria prodotti nelle fabbriche sovietiche della Siberia, degli Urali e del Kazachistan. Il piano, coadiuvato dall'operazione Saturno, ha inizio il 19 Novembre e appena quattro giorni dopo gli eserciti sovietici si riuniscono accerchiando 22 divisioni di fanteria corazzata nazista (3000 uomini). Il 21 dicembre il fronte era distrutto e l'accerchiamento comprendeva 250000 soldati oltre a mezzi corazzati e divisioni di artiglieria, senza che Von Paulus tentasse in alcun modo di sfondare. A Natale i tedeschi mangiarono la loro miseria: ad ognuno di loro era riservato un pezzo di pane al giorno e, per quanto riguardava le munizioni, ne avevano a disposizione dalle venti alle trenta al giorno. La situazione della sesta armata era senza speranze. Il giorno 8 Gennaio i sovietici proposero ai tedeschi la resa garantendo la vita ai prigionieri e la possibilità di indossare le loro onorificenze e i gradi conseguiti. Von Paulus declinò l'offerta. Il 10 gennaio, l'Armata Rossa attaccò da occidente per spalleggiare la 62° armata che continuava a combattere sul Volga. La lotta finale, che durò fino al 2 febbraio, venne condotta dalle due parti con particolare accanimento fino all'ultimo: i sovietici fecero uso in massa dell'artiglieria per polverizzare i nuclei di resistenza delle truppe tedesche straordinariamente indebolite dal lungo assedio; le successive linee di arroccamento predisposte dai tedeschi per prolungare al massimo la resistenza vennero travolte. Con la conseguente perdita degli aerodromi si verificarono i primi episodi di panico collettivo e di dissoluzione dei reparti (per via aerea durante l'assedio erano infatti stati evacuati almeno 30.000 soldati tra feriti, specialisti e ufficiali superiori). La maggior parte dei soldati furono annientati sul posto. Chi scampò alla morte si riversò assieme a feriti e sbandati verso le rovine di Stalingrado dove si sviluppò l'ultima tragica resistenza (c'erano tedeschi, romeni, italiani, ungheresi, decine di migliaia di soldati che sciamavano prigionieri tra gli ammassi del luogo). Secondo dati di fonte sovietica, i soldati tedeschi uccisi dall'inizio dell'accerchiamento furono 22.000, i prigionieri 91.000, tra loro non meno di 24 generali e un feldmaresciallo: Von Paulus, che si arrese il 31 Gennaio e rifiutò il tacito invito di Hitler al suicidio, nonostante questi lo avesse promosso feldmaresciallo pochi giorni prima della resa finale.
Il resoconto finale della battaglia è impietoso: quasi tutta Stalingrado è stata rasa al suolo dai bombardamenti, dei 46.000 edifici della città, 41.000 sono completamente distrutti. Tra le macerie il pericolo era in agguato, rappresentato da mine, trappole, proiettili e bombe inesplose. Non si poteva neppure iniziare a spazzare via le macerie. Nonostante ciò la popolazione cominciò ad uscire dai rifugi col la voglia mai sopita di continuare a vivere, cominciando dalla ricostruzione di quanto era stato distrutto: da tutta l'Unione Sovietica arrivarono aiuti con il necessario per Stalingrado, come se nel paese ognuno si sentisse abitante di quella città coraggiosa. Perché se proprio si vuole trovare il motivo di questa grande vittoria, tralasciando il tatticismo militare e l'abilità dei singoli graduati, allora esso deve essere ricercato nella grande forza d'animo del popolo sovietico, incalzato da un nemico che era tale non solo perché portatore di armi, guerra e distruzione, ma anche perché rappresentante di un'ideologia completamente estranea ai principi rivoluzionari che ancora pervadevano l'animo di molti, giovani e meno giovani, trovatisi fianco a fianco nella strenua difesa della patria e dell'ideale socialista.
L'eco della prima grande sconfitta nazista aprì così una grande speranza negli eserciti ma soprattutto nei popoli europei: vincere è possibile!
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Oltre 70.300.00 di euro di investimenti per gli Accordi di sviluppo sostenibile. Dopo le prime bollette del gas con un importo quasi azzerato per tutti i Lucani, inizia a prendere corpo anche la seconda gamba su cui ho poggiato la revisione degli accordi con le compagnie petrolifere: gli accordi di #sviluppo per le imprese lucane o che vogliono investire sul nostro territorio regionale. Si è chiuso, infatti, il bando per i contratti di sviluppo. La cifra investita nel nostro territorio sarà di oltre € 70.300.00 di euro, in parte finanziati dalla Regione, proprio con le risorse derivanti dai nuovi accordi sottoscritti. La finalità dei contratti di sviluppo non è solo quella di supportare lo sviluppo sostenibile delle #imprese ma anche quello di creare nuovi posti di lavoro. Sono stato sempre convinto che fosse necessario un serio ed ottimale utilizzo delle risorse economiche derivanti dal petrolio quale fattore di sviluppo della Basilicata. Dunque, quando ho affrontato i tavoli per la revisione degli accordi con le compagnie petrolifere l’obbiettivo era quello di non disperdere, come fatto dai Governi regionali precedenti, le risorse per coprire la spesa corrente o per finanziamenti improduttivi. La visione era quella utilizzare le risorse rinvenienti dalle estrazioni di petrolio per azioni concrete che mirassero ad una maggiore tutela ambientale e a lasciare segni tangibili di sviluppo nella nostra Basilicata. Da qui quelle che poi sono state definite le tre gambe: implementazione della tutela ambientale, #gas gratis per i #Lucani e sviluppo sostenibile delle imprese per garantire posti di lavoro, alle quali si aggiunge la tutela della salute dei nostri corregionali attraverso l’accordo LUCAS. Oggi iniziano a dare i loro frutti: la Basilicata è l’unica Regione in Europa a non risentire del caro gas, da un lato, e l’unica regione a mettere a disposizione delle imprese, in questo momento di crisi economica, risorse per lo sviluppo sostenibile, dall’altro. Posso dire che questi traguardi mi ripagano di tre anni di duro lavoro come assessore all’ambiente. Lavoro che ho svolto sempre a beneficio dei miei corregionali. https://www.instagram.com/p/ClgnWGXDiHi/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Regalano armi all’Ucraina ma fanno affari con la Russia
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Regalano armi all’Ucraina ma fanno affari con la Russia
Ormai della guerra in Ucraina si parla sempre ma non fa più notizia. I notiziari sono saturi di notizie sulle atrocità (comuni a tutte le guerre). Delle violazioni degli accordi internazionali (anche in questo casi non si sa perpetrate da chi). Delle montagne di dollari e euro in aiuti scaricati nelle casse dell’Ucraina da USA e UE.
Di un aspetto non si è parlato. I media occidentali continuano nella loro campagna mediatica di condanna della Russia (perfino dal punto di vista sportivo, basti pensare che il primo tennista al mondo non compare con il proprio paese di provenienza sui tabelloni del circuito internazionale e che il mitico torneo di Wimbledon è stato cancellato dai punteggi dell’ATP proprio per le pressioni che aveva esercitato in tal senso). Al tempo stesso, però, senza dire niente a nessuno, banche e istituti finanziari continuerebbero a fare affari con la Russia. Addirittura finanziando progetti definiti “carbon bombs”, bombe climatiche. É quanto emerge da alcuni dati raccolti dal database Leave it in the ground initiative (Lingo) diffuso da attivisti ucraini. Secondo gli autori sarebbero più di 400 gli istituti finanziari stranieri finanziatori di società russe. Il tutto per una cifra da capogiro: ben 130 miliardi di dollari (di cui 52 miliardi di dollari di investimenti e 84 miliardi di dollari in crediti). Finanziamenti e esportazione di gas e petrolio, che avrebbero consentito alla Russia di guadagnare ben 93 miliardi di euro nell’ultimo periodo.
Tra i principali finanziatori del settore energetico russo molti istituti americani (ben 154) con circa 23,6 miliardi di dollari. Primo fra tutti, con quasi 10 miliardi tra investimenti e linee di credito, JPMorgan Chase. La banca d’affari americana sarebbe uno dei principali finanziatori dei progetti di estrazione di combustibili fossili in Russia e, di conseguenza (secondo il ragionamento fatto da Lingo), anche della guerra. Anche i paesi arabi non avrebbero rinunciato a investire petrodollari in azioni russe. Anzi, pare che il più grande investimento singolo (15,3 miliardi di dollari verso la Rosneft) provenga dalla Qatar investment authority, un fondo del Qatar.
Anche il Regno Unito non ha rinunciato alla propria fetta di mercato. E mentre il governo parlava di embargo e di condanna della Russia, c’è stato chi ha continuato a fare affari con le società petrolifere russe: sarebbero ben 32 gli istituti finanziari per ben 2,5 miliardi di dollari di investimenti. E poi gruppi finanziari dal Giappone, dalla Norvegia, dalla Svizzera e dai Paesi Bassi. E perfino dall’Italia.
Ma non basta. L’embargo sbattuto sulle prime pagine dei media di tutti paesi europei e americani sarebbe di fatto una mezza bufala. Secondo un’inchiesta della Associated Press, dal 28 febbraio data di inizio ufficiale della guerra, sarebbero state più di 3.600 le spedizioni partite dai porti russi dirette negli USA. “Si tratta di un calo significativo rispetto allo stesso periodo del 2021, quando erano state registrate circa 6.000 spedizioni, ma si parla comunque di un fatturato di oltre 1 miliardo di dollari al mese”, ha sottolineato l’AP. Legname, metalli, gomma e altri prodotti hanno continuato a viaggiare regolarmente tra Russia e USA, in barba all’embargo sbandierato ai quattro venti.
Il commercio con la Russia non si è mai fermato. Nemmeno dopo l’invasione dell’Ucraina.
Il motivo è semplice: vietare le importazioni di determinati articoli probabilmente avrebbe causato più danni agli Stati Uniti che alla Russia. Blanda la giustificazione delle autorità dopo la pubblicazione del rapporto dell’AP: “Il nostro compito è quello di pensare a quali sanzioni hanno il maggior impatto consentendo al commercio globale di funzionare”, ha dichiarato l’ambasciatore Jim O’Brien, capo dell’Ufficio di coordinamento delle sanzioni del Dipartimento di Stato.
Sanzioni e blocchi non servono a nulla (lo dimostrano gli effetti ottenuti sulla Russia e sull’andamento del conflitto). I divieti, negli USA, nell’Unione Europea e nel Regno Unito, servono solo ad avere regole commerciali contorte che confondono acquirenti, venditori e responsabili politici. E favoriscono speculazioni multimiliardarie.
L’amministrazione Biden e quella dell’UE hanno pubblicato elenchi separati di società russe che non possono ricevere esportazioni, ma neanche questi limiti sono stati rispettati: ad esempio, una società russa (che fornisce metallo all’esercito russo per produrre aerei da combattimento come quelli che attualmente sganciano bombe in Ucraina), nonostante fosse inserita in questi elenchi, ha continuato a vendere milioni e milioni di dollari di metallo a imprese americane ed europee. La giustificazione di molti importatori (specie statunitensi) è che non hanno scelta. Ad esempio, nel caso delle importazioni di legno, le foreste di betulle della Russia forniscono un legno duro e resistente che è materia prima di base per i produttori di mobili e pavimenti americani. Per questo container di beni e semilavorati prodotti in Russia continuano ad arrivano nei porti degli Stati Uniti praticamente ogni giorno.
In alcuni casi, gli arrivi sono stati persino incoraggiati dall’amministrazione Biden (come le oltre 100 spedizioni di fertilizzanti arrivate dopo l’invasione). Secondo AP, nei porti USA potrebbe arrivare perfino petrolio: le compagnie energetiche statunitensi continuano a importarlo dal Kazakistan attraverso i porti russi, ben sapendo che, spesso, quel petrolio è mescolato con il combustibile estratto in Russia.
L’economia globale, oggi, è così intrecciata che imporre delle sanzioni comporta i rischi non accettabili. E aumento dei prezzi non tollerabili. Movimenti sui quali è facile speculare.
Quanto sta avvenendo in Europa nel settore del petrolio e delle fonti energetiche potrebbe essere frutto più di speculazioni più che di aumenti dei costi alla fonte. A dimostrarlo sarebbero i dati del TTF, Title Transfer Facility, il mercato all’ingrosso del gas naturale. Tra i più grandi dell’Europa continentale, ha sede nei Paesi Bassi e rappresenta il riferimento per i prezzi del gas in Europa (e, quindi, in Italia). É attraverso questa piattaforma che avviene la compravendita del gas tra i più grandi operatori e trader del settore, produttori e fornitori, che vendono e acquistano il gas naturale per poi rivenderlo ai clienti finali: aziende e utenti domestici. Ebbene, il prezzo di acquisto del gas è collegato all’indice TTF. Nessuno ha detto che questo indice aveva cominciato a salire vertiginosamente già ad aprile 2021. Tra aprile e dicembre 2021, il prezzo del TTF e quello del petrolio era aumentato del 600%! Molti mesi prima dell’inizio della guerra in Ucraina.
Se a questo si aggiungono gli utili stratosferici maturati nell’ultimo periodo dalle maggiori compagnie petrolifere (comprese quelle a compartecipazione dello stato italiano) appare evidente che più che di fenomeni dovuti ad aumenti dei costi delle materie prime si dovrebbe parlare di speculazioni a danno dei consumatori (spesso con il bene placet di chi dovrebbe sorvegliare che ciò non avvenga).
Russia e Stati Uniti non sono mai stati grandi partner commerciali. Sapevano tutti che sanzionare le importazioni non avrebbe prodotto danni rilevanti né all’una né all’altra economia. Diversa la situazione per l’Europa dove le conseguenze sono certamente peggiori. Ma questo non dispiace a chi come gli USA cercano di sostituirsi alla Russia in molti settori. Continuando a speculare sul mercato dei combustibili fossili…
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WTi o Brent?
Il petrolio greggio viene scambiato attraverso due mercati primari, il West Texas Intermediate Crude e il Brent Crude. Il WTI ha origine nel bacino del Permiano degli Stati Uniti e da altre fonti locali, mentre il Brent proviene da più di una dozzina di giacimenti nel Nord Atlantico. Queste varietà contengono diversi contenuti di zolfo e gravità API, con livelli inferiori comunemente chiamati petrolio greggio dolce e leggero. Il Brent è diventato di recente un indicatore migliore dei prezzi mondiali, sebbene il WTI nel 2017 sia stato scambiato più pesantemente nei mercati dei futures mondiali (dopo 2 anni di leadership di volume del Brent).
Al momento della stesura di questo breve articolo il prezzo petrolio wti è $ 72,83
I prezzi tra questi gradi sono rimasti all'interno di una fascia ristretta per anni, ma questo è incappato in un risultato nel 2010 quando i 2 mercati si sono nettamente divergenti a causa del rapido cambiamento dell'ambiente della domanda rispetto all'offerta. L'aumento della produzione di petrolio degli Stati Uniti, guidato dalla tecnologia di scisto e fracking, ha aumentato la produzione di WTI nello stesso periodo in cui la perforazione del Brent ha subito una rapida diminuzione.
La legge statunitense che risale ancora una volta all'embargo petrolifero arabo negli anni '70 ha aggravato questa divisione, vietando alle compagnie petrolifere locali di vendere le proprie scorte nei mercati esteri. Questo divieto è stato rimosso nel 2015.
Molti contratti futures del New York Mercantile Exchange (NYMEX) di CME Group seguono il benchmark WTI, con il ticker "CL" che attira volumi giornalieri significativi. Molti trader di futures possono concentrarsi esclusivamente su questo contratto e sui suoi numerosi derivati. Gli Exchange Traded Fund (ETF) e gli Exchange Traded Notes (ETN) offrono l'utilizzo di azioni del petrolio greggio, ma la loro costruzione matematica genera limitazioni significative a causa del contango e della backwardation.
Il greggio WTI è aumentato dopo la seconda guerra mondiale, raggiungendo un picco tra i $20 e entrando in una fascia ristretta fino a quando l'embargo negli anni '70 ha innescato un rally parabolico a $ 120. Ha raggiunto il picco alla fine del decennio e ha iniziato un tortuoso declino, scendendo negli adolescenti di fronte al nuovo millennio. Il petrolio greggio è entrato in una nuova e potente tendenza al rialzo nel 1999, raggiungendo il massimo storico a $ 157,73 nel giugno 2008. È quindi sceso in un enorme intervallo di trading tra quel livello e il massimo dei $ 20, attestandosi intorno ai $ 55 entro la fine del 2017 A gennaio 2021, era assolutamente scambiato a circa $ 47.
Il trading nei mercati del petrolio greggio e dell'energia richiede competenze eccezionali per costruire profitti consistenti. Gli operatori di mercato che cercano di scambiare futures sul petrolio greggio e sui suoi numerosi derivati dovrebbero scoprire cosa muove la merce, il carattere della folla prevalente, la storia dei prezzi a lungo termine e le variazioni fisiche tra i diversi gradi.
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[1] - Lo Scambio Impossibile
Raccontare la vita di una città portuale non è mai cosa semplice. Per definizione si tratta di una luogo di confine, dove terra ed acqua si incontrano e si scontrano; dove forze contrapposte si scoprono simbiotiche o dove giurisdizioni in contraddizione sviluppano codici comuni ma contestuali e sempre parziali. Il mare rimane uno spazio inconcluso e non delimitabile (1, 2, 3). E' un limite esistenziale naturale di ogni potere sovrano che aspira a definire un dentro e un fuori di sé. Costruisce una realtà transterritoriale che lega lasciando sempre la possibilità di non appartenere o di non rimanere coinvolti. Non è un caso se per secoli il marinaio abbia incarnato l'immagine della vita di confine. Durante lunghi mesi era intrappolato nell'acqua, “la più libera di tutte le strade”, per poi approdare in un porto che era sempre un altro mondo. Il marinaio, come il folle, “non [aveva] verità né patria”. Era un personaggio riconoscibile solo nel suo lungo cammino tra luoghi: un nomade senza terra. Ma proprio grazie a lunghe navigazioni sui mari Ulisse potè conoscere la natura umana. In fin dei conti, i porti sono da sempre considerati spazi cosmopoliti e crocevia d'avanguardia degli accadimenti del mondo. E sono uno snodo cruciale per lo sviluppo degli imperi.
È infatti a partire dai porti che il commercio internazionale assume la forma di un'infrastruttura globale che omologa e standardizza (1, 2, 3, 4). La sua quotidianità si muove via mare, attraverso circa 50.000 navi cargo che spostano l'80% dei prodotti manufatti in giro per il mondo. Assemblarsi ai loro flussi è diventata necessità strategica su cui sorgono nazioni, ideologie, partiti politici e per definirne le traiettorie si combattono guerre di vario tipo che scrivono e riscrivono le storie di interi territori. Dalla fine degli anni settanta la progressiva containerizzazione dell'industria marittima e la deregolamentazione dell'economia dei trasporti hanno indotto una radicale ridefinizione della geografia industriale imponendo ingenti investimenti in infrastrutture. Le città portuali sono rimaste il centro di rinnovati paradigmi di trasporto ma la natura della loro centralità è progressivamente mutata.
Le economie di scala dell'industria marittima hanno generato complessi aggiustamenti economici e geografici che a volte hanno reso inutile la vicinanza di una città con il mare. In molti casi i cosiddetti "porti senza acqua" o "terminali di terra" hanno catturato la maggior parte dei servizi logistici e delle attività economiche annesse lasciando alle città portuali la semplice funzione di carico e scarico: a basso valore aggiunto e ormai quasi completamente automatizzata. Per varie ragioni quindi le città portuali si sono trovate ad affrontare una competizione più agguerrita tra porti, sia sul mare sia nell'entroterra. Quando ne sono uscite sconfitte, hanno perso impiego ed attività produttive ed hanno seguito un percorso involutivo che le ha rese semplici città-infrastruttura progettate per raccogliere le briciole dei grandi traffici commerciali che comunque facilitano. Il caso di Buenaventura è paradigmatico di questa involuzione. Ma racconta anche qualcosa in più.
Fin dalla sua fondazione, la città è stata parte di un complesso sistema tecno-giuridico che è stato concepito per garantire la connettività della Colombia ai flussi del commercio internazionale. Lo sviluppo urbano è stato cioè intimamente legato al commercio, lo stoccaggio e il movimento di merci. Lo fu a tal punto che per oltre due secoli la grande maggioranza dei documenti ufficiali che parlano della città non si sono riferiti mai realmente a Buenaventura, intesa appunto come città, ma sempre al suo porto e al modo migliore per raggiungerlo (1, 2, 3, 4, 5 ). Ancora oggi nella vicina città dell'entroterra e capitale del distretto della Valle del Cauca, Cali, ci si riferisce colloquialmente a Buenaventura come al "Puerto", ribadendo la natura diseguale della relazione che lega le due città. Tale relazione si è articolata intorno alle due principali istituzioni economiche della zona, l'hacienda (la piantagione) e la miniera d'oro. Da qui si generarono successivamente le spinte verso un’economia mercantilista ed orientata al commercio internazionale, e quelle interessate alla costruzione di grandi opere pubbliche (1, 2, 3).
Per buona parte del XIX secolo, la schiavitù fu però la base dei sistemi economici locali e dell’accumulazione di capitale. Gli schiavi di origini africane erano molto richiesti sia nelle piantagioni di zucchero, sia nelle miniere d'oro intorno a Cali. Il loro commercio si trasformò nella principale attività economica del Puerto e attraversò un'espansione senza precedenti proprio dopo la dichiarazione della sua illegalità, nel 1821. Fino almeno al 1868 a Buenaventura ci sono prove di persone ancora legalmente considerate schiave. La maggiorparte dei “liberti” invece continuava a lavorare per il loro vecchio “patròn” e in molte circostanze i salari che ricevevano non erano sufficienti per pagare debiti di vario tipo. Seppur in forma indiretta, rimanevano quindi legati alla terra ed al suo propietario per la vita. In molti casi il debito riguardò poi anche i figli ed i successivi discendenti. Date le dovute differenziazioni storiche, oggi le relazioni di “patronato” nelle piantagioni hanno mantenuto certe caratteristiche di fondo sia in senso razziale sia in ciò che riguarda la capacità di sfruttamento del lavoro.
Queste complesse intersezioni tra schiavitù, bisogno d'oro e necessità di connettività generarono periodiche eruzioni di violenza. Indigeni e schiavi liberati per più di 300 anni non permisero ai poteri coloniali di insediarsi a Buenaventura in maniera definitiva. Nel corso della sua storia recente, insurrezioni, forme di disobbedienza civile, saccheggi e altre manifestazioni di banditismo hanno scosso il municipio di Buenaventura e più in generale tutta la Valle del Cauca, una delle zone più ricche della Colombia. Per questa ragione, le configurazioni istituzionali locali hanno storicamente oscillato tra una "forte presenza dello Stato" che si spingeva fino a legittimare le azioni di milizie private e gruppi paramilitari creati dalle imprese concessionarie dei lavori di “pubblica utilità”, e progetti riformisti che assorbivano quelle formazioni extra-legali dentro l’apparato statale.
La storia dei dispositivi di legge che hanno ordinato la relazione di Buenaventura tra la terra e il mare dimostra anche che il Puerto potè godere di forme di autonomia il cui scopo principale era attrarre flussi commerciali in entrata e in uscita che beneficiassero le città dell’entrotera. L'attuale status amministrativo del Municipio di Districto Especial e la presenza di una delle più importanti ed estese Zone Economiche Speciali (ZES) della Colombia sul suo territorio sono la ripetizione di una storia già vista (1, 2). Già nel 1829 il neonato Governo Colombiano aveva reso Buenaventura un Porto Libero (Puerto Franco). In altre parole, la struttura amministrativa della città è stata concepita dentro una dualità intrinseca per coordinare tra loro terra e mare. 1. Sono stati concessi poteri speciali di tassazione e controllo alle autorità locali ma i commerci dei suoi grandi investitori sono stati esentati dai dazi doganali; 2. Sono stati riconosciuti ulteriori poteri speciali per ciò che riguarda l'autonomia di spesa dei bilanci municipali ma contestualmente è sorta una macchina burocratica ad hoc composta da comitati di concessionari, ministri e rappresentanti della città che hanno permesso al governo centrale e ad alcuni grandi investitori di esercitare un'influenza diretta sui processi decisionali locali. Tutto ciò ha fornito gli strumenti legali e la legittimità necessari per costruire "un governo dei pochi" su Buenaventura. Ma ha fatto anche qualcosa in più.
C'è un grande Altro che segna l'esperienza della quotidianità in città. Una fondamentale dimensione di esteriorità ne caratterizza i sistemi e le moralità dello scambio sancendo anche il definitivo taglio tra la città e il suo porto. I processi di urbanizzazione a maggiore impatto sono progettati, finanziati e in certa misura implementati da formazioni storiche per loro natura de-territoriali, assemblaggi di umani, flussi finanziari ed imprese private che appartengono tutte insieme a un mondo "Offshore" di cui Buenaventura è diventata un semplice polo logistico. La sua peculiarità è di esistere sempre in un altrove rispetto ai territori in cui si radica modificandone gli spazi. Il caso del Puerto mostra in maniera evidente come Buenaventura sia stata innestata nell’offshore attraverso programmi di autonomia differenziata che hanno, tra le altre cose deregolamentato ed incentivato la capacità di controllo delle grandi imprese che gestiscono i porti della città.
L’origine dell’attuale configurazione giuridico-legale delle soggettività che vivono il mondo Offshore va però ricercata nella seconda metà degli anni 70 quando, in un'epoca segnata da crisi petrolifere e da proteste sulle strade di quasi tutti i maggiori centri mondiali, alcuni fondamentali interventi legislativi andarono in soccorso della grande impresa. Una delle riforme principali riguardò quella che mi piace chiamare, “la liberazione del Capitale” e che permise il movimento illimitato dei flussi finanziari attraverso la diffusione di reti bancarie in permanente relazione di estimità (o di intima esteriorità) con i luoghi in cui i guadagni venivano accumulati. Piccole isole nel mezzo degli Oceani non garantirono solo numerosi servizi come il segreto bancario, esenzioni fiscali e svariate facilitazioni per registrare compagnie satellite su cui riversare capitali in fuga. Permisero anche al Capitale di farsi straniero rispetto ad ogni località, permettendo la sua accumulazione continua oltre i mondi in cui si realizzava lo scambio (1, 2, 3, 4, 5). Le Zone Economiche Speciali e i Paradisi Fiscali (e le loro molteplici combinazioni possibili in base ai diversi programmi di deregolamentazione) sono quindi da considerarsi veri e propri processi autonomici “messi in rete” dalle infrastrutture del trasporto e dello scambio. Al medesimo tempo tagliano l’economia dalla società dando nuova linfa vitale a paradigmi di connetività su scala “globale” basati su debito e trasportabilità. Per spiegare meglio questo punto, ho bisogno di allargare per un attimo il discorso.
La tesi di base è che il mondo offshore produce molteplici dinamiche di de-territorializzazione e decodificazione culturale. Si tratta di fenomeni inerenti ai modelli di sviluppo tardo-capitalistici basati sulla Società dei Consumi, come la definì Baudrillard, e sono chiaramente osservabili nelle cosiddette città di snodo, costruite sui crocevia dei commerci internazionali. L'operazione che vorrei provare a fare è però quella di considerare questa rinnovata connettività come parte di un grande inconscio della produzione capitalista. Vorrei cioè osservarla come un rimosso del funzionamento della catena produttiva che in un modo o nell'altro riemerge nella forma di un sintomo o di un'insieme più complesso di nevrosi produttive, come potrebbero essere una rivolta in una Zona Economica Speciale ma anche la fuga compulsiva di capitali verso atolli del pacifico o il commercio di contrabbando. Da un punto di vista antropologico si tratta, quindi, di provare a spiegare il taglio tra la città e il suo porto espandendo la nozione di “male del Puerto”, spiegata in precedenza, dentro precise dinamiche politico-economiche che producono un altrove, il mondo offshore appunto, che governa i processi di accumulazione economica di Buenaventura.
Per tentare questa via e descrivere l’economia globale attraverso l’incoscio delle soggettività che la determinano e non attraverso il loro lato, per così dire, razionale, mi serve una nozione di Capitale un pò diversa da quella utlizzata dai teorici marxisti. Riprendo quindi un’elaborazione raccolta negli studi sull'accumulazione primitiva di G. Deleuze e F. Guattari, nel loro progetto di ricerca "Capitalismo e Schizofrenia" sia dell'Anti-Edipo (1973) sia di Mille Piani (1980). Il Capitale è qui definito come il corpo-senza-organi dell'essere capitalista, cioè l'improduttivo, il luogo dell'identità della produzione e del prodotto. Emerge come un'area di registrazione di ogni fase produttiva in cui i conflitti tra i diversi fattori produttivi, tra lavoro, capitale (in senso stretto) e terra vengono superati in un’apparenza tanto contabile, quanto immaginaria attraverso il loro divenire tutti Capitale. In questo senso, posso interpretare il Capitale come "l'inconscio della produzione capitalista". Posso anche spingermi oltre ed ipotizzare che sia strutturato in un linguaggio, seppur matematico, composto da formule algebriche, identità e variabili che emergono dalla convergenza di diverse catene significanti, per esempio, delle regole della partita doppia, se osserviamo un'impresa privata o delle bilance dei pagamenti, se si tratta di un bilancio statale. Ma potrebbero riguardare anche le leggi fiscali ed i vincoli produttivi come l'approvvigionamento di risorse, oppure i modelli econometrici che prevedono trend di mercato e correlazioni. Il Capitale è dunque una caratteristica immanente dei rapporti di produzione. Emerge cioè come un unico grande piano sul quale si articolano e in certa misura si dispiegano le relazioni produttive e le moralità dello scambio.
In questa prospettiva, il denaro risulta una fondamentale infrastruttura tecno-linguistica (1) attraverso la quale le soggettività economiche parametrizzano le loro relazioni con il mondo delle cose che producono o consumano e con il Capitale stesso. Il denaro, cioè, modella l'area di registrazione matematica del capitalismo fornendo un’approssimazione numerica delle relazioni produttive. Lo fa misurando (o mercificando) i vincoli fisici e territoriali e fornendo un'immagine quantificata della capacità degli attori economici di influire sul mondo delle cose. In questo modo il denaro è sia “la lettera dell’inconscio” che articola “il discorso dell’Altro” per dirla con Lacan (1), sia l'oggetto perennemente sullo sfondo del desiderio delle soggettività in analisi. Ma rappresenta soprattutto la spinta creativa che sorregge l’accumulazione di Capitale ed ogni operazione di registrazione. Descrive cioè un desiderio che non è necessità di riconoscimento o spinta a superare una mancanza, ma forza creativa il cui movimento è descrivibile a sua volta con una legge algebrica, funzione di regole fiscali ed apparati giuridici e di controllo: la legge del profitto. In altre parole, la legge del profitto opera sulle soggettività economiche come fanno la libido o la pulsione nei meccanismi del desiderio degli inconsci umani. Rappresenta l'energia del desiderio che le muove. E’ la vitalità delle soggettività economiche.
A cosa serve però l'uso di queste nozioni? Per prima cosa, permettono di osservare la liquidità del potere oltre la sua “istituzionalizzazione” in un “governo” o in “un’impresa” evidenziando un aspetto molecolare degli apparati giuridico-amministrativi che regolano gli scambi economici. Forniscono quindi una prospettiva in più sul realismo neoliberale che produce riforme come quella che ha dato vita al mondo Offshore. Secondo, permettono di osservare fenomeni economici e sociali attraverso più complessi aggregati di intelligenze e responsabilità; un mondo molare, tanto emozionale quanto tecnico e giuridico in cui si articola la capacità di influenzare e di produrre affetti sui corpi. Terzo, spingono l’analisi al di fuori di visioni antropocentriche del mondo, portandoci in ecosistemi non più dominati dalla vita organica ma da regimi connettivi di cose, macchine ed esseri che insieme a relazioni giuridiche molto costose da modificare, hanno estremamente ridotto la capacità di azione di collettivi umani (per esempio quella permessa dai meccanismi elettorali) mantenendo però un’enorme capacità di modificare i territori fisici. Infine, relazionata a tutti gli aspetti menzionati, vi è una quarta componente che, partendo da questa nozione di Capitale, ci permette di inquadrare un fenomeno più complessivo chiamato in alcuni testi “capitalismo come religione” (1, 2, 3, 4). Visto in questa prospettiva, il “fare economia” entra nei dispositivi mitici delle società giustificando, per questa via, forme di scambio schizofreniche, prodotte da soggettività economiche in un perenne cammino produttivo e dispendioso delle risorse. Ogni contraddizione ed aporia è infatti risolta da un qualche meccanismo contabile che permette di iscrivere la produzione nel Capitale. In questo modo la schizofrenia stessa si fa modello adattivo primario degli ecosistemi del mondo offshore.
Non è un caso allora, se tra le molteplici soggettività economiche possibili, le Private Corporate siano emerse come il paradigma istituzionale dominante. Il loro dominio si basa su modelli organizzativi centrati su mobilità e connetività, su di una presenza capillare ed un’assenza strategica sui territori e su gerarchie e forme di partecipazione pubbliche ordinate dalla legge del profitto. Sebbene il successo economico dipenda da molteplici fattori, la loro durabilità riguarda fortemente la maggiore o minore capacità di internazionalizzare la componente finanziaria oltre che quella produttiva. Il mondo Offshore si intreccia alle decisioni economiche permettendo alle Private Corporate di disseminarsi in forme scomposte e fluide, di scomparire per poi riemergere nei territori in cui riversano parte del capitale accumulato. Le burocrazie territoriali si sono adattate a questa capacità giuridica prima che produttiva reintepretando i problemi di svilupppo locale essenzialmente in funzione dell'integrazione dei territori ai flussi finanziari. In altre parole, hanno considerato di primaria importanza la creazione di ambienti produttivi capaci di attirare investimenti diretti, riducendo al minimo ogni loro costo di manutenzione: dalla manodopera non sindacalizzata, all’accesso facilitato a risorse primarie, fino a pacchetti di sgravi fiscali che a volte includono anche sussidi alla produzione. Hanno giustificato cioè assetti giuridico-amministrativi che garantiscono la circolazione di denaro e di merci a scapito, salvo rare eccezioni, della creazione e disseminazione di conoscenze e competenze tecniche più complesse. Così, accanto a luoghi del mondo che accentrano fortemente la produzione di valore aggiunto delle filiere produttive, la grande maggioranza delle economie globali si sono specializzate in produzioni di componenti e\o in economie basate sul loro assemblaggio. Hanno seguito modelli di “crescita” per connettività, centrati su mobilità e velocità, quindi privilegiando infrastrutture per il trasporto, invece 1. di creare interdipendenza organica tra le filiere produttive e 2. di diffondere “saper fare” attraverso processi di formazione di lungo termine e\o “imparare-facendo”.
A Buenaventura ci sono quattro Private Corporate che forniscono un esempio di questi meccanismi. Si tratta di società partecipate da società controllate da altri agglomerati di imprese o da fondi investimento, attivi in svariati settori economici, in Colombia e nel mondo. Nel 2014, quindi al tempo in cui terminai il mio lavoro di campo, la Sociedad Portuaria di Buenaventura era la società concessionaria del principale porto cittadino. Era controllata da alcuni dei maggiori gruppi imprenditoriali del paese: il Grupo Parody (di Bogotà), il Grupo Harinera (di Cali), il Grupo Ciamsa (produttori di zucchero della Valle del Cauca) e da tre enti pubblici, il comune di Buenaventura (15%), il Ministero dei Trasporti (2%) e il Ministero dell'Agricoltura (0,5%). Il nuovo e più piccolo porto cittadino, il TCBUEN, era invece controllato dalla multinazionale olandese APM Terminals in collaborazione con il Grupo Empresarial del Pacifico S.A. (Gepsa), di proprietà dell'imprenditore di Buenaventura Óscar Isaza e del Grup TCB di Barcellona. Dal 2018 è inoltre attivo un terzo porto, quello di Aguadulce, gestito da due compagnie colombiane a proprietà multinazionale. La prima è Compas, controllata da Goldman Sachs (50%) e dalla Southern Ports Holdings (50%), controllata a sua volta dalla famiglia colombiana Echevarría Obregón e dal gruppo spagnolo Ership. La seconda è la Sociedad Puerto Industrial Aguadulce, di proprietà della ICTSI del magnate filippino, Rickie Razon, e della multinazionale PSA di Singapore. Questo è il grande Altro che controlla, attravero il Puerto, circa il 50% di tutte le importazioni ed esportazioni colombiane.
Accanto a loro vi è poi il municipio di Buenaventura, il cui rappresentante è eletto direttamente dagli abitanti della città fin dagli anni novanta, ogni 4 anni. Quiñones, Ocoró, Bartolo Valencia e Arboleda Torres sono 4 sindaci che si sono succeduti al potere per quasi due decadi. Ognuno di loro ha terminato la sua amministrazione cittadina in carcere o agli arresti domiciliari prolungati per mala gestione dei fondi pubblici e\o per corruzione. Hanno bandiere diverse. Appartengono a vecchi e nuovi partiti, a movimenti civici infiltrati dal paramilitarismo o a nuove resistenze popolari. Eppure i loro governi, stando alle narrazioni giudiziarie, hanno reso il municipio con tutti i suoi poteri speciali un grande ufficio per il collocamento di amici ed amici di amici, “in perfetto stile africano” parafrasando un famoso libro di Bayart (1). Questo ha di fatto permesso alle Private Corporate di Buenaventura di posizionarsi come le strutture organizzative più stabili e forse credibili della città. Seppur sovvenzionate, sono anche i maggiori contribuenti del municipio. Attraverso i loro CDA sono senza dubbio le entità istituzionali con la maggiore capacità di esercitare pressioni sugli apparati di governo e di influire sulle vicende della città.
C’è poi un’altra storia insieme a quella del Puerto che deve essere raccontata e che riguarda più direttamente le banche di Panama e di Miami, l’industria del contrabbando e una guerra protratta. Nei prossimi post cercherò di addentrarmi con maggiori dettagli nelle dinamiche di altre formazioni storiche che in maniera indiretta hanno permesso alle Private Corporate menzionate di dominare Buenaventura.
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I CONTADINI VINCONO CONTRO LA MULTINAZIONALE
Con una storica sentenza la Corte d’Appello dell’Aja ha condannato la multinazionale petrolifera Shell Nigeria al risarcimento di due agricoltori nigeriani per i danni causati dalle fuoriuscite di petrolio verificatisi tra il 2004 e il 2007 nell’area del Delta del Niger.
La società madre, la anglo-olandese Royal Dutch Shell non è stata ritenuta responsabile degli eventi ma è stata obbligata dal tribunale a installare un sistema di rilevamento delle fuoriuscite sull’oleodotto Oruma, al fine di prevenire ulteriori incidenti.
La causa avviata 13 anni fa è stata intentata da quattro contadini nigeriani, due dei quali deceduti nel corso dell’azione legale, con il supporto dell’associazione ambientalista “Friends of the Earth”, il cui rappresentante nei Paesi Bassi, Donald Pols, ha affermato: “Questa è una notizia fantastica per l’ambiente e per le persone che vivono nei paesi in via di sviluppo. Fino a questa mattina le multinazionali olandesi potevano agire impunemente nei paesi in via di sviluppo. (…) Da questo momento in poi le multinazionali olandesi saranno ritenute responsabili delle loro attività e delle loro azioni”.
I contadini nigeriani dell’area hanno accolto la sentenza con lacrime e urla di gioia. La decisione inoltre potrebbe rappresentare un precedente per aprire a ulteriori estensioni in casi analoghi che coinvolgono altre compagnie petrolifere e non solo.
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Fonte: Al Jazeera - 29 gennaio 2021
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La Corte sospende temporaneamente le nuove regole sul clima della SEC Corte federale sospende temporaneamente le nuove regole sulla divulgazione climatica della SEC Un tribunale federale ha sospeso temporaneamente le nuove regole della Securities Exchange Commission che richiedono alle società pubbliche di rivelare di più sui rischi aziendali legati al cambiamento climatico. Questa decisione ha supportato due compagnie petrolifere e del gas che le ritengono costose e arbitrarie. Le regole, approvate dalla SEC questo mese, chiedono a determinate società quotate in borsa di divulgare i rischi climatici e le emissioni di gas serra. Gruppi industriali e politici hanno intentato azioni legali contestando i requisiti, tra cui la Camera di Commercio degli
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curiositasmundi sifossifocoardereilomondo sifossifocoardereilomondo Immagine L'inizio della pandemia di COVID-19 è stata vista come un'opportunità dagli Stati Uniti per accelerare il tentativo di rovesciare il presidente venezuelano, Nicolás Maduro. Le stime degli Stati Uniti erano due: il governo Maduro non avrebbe avuto modo di affrontare la pandemia e la caduta del prezzo del petrolio avrebbe rappresentato un colpo letale all'industria venezuelana già bloccata dalle sanzioni e dall'embargo. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno commesso un errore di calcolo, come finora è sempre accaduto nei confronti del Venezuela. La gestione del governo Maduro della lotta contro il coronavirus nel paese ha prodotto risultati positivi sin dal primo momento. Dopo un mese e mezzo, da quando i primi casi sono stati confermati, il Venezuela ha registrato solamente 331 infettati, 142 persone sono già guarite e mentre i decessi sono stati solamente 10. Contrariamente a quanto si voleva prevedere (e questo è stato sottolineato da un editoriale sul Washington Post, pubblicato il 20 marzo), il Venezuela non è diventato il nuovo epicentro della pandemia in sudamerica. La buona gestione tuttavia non ha fermato il desiderio statunitense di assediare il paese. Le conseguenze della loro azione si sono finora manifestate sia nei dati macroeconomici che nella vita di tutti i giorni dei venezuelani. "Tutto fa parte di un piano unico, tutto è intrecciato", spiega Juan Carlos Valdez, un avvocato specializzato in diritto finanziario ed esperto di economia politica. Le tre misure d'attacco al Venezuela Il primo passo nella nuova fase dell'escalation è stata la taglia messa sulla testa del presidente Maduro e del presidente dell'Assemblea Nazionale Costituente, Diosdado Cabello, il 26 marzo. Rispettivamente 15 milioni e 10 milioni di dollari. Dopo aver accusato il governo venezuelano di narcoterrorismo, gli Stati Uniti, per mettere sotto pressione il paese, hanno annunciato la militarizzazione del Mar dei Caraibi nell'ambito di una cosiddetta "operazione antidroga" condotta dal Comando Sud. "Gli Stati Uniti volevano aumentare la pressione, è stato inventato il narco-stato ed hanno lanciato un'operazione navale nei Caraibi. La volontà reale era di bloccare le petroliere e di far mancare la benzina in Venezuela", spiega Valdez. La strategia, presentata inizialmente come inarrestabile, tuttavia, iniziò a rivelare disaccordi interni tra il presidente Trump e il Dipartimento della Difesa, colpito in prima persona dai casi di COVID-19 e contrario allo spiegamento di forze nel contesto della pandemia. Articoli contrari alla politica di Trump si sono verificati anche su vari giornali, come il New York Times dove si titolava: "Gli Stati Uniti non hanno bisogno di una guerra con il Venezuela". La narrativa di guerra del governo degli Stati Uniti ha quindi fatto un passo indietro spostando le proprie forze su un altro terreno: le operazioni segrete, le operazioni di attacchi psicologici, i tentativi di generare fratture interne e di soffocamento della economia venezuelana. Da un lato si è cercato di agire sulle Forze Armate del Venezuela per generare una ribellione o un ammutinamento, dall'altro, il piano si è tradotto in un inasprimento del blocco economico per ottenere un crollo nella società e nella leadership civico-militare. La ricerca del collasso Il blocco nordamericano in Venezuela va avanti da anni e negli ultimi mesi ha focalizzato uno dei suoi attacchi su PDVSA, la compagnia petrolifera statale venezuelana. L'obiettivo è quello di danneggiare la sua capacità di produrre petrolio, di esportare greggio e soprattutto di importare i prodotti chimici indispensabili al Venezuela per la raffinazione e la produzione della benzina ad uso interno. "Abbiamo una grande dipendenza dall'estero e con il blocco delle importazioni è impossibile produrre qui alcuni prodotti. Lo stiamo vedendo con il problema della benzina, abbiamo il petrolio e le raffinerie, ma abbiamo bisogno di una serie di reagenti che noi non produciamo e che dobbiamo importare", spiega Valdez. Gli Stati Uniti, secondo quanto riferito dall'agenzia internazionale Reuters, hanno articolato una politica di blocco commerciale e navale affinché il Venezuela non possa importare benzina. Questa politica è stata intensificata per esacerbare la carenza di benzina che fino a marzo non aveva ancora colpito il Venezuela. Valdez ha spiegato come gli Stati Uniti, dopo aver studiato i meccanismi economici venezuelani, attuano il blocco. "Studiano la nostra economia e poi strutturano l'attacco. Sicome la nostra distribuzione delle merci avviene quasi tutta su strada, perché non abbiamo un sistema di rete ferroviaria, hanno pensato di soffocarci attaccando la nostra produzione di benzina. Come se non bastasse, il governo USA il 21 aprile, ha vietato alle ultime grandi società nordamericane in Venezuela, in particolare alla Chevron, di poter estrarre e scambiare petrolio nel paese. L'obiettivo è quello di far crollare ulteriormente le entrate petrolifere del paese già colpite da anni di sanzioni e di acuire la carenza di benzina per danneggiare i trasporti interni facendo pressione sulla popolazione al fine di scatenare proteste e saccheggi. Lo strangolamento economico Come conseguenza di queste azioni, nelle ultime settimane in Venezuela i prezzi alimentari sono aumentati di oltre il 100% in alcune aree. In risposta, il governo ha annunciato tre misure centrali: il tentativo di regolare i prezzi di 27 beni di prima necessità, la vendita supervisionata di prodotti di tre grandi aziende private tra cui la principale del paese e l'occupazione per 180 giorni di un complesso privato di semi oleosi. "Il Venezuela è un'economia monopolizzata, ci sono pochissimi grandi importatori privati che dominano l'intera catena di commercializzazione", spiega Valdez. "Quei pochi quando hanno deciso di soffocarci internamente in momenti in cui erano in grado di farlo, l'hanno fatto e questo è un altro momento in cui penso che ci riproveranno." A conferma di ciò c'è il fatto che la principale industria privata importatrice del paese, la Polar, si è rifiutata di arrivare ad un accordo con il governo sui prezzi. Quell'azienda "domina quasi il 50% del mercato alimentare venezuelano". Queste carenze create artificiosamente e il conseguente aumento dei prezzi sono accompagnati da operazioni psicologiche accompagnate da fake news sui social network e sui media privati con l'obiettivo di "generare ansia e con la speranza che l'ansia generi violenza, soprattutto nei giovani, al fine di scatenare una rivolta sociale nel paese". La combinazione dell'aumento dei prezzi e della carenza di benzina aggrava le difficoltà dei settori popolari, colpiti anche dalla paralisi di gran parte dell'economia non regolata da contratti stabili dovuta alla quarantena. La strategia nordamericana è quindi quella di schiacciarci verso il basso per generare situazioni di crisi, soffocare la macroeconomia, preparare azioni di forza segrete, convincere i leader politici e militari dell'impossibilità di una soluzione finché Maduro resta al potere e cercare di corromperli promettendo loro "impunità" qualora passassero dall'altro lato. Valdez sottolinea che all'interno di questo quadro avverso, un punto di forza del paese sta nel "rapporto con il blocco Cina-Russia, con l'Iran, con altri paesi emergenti o assediati dagli Stati Uniti i quali possiedono un livello di sviluppo tecnologico e scientifico importante che può aiutarci a rafforzarci". Il Venezuela si trova quindi ad affrontare un nuovo assalto nordamericano, dopo ripetuti attacchi che non sono riusciti a rovesciare il governo Maduro. Questa volta, i tempi sono complessi anche per gli Stati Uniti, segnati dalla crisi della pandemia, dall'economia e dalle imminenti elezioni presidenziali. (Nostra traduzione, riproduzione consentita gentilmente citando la fonte) https://mundo.sputniknews.com/america-latina/202004301091290229-la-estructuracion-del-plan-final-para-asfixiar-venezuela/ Rete Solidarietà Rivoluzione Boliviana
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Pericolo Iran: Potrebbe colpire parte dell'Europa con relativa precisione a circa 2500 km di distanza
(di Andrea Pinto) La distanza aerea tra le capitali di Iran e Italia è circa 3750 km, ma la distanza tra i due confini potrebbe essere raggiunta dai missili iraniani. I missili dell’Iran possono colpire, infatti, bersagli compresi in un raggio di azione che va dai 300 ai 2.500 chilometri dal loro punto di lancio. L’Europa, o almeno una parte di essa, facendo alcuni calcoli, potrebbe essere raggiunta dall’arsenale di Teheran.
Quando uno sciame di droni e missili da crociera hanno attaccato la più grande struttura petrolifera dell'Arabia Saudita il 14 settembre, l'amministrazione Trump ha incolpato l'Iran per quello che ha definito un "attacco senza precedenti" sulle forniture energetiche globali. Ma la vera sorpresa è stata la precisione dell'attacco: di 19 missili lanciato solo due hanno fallito il loro bersaglio. La disamina della novità strategica militare è stata pubblicata dal Washington Post. Gli analisti americani nei loro rapporti hanno descritto l'attacco all'Arabia Saudita come una sorta di campanello d'allarme: la prova, provata, di un arsenale di missili ad alta precisione notevolmente migliorato. In caso di una guerra più ampia con gli Stati Uniti, ci si può aspettare che l'Iran utilizzi tali armi per infliggere danni sostanziali a qualsiasi numero di obiettivi, come basi militari statunitensi, strutture petrolifere o addirittura attaccare Israele, affermano gli analisti. Questa notte, l'Iran ha sparato più di una dozzina di missili balistici su due basi militari irachene utilizzate dagli Stati Uniti. "Stanno dicendo:" Ora possiamo colpirli", ha dichiarato Fabian Hinz, esperto del programma missilistico iraniano presso l'Istituto di studi internazionali di Middlebury a Monterey, in California." Quello che abbiamo visto in Iran negli ultimi anni è un passaggio da missili che erano principalmente strumenti politici o psicologici a vere armi da campo. Questo è un cambiamento sostanziale". Funzionari statunitensi e mediorientali affermano che i missili potenziati utilizzati la scorsa notte - alcuni con una portata di oltre 1.200 miglia - non sono altro che una promessa fatta dall'Iran agli Usa per vendicare l'uccisione del generale Qasem Soleimani, il più potente capo dell'esercito iraniano. L'Iran ha comunque dimostrato di aver cambiato la sua strategia, questa volta ha agito direttamente. Teheran, in passato, ha spesso incaricato gruppi militanti filo-iraniani - principalmente Hezbollah con sede in Libano, ma anche delegati e simpatizzanti con base in Siria, Iraq, Yemen e Bahrain - per svolgere una vasta gamma di azioni segrete per suo conto, tra cui bombardamenti e attacchi missilistici, rapimenti e guerra cibernetica. Oggi ha dimostrato di avere le capacità di poter lanciare un efficace attacco in Iraq, alle strutture petrolifere del Golfo Persico, ovvero un a Israele. "L'Iran attacca dove vede vulnerabilità ed esercita moderazione quando pensa che potrebbero esserci conseguenze importanti", ha dichiarato Karim Sadjadpour, analista politico dell'Iran presso il Carnegie Endowment for International Peace, un think tank di Washington. Ad esempio, ha detto Sadjadpour, i missili potrebbero essere lanciati dagli alleati houthi iraniani nello Yemen contro "soft target" come infrastrutture petrolifere, aeroporti o impianti di desalinizzazione negli stati del Golfo. Tali attacchi potrebbero danneggiare in modo significativo le economie dei principali alleati degli Stati Uniti, innescando al contempo un rialzo importante globale dei prezzi del petrolio. Meno impattante a livello globale, ma psicologicamente distruttivo, sarebbe una serie di omicidi o rapimenti. Dopo che un agente israeliano avrebbe ucciso diversi scienziati nucleari iraniani una decina di anni fa, Teheran ha attivato cellule dormienti e inviato sicari per eseguire omicidi di diplomatici in tutto il mondo. "India, Tailandia e Georgia: luoghi che non ti aspetteresti", ha detto Sadjadpour a proposito dei tentativi già effettuati. "Le ambasciate in tutto il mondo dovrebbero essere in allerta, non solo per i prossimi giorni, ma per almeno un altro anno". Il miglioramento della capacità missilistica dell'Iran è il risultato della nuova strategia adottata dieci anni fa dal leader supremo del paese, l'Ayatollah Ali Khamenei. All'epoca, i missili più sofisticati di Teheran erano derivati dagli Scud dell'era sovietica che l'Iran e l'Iraq avevano sparato contro altre città durante la guerra degli anni '80. Da allora, i laboratori militari del paese hanno avuto milioni di dollari per creare sistemi di guida per migliorare l'accuratezza dei nuovi missili e l'aggiornamento dei modelli più vecchi. Il risultato è una linea di missili a corto e medio raggio in grado di trasportare testate con una precisione di circa 10 metri, ha detto un funzionario dell'intelligence del Dipartimento della Difesa. Il funzionario ha parlato a condizione di anonimato. "Abbiamo osservato consistenti miglioramenti nella precisione dei missili balistici iraniani", ha detto il funzionario. Tra gli sviluppi più sorprendenti e potenzialmente preoccupanti c'è la tecnologia sul missile Qiam dell'Iran da 500 miglia che consente ai controllori di perfezionare la sua traiettoria durante il volo. Anche il Fateh-110, un modello a corto raggio fornito a Hezbollah e ad altri gruppi militanti, è stato rimodellato con sistemi elettro-ottici e di radio-guida in modo che possa concentrarsi su obiettivi altamente specifici". L'attacco del 14 settembre su due impianti petroliferi dell'Arabia Saudita ha evidenziato l'utilizzo di droni armati e missili da crociera che sono entrambi altamente manovrabili e difficili da fermare con batterie antimissili. I ribelli Houthi dello Yemen rivendicarono la responsabilità di quell'attacco, anche se in seguito gli analisti statunitensi conclusero che i missili e i droni erano stati lanciati dall'Iran meridionale. Un'indagine delle Nazioni Unite non è stata in grado, tuttavia, di trovare le prove concrete che collegassero i missili e i droni all'Iran. Il costoso sistema di difesa antimissile costruito dagli Stati Uniti in Arabia Saudita non è riuscito a fermare il drone e l'attacco missilistico, lasciando le forze di sicurezza locali senza mezzi per difendere le strutture se non con le armi di piccolo calibro. Il generale Joseph Votel, ex comandante del Centcom degli Stati Uniti, andato in pensione a marzo ha affermato che i miglioramenti nella capacità missilistica dell'Iran è stata sorprendentemente rapida. "Li guardiamo da un po', sia con questi droni che con missili e altre cose che possono effettivamente penetrare nei sistemi difensivi e entrare e colpire quegli obiettivi sensibili", ha detto Votel in un'intervista al CTC Sentinel, una pubblicazione del Centro di lotta al terrorismo a West Point. L'aspetto più inquietante, ha detto Votel, è la "maturazione di questi sistemi e la velocità con cui gli iraniani stanno imparando. Stanno approfittando di ciò che noi abbiamo imparato" La potenza militare iraniana La difesa iraniana è a “mosaico”, con molti centri delle Guardie Rivoluzionarie e delle forze armate del tutto autonomi per quanto riguarda il comando e controllo. La Marina opera con il concetto di una “difesa a strati”, con il massimo di potenza di fuoco in ogni fase. I missili sono l’asse strategico primario della “dissuasione costrittiva”. L’aviazione e la missilistica iraniana, quasi integralmente sotto il controllo delle Guardie Rivoluzionarie, sono in buona efficienza: 16 Embraer 312 Tucano, aerei da addestramento e da attacco leggero; circa 100 Toofan, elicotteri da combattimento integralmente prodotti in Iran; circa 10 Ilyushin da trasporto strategico adattati al combattimento in aria; circa 30 Antonov da trasporto, di fabbricazione sovietico-ucraina (nome in codice NATO “Cooler”); circa 10 Dassault Falcon 20F, aerei da trasporto leggero usati comunemente per business e rappresentanza; circa 30 Harbin cinesi da trasporto leggero; circa 70 elicotteri da trasporto materiali e trup- pe Mil Mi-17, sempre di fabbricazione russa. Le forze aeree dispongono di 20 basi, con 16 squadre aeree fornite di F14, MiG 29, F5, F7 e Fokker F27. Teheran ha anche a disposizione i russi Sukhoi Su30MKM, supersonici ad altissima manovrabilità, e i cinesi J10 e JF17 multiruolo. Tutti sono armati da missili aria-superficie a lunga gittata. I Droni Ben cinque sono le tipologie di velivoli senza pilota, tutte di fabbricazione iraniana: l’Ababil, per riconoscimento-sorveglianza a medio raggio; le varie tipologie di Mojaher, che spia le installazioni militari e le posizioni nemiche; il Karrar da combattimento, con annesso missile UAV ad alta velocità; lo Shahed 129, altro UAV da riconoscimento-combattimento, che può stare in azione per oltre 24 ore continue; infine, lo ScanEagle, un UAV della Boeing a corto raggio. I missili Le forze missilistiche, tutte poste sotto l’egida dei Pasdaran, si basano, per quanto riguarda i propellenti solidi, su tre classi di armi: il Fajr 3 e 5, con gittata massima di 75 km; il Naze’at, con gittata da 100-130 chilometri; lo Zelzal, con tre tipologie che col- piscono obiettivi rispettivamente a 150, 200 e 210 chilometri. Si tratta di missili costruiti tutti in Iran ma con il supporto della Cina. Attualmente, la Repubblica Islamica Iraniana è del tutto autonoma da Pechino per ciò che concerne, invece, la gestione e la manutenzione di tutti i missili con propellente solido. Teheran può produrre autonomamente anche i missili a combustibile liquido, gli ormai classici SCUD B e C.
L’Iran possiede anche missili a corto raggio con propellenti solidi, come il Tondar 69, di fabbricazione cinese, progettato sul modello del terra-aria S-75 sovietico, e il Fateh 110, con un raggio di 200 chilometri. La missilistica a lungo raggio è il punto di forza presente e futuro dell’Iran: Teheran oggi possiede lo Shahab 3, basato sul Nodong nordcoreano, che, nella sua versione MBRM (Medium Range Bal- listic Missile) può raggiungere obiettivi distanti 1.930 chilometri ed è dato in armamento standard a ben 6 brigate missilistiche. Vi sono inoltre: il Ghadr 110, missile da 1.800-2.000 chilometri di distanza; l’Ashoura, un MBRM a due stadi, tecnologicamente evoluto, a propellente solido, probabilmente progettato in proprio; il Sejil, a combustibile solido, che andrà a rimpiazzare gli Shahab; il Bina, con guida laser utilizzabile sia per azioni terra-terra che terra-aria, con testata a frammentazione e alta precisione; il Simorgh, missile intercontinentale per lancio di satelliti dual-use. Read the full article
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