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Gli assiomi della comunicazione di Watzlawick: cosa sono e come applicarli
La comunicazione è una parte essenziale della nostra vita quotidiana. Comunichiamo con le parole, con i gesti, con lo sguardo, con il silenzio. Ma sappiamo come comunicare in modo efficace e costruttivo? #comunicazione #watzlawick #assiomi #relazioni
La comunicazione è una parte essenziale della nostra vita quotidiana. Comunichiamo con le parole, con i gesti, con lo sguardo, con il silenzio. Ma sappiamo davvero come comunicare in modo efficace e costruttivo? Esistono delle regole universali che governano la comunicazione umana? Secondo Paul Watzlawick, uno dei più noti studiosi della comunicazione, la risposta è sì. Watzlawick, insieme ai…
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ridondanza: paesaggi e ritratti. analisi: assiomi / vincenzo agnetti. 1971
cliccare per ingrandire [Vincenzo Agnetti, Ridondanza: paesaggi e ritratti. Analisi: assiomi. / Redundancy: portraits and landscapes. Analysis: axioms, 1971] da https://www.facebook.com/100001030945909/posts/6742737882437176/
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il sogno di tutti i kompagni reazionari: l’ex eurodeputato britannico che si è visto bloccare i suoi conti corrente per “ragioni etiche”.
Un soggetto economico come una banca, che in linea di massima si pensa sia orientato a servire tutti (al di là delle fedi religiose, delle idee politiche, delle preferenze sessuali e via dicendo), ha dichiarato di non voler avere nulla a che fare con Farage non a seguito di comportamenti economici scorretti (come può avvenire quando qualcuno viola impegni assunti), ma per ragioni ideologiche: le idee pubblicamente rese note dal politico inglese sarebbero in contrasto con le posizioni dell’impresa, intesa come realtà “inclusiva”.
Tutto questo deve spaventarci, senza dubbio, perché il nuovo potere del nostro tempo muove dall’assolutezza della vecchia sovranità. Questo potere, che si regge sugli assiomi del politically correct, per piegare qualsiasi resistenza e dissidenza non dispone dunque soltanto delle prigioni e dei tribunali, ma anche di strumenti inediti.
Anche il governo canadese di Justin Trudeau bloccò i conti correnti dei camionisti che manifestavano contro le misure pandemiche e dei loro sostenitori, questa scelta evidenzia una sempre maggiore deriva illiberale di stile cinese in corso in Occidente.
Se non si opera una liberalizzazione radicale dell’universo bancario e monetario dalla morsa dello Stato, questa feroce alleanza tra potere e interessi si rafforzerà sempre più. Purtroppo, le classi dirigenti progressiste dell’Europa e del Nord America sono da tempo un grave fattore di decivilizzazione: in parte per ragioni culturali, in parte per motivi strutturali e d’interesse.
I sinistri vi odiano e vogliono farvela pagare, prima o poi, anche quando sarete fuori dai giochi. Non gli passa mai. Sono esattamente come loro dipingono i nazisti: è la proiezione di se stessi.
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“Il corpo dell’uomo vuole cibo,
la mente assiomi,
l’anima estasi.”
(E. Zolla)
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Calcolo
Da anni mi intrippo a guardare video di gente che risolve problemi di matematica più o meno complicata. Non vado a vedere le soluzioni di problemi di analisi perché non le capirei (più), ma fino a trovare interessanti i problemi di geometria che coinvolgono un po' di trigonometria, ma soprattutto molta intuizione, ci arrivo.
Siccome c'ho questo prurito, ho pensato "ma perché non riprendo il testo universitario e vado a ristudiarmelo, così ripasso un po' più approfonditamente le mie conoscenze?"
A Scienze Biologiche, il corso si chiamava Istituzioni di matematiche, e il libro era appunto Calcolo, di Marcellini/Sbordone. Oltre al testo, ho anche quattro volumetti di esercizi, per buona parte risolti (scritti dagli stessi autori).
Ieri ho cominciato a leggere il libro di testo come per preparare l'esame a fine semestre... ero a pagina 30 e già mi girava la testa. Parlando solo di assiomi e di dimostrazioni di roba elementare tipo meno per meno fa più derivate da essi.
Oggi ho aperto il paragrafo sugli insiemi.
Sigh.
Prevedo molta fatica in questo mio progetto. Probabilmente nel 2026 sarò pronto a dare l'esame di istituzioni di matematiche, chissà. Forse però potrò provare a fare le tracce d'esame di maturità scientifica.
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"Alcuni sostengono che la matematica sia solo una creazione umana, come il sanscrito e la cattedrale di Notre Dame.
In realtà anche il sanscrito e la Cattedrale non sono solo creazioni, perché la loro messa a punto ha dovuto rispettare certi vincoli intrinseci del mondo fisico, ma difficile immaginare che ci sia una realtà esterna a cui essi si riferiscano.
Diverso è il caso della matematica. Non possiamo parlare di realtà esterna, ma forse di oggettività si, nel senso che essa si riferisce a delle relazioni, anche se non delle sostanze, che valgono oggettivamente.
Le ragioni a favore di questa oggettività sono tre.
La matematica cinese è la stessa nostra, anche se la lingua è completamente diversa.
Quando si pongono certi assiomi e certe regole le dimostrazioni discendono senza possibilità di cambiarle. Gli oggetti matematici cioè appaiono ai matematici come oggettivi.
La matematica descrive in modo straordinariamente adeguato la realtà fisica.
Nessuno di questi argomenti è definitivo.
Resta però il fatto che se si vuole sostenere la tesi contraria, occorre una buona spiegazione di questi fatti."
Vincenzo Fano
"La matematica parla di relazioni (logiche, quantitative spaziali, e in particolare di numeri che sono relazioni di relazioni), e le relazioni sono del tutto oggettive. Una relazione sta lì, davanti a te, come una seggiola o una montagna. Siccome a differenza della seggiola e della montagna la stessa relazione si trova contemporaneamente in giro in molti esemplari diversi ( = è universale) possiamo discutere se esista fuori dalla sfera materiale, come pensa Platone, o solo in essa, come dice Aristotele, ma lì sta e non lha prodotta la nostra mente. Un certo ruolo nella costruzione della matematica ce l'ha anche l'uomo, ma solo nel senso che le relazioni in giro per il mondo sono infinite, e si tratta di distinguere, trovare e scegliere quelle giuste."
Mario Alai
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Muri antichi, resistenti come assiomi, li guardi e ti confidano la sicurezza che non cadranno mai.
~ Il Leone Sognatore🦁✨
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Ancient walls, resistant as axioms, you look at them and they confide in you the certainty that they will never fall.
~ The Dreaming Lion🦁✨
#aesthetic#art#nature#artists on tumblr#frasi#photo#welcome home#arte#wall#muro#brick#strone#unbreakable#greatwall#brown#ancient#old#antico#vecchio
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In questo universo, i nostri assiomi hanno solo un valore di cronaca.
-Emil Cioran
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29.10.2024
Supponendo che l'arte contemporanea e le sue estetiche al fulmicotone non siano una totale frode;
la domanda che mi pongo è, che poi può applicarsi ad ogni sfera parallela a quella estetica e culturale:
è necessario, e se sì perché, un fondamento teorico per poter apprezzare l'arte contemporanea?
Non tutti gli artisti - quelli, ovvero, storicizzati dopo una certa fase storica per la produzione artistica - hanno prodotto solamente merda ed hanno, invero, necessariamente rivoluzionato le opinioni e le valutazioni intorno ad essa.
Ma adesso? In un epoca di vomito e rigurgito, cosa stiamo valutando? Ancora i sentimenti che un'opera ci suscita? Il processo artistico? Il processo artistico è la solita retorica automasturbatoria sul materiale che si srotola tranquillamente da sola anche per logica semiotica. I sentimenti, invece, e la loro ipervalutazione e superelevamento a metro di condizione di esistenza di un'opera, non fanno altro che sminuire la componente valutativa razionale ed analitica che si dovrebbe contrapporre al colpo di reni iniziale che un'opera suscita. Altrimenti stiamo solamente facendo le ghirlande alla maestria pratica (poca) e a quello a cui rimanda (niente).
E secondo quali standard devo, dunque, apprezzare un'opera d'arte contemporanea? Secondo quegli stessi standard applicati dal sistema. E chi garantisce per questi standard? Il sistema stesso che ha da sempre e per sempre escluso ciò che ha poi, a comodità, deciso di fagocitare?
Nel momento in cui ci si pone la domanda del "perché questo dovrebbe piacermi?" bisognerebbe anche chiedersi chi è che mi dice che questo dovrebbe piacermi.
E poi, in qualche maniera, anche guardare il giro di soldi che c'è dietro, da dove arrivano e da dove partono, dove vanno e dove vengono.
Per tutte le cose, in realtà (parlando per assiomi), ci vuole della cultura per apprezzarla, è indubbio il tutto. La messa in discussione dei canoni ha portato adesso all'eguaglianza arte e natura (si vorrebbe) o a qualcosa di simile.
È impossibile parlare per massimi sistemi.
Vale ancora la retorica del processo artistico quando determinate complessità, se ci sono e se si manifestano, sono sempre state presenti, in maniere perfino più complesse poiché arcaiche e antidiluviane, in motivi di ricerca passati?
Mancano molte cose
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Mi è piaciuta molto la lezione di oggi di politica economica alla scuola di formazione del #M5S, perché ha descritto il quadro concettuale entro il quale si sono inseriti i provvedimenti più controversi del Movimento 5 Stelle, come il Superbonus per l' edilizia ed il Reddito di Cittadinanza. Il prof. Marco Valente ha fatto vedere che come le critiche a tali provvedimenti nascono da un modo dogmatico di guardare alla realtà, poiché il neoliberismo è un' ideologia, basata su assiomi fragili e, in alcuni casi, falsi (per esempio, il Sistema Economico neoliberista ha bisogno dell' intervento dello Stato nella formazione delle risorse umane, nelle infrastrutture, nella sicurezza, nella politica militare per impossessarsi di risorse minerarie ed energetiche etc.).
Mi è molto piaciuta anche la conclusione del prof. Marco Valente sull' intelligenza artificiale: deve essere vista come un' opportunità per ridurre l' orario di lavoro e, quindi, per vivere da uomini liberi e non da schiavi. L'altra sera parlavo con un' avvocatessa cattolica che si faceva vanto di non aver nemmeno tempo di rispondere ad una mail etc . Non è necessario guadagnare 100 volte tanto (sono soffocato dalla quantità di oggetti inutili di cui si era circondata mia mamma), bensì di avere più tempo, l' unica risorsa che nessuno può restituirti.
Queste, assieme alla necessità di un intervento della Politica nell' economia (precisamente della Programmazione Economica) sono state le idee costanti della mia vita. Mi è piaciuto come il prof. Marco Valente abbia sottolineato con forza come un Sistema Economico non indirizzato al bene comune finisca per comportarsi in modo caotico.
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DUE MONDI
Il primo ricordo che ho di te è un nemico.
Dove eravamo quando ci siamo incontrati la prima volta? La musica era assordante e nemmeno di mio gradimento. L’odore di sudore si mischiava a quello del gin tonic e di birra da quattro soldi. Mi sentivo così fuori luogo, ma ballavo. Perché con i diavoli puoi fare solo quello: danzare. E il mio nemico era lì. Davanti a me. È stato per un mese il direttore di un cazzo di progetto a cui avevo partecipato, un po’ costretto e un po’ convinto. Me l’aveva chiesto gentilmente e voleva che diventassimo colleghi. Poi quando tutto è crollato ci ha abbandonato, lasciando me e gli altri disperati in balia della burocrazia fallimentare, di telefonate a vuoto e di attese snervanti. I miei colleghi volevano stanarlo e farlo a pezzi. E io ho cercato di proteggerlo dicendogli che non valeva la pena perdere tempo dietro a un ciccione egoista. Sì, l’ho chiamato ciccione. Poi qualcuno ha fatto la spia e lui si è offeso con me perché lo avevo perculato. Ma non sapeva che avevo difeso il suo naso da un pugno in faccia e le sue mani da amputazione certa. Non mi ha più parlato. Davanti a me ballava e sorrideva, nemmeno un saluto. Ho cercato il suo sguardo, ma nulla. Detesto le cose lasciate a metà.
Il secondo ricordo che ho di te è la voce.
Stavo fumando sotto quei funghi che riscaldano d’inverno gli ambienti all’esterno. Faceva un caldo, mi sentivo la pelle bruciare. Potevo smettere quel giorno, ci avrei guadagnato tempo, denaro e salute. Tu eri davanti a me e commentavi la serata: “Bella musica”. Stai scherzando? Veramente ti piacciono quei riempi-pista in salsa techno velocizzati da falliti Dj? Però la tua voce Cristo! Mi sembrava qualcosa di così famigliare e mentre arrostivo come un tacchino il tuo accento diventava la DeLorean di “Ritorno al Futuro”. Potevo usarla per viaggiare nel tempo. Mi hai ricordato di lei che mi teneva stretto stretto e mi scriveva “Ti amerò per sempre”. Anche quando la promessa non era stata mantenuta continuava a dirmelo: “Ti amerò per sempre”. E io non capivo, perché saltava da un letto a un altro e io ero solo il suo paraurti. Aveva la tua stessa cadenza. Per anni ho abitato intorno a te e non lo sapevo. Quanti km ci separavano? Quanto tempo avrei dovuto aspettarti. Ho fatto un breve calcolo: 9236 giorni.
Il terzo ricordo che ho di te è la mia gentilezza.
Credo di avertelo già detto che ci sono due cose che spiazzano nella vita: la verità e la gentilezza. E se con gli assiomi non sono molto bravo, con il garbo e la carineria divento un campione. E allora quando vi ho visti in panne in mezzo alla strada vi ho soccorso. Perché mi hanno insegnato che nessuno deve essere lasciato indietro. Sembravamo tre amici di lunga data, potevo girare a sinistra allo stop e portarvi fino al mare, avremmo visto l’alba con un cornetto alla crema e la mia anima avrebbe fatto il pieno di cortesia e amabilità, che poi sono tutti sinonimi della gentilezza. Il tuo amico il giorno dopo è partito. Siamo rimasti io e te. L’occhio di bue ci aveva ben inquadrato. Cedevi al sonno e alla stanchezza, ti drogavi di caffeina a qualsiasi ora. Lo facevi per me o perché sei abituato a questo sfinimento? Allora ho visto com’eri. Dio santo proprio a me lo stai dicendo? Sono il più grande ammaestratore di zucchero. I tuoi deliri glicemici non mi spaventavano. Sono così abituato. Pensa che mio cugino per colpa del diabete ha perso l’uso dei reni, ma sua moglie per fortuna era compatibile. Che poi non so se ci sia bisogno di compatibilità per donare un organo. Dio cane che grande gesto d’amore. Io non so se ne sarei capace. Quasi tutta la mia famiglia nella lista della spesa ha insulina e aghi per bucare le dita. Io mi sono salvato perché non mi piacciono tanto i dolci, che poi non c’entra una cazzo, forse sono stato solo fortunato. Sul cancello mi hai detto: “Mi sembra di conoscerti da sempre”, hai rincarato la dose dopo due passi: ”Sei così tenero che vorrei abbracciarti e stringerti forte”. Dimmi che non è “love bombing”, dimmi che non era una strategia da Narciso. Perché io ci ho creduto. Quante birre abbiamo comprato? Quattro? Siamo tornati in casa e abbiamo brindato a cosa non so, ma sicuramente alla fortuna. E mentre lavavi le tazze non smettevo di guardarti e stavo lì impalato, come un beccamorto, spaventato e confuso, come se fosse l’ora della mia morte. Mi hai abbracciato e tutto il mondo si è levato dai coglioni. Eravamo solo io e te. E purtroppo quella fastidiosa televisione sempre accesa su Focus. Mentre ti baciavo ho imparato tutto su Tutankhamun, su come evolverebbe la terra senza la razza umana e persino le strategie di guerra degli antichi romani. :-P
La quarta cosa che mi ricordo di te è un tatuaggio.
Veramente hai osato disegnarti quella schifezza sulla pelle? Scusa non dovrei giudicarti. Per me va bene così. Lo so che non sei quella “roba lì” che sotto l’epidermide c’è qualcos’altro. Non mi hai spiegato cosa rappresenta, che intenzione c’è dietro quella specie di uccello di fuoco, struzzo, pollo Vallespluga…per Dio prenota subito un Centro Ink Removal, pare siano bravissimi. Scusa è che vorrei alleggerire tutto e strapparti un sorriso, questa lettera sta incominciando a diventare pesante. Abbiamo parlato, io di più, perché volevo tenere la fiamma alta e non disperdere tutta quella bellezza che avevamo creato. Ti ricordi dove dormivamo? Sono crollato alle cinque del mattino e quando mi sono svegliato tu eri lì con il caffè. Mi guardavi. Ed io ero ancora spaventato. Ti prego Dio dell’amore fa che mi dica quelle parole.
Lo hai fatto.
“Sei così bello quando dormi, sembri un bambino”
Che copione perfetto. Che coglione perfetto. Non tu. Io! Ho guardato ogni centimetro del tuo corpo perché non volevo dimenticare nemmeno una falange. Se dovessero farmi un interrogatorio sarei l’orgoglio dei Ris di Parma. Scrutavo ogni tuo movimento, gli occhi cercavano tracce, le tue impronte digitali erano tutte su di me. Non hai toccato nulla se non me e quella maledetta moka, che diciamocelo non faceva un gran caffè. Ci siamo affogati di sushi e poi mi hai chiesto: “Mi porti a vedere la porta di Milano?” che scritta così suona ridondante, ma non ho voglia di trovare altri verbi, sono in flusso di coscienza e ahimè d’incoscienza e va bene così. Mi hai raccontato del neoclassico e ho scoperto cosa sono i Caselli Daziari, cos’è un Sestiere e mi sono ricordato di cosa diceva Platone.
“Scegli come partner qualcuno migliore di te. Non hai bisogno di qualcuno che ti ami così come sei. Hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a crescere giorno dopo giorno. Il vero amore è ammirazione, quindi il partner che scegli dovrebbe avere quelle qualità che ti mancano. Se voi due vi impegnate ad aiutarvi a vicenda a crescere, prenderete i periodi burrascosi di qualsiasi relazione come opportunità di crescita reciproca. Sarà tutto più semplice e duraturo. Ecco perché la persona giusta per te non è solo quella che ti accetta, ma quella che ti fa sviluppare il tuo massimo potenziale in questa vita”.
Perché quel pezzo di merda aveva già capito tutto. E noi adesso cos’abbiamo come esempio? Fabio Volo!
Il giorno della tua partenza è arrivato troppo in fretta. La porta che avevamo creata si è chiusa. Allora ho fatto una cosa, ho preso il mio cuore e l’ho messo nel tuo zaino, insieme alle medicine, i tuoi vestiti fuori moda e le analisi del sangue. Perdona se adesso è in putrefazione, ma io con te dovevo e devo usare la testa. La guerra fra cervello e cuore la lascio ai dilettanti. Siamo tornati nei nostri mondi, fatti sicuramente di abitudini, noiose certezze e l’aggravante delle giornate pre-natalizie.
La quinta cosa che mi ricordo di te è l’attesa.
Io entravo sempre più nel profondo e tu cercavi un appiglio per non farti portare giù. Scusa non dovevo chiederti certe cose. Mi accorgevo che facevi fatica. E allora distruggiamolo questo mio mondo. Perché non ho più bisogno di quello che mi circonda. Ho tanti amici quante ferite, che sono pronti a seguirmi in guerra. A loro ho raccontato di te, per una volta volevo smettere di essere gentile e dire la verità. Io aspettavo e tu continuavi a gravitare intorno a me buttandomi briciole e sorrisi.
Assomigli alla felicità. Perché sei calmo, silenzioso, pacato. TI piace il passato, sei bravo a scavare e credo che tu sia anche l’orgoglio dei tuoi genitori. Sei una felicità silenziosa, da comprendere, sei la serenità della tradizione, il Sabato in centro, una pizza con gli amici. Ma la provincia a volte è meschina, perché illude e ti tenta. E io e te lo sappiamo bene.
Devo andare più in profondità?
Una volta mi ha dato del banale e ti sei arrabbiato per una sciocchezza. Poteva essere un segnale d’allarme. Guarda che non mi offendo. Mi devi sparare a una rotula per offendermi. Ma non darmi del banale ti prego.
Dai vieni giù con me.
Facciamo il gioco del Cadavre exquis, che tanto piaceva a Picasso, Man Ray e Breton, capace di svelare i misteriosi canali di comunicazione che esistono fra elementi apparentemente diversi. Oppure sfidiamo Jung e vediamo chi dei due ha la mente più complessa. Devo impegnarmi di più? Sai che conosco tutte le opere del Museo Archeologico di Napoli? Te le saprei raccontare persino in giapponese. Ti potrei narrare della triste storia della città di Minamata o del fotografo Eugene W. Smith: le sue immagini sono fra le più potenti del 900. Vuoi che diventi un professore o preferisci che sia tu a insegnarmi? Chiedimi qualsiasi cosa e io la studierò. Ma ti prego, di nuovo, non darmi mai più del banale. Raccontami ancora delle statuine che hai trovato durante i tuoi scavi, romanticizza le strade di Pompei e perdiamoci nella casa di Marco Lucrezio Frontone.
Poi improvvisamente arrivavi a casa e mettevi già il telefono. Rimanevo senza un finale. Senza il mio capitolo da studiare. Persino i nostri nomi ci sono ostili. Tu sei il devoto di Marte io la fortezza di Dio. Siamo in due mondi diversi. Come Ligia e Marco Vinicio, come quei banali di Romeo e Giulietta.
Adesso cado nella banalità. Nel sentimentalismo più insipido, d’altronde io vedo della cavalleria anche nei pacchi Amazon. Ma l’anima si cura con i discorsi belli, mica posso stare qui a fare l’elenco puntato dei nostri difetti. Io i tuoi non li conosco. Però mi avevi detto che sei un inconcludente. Vuoi sapere i miei? Li lascio alla tua fantasia. Adesso ho bisogno di distruggere tutto il mio mondo, perché non è possibile che fra me e te non ci sia niente in comune.
Dai andiamo più in profondità. Trattieni il fiato.
Non puoi cambiare le persone. Puoi cambiare le tue aspettative. Chi cazzo lo diceva? Puoi stabilire dei confini e prendere decisioni su quanto tempo e impegno dedichi. Puoi concentrare la tua attenzione. Puoi esercitarti con l'accettazione e il lasciar andare. Ma non puoi modellare qualcuno in chi vuoi o hai bisogno che sia. Non puoi costringerli a fare un turno prima che siano pronti. Non puoi chiedergli di diventare qualcuno diverso da quello che è autenticamente. Non dovresti farlo. E questa può essere una verità dolorosa con cui sedersi. Che non importa quanto implori e spieghi le cose. Non importa quante volte tu dica ciò di cui hai bisogno e comunichi ciò che fa male. Una persona a cui tieni non può presentarsi per te nel modo di cui hai bisogno. Che a volte, non c'è nessuno da incolpare e niente da sistemare.
Chi cazzo lo diceva? Non me lo ricordo più.
E io non ti ho chiesto questo. Volevo solo il minimo sindacale. Oppure sentirmi dire "Lascia perdere io ho troppo da fare”. Forse me l’hai anche sussurrato in un momento di cattiveria. Dovevo ascoltarti meglio. Scusami.
Chi vuole conoscere uno come me? Che vive in una gabbia d’oro, che scrive senza rileggere, pieno di refusi. Chi mi verrà a liberare? Ah! Sì. Il principe o la principessa azzurra, a questo punto il genere non ha importanza, siamo in un periodo di fluidità.
Vuoi andare più a fondo? Lo sai che potremmo trovare dei mostri?
Secondo il luogo comune e ricerche scientifiche in fondo al mare, anzi nel profondo dell’oceano, vivono creature fantastiche che sfidano ogni legge della fisica. Stare qui è impossibile per noi. Allora diventiamo mutanti, trasformiamoci e adattiamoci a questo ambiente. Io vorrei essere “Ghidorah” il drago a tre teste, oppure potrei obbligare la mia schiena a deformarsi e diventare “Kamaji” il ragno umanoide del film “Sen to Chihiro no kamikakushi”. Ha sei braccia, che bastano per spaventare e fare un sacco di cose.
Tu rimani così. Sei già mostruosamente bello e inquietante con quelle scarpe nere. E adesso che ti ho portato qui? Diventiamo cattivi e buttiamo fuori tutto il veleno. Di cosa ti vergogni? Quando perdi mutande nei locali e nessuno ti guarda negli occhi ti senti felice? Quando cerchi umanità nel buio delle tue perversioni sputi o ingoi? Di me non sai. Io che elemosino amore sono in realtà la più sadica delle creature. Quando parli di “indagine sull’erotismo” a cosa ti riferisci? Suvvia che dilettante, hai sempre cercato la strada più facile. Vieni con me e annulla il tuo corpo in uno “zentai”, cercalo su Google se non sai cosa sia. Vieni con me alle feste più deliranti del mondo, dove ognuno può essere quello che vuole. Troverai cani, vecchi vestiti da bambini, impiegati zerbino e persino la mia amica che pratica la body suspension. Loro sì che indagano, che vanno oltre il desiderio più semplice. Potrei stupirti e confessare al mondo intero che sono bravissimo a sedurre le persone nel reparto yogurt del supermercato. Hai mai fatto l’amore sopra un “mare di morti?” Volevo scrivere cimitero, ma mi piace questa metafora. Sei mai stato nudo in mezzo alla gente e obbligato tutti a guardarti negli occhi? Ti hanno mai pagato per fare sesso? Hai mai seguito qualcuno in metropolitana? Hai mai sedotto un prete o una suora? Ho tre teste e un elenco lunghissimo di maleodoranti ricordi. Ma si sa, ogni mostro ha paura. Così ti chiedo, quando torni a casa la sera, pieno di non so cosa, e la Domenica ti svegli chi trovi al tuo fianco? Quando allunghi il braccio c’è il telefono o il telecomando della televisione? Cosa compri al supermercato? Quello che piace a te o “cazzo questo è il suo piatto preferito”.
Hai così paura di dirlo alla mamma che sei felice? Dai rispondi a queste domande. Mentre io seleziono la prossima perversione, raccontami con chi condividi la tua felicità.
Ho due cicatrici sul corpo, una sulla schiena e una di fianco all’occhio, perché da piccolo ho rischiato. Poi con il passare degli anni ho preferito salvarmi la pelle e infierire sull’anima. Tu hai questo potere, di rattristarmi. Io so solo scrivere e abbuffarmi di aforismi. Ma dimmi una lettera così l’hai mai ricevuta? Secondo me solo dall’Inps. :-P
Vedi che alla fine i mostri non sono poi così mostri.
Andiamo più giù, dove è impossibile vivere. 10994 metri sotto il livello del mare. Mi piacciono i numeri. Mi piace infilarmi nei pertugi fra topi ballerini e scarafaggi.
Qui potremo toglierci tutte le sovrastrutture che ci tengono in piedi. La pressione ci darà solo un minuto prima che i nostri corpi esplodano. Potrai vedere la certezza e la sincerità, il mio senso di leggerezza, la paura e il coraggio. Credo di avere questo sotto la mia armatura. Mi hai detto: “Io sono una persona pura”. Mi hai dato dell’irrisolto, del prigioniero e mi hai lasciato in fondo alla tua rubrica del telefono.
Ma preferisci non parlarmi. Lo so che non ne abbiamo bisogno, perché tu conosci la lingua dei segni. E io ho imparato a dire con le mani “Grazie” “Mi manchi” e anche “È pronta la colazione?”
Ma il fiato manca e mi tocca tornare in superficie, ho delle pinne da apnea lunghissime, sembro un tritone mentre nuoto verso l’ossigeno.
Mi porto dietro tutte le citazioni banali che tanto ti fanno arrabbiare. Non m’importa. Ci porteremo dietro sempre l’impressione di aver perso qualcosa, il tempo sicuramente. Quante cartucce potrai sparare da qui a dieci anni prima di diventare un povero vecchio? Io ho ancora due proiettili. Li tengo ben stretti.
Fai attenzione. Risali anche tu. Nel frattempo vorrei diventare il fiume Montone e rompere gli argini. Verrei a casa tua solo per lavare il pavimento. E non farei danni. Potrei essere un libro, un pirofono, che manco so come si suona, un quadro di fine ottocento. Questa è la mia fatica. Non perdere la memoria, e ricordare sempre ciò che vorrei dimenticare.
Ecco sono uscito dal mare. Che coglioni rimanere in apnea. Non puoi neanche ridere. Tu dovresti arrivare fra dieci minuti secondo i miei calcoli. Nel frattempo ti aspetto e galleggio. Un’ultima occhiata all’oroscopo.
Sagittario: "Nell’anno che verrà ti vedo alla ricerca di un tesoro. La tua non è un’esplorazione sfrenata e confusa, ma diligente e disciplinata. Sii ben organizzato, raccogli con cura i risultati delle tue ricerche e fa’ domande incisive. Usa la logica e l’intuito per riflettere sulle possibilità . Sii disposto a fare qualche cambiamento per accogliere le ricchezze che cerchi. Trai ispirazione dalla tua perseveranza e da un’incessante ricerca. Questo sforzo sarà ripagato entro la seconda metà dell’anno".
Che palle! Mi toccherà galleggiare un po’ di più.
Ovunque tu sia. Vai piano e manda un messaggio quando arrivi.
G.
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Non ho cervello ma devo urlare. Ma perché le persone in altri Paesi non ascoltano?
I Have No Brain But I Must Scream. But why aren't people in other countries listening?
AURELIEN
18 OTT 2023
Ho praticamente rinunciato a leggere i media tradizionali su qualsiasi cosa importante in questi giorni, nonostante sia stato un drogato di notizie per decenni, leggendo due quotidiani, riviste settimanali e ascoltando religiosamente le notizie sulla BBC. Certo, i media sono cambiati e si sono metastatizzati molto da allora: sono pieni di spazzatura e scritti da stagisti, ma c'è qualcosa di peggio quando si tratta di affrontare le grandi e complesse storie del mondo. In una settimana in cui sia l'Ucraina che Gaza sono al centro delle cronache, in cui i russi sembrano iniziare una nuova offensiva e in cui un brutto conflitto regionale in Medio Oriente non è impossibile, la gente guarda ai media, ai siti Internet e all'opinionismo in generale, per spiegare le questioni di guerra e di crisi. Questo saggio spiega, in parte, perché sono inevitabilmente delusi e, in parte, perché, al di fuori della bolla occidentale, quasi nessuno fa caso a ciò che dicono.
La settimana scorsa ho parlato di come il complesso di sicurezza occidentale (WSC) non riesca a capire cosa stia realmente accadendo nei conflitti in tutto il mondo, in particolare in Ucraina, e quindi si ostini a parlare di ciò che pensa di sapere. Ora voglio ampliare questa argomentazione, suggerendo che non solo il WSC, ma anche la Casta Professionale e Manageriale e i media più in generale, hanno creato barriere quasi impenetrabili alla reale comprensione dei conflitti e delle atrocità, colonizzandoli intellettualmente, usurpandone le descrizioni e le analisi e imponendo le proprie interpretazioni irrilevanti e persino pericolose. Sostengo che la moderna mente liberale, piena di assiomi aprioristici e in gran parte vuota di conoscenze ed esperienze reali o della capacità e volontà di imparare, ha cercato di imporre agli altri le narrazioni dei conflitti contemporanei, usando termini che pensa di comprendere. Si tratta di un'affermazione importante, che non posso approfondire in questa sede come vorrei, quindi mi concentrerò sui due discorsi principali che il liberalismo moderno cerca di imporre sul conflitto: quello dell'odio e della condanna morale, da un lato, e quello della legge, dall'altro. I lettori più attenti noteranno che i due discorsi stanno diventando sempre più indistinguibili: un oppositore di alto profilo e molto odiato dall'Occidente può aspettarsi di trovarsi accusato di un reato penale al giorno d'oggi, come ho notato poco fa.
Voglio quindi spiegare perché entrambi questi discorsi, piuttosto incoerenti, sono fuorvianti, e poi parlare brevemente della realtà del conflitto, il tutto senza esprimere alcun giudizio morale o legale. Questo potrebbe sembrare scioccante per alcuni, e chi ha un carattere nervoso potrebbe volersene andare ora, ma credo che sia essenziale, perché solo quando la fitta nebbia di confusione prodotta dal discorso normativo liberale si sarà diradata, potremo vedere la realtà del conflitto attuale così com'è (spoiler: non è bella).
Prendiamo prima l'aspetto morale. Sebbene siano stati scritti libri seri sulla moralità in guerra e i grandi comandanti abbiano generalmente imposto una disciplina morale alle loro truppe, l'idea di un comportamento morale di derivazione normativa nel conflitto come fine a se stesso è molto recente: risale all'epoca della democrazia, degli eserciti di massa e della mobilitazione di massa, quando i governi in guerra richiedevano il sostegno del loro pubblico e, in molti casi, anche la simpatia dell'estero. E, cosa rivelatrice, questo discorso è sempre stato essenzialmente negativo: consiste in gran parte nel cercare di evocare la simpatia e il sostegno degli altri, adducendo comportamenti terribili da parte del nemico, piuttosto che comportarsi bene in prima persona. Naturalmente in molti conflitti moderni il sostegno, o almeno l'acquiescenza, della popolazione locale è uno degli obiettivi, e del resto molti ufficiali militari di oggi si sentirebbero comprensibilmente offesi se si mettesse in dubbio che hanno fatto ogni sforzo per controllare le loro truppe. Tuttavia, si tratta di sviluppi recenti e contingenti, come spiegherò tra poco.
Possiamo forse iniziare con la domanda: a cosa servono gli eserciti? La risposta liberale standard, credo, sarebbe quella di combattere altri eserciti, che, se non proprio tautologica, è comunque piuttosto inutile. Ma riflette il concetto liberale di una guerra accettabile come una sorta di versione gladiatoria di una causa legale, in cui vincerà la squadra più abile e meglio preparata. Come nelle cause legali, le questioni sono relativamente chiare e il risultato dovrebbe essere accettato da entrambe le parti con buona pace. Inoltre, come per le cause legali, ci sono regole e procedure dettagliate che devono essere seguite e solo alcuni tipi di persone possono partecipare. Tutto ciò, ovviamente, è fantasticamente lontano dalla realtà anche dei conflitti moderni, e ancor più da quelli del passato, ma riflette lo spirito normativo, moralmente censorio, orientato alle regole e tecnocratico del liberalismo moderno.
L'idea stessa di imporre un quadro morale puramente normativo alla guerra, dall'esterno e da parte di estranei (invece di agire con moderazione perché si pensa che sia la cosa giusta e sensata da fare) è uno sviluppo molto recente, anche se la Chiesa cattolica aveva già fatto alcuni sforzi in questa direzione. Ha avuto una qualche rilevanza nei conflitti reali solo per brevi periodi e in circostanze specifiche. La crescita degli Stati nazionali e la confusione tra popoli e confini hanno prodotto guerre (come quella dei Balcani del 1912-13) che avevano come obiettivo la sopravvivenza nazionale e di gruppo e la definizione delle frontiere, e per le quali queste norme sembravano in gran parte irrilevanti. Naturalmente, il peggio sarebbe seguito. Ciononostante, questo discorso ha permesso alle società liberali di impegnarsi nella moralizzazione della storia stessa, guardando al passato anche abbastanza recente e giudicando con compiacimento i nostri antenati per i loro fallimenti morali nei conflitti.
Ironia della sorte, naturalmente, le radici culturali della civiltà occidentale che ha prodotto il liberalismo illustrano una tradizione completamente diversa. Il Libro del Deuteronomio (XX,12-18) dà istruzioni molto esplicite su come gli israeliti dovevano trattare i popoli conquistati. Le normali città nemiche dovevano essere rase al suolo, i maschi uccisi e le donne, i bambini e il bestiame "presi". Ma quando le città erano state date da Dio "in eredità, non salverai nulla di ciò che respira. Ma le distruggerai completamente". Questa sembra essere stata una pratica molto accettata all'epoca. Anche il mondo classico non era molto meglio: quello che oggi definiremmo genocidio era una pratica comune nelle guerre tra grandi città-stato. E i greci cercavano modelli di eroismo nell'Iliade, dove troviamo Odisseo, ad esempio, descritto con ammirazione come ptoli-pórthios, il "saccheggiatore di città", e sappiamo cosa significava. L'abitudine dei Romani di conquistare con il genocidio non è mai stata un segreto, ma allo stesso modo non sembra aver influito sull'adorazione della loro civiltà da parte degli europei colti per molti secoli.
Una parte della ragione di questo comportamento a quei tempi è certamente lo sviluppo tardivo di eserciti professionali a lungo servizio nella maggior parte del mondo (l'esercito romano, ricordiamo, divenne professionale solo durante il periodo dell'Impero, e anche allora tutte le sue truppe effettive erano mercenari stranieri). Tali eserciti richiedevano un surplus agricolo in grado di sostenerli, e fino al XIX secolo il massimo che si poteva generalmente gestire erano eserciti temporaneamente reclutati per guerre specifiche e poi congedati. Spesso erano brutali e rapaci, ma in modo indiscriminato. Altrimenti, le guerre erano spesso combattute tra le intere popolazioni di città o piccoli regni, e la moderna distinzione normativa tra "combattenti" e "non combattenti" sarebbe semplicemente sembrata irrilevante. Non esisteva un "esercito di Troia" che difendesse Troia dai Greci. Ciò che contava era difendere la propria città o la propria comunità e assicurarne la sopravvivenza con qualsiasi mezzo fosse necessario. E molto spesso i motivi della guerra erano comunque il saccheggio e l'acquisizione di schiavi. Dopotutto, se si combatte per preservare la propria città o il proprio popolo dalla conquista e dalla schiavitù, sicuramente ogni mezzo era giustificato. Nel 1416, in una delle innumerevoli battaglie navali contro i Turchi, il comandante veneziano Pietro Loredan riferì di aver giustiziato tutti gli europei catturati al servizio dei Turchi, così come tutti i piloti e i navigatori delle navi catturate, dando così, annunciò con orgoglio, un notevole vantaggio militare a Venezia. Pensava chiaramente di agire moralmente: e infatti su quale base, se non quella di un'affermazione puramente normativa e universalistica di certi standard, si potrebbero condannare le sue azioni? Il che solleva una domanda preoccupante: se è morale combattere per difendere il proprio popolo, quali sono i limiti, se ci sono, a ciò che è consentito fare, prima di ritirarsi con rammarico e lasciare che il proprio popolo venga conquistato?
Il problema è che non esistono regole morali universali sul conflitto, o meglio, ognuno cerca di universalizzare le proprie, e ognuno vede gli interessi della propria parte o del gruppo che sostiene come prioritari, con regole diverse che si applicano a parti diverse in pratica, se non in teoria. Avete già avuto una conversazione con qualcuno che si è agitato per i presunti "attacchi ai civili" russi e gli avete chiesto se condannano allo stesso modo i bombardamenti su Gaza? "Ma non è possibile paragonare i due casi!", risponderà scandalizzato.
Non si possono mai paragonare due casi, e questo è il problema. La difficoltà di qualsiasi quadro morale coerente è che, applicato in modo coerente, ci porta rapidamente in luoghi in cui non vogliamo essere e a conclusioni che non vogliamo raggiungere. In realtà, l'unica legge morale universale che tutti accetterebbero (tacitamente) è "le persone che mi piacciono, che combattono per cause che sostengo, sono autorizzate a fare cose che agli altri non sono permesse". I problemi di una simile formula sono abbastanza ovvi. Eppure questo atteggiamento si riscontra ovunque, anche se in Occidente si ritiene di doverlo rivestire di un linguaggio più accettabile. C'è stato un periodo in cui sono stato molto più vicino ai tentativi di affrontare alcuni degli aspetti più sgradevoli dei conflitti di quanto forse ora vorrei essere stato, e mi sono stancato delle giustificazioni addotte, nei media, nelle riunioni politiche, persino nelle aule di tribunale, in diversi Paesi. Il tutto si riduceva sempre a:
Non è mai successo.
Ok, è successo ma io non c'ero.
Ok, è successo e io ero lì, ma stavamo difendendo il nostro popolo.
L'altra parte ha iniziato.
A volte rifletto sul fatto che la maggior parte dei peggiori eccessi della storia sono stati commessi da coloro che "difendevano il loro popolo", se non altro perché il modo più semplice per farlo è quello di uccidere un gran numero di nemici prima che questi possano uccidere te, prima è meglio è, e non necessariamente solo i soldati. Questa è, infatti, una caratteristica di tutti i conflitti tra gruppi autoidentificati con presunti interessi collettivi da proteggere. La guerra era abbastanza crudele in passato, e spesso eccezionalmente tra città-stato, ma quando le guerre erano tra imperi o sovrani, non si parlava di "difendere il nostro popolo". Gli eserciti erano molto eterogenei e contingenti provenienti dalla stessa area potevano trovarsi da entrambe le parti (o da tutte). Le alleanze venivano fatte e disfatte in base al vantaggio politico e l'inimicizia tra i leader cristiani (il re di Francia e l'imperatore, per esempio) complicò enormemente la lunga lotta contro gli Ottomani. Se la guerra era ancora eccezionalmente brutale e la popolazione locale era un bersaglio accettato per i saccheggi e le esazioni da entrambe le parti, gli elementi di violenza ideologica e razziale erano ancora largamente assenti.
Ma il meme della "difesa del nostro popolo" è presente ovunque nella storia degli ultimi due secoli e, nel peggiore dei casi, sfocia nel tipo di isteria paranoica tipica dei nazisti, che credevano che il Volk tedesco fosse in costante pericolo di annientamento da parte dei loro nemici razziali, che dovevano prima sterminare. Ma non sono stati loro a inventare questo meme: l'idea della competizione a morte e dello sterminio tra i diversi gruppi "razziali" faceva parte del pensiero di ogni persona istruita un centinaio di anni fa, e sembrava essere solo una conclusione logica delle ultime scoperte scientifiche sulla competizione per lo spazio vitale nel regno animale. Era considerato naturale, anche se deplorevole, che alcune "specie" umane sarebbero scomparse, proprio come le specie animali.
Inoltre, una volta iniziata questa logica, dove ci si ferma? Se alcune vite (le vostre) sono più importanti di altre (le loro), fino a che punto siete disposti a spingere l'argomento, soprattutto in guerra? I nazisti stessi hanno fornito una risposta. Povera di risorse, dopo aver conquistato un'Europa che non poteva sfamarsi, priva di manodopera sia per combattere che per lavorare nelle fabbriche, l'economia di guerra tedesca, in modi di cui si è cominciato a parlare solo di recente, trattava gli esseri umani dei Paesi conquistati semplicemente come materia prima per lo sforzo bellico, da consumare e gettare via. La maggior parte dei campi di concentramento istituiti dopo il 1941 erano in realtà campi di lavoro, dove coloro che non erano in grado di lavorare venivano messi a morte e quelli che potevano lavorare venivano fatti lavorare fino a quando non li seguivano. E in una guerra il cui obiettivo più recondito era probabilmente la lotta per le scorte di cibo, le "bocche inutili" venivano semplicemente fatte morire di fame: nell'ambito del Piano della fame si prevedeva e si prevede che 30 milioni di cittadini sovietici sarebbero morti. Allo stesso modo, non si poteva pensare di dirottare le scarse risorse per sfamare due milioni di ebrei polacchi, che quindi vennero semplicemente sterminati.
È difficile accettare, ancora oggi, che gli esseri umani siano stati capaci di tali atti, e ancor meno (come vedremo tra poco) che li abbiano considerati del tutto giustificati. È per questo motivo, forse, che ci si è sforzati tanto di inventare teorie del tutto fittizie ma confortanti sui nazisti, nonostante il fatto che essi ci abbiano lasciato testimonianze di ciò che hanno fatto e del perché lo hanno fatto. Ma prenderli sul serio, e andare oltre il facile vocabolario dell'"odio", forse metterebbe a dura prova la nostra fede nella natura umana, al di là di quanto essa possa ragionevolmente sopportare.
Ma anche in ambiti meno terrificanti, la moderna visione liberale del conflitto non è ancora in grado di sopportare la realtà, e sono stati compiuti grandi sforzi per creare teorie del conflitto che in pratica sono sia insultanti per la gente comune, sia completamente avulse da qualsiasi contatto con la realtà - come ci si aspetterebbe dalla cultura normativa. Come ho già sottolineato, l'insultante assunto del preambolo della Carta dell'UNESCO, secondo cui le guerre "iniziano nella mente degli uomini", è un tentativo di scaricare la colpa su persone come voi e me. O è la nostra personale ostilità verso gli altri a scatenare il conflitto, o siamo abbastanza deboli e confusi da essere manipolati da "tiranni" e "demagoghi" e "imprenditori della violenza", da discorsi di odio e differenza, in guerre che siamo troppo stupidi per fermare. L'"odio" è concepito come qualcosa che di per sé ha un potere, che "scoppia" di tanto in tanto, incoraggiato dai despoti e venduto a un pubblico stupido.
Le élite liberali hanno quindi due risposte a questo problema. Una è la gentilezza forzata obbligatoria: leggi anti-discriminazione, controlli sulla parola, insegnamento accademico della tolleranza, visite scolastiche reciproche e il programma ERASMUS. L'idea è che questo ci renderà meno stupidi e meno propensi a farci abbindolare dal prossimo demagogo con un messaggio di odio. Paradossalmente, l'altra risposta è l'odio stesso: l'odio non diluito diretto, attraverso i media e il sistema politico, contro coloro che le nostre élite identificano come "demagoghi", "autoritari" o "tiranni", che devono essere rimossi dall'incarico e puniti, così come chiunque non li condanni con sufficiente forza in pubblico, o anche in privato. Queste figure di odio cambiano nel tempo (chi era quel tizio in Sudan, di nuovo?), ma sono sempre il bersaglio di una condanna senza mezzi termini e di un rifiuto totale di esaminare le vere cause del conflitto e ciò che lo sostiene, e talvolta lo porta a conclusione. Esiste un'enorme letteratura "grigia", anche se intellettualmente impoverita, sulle questioni del conflitto e della pace, pagata dai governi nazionali, dalle organizzazioni internazionali e dalle fondazioni caritatevoli, e messa nelle mani di volontari idealisti che partono per zone lontane e che trovano rapidamente i documenti, i corsi e le sessioni di formazione completamente inutili. Ci si aspetterebbe che, di fronte a tutta questa delusione, queste idee vengano abbandonate, o almeno annacquate, e negli ultimi anni ho riscontrato un riconoscimento privato in alcuni governi e organizzazioni che la maggior parte di esse sono spazzatura. Ma naturalmente le idee normative non possono mai essere smentite dalla realtà: la realtà può solo fallire nella sua funzione di dimostrare che sono vere.
Così ora gli opinionisti occidentali scrivono articoli accorati sulla "moralità" della guerra a Gaza, come se qualcuno potesse prendere in considerazione le loro conclusioni e i loro tentativi di imporre uno schema morale a cose che non capiscono. Si può solo immaginare che i combattenti di Hamas ricevano un messaggio di testo: "Oh cavolo, ecco un altro opinionista occidentale che dice che dovremmo smettere di fare quello che stiamo facendo. La cosa si fa seria". (Almeno ci saranno una serie di libri, conferenze e lezioni su YouTube sulla moralità del conflitto, quindi non è tutto negativo).
Il secondo modo in cui il liberalismo cerca di dominare il discorso sul conflitto è attraverso il diritto. Naturalmente il diritto, con la sua razionalità tecnocratica, la sua codificazione e la sua precisione, è sempre stato il soggetto liberale per eccellenza. Non dobbiamo fare i Clausewitziani e sostenere che la guerra non può essere limitata o controllata, ma è chiaro, se ci pensiamo, che l'applicazione del diritto ai conflitti armati, almeno nella moderna veste liberale e tecnocratica del diritto, è una sorta di errore di categoria. È il discorso sbagliato da applicare, perché si basa su dettagli raffinati, su argomentazioni ingegnose, su sottili distinzioni e gradi di colpa, mentre si applica alla confusione sanguinosa e caotica che è il conflitto armato. E alla fine, chiediamo a gruppi di giudici non esperti di raggiungere conclusioni essenzialmente soggettive sulla colpa e sulla responsabilità, o meno, di eventi terribili.
Se intendiamo le leggi di guerra come linee guida principalmente normative, allora il loro uso e la loro applicazione sono ragionevoli, e possono essere insegnate e applicate. Alcune delle disposizioni più note, come il trattamento dei non combattenti, sono caratteristiche del comportamento dei buoni militari da molto tempo. Ma il problema è che il "diritto di guerra" (un'espressione infelice, a mio avviso) è in definitiva un tentativo di imporre una serie di restrizioni complesse e arbitrarie al conflitto armato, per renderlo il più possibile conforme alla visione liberale di come dovrebbe essere il conflitto. Ma questo è ovviamente impossibile, tanto più che molti combattenti di oggi non hanno mai sentito parlare delle Convenzioni di Ginevra, e anzi molti non sanno leggere. Un esercizio interessante - e per quanto ne so non è mai stato fatto - sarebbe quello di prendere i testi delle Convenzioni di Ginevra, dei Protocolli aggiuntivi e dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale e decostruirli, per vedere come dovrebbe essere il conflitto armato per rendere questi documenti rilevanti. In altre parole, se i documenti fossero stati scritti sulla base di una ricerca sul campo dei conflitti contemporanei, sarebbero stati simili a quelli che abbiamo?
La risposta, senza sorpresa, è no. Questi documenti partono dal presupposto che la guerra si combatte per obiettivi limitati tra forze addestrate e disciplinate, che indossano uniformi distintive e portano le armi apertamente, e in base a regole ben definite. Un comandante accetterà di perdere una battaglia piuttosto che infrangere le regole e punirà i subordinati che non seguono il suo esempio. I combattenti (cioè le truppe regolari, disciplinate e in uniforme) sono gli unici attori reali: la leadership politica, le fabbriche che producono armamenti e materiali e le infrastrutture civili non sono rilevanti per le operazioni militari. È vero che, con il passare del tempo, si è cercato di includere disposizioni per le forze irregolari, ma la struttura e il contenuto dei documenti presuppongono di fatto un conflitto simile alle fasi iniziali della Prima guerra mondiale in Europa. La progressione del Diritto Internazionale Umanitario (come viene chiamato) negli ultimi decenni è stata quella di allontanarsi sempre di più dal conflitto come realmente accade, verso il conflitto come normativamente dovrebbe essere. Il diritto internazionale umanitario diventa quindi sempre più irrilevante rispetto al comportamento reale e, a sua volta, deve essere deformato sempre di più per poter essere applicato alla realtà contemporanea. Di nuovo il nostro vecchio amico problema del discorso.
Una difficoltà è rappresentata dal fatto che, a differenza del normale (si è tentati di dire "reale") diritto penale, il DIU non ha alcuna base pragmatica e consiste interamente di norme. Possiamo quindi comprendere le virtù pratiche delle leggi contro la rapina, l'omicidio e persino la frode: esse ci proteggono tutti e le società le sviluppano generalmente da sole. Ma non esiste un fondamento pragmatico simile per il diritto internazionale umanitario. Il suo concetto centrale è la distinzione tra "combattenti" e "non combattenti" e la protezione di questi ultimi. È giusto dire che nella maggior parte dei conflitti odierni questa distinzione non ha senso, ma ciononostante si insiste su di essa, ad esempio nella protezione dei prigionieri di guerra e di quella che viene popolarmente descritta come "popolazione civile". Tuttavia, questo atteggiamento è estremamente specifico dal punto di vista culturale e temporale. In passato i prigionieri venivano regolarmente giustiziati per ridurre la forza lavoro del nemico, senza mettere a rischio le proprie truppe, o come sacrificio rituale, come presso gli Aztechi. L'idea che non si debba fare questo è una norma culturale moderna, ma solo una norma, e non è evidente. Allo stesso modo, la tradizione del diritto internazionale umanitario presuppone sempre che le guerre siano una questione puramente professionale e delle élite governative ("guerre di principi"), eppure l'avvento della democrazia di massa, che non figura da nessuna parte nel pensiero del diritto internazionale umanitario, coinvolge sicuramente la popolazione di un Paese, almeno moralmente, nelle decisioni di guerra e di pace. Sembra curioso, ad esempio, che gli opinionisti che vent'anni fa sostenevano a gran voce l'invasione dell'Iraq non fossero considerati bersagli legittimi. E in effetti, con le guerre nel Golfo, nei Balcani e altrove, queste distinzioni sono diventate impossibili da mantenere oggi.
Ciononostante, ai giudici nelle aule di tribunale è stato chiesto di pronunciarsi su questioni di colpevolezza e innocenza in questi casi. Ancora più importante, forse, è il fatto che il vocabolario del diritto internazionale umanitario (spesso imperfettamente padroneggiato) e i suoi presupposti normativi e qualifiche tecniche (scarsamente compresi) sono entrati a far parte del discorso politico odierno in modo confuso e incoerente, mescolando l'indignazione morale con idee vaghe su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere illegale. Il risultato è un discorso politico tossico in cui si presume che la nostra disapprovazione morale nei confronti di una figura, di un movimento o di un'azione, comporti automaticamente sanzioni legali, magari dopo una breve sosta per un processo.
In alcuni casi, ai tribunali è stato chiesto di pronunciarsi su questioni che assomigliano a quelle del diritto penale standard, sebbene anche in questo caso con una massa di criteri tecnici di cui il diritto penale nazionale non deve preoccuparsi. Ma, come ho suggerito, il discorso alimentato dalla vendetta della moderna industria dei diritti umani richiede che i "maggiori responsabili" siano puniti (dopo il processo obbligatorio) e in pratica questo significa coloro che sono più lontani dall'azione e che hanno il minimo legame con essa. È nata così l'abitudine di processare alti comandanti e figure politiche per incidenti di cui in molti casi erano completamente all'oscuro. Qui si entra molto rapidamente nella palude dei giudizi morali e persino linguistici soggettivi, sul significato di "responsabilità" e "controllo".
Un primo esempio è stato il generale Stanislav Galic, il comandante delle forze serbo-bosniache che assediavano Sarajevo tra il 1992 e il 1995. Ma Galic non è stato accusato di aver ordinato tali incidenti, bensì di aver omesso di prevenire, indagare e punire i responsabili. La sua argomentazione è stata che, essendo responsabile di circa 15.000 truppe distribuite su molti chilometri, aveva fatto quello che poteva, ma non poteva essere ovunque contemporaneamente. L'accusa sostenne che non aveva fatto abbastanza e, con sorpresa generale, i giudici furono d'accordo. Come spesso accade, la sentenza è stata tanto politica quanto giuridica, poiché i giudici si sono ovviamente sentiti obbligati a individuare una sorta di sacrificio rituale per il danno così pubblicamente inflitto alla città durante la guerra, anche se probabilmente non erano consapevoli di farlo. Ma alla fine questi giudizi sono irrimediabilmente soggettivi e un altro gruppo di giudici avrebbe potuto liberare Galic, a parità di prove.
Logicamente, anche i capi di Stato non sono stati risparmiati, anche se, come nel caso del processo (non ancora concluso) al leader serbo Slobodan Milosevic, la legge è stata generalmente distorta in modo tale che l'accusa non debba provare che l'accusato abbia ordinato i crimini o che ne fosse a conoscenza, ma solo che era membro di un gruppo, alcuni dei cui membri avevano influenza su coloro che si ritiene abbiano commesso i crimini. Questo approccio è stato utilizzato con successo contro Charles Taylor, il Presidente liberiano, anche se per crimini commessi nella vicina Sierra Leone, e senza successo contro Laurent Gbagbo, il precedente Presidente della Costa d'Avorio. (I gruppi per i diritti umani hanno condannato la sua assoluzione, non perché Gbagbo fosse effettivamente colpevole, ma perché la sua assoluzione avrebbe turbato i suoi critici). Ma alla fine, ogni verdetto sarebbe potuto andare nella direzione opposta con altri gruppi di giudici: erano nella posizione di non esperti di diritto tributario chiamati a decidere se l'ammontare delle tasse pagate da un miliardario fosse "giusto" o meno.
Il discorso liberale prevalente sul conflitto è quindi una miscela scomoda e poco attraente di isteria morale normativa e concetti giuridici tecnici semisconosciuti, che spiega il modo incoerente e spesso incomprensibile in cui i conflitti vengono riportati e commentati. Peggio ancora, influisce anche sul modo in cui i governi occidentali vedono le opzioni di gestione della crisi e del conflitto stesso. Ad esempio, i governi occidentali non riescono a capire che ciò che dicono sui combattimenti di Gaza non interessa ad Hamas, i cui obiettivi politici e propagandistici sono altrove, e per di più interessa molto poco al Sud globale in generale. In effetti, l'incapacità dell'Occidente di comprendere la realtà dei conflitti e delle atrocità, la sua riluttanza a imparare e l'insistenza nel cercare di imporre a gran voce la sua miscela di spacconate morali e di pignoleria legale lo escludono praticamente come attore credibile.
Non è che queste cose siano poi così difficili da capire. Sappiamo molto, grazie all'osservazione diretta, su come nascono i conflitti e come avvengono le atrocità. La sintesi più breve possibile direbbe che in genere si verificano perché le persone si sentono giustificate ad agire in quel modo - anche se non hanno scelta - e di solito perché hanno paura. Un approccio, naturalmente, potrebbe essere quello di chiedere alle persone e ai gruppi violenti perché sono violenti, piuttosto che impegnarsi in un astratto ragionamento induttivo e normativo. Ma spesso questo produce risultati deludenti, in contrasto con i pregiudizi politici esistenti.
Una persona che ha fatto esattamente questo è stato lo psichiatra americano James Gilligan, che ha lavorato per molti anni con i criminali più violenti. In una serie di libri, ha illustrato fino a che punto i criminali violenti cercavano di contrastare le minacce che sentivano per il loro amor proprio, e persino per la loro stessa esistenza, e si sentivano giustificati persino a commettere un omicidio. Non è difficile vedere questa logica operare anche a un livello superiore: poche nazioni o gruppi armati si sono mai sentiti segretamente ingiustificati in ciò che fanno. Molti sostengono di non avere scelta e di essere obbligati a prendere le armi per riparare a torti intollerabili. Si tende a liquidare queste affermazioni come semplice retorica, ma è chiaro che c'è dell'altro. È legata al concetto di "proteggere il nostro popolo", già visto in precedenza, ed è spesso formulata in termini di autodifesa riluttante. Un caso ben noto è quello di Eugene de Kock, noto ai media come "Prime Evil" per il suo ruolo negli squadroni della morte dell'apartheid, che ha sostenuto in tribunale e nei media non solo che le sue atrocità erano giustificate ("o noi o loro") ma che, omicidi a parte, aveva cercato di imporre ai suoi uomini elevati standard morali. In realtà, se c'è un'unica immagine di sé che emerge da questi orribili incidenti, è quella di un gruppo, o addirittura di una popolazione, costretta con riluttanza a compiere gli atti più terribili, contro la propria inclinazione, perché non ha scelta se vuole sopravvivere. L'esempio più stridente si trova, ancora una volta, nel Terzo Reich, dove chiunque si faccia strada nell'immensa e approfondita biografia di Heinrich Himmler di Peter Longerich ha l'impressione di un individuo perbenista e moralista, ossessionato dalla creazione di una nuova classe cavalleresca la cui sfida era in qualche modo quella di rimanere "decente", anche dopo aver compiuto le azioni più terribili che si potessero immaginare: azioni imposte al popolo tedesco perché "o noi o loro", e che solo i più forti e i più onorevoli avevano la tempra mentale per compiere.
Il discorso "o noi o loro", ovviamente, ha come punto di partenza la paura, e la paura è una componente importante nell'avvento della guerra e del conflitto. La paura che se non uccido il mio rivale, lui o lei mi ucciderà. Paura della minoranza circondata dalla maggioranza. Paura della maggioranza con una minoranza al suo interno. Paura che le minoranze si coalizzino contro di voi, magari orchestrate da un potere esterno. Paura che l'Altro voglia vendicarsi per ciò che gli avete fatto l'ultima volta. Paura che l'Altro faccia quello che ha fatto a voi l'ultima volta, ma peggio. Paura che il più debole diventi abbastanza forte da sfidarvi. Paura che il più forte attacchi solo perché è più forte. In queste circostanze, l'unica soluzione è quella di colpire per primi e più duramente Solo quando avrete completamente spazzato via il nemico potrete essere sicuri che non ci sarà mai più una minaccia, come sosteneva Catone il Vecchio a proposito di Cartagine.
Non c'è molto che si possa fare per scacciare la paura: gli scambi di orchestre giovanili e i gemellaggi tra città non bastano. Anche quarant'anni di gentilezza e riconciliazione obbligatoria nella Jugoslavia del dopoguerra, spesso a colpi di pistola, sono crollati nel giro di pochi mesi in una situazione in cui tutti erano improvvisamente una minoranza e tutti dovevano fare i conti con un passato spaventoso e brutale anche per gli standard della regione. Perciò non compare molto nella letteratura sulla risoluzione dei conflitti, perché la mente liberale trova la paura, come tutte le emozioni, difficile da gestire. E per definizione, ovviamente, io non posso capire le tue paure nei miei confronti e tu non puoi capire le mie paure nei tuoi confronti. Come motivo, essa affiora occasionalmente nel discorso, ad esempio nell'infinito e terrificante conflitto tra i contadini hutu e l'aristocrazia tutsi in Africa orientale. Ahmed Ould-Abdallah, rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Burundi all'epoca della crisi ruandese, commentò una volta che il problema principale che aveva con i leader politici di quel Paese era che erano tutti terrorizzati l'uno dall'altro e ogni volta che stringeva loro la mano, i loro palmi erano bagnati dalla paura. Concludeva che il Paese non aveva bisogno di forze di pace, ma di psichiatri.
Ma naturalmente hanno continuato a ricevere i peacekeepers, perché è quello che sappiamo fare. L'accettazione dell'importanza della paura e del senso di giustificazione è fatale per il discorso attualmente dominante del conflitto e dell'atrocità, anche se è necessario per comprendere la realtà. Queste persone (lo Stato Islamico, Hamas, il Battaglione Azov) non possono essere serie. Non possono pensare che ciò che fanno sia giustificato. Ma lo fanno, e finché cercheremo di imporre il nostro modello inetto e grottesco di condanna morale e di minacce legali ai mali del mondo, dovremo rassegnarci ad avere uno scarso impatto. L'alternativa - l'accettazione del fatto che alcuni problemi sono semplicemente insolubili e che, nel migliore dei casi, possono essere solo gestiti - è normativamente impossibile da accettare per una società liberale e impicciona. Ma forse non dipende da noi ancora per molto.
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Quasi 120 anni fa Einstein pubblicò la formula E=mc²
Quel 27 settembre in cui Einstein annunciò che E=mc². Il 27 settembre 1905 Albert Einstein pubblicò un articolo sulla rivista Annalen der Physik, con il titolo Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt abhängig?, ovvero “La massa inerziale di un corpo dipende dalla sua energia?”. Questo articolo era destinato a cambiare radicalmente la concezione dello spaziotempo degli scienziati dell’epoca: in esso, infatti, Einstein presentò per la prima volta la celebre equazione E=mc², una delle formule più iconiche e importanti nella storia della scienza. Nell’articolo, Einstein esaminava le implicazioni della teoria della relatività ristretta, che aveva sviluppato quell’anno. La formula E=mc² rappresenta l’equivalenza tra massa e energia. In altre parole, essa suggerisce che la massa di un oggetto è direttamente proporzionale alla sua energia. Questo concetto rivoluzionario implicava che la massa poteva essere convertita completamente in energia, e viceversa. Einstein dimostrò che la teoria newtoniana della meccanica doveva essere riveduta e ampliata, per tener conto di questi nuovi concetti. Una scoperta che non fu accettata facilmente dalla comunità scientifica, ma che dopo le prime corrispondenze sperimentali, cambiò per sempre la comprensione del mondo fisico. E aprì la strada a sviluppi significativi nella fisica teorica, nell’applicazione pratica dell’equazione nella produzione di energia nucleare ed energia atomica, e nella comprensione della struttura dell’Universo.
Prima pagina dell’articolo “Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt abhängig?” di Albert Einstein pubblicato il 27 settembre 1905 nella rivista Annalen der Physik. Credits: Einstein 1905 Da dove arrivò l’illuminazione? Einstein dedusse l’equazione E=mc² attraverso un ragionamento basato su una serie di principi fondamentali della teoria della relatività ristretta, che aveva sviluppato nel 1905. Questa teoria rivoluzionaria si basava su due assiomi principali: 1. Il principio della relatività. Einstein postulò che le leggi della fisica sono le stesse per tutti gli osservatori in moto uniforme, indipendentemente dalla loro velocità. Questo significa che non esiste un sistema di riferimento privilegiato e che le leggi fisiche devono essere coerenti in tutti i contesti. 2. La costanza della velocità della luce. Einstein propose che la velocità della luce nel vuoto (c) è costante e indipendente dalla velocità dell’osservatore. Questo era in contrasto con la concezione newtoniana dello spazio e del tempo, in cui si assumeva che la luce viaggiasse con velocità infinita rispetto a un osservatore in movimento. Partendo da questi due assiomi, Einstein iniziò a esaminare le trasformazioni di Lorentz, che descrivono come le grandezze fisiche, come il tempo e la lunghezza, si modificano quando si passa da un sistema di riferimento inerziale all’altro. Durante questo processo, lo scienziato si rese conto che l’energia (E) di un sistema fisico e la sua massa (m) dovevano essere in qualche modo interconnesse per soddisfare la costanza della velocità della luce.
Einstein dimostrò che l’energia di un corpo in movimento doveva includere una contribuzione legata alla sua massa. Questo veniva perfettamente riassunto dalla formula E=mc², dove c rappresenta la velocità della luce. Perché quest’equazione è così importante? L’equazione E=mc² è di fondamentale importanza per la comprensione del cosmo, della sua struttura e delle leggi che lo governano, perché sottolinea una connessione profonda tra materia ed energia, che di fatto sono tutto ciò che costituisce l’Universo. Innanzitutto, il concetto espresso dalla formula è alla base della comprensione di come l’Universo si sia formato dopo il Big Bang. Durante quest’evento infatti, enormi quantità di energia si sono convertite in materia, creando protoni, neutroni ed elettroni, che alla fine hanno formato gli atomi e, in seguito, le stelle e le galassie. Nella fisica delle particelle invece, l’equazione è cruciale per comprendere il comportamento delle particelle subatomiche. E=mc² spiega come la massa di una particella possa essere convertita in energia (e viceversa), permettendo la comprensione delle reazioni nucleari e della creazione di particelle in acceleratori di particelle. Ma anche della fissione nucleare, utilizzata nelle centrali e nelle armi nucleari. La conversione di piccole quantità di massa in enormi quantità di energia è il principio fondamentale di tali processi.
Diagramma di funzionamento del processo di fissione nucleare. In ambito cosmologico invece, l’equazione contribuisce alla teoria dell’energia oscura, una misteriosa forma di energia che sembra guidare l’espansione accelerata dell’Universo. Questa equazione sottolinea come energia e massa siano intrinsecamente legate, influenzando la struttura e l’evoluzione dell’Universo stesso. Ma non tutti accettarono subito la teoria di Einstein… Quando Einstein pubblicò il suo articolo quel giorno di fine settembre del 1905, il concetto da lui espresso non fu immediatamente accettato da tutti gli scienziati, in particolar modo per le sue implicazioni. Quella teoria rappresentava una sfida significativa alle concezioni tradizionali della fisica, e molti scienziati erano scettici o cauti nell’accettare queste idee innovative. Il concetto più controverso all’epoca era la costanza della velocità della luce nel vuoto, come postulato dalla teoria della relatività. Questa idea era in netto contrasto con la fisica classica di Newton, che considerava lo spazio e il tempo come entità assolute e la velocità della luce come influenzata dal movimento dell’osservatore. La teoria di Einstein sostituì queste concezioni con un nuovo quadro in cui lo spazio e il tempo erano relativi e la velocità della luce rimaneva costante. Ci vollero anni di esperimenti e osservazioni prima che le idee di Einstein fossero ampiamente accettate dalla comunità scientifica. Tra i primi sostenitori della teoria della relatività ristretta ci fu il fisico Max Planck, che notò la validità delle previsioni di Einstein riguardo all’effetto fotoelettrico. Tuttavia, fu solo nel corso degli anni successivi, quando altre conferme sperimentali cominciarono a emergere, che la teoria di Einstein guadagnò gradualmente accettazione. E ora, anche se ancora molto resta da capire, è uno dei fondamenti più importanti alla base della fisica e dell’astrofisica moderne. Read the full article
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Nel 1931 l’americano di origine austroungarica Kurt Gödel pubblicò “Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia mathematica e di sistemi affini”, dove enunciava quello che sarebbe diventato noto come teorema di Gödel.
Il teorema dimostra l’incompletezza sintattica dei sistemi assiomatici matematici, cioè l’impossibilità di dimostrare alcune proposizioni e il loro contrario dall’interno del sistema. Gödel dimostrò in pratica che un sistema matematico, cioè un insieme di assiomi (proposizioni di partenza) e dei teoremi da essi derivati, non può essere allo stesso tempo completo e corretto. In altre parole un sistema matematico che non contiene errori deve avere almeno una affermazione sulla cui correttezza il sistema stesso non può decidere. Inoltre il teorema dimostra che la coerenza del sistema non è dimostrabile con il linguaggio del sistema stesso.
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sostituisci "matematici" con " discorsivi" e il risultato non cambia: Godel rivoluzionario.
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