#artificioso
Explore tagged Tumblr posts
Text
SOLE NUOVO
Ingobbite rette e cerchi discontinuisoppesano la saggezza dell’omeroin un artificioso transitoal di fuori della normalità.Si concatenano presuppostidi grande portatariferiti a improvvisi eventiintinti in scorie profonde.E in quel primitivo nubifragiooltre un senso d’ossigeno leggeroopposto al pensieronasce inaspettataun’escalation di vita nuovasul davanzale di ciclamini sbocciatinel volteggio…
View On WordPress
0 notes
Text

E in questo mondo così artificioso, dove anziché saper custodire, impari a cancellare ogni giorno qualcosa, lei continua a credere che i gatti ci sanno fare con gli incantesimi e che sia possibile mimetizzarsi con l'aria, con i muri, con le lanterne e i lucernari.
Davydbox
55 notes
·
View notes
Text
Miles de opciones
Quería escribir aquí un ensayo un poco extenso sobre las consideraciones un tanto irreales y llenas de ilusión que algunas personas que se dedican al arte tienen sobre las herramientas o los elementos que conforman el arte o la disciplina a la que se quieren acercar. Como pueden ver es tan imprecisa mi afirmación que desde ahí debo darme cuenta de que lo que afirmaría en tal ensayo caería pronto en el error por desacierto.
Así que pronto me corrijo para puntualizar mejor lo que quiero decir.
Como lo mencioné esta es una apreciación que yo quise hacer generalizada, pero debo reconocer que simplemente es mía, y que la seguiré escribiendo con la esperanza de que le sirva a alguien que tenga sensaciones errantes como estas.
Aquí, pues, quería hablar sobre el temor que tenemos ante los diversos lienzos que cada una de nuestras disciplinas necesita para concretarse. Utilizo la palabra lienzo de la manera más amplia posible para que se me vaya entendiendo lo que quiero decir. Lienzo es el que necesita el pintor para pintar, lienzo es el escenario que necesita el dramaturgo para que se expresen sus personajes; lienzo es la hoja de papel (ahora la pantalla) que el escritor irá llenando con sus palabras; lienzo es el pentagrama, el sensor o la película, el mármol... Creo que ya quedó entendido.
Enfoquémonos ahorita sobre el quehacer del intérprete musical (será fácil extrapolarlo a cualquier disciplina, ya lo verán). Vayamos a los primeros años de mi juventud cuando la música folclórica sudamericana era para mí muy atractiva y quería yo reproducir esos sonidos. Yo creía (recuerden que hablo de mi caso particular) que el ejecutar alguna melodía en mi sonora quena necesitaba muchos más agujeros de los que físicamente tenía ese material que conformaba mi instrumento musical (o los límites izquierdo y derecho de mi armónica, recordando otro caso). Quedaba un tanto desencantado de esos límites para reproducir tan largas melodías que escuchaba ejecutadas por los grandes maestros. ¿Cómo es posible que se limite la cosa a los seis agujeritos de mi quena, seis cuerdas y los 19 trastes de la guitarra o las 88 teclas de un piano? ¿Cómo es posible que con esos límites se puedan reproducir El cóndor pasa, El concierto de Aranjuez, Para Elisa? No es posible, tiene que haber algo más.
Y aquí es cuando nuestra sed de infinito se ve decepcionada. Ciertamente hay que aceptar que existen ciertos límites para la creación cualquiera. Hay algunas personas que creen que lo verdaderamente importante es coquetear con múltiples elementos (muchos más de los que realmente están disponibles de antemano) para terminar construyendo una obra de importancia galáctica. Les parecerá imposible a algunos estas consideraciones sobre la negación de los límites, pero, ciertamente, he visto en múltiples ocasiones a personas recurriendo a la multiplicidad incontrolada para la elaboración de sus obras (ya sean artísticas, ya didácticas o administrativas).
Termino emitiendo, pues, este sencillo, pero importante consejo que deberíamos hacer a los incipientes y novísimos aficionados a las artes. Hay que aceptar los elementos limitados de nuestro respectivo lienzo para el desarrollo múltiple de nuestras posibilidades frente al arte que queremos desarrollar. Tal vez a muchos no les sirva este pequeño descubrimiento que hice para mí mismo y que yo mismo me daría en los inicios de mi vida como escritor y poeta, pero creo muy importante tener en consciencia tales limitaciones en primer lugar para luego terminar reconociendo que con ellas podemos hacer universos infinitos mucho más sólidos y concretos dentro de sus límites que aquellos amorfos y artificiosos que terminarán muertos antes de nacer.
8 notes
·
View notes
Text

Il Padrino Parte II
Per incarnare il personaggio di Don Corleone con tanta accuratezza, De Niro si recò in Sicilia e vi risiedette per un periodo per imparare la lingua italiana con il dialetto siciliano, finché non padroneggiò il personaggio e lo interpretò.
Realisticamente, senza essere troppo artificioso.
Questa non è stata solo la sfida più importante per De Niro, ma la sfida più grande è stata quella di trovare lo stesso tono di voce rauco con cui parlava.
Ha Marlon Brando nella prima parte. E De Niro ci è andato davvero vicino
Lo ha detto in un modo che corrispondeva a quel tono, e lo ha detto bene in un modo che ha stupito tutti coloro che hanno visto il film, rendendolo ampiamente meritevole di un Oscar per il suo ruolo, e Vito Corleone immortala quel tono.
Il personaggio iconico della storia del cinema
Globalismo.
33 notes
·
View notes
Text
"Temo di stare per esplodere, Lloyd"
"E allora esploda, sir"
"Ma così ferirò chi mi sta vicino..."
"Basta trasformare l'esplosione in un fuoco artificiale, sir"
"Per scoppiare lontano da tutti?"
"Per illuminare anche un periodo buio in maniera sorprendente, sir"
"A volte le esplosioni emotive possono essere utili, Lloyd"
"Solo per chi è artificiere e non artificioso, sir"
4 notes
·
View notes
Text
Finito il secondo libro di Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, e la tesi è proprio quella espressa nella citazione di cui sotto, e cioè che le scuole non insegnano la vita ma un artificioso chiacchiericcio sulla cultura che diventa la cultura stessa. È dunque possibile una scuola maestra di vita? A giudicare da tutte le scuole venute dopo Nietzsche si direbbe proprio di no, se non al massimo maestra di una vita intesa come preparazione a "l'inserimento professionale", che è poi la grande foglia di fico che nasconde l'assoluta insipienza delle istituzioni scolastiche, di tutti gli ordini e gradi (polli, polli di allevamento siamo, nella grande batteria della civiltà della tecnica).
4 notes
·
View notes
Text
"Temo di stare per esplodere, Lloyd"
"E allora esploda, sir"
"Ma così ferirò chi mi sta vicino..."
"Basta trasformare l'esplosione in un fuoco artificiale, sir"
"Per scoppiare lontano da tutti?"
"Per illuminare anche un periodo buio in maniera sorprendente, sir"
"A volte le esplosioni emotive possono essere utili, Lloyd"
"Solo per chi è artificiere e non artificioso, sir"
🦖
10 notes
·
View notes
Text
È tutto così artificioso e perfetto che mi viene da urlare, perché io sono imperfetto ed umano ma non puoi darlo a vedere dato che il vero non si vende bene.
8 notes
·
View notes
Photo



SENSI DELL’ARTE - di Gianpiero Menniti
TRACCE DI MONDO
Egon Schiele (1890 - 1918) è uno dei molti artisti banalmente interpretati da una critica “patografica” che riduce la libertà d’espressione a riflesso della psiche. Così, quest’originale e geniale pittore è stato inteso alla luce delle sue presunte turbe di uomo irrisolto, ossessionato dalle pulsioni, immerso in una soggettività patologica. Ha ragione Massimo Recalcati: letta in quest’ottica, l’arte diventa misera cosa. Ma qui, la sua critica a un forzato psicologismo e la sua visione dell’inconscio dell’opera, proposta d’origine lacaniana, non è sufficiente: conduce fino a una soglia e non l’attraversa. Non può varcarla. Scrive Lacan:
«Il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione. Il reale non coincide con la realtà poiché la realtà tende a essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – «inemendabile» – del reale.»
La sensibilità, estrema, di un artista, corrisponde alla sua capacità di scorgere oltre la realtà delle cose: la sua personalità altro non è che l’espressione di un’epoca intrecciata con una storia personale, crogiolo vivente di molteplici fonti, variamente assorbite, costitutive di una dimensione culturale e sentimentale, infine stagliate su una tela. Anche se l’interpretazione artistica fosse cosciente, questo non implica l’emergere di stati profondi nei quali fonti misteriose abbiano messo radici. Scrivo nel mio “Sarà dipingere!”:
«L’urto lacaniano è un risveglio che tende ad annullare lo scenario artificioso dell’io: questo risveglio non è più una forma che riflette il soggetto ma un apparire concreto e insormontabile che in un tratto di colore o in un oggetto o in un luogo, rifondano la percezione, la svuotano per fare spazio all’imprevedibile.»
Proseguendo, nello stesso testo aggiungo:
«La parola manca. Ma non all’arte. Che possiede il fragore di un fulmine muto. Non risponde alla domanda. Ma rende “visibile” il “pensabile”. Un pensabile vagheggiato nel processo creativo e che, poi, all’improvviso, appare. Ed ecco la ragione di un inconscio dell’opera che trascende l’autore. Di qui, il motivo per il quale un’opera d’arte, un dipinto, una poesia, è un enigma che non si lascia mai spiegare fino in fondo, ma può solo essere compreso, solo interpretato. Entro un limite invalicabile. Come il punto ombelicale di un sogno che lo stesso Freud volle risarcire di una muta barriera che nessun acume può violare.»
Se tutto questo è vero, allora neanche Schiele, pur conducendo l’osservatore sul culmine della soglia, può accompagnarlo oltre. Ma lo lascia attonito al cospetto di una visione sostenibile per tracce: “Il cieco”, tela del 1913 (collezione privata) recupera una rappresentazione simbolica di straordinaria inventiva: la figura di un essere umano senza la vista intorno al quale sorge l’immaginario infinito della sua mente, la proiezione di forme create dal tatto, dall’odorato, dal gusto, dall’udito. Immagini interpretate, vissute come analogia di memorie conservate, intrise di una sensualità più acuta, di una percezione più complessa. Tracce di mondo. Di un mondo nascosto. Impetuose e tragiche per l’anelito a una visione impossibile. “Il cieco” reclina il capo. Come ciascuno di noi di fronte alla soglia che ci separa dal mistero.
- In copertina: Maria Casalanguida, “Nulla dies sine linea”, 2010, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#arte#arte contemporanea#Egon Schiele#jacques lacan#massimo recalcati#sigmund freud
17 notes
·
View notes
Text
1917
Un film di Sam Mendes, con George MacKay, Dean-Charles Chapman, Mark Strong, Andrew Scott, Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Richard Madden.
«Questa guerra può finire solo in un modo: vince chi sopravvive!»
Il genere bellico, che solitamente trae infinite ispirazioni dal secondo conflitto mondiale, si arricchisce di un nuovo kolossal ispirato invece alla prima Grande Guerra: in 1917, il regista e sceneggiatore premio Oscar Sam Mendes (American Beauty, Road to Perdition, Skyfall) si ispira ai racconti del nonno Alfred, che era stato messaggero tra i campi di battaglia, per comporre il suo imponente affresco storico.
La trama è semplicissima: il 6 aprile del 1917 due giovani soldati in trincea vengono svegliati e condotti davanti ad un generale, ricevono l'ordine di portare a mano un messaggio ad un altro battaglione inglese, all’altro capo del fronte occidentale, per impedire che venga sferrato un nuovo attacco contro i tedeschi.
I nemici infatti hanno fatto credere di ritirarsi, ma le foto aeree in possesso del generale svelano che si tratta di una trappola per attirare le truppe alleate nelle loro linee rafforzate.
Per impedire il massacro i due ragazzi hanno poche ore per avvisare i commilitoni e salvare la vita di milleseicento soldati, incluso il fratello del soldato Blake, e per farlo dovranno farsi strada tra trincee abbandonate, la letale terra di nessuno, e la distruzione che i tedeschi si sono lasciati alle spalle.
Roger Deakins è il direttore della fotografia che ci ha incantato con le suggestioni futuristico-decadenti di Blade Runner 2049, per le quali ha ricevuto un meritatissimo Oscar, ma allestendo fin dal primo stadio produttivo questo set a fianco del regista a mio parere si supera, realizzando visioni ancora più evocative, che colpiscono e lasciano a bocca aperta.
C’è una sequenza notturna in cui uno dei protagonisti fugge dagli spari attraverso un villaggio in rovina, illuminato soltanto dai razzi segnalatori che attraversano il buio uno dopo l’altro, creando una fitta foresta di ombre che ha un qualcosa di onirico e incantevole.
Ma la sfida tecnica più grande di 1917, l'aspetto che attira maggiormente l'attenzione sul lavoro di Deakins e di Mendes, è il voler far sembrare l’intero film come un ininterrotto piano sequenza di due ore senza tagli nè cambi d'inquadratura.
Dico "sembrare" perché logicamente i cut sono presenti eccome, ma sono abilmente cuciti e mascherati digitalmente in modo da non interrompere quasi mai l'imponente esperienza immersiva a cui questa pellicola ci sottopone.
La sua lavorazione dev’essere stata oltremodo impegnativa perché, come nel teatro, l’ambiente che i soldati percorrono e la sceneggiatura risultano essere in assoluta sintonia, non vi sono artifici narrativi che intervengono ad alleviare la complessità di questa coreografia.
E 1917 è quasi tutto girato in esterni: la ricostruzione dei paesaggi è accuratissima, la campagna francese straziata dal primo conflitto mondiale è stata ricreata tra Inghilterra e Scozia, e anche i costumi dei soldati, sottoposti a tutte le intemperie del caso, sono perfetti.
Molti altri grandi autori, da Orson Welles a Inarritu, passando per Hitchcock, si sono cimentati in gloriosi piano sequenza ininterrotti, ma l’intuizione di Sam Mendes impone a questa vicenda bellica un effetto realistico rispetto al tradizionale montaggio con tagli e cambi di inquadratura.
Qui la cinepresa segue i protagonisti passo passo lungo il loro cammino, immergendosi con loro in acqua o sorvolandoli appena, girando loro attorno per precederli: sì ha proprio l'impressione di essere lì insieme a loro, nell’inferno dei campi di battaglia.
Ho letto che alcuni critici definiscono 1917 un film freddo, interessato solo ai virtuosismi tecnici, e parlano di "estetica da videogame", perché per molti passaggi la telecamera è dietro un soldato che cammina, ma non so cosa abbiano visto questi signori, io ho trovato emozioni forti e proprio nulla mi è sembrato artificioso o forzato.
Un pò come in Dunkirk di Christopher Nolan, a cui questa pellicola somiglia sotto più aspetti, la maestria tecnica è al servizio dell'intensa narrazione e serve ad alimentare una continua e costante tensione, sempre presente come il pericolo che minaccia i due messaggeri.
Sappiamo volutamente pochissimo del taciturno protagonista Schofield (George MacKay) e dell’altro soldato chiacchierone Blake (Dean-Charles Chapman) se non che quest'ultimo è personalmente motivato a completare la missione perché il fratello maggiore fa parte del reggimento che sta per partire all'attacco; si ha l’impressione di ritrovarsi a seguire due giovani sconosciuti attraverso l’inferno.
1917 è una delle ragioni per cui lo spettacolo del grande cinema non cederà mai del tutto il passo all'intrattenimento casalingo: questo film è da vedere assolutamente sul grande schermo, anzi ci vorrebbe anche nelle nostre città il formato IMAX per apprezzare fino in fondo la profondità di ogni trincea, villaggio in rovina, prato o bosco che i nostri soldati attraversano.
Merita infine di essere menzionato il resto del cast, o meglio, di comparse eccellenti composte da volti noti del cinema inglese come Colin Firth, Andrew Scott e Benedict Cumberbatch che spuntano all’improvviso facendo esclamare lo spettatore per la sorpresa, anche se rimangono sullo schermo per pochi istanti.

#cinema#movie night#classic film#1917 movie#1917 film#1917 (2019)#sam mendes#colin firth#andrew scott#benedict cumberbatch#george mackay#first world war#prima guerra mondiale#recensionefilm#movie review#film review#film#filmdiguerra#war movies
0 notes
Text
✅ Il diniego di accesso agli incentivi per impianti a FER non rappresenta un provvedimento sanzionatorio, bensì una constatazione della mancanza dei requisiti soggettivi o oggettivi per ottenere le agevolazioni
🧑⚖️ Lo chiarisce il TAR
0 notes
Text
L’amore fisico mi piace, te ne sarai accorto. Ma il motivo per cui mi piace non sta nel brivido con cui ci inebria e ci consegna all’oblio.
Sta nella compagnia che ci regala e con la quale ci rincuora, nel conforto che proviamo a possedere un corpo da cui si è attratti: unire il nostro corpo a quel corpo, sentircelo dentro ed addosso.
Alcuni sostengono che l’amore fisico non è che un mezzo per procreare, continuare la specie, ma si sbagliano di grosso… No, l’amore fisico è assai più d’un mezzo per continuare la specie.
È un mezzo per parlare, comunicare, farsi compagnia.
È un discorso fatto con la pelle anziché con le parole.
E, finché dura, niente strappa alla solitudine quanto la sua materialità.
Niente riempie e arricchisce quanto la sua tangibilità.
Però è anche la più potente droga che esista, la più grossa fabbrica di illusioni e di equivoci che la natura ci abbia fornito.
La droga, appunto, dell’oblio.
L’illusione che l’oblio duri per sempre.
L’equivoco di venir amati con l’anima di chi ci ama esclusivamente col corpo, di chi per egoismo o paura rifiuta le assolutezze dell’amore, preferisce il falso succedaneo dell’amicizia.
Il tuo caso.
In che modo me ne sono accorta? Caro, eccettuata la notte in cui mi spiegasti che l’universo finirà per autodistruggersi perché l’entropia è uguale alla costante di Boltzmann moltiplicata per il logaritmo naturale delle probabilità di distribuzione, con le parole ci siamo detti poco io e te. Col corpo, invece, ci siamo detti molto, ed io non ho perso una sillaba di quel che dicevi.
Il nostro non è che un contatto epidermico, dicevi, un esercizio di sesso, un’appagante ginnastica, un dialogo fra sordomuti. Non mi basta, dicevi, preferisco l’amicizia.
Peccato che tu non abbia udito neanche una sillaba di ciò che dicevo io.
L’amicizia non può rimpiazzare l’amore, dicevo.
L’amicizia è un ripiego effimero, artificioso, e spesso una menzogna.
Non aspettarti mai dall’amicizia i miracoli che l’amore produce: gli amici non possono sostituire l’amore.
Non possono strappare alla solitudine, riempire il vuoto, offrire quel tipo di compagnia.
Hanno la propria vita, gli amici, i propri amori. Sono un’entità indipendente, estranea, una presenza transitoria e soprattutto priva di obblighi.
Riescono ad essere amici dei tuoi nemici, gli amici.
Vanno e vengono quando gli pare o gli serve, e si dimenticano facilmente di te: non te ne sei accorto?
Oh, andando promettono montagne. Magari in buona fede.
Conta-su-di-me, rivolgiti-a-me, chiama-me. Però, se li chiami, nella maggior parte dei casi non li trovi.
Se li trovi, hanno qualche impegno inderogabile e non vengono.
Se vengono, al posto delle montagne ti portano una manciata di ghiaia: gli avanzi, le briciole di se stessi.
E tu fai la medesima cosa con loro.
No, a me non basta l’amicizia.
Io ho bisogno di amore.
Oriana Fallaci – tratto da Insciallah
4 notes
·
View notes
Text
ok opinioni finali sulle canzoni
disclaimer: non seguo il festival, mi vado ad ascoltare le canzoni su spotify versione studio
archiviate come QUELLE BELLE
Shablo ft Guè, Joshua, Tormento - La Mia Parola. Obiettivamente l'unica bella del festival, E' UNA STREET SONG, snobbatissima perché gli unici che seguono il Festival di Sanremo e votano sono i boomer e le bimbeminchia
Willie Peyote - Grazie ma no grazie. Mio malgrado
Rocco Hunt - Mille volte ancora. VIVA NAPOLI. Non chissà che capolavoro ma almeno bella gasata e orecchiabile.
Maria Tomba - Goodbye. Ripete il suo nome tipo Elettra Lamorghini, divertentissimo stacchetto mezzo lirico, ignorantissima. Adoro. AH, ma è quella del pigiama di X Factor??
Joan Thiele - Eco. Caruccia, la voce c'è, balladdosa ma senza farmi venire troppo il sangue alle ginocchia
archiviate come PERPLESSA
Brunori Sas - L'albero delle noci. Ha tutte le basi per piacermi, però bho. Non convinta
Bresh - La tana del granchio. Non lo conosco ma da questa canzone mi pare che voglia presentarsi come ispirato al cantautorato italiano degli anni d'oro, peccato che questo genere risulti inascoltabile con tutto quell'autotune artificioso da trapper.
Vale LP, Lil Jolie - Dimmi tu quando sei pronto per fare l'amore. Messaggio confuso che secondo me non funziona
archiviate come TORMENTONI DELL'ESTATE 2025 (A MALINCUORE)
Coma_Cose - CUORICINI. Piango già all'idea di beccarmela in ogni bar per i prossimi 7 mesi
Gaia - CHIAMO IO CHIAMI TU. Letteralmente potrebbe essere Annalisa o la Mango o Elodie o qualunque altra
Rose Villain - fuorilegge. Uguale a qualsiasi altra
The Kolors - TU CON CHI FAI L'AMORE. La tormentone più tormentone di tutte
Serena Brancale - ANEMA E CORE. Tipo Mambo Salentino incontra Amore e Capoeira. Comunque il tema di questo Sanremo è che abbiamo finito le idee
CLARA - FEBBRE.
Sarah Toscano - Amarcord. L'unica Amarcord che riconosco
Marcella Bella - Pelle diamante. Tormentone che non diventerà un tormentone
archiviate come LAGNE GIA' SENTITE
Tutte le altre ma andiamole ad elencare: Balorda Nostalgia (Olly), BATTITO (Fedez che ce l'ha con l'ex moglie), LA CURA PER ME (Giorgia... porcoddio che è sta monnezza), Incoscienti Giovani (Achille Lauro), Volevo essere un duro (Lucio Corsi, dispiace per lui ma proprio non mi piace), Dimenticarsi alle 7 (Elodie. un giorno lo troverò uno che saprà scrivere qualcosa di buono per una delle più grandi interpreti contemporanee italiane), DAMME NA MANO (Tony Effe, vabbè, no comment che sennò divento cattiva), Il ritmo delle cose (Rkomi), Lentamente (Irama), Se t'innamori muori (Noemi. Dove stanno gli scrittori di Per tutta la vita?), Quando sarai piccola (Simone Cristicchi e i Martiri delle Foibe), Fango in Paradiso (Francesca Michielin), Non ti dimentico (Modà. Giuro che questa è una cover), Viva la vita (Francesco Gabbani. Lo ammetto, non l'ho ascoltata), Tra le mani un cuore (Massimo Ranieri. RIP), VERTEBRE (SETTEMBRE), Rockstar (Alex Wyse)
0 notes
Text
"Temo di stare per esplodere, Lloyd"
"E allora esploda, sir"
"Ma così ferirò chi mi sta vicino..."
"Basta trasformare l'esplosione in un fuoco artificiale, sir"
"Per scoppiare lontano da tutti?"
"Per illuminare anche un periodo buio in maniera sorprendente, sir"
"A volte le esplosioni emotive possono essere utili, Lloyd"
"Solo per chi è artificiere e non artificioso, sir"
6 notes
·
View notes
Text
Guillaume Faye: Historia de las ideas o las diferencias de Faye.
Por Nils Wegner
Traducción de Juan Gabriel Caro Rivera
En el número de otoño de la reaccionaria revista trimestral austriaca Abendland, el antiguo radical de izquierdas y actual periodista alemán católico-conservador Werner Olles publicó un elogio a Guillaume Faye disfrazado de reseña de un libro completamente distinto. Nils Wegner, autor de la editorial alternativa de derechas Jungeuropa escribió la siguiente corrección a varios puntos de ese panegírico de Faye, que fue rechazado por la revista y posteriormente publicado en el sitio web de Jungeuropa.
El interés que ha suscitado el entorno de la derecha extraparlamentaria desde 2015 ha llevado a un rejuvenecimiento, pero también a una mayor difusión de «la derecha». E incluso después de casi 80 años no se puede discernir una «línea general».
Esto hace que la lucha por los términos y las interpretaciones sea aún más valiosa para «nuestro» análisis de la situación. Apreciar este incesante proceso de perfeccionamiento y estrechamiento de la realidad es probablemente el objetivo de las maniobras críticas escritas por el veterano autor de «escena» Werner Olles con su «entrañable modestia» (1). En sucesión irregular, estas críticas utilizan una sutil autoironía para amonestar el «despellejamiento» de las mentes conservadoras, el «psicodrama populista de derechas» o, más recientemente, una «rueda de hámster de ilusiones» en la que se está gastando «la Nueva Derecha». Ahora bien, Olles pertenece a ese grupo cada vez más reducido de autores en cuyo currículum figuran años de libelo de la izquierda radical y de superación de la misma, como Günter Maschke, fallecido el año pasado, y conoce bien la importancia de la crítica y la autocrítica como «medios de orientación evidentes» (2) desde su paso por la izquierda. No obstante, su última contribución a una serie de textos está formulada de forma un tanto ambigua, por lo que es de esperar que no fracase en su reconocible buena intención de animar a la próxima generación de jóvenes teóricos políticos de derechas, en este caso concreto Benedikt Kaiser, Jungeuropa Verlag y el título La convergencia de las crisis.
De la espalda al ojo, pasando por el pecho
Pues lo que Werner Olles nos presenta en realidad en su aparente reseña de un libro después de tres párrafos sobre el tema es alrededor de una página impresa de las presiones de la Europa actual, seguida de una denuncia de la «Nueva Derecha» como insensible ante los temores de los «ciudadanos mayores» sobre la infiltración extranjera y, por último, la promoción de la vida y obra del periodista francés Guillaume Faye (1949-2019). Pasamos de la tematización de una dádiva teórica orientada a la realpolitik a una fantasía neorreaccionaria que surgió literalmente como la superestructura de un cuento de ciencia ficción (3).
Ahora bien, esto es casi un error de categoría parecido al proverbio de «comparar manzanas con peras». Al fin y al cabo, el escrito de Faye sobre la «convergencia de las catástrofes» (4) al que se refiere Olles no sólo no está disponible en alemán, sino que fue publicado en francés bajo el seudónimo de Guillaume Corvus en 2004 a petición del editor parisino de entonces y, por lo tanto, procede de un mundo casi totalmente distinto al nuestro. Esto se expresa, por ejemplo, en la predicción de un empeoramiento de la propagación mundial del VIH, que no se materializó.
Los frentes innecesariamente artificiosos de «Kaiser contra Faye» y abiertamente de «viejos contra jóvenes» perjudican a todos los implicados, incluido el lector, cuya ganancia de conocimiento es desgraciadamente limitada. Sin embargo, el hecho de que Olles celebre a un veterano pensador del inconformismo europeo no izquierdista y sugiera su lectura no es en absoluto una acusación. Al fin y al cabo, todos nos apoyamos en los proverbiales hombros de gigantes, y menos mal, ya que la rueda de la visión del mundo realmente no necesita ser reinventada. De su época en Fráncfort como chófer de Karl Dietrich «KD» Wolff, presidente de la Asociación de Estudiantes Socialistas Alemanes, el propio Werner Olles guarda, al parecer, recuerdos especialmente gratos del principal teórico de allí, Hans-Jürgen «HJ» Krahl – a juzgar por las necrológicas que escribió –, pero, comprensiblemente, no tanto de sus propios postulados «¡[p]or la victoria final de la revolución mundial!» (5).
El «caso Guillaume Faye»
Al igual que Olles, Guillaume Faye comenzó (1970-1986) como un «radical» – y no «cofundador» (Olles) – del Groupement de Recherche et d'Études pour la Civilisation Européenne (GRECE), fundado en 1968, el semillero que los hostiles medios de comunicación dominantes franceses bautizaron como (6) la Nouvelle Droite («Nueva Derecha»), donde como autor y conferenciante logró establecerse como el segundo gran teórico después del fundador del GRECE, Alain de Benoist. Sin embargo, lo que poco se conoce o se olvida rápidamente en este contexto es que el rápido ascenso del joven Faye se debió en gran medida a su condición de protegido del periodista italiano Giorgio Locchi (1923-1992), una éminence grise del primer GRECE, cuya exégesis de Nietzsche y veneración de la antigüedad sentaron las bases de todos los escritos importantes de Faye, especialmente los del último Faye (7). Aparte de la influencia de Locchi, los tratados teóricos de Faye – en realidad no tan originales como piensa Olles – se apoyaban totalmente en la mezcla habitual del GRECE de pensadores clásicos antiliberales (Carl Schmitt, Martin Heidegger, Julien Freund ... ) con izquierdistas no dogmáticos (como Guy Debord, Gilles Deleuze o el historiador estadounidense Christopher Lasch, que pasó del neomarxismo al conservadorismo cultural), que estudiantes tardíos del GRECE como el ruso Alexander Dugin siguen utilizando hoy en día. En aquella época, Faye era tan vehementemente antiamericano como antisionista y acogió con satisfacción la Revolución Islámica de Irán en 1979.
Con este telón de fondo, la abrupta salida de Faye del GRECE en 1986, incluido su inmediato distanciamiento y sus airadas críticas al GRECE y concretamente a Benoist como persona, parece involuntariamente cómica. En cualquier caso, está claro que no es cierto que el GRECE «se disolviera efectivamente en 1986», como Olles parece haber postulado inadvertidamente. Sigue existiendo hoy en día y ha desempeñado un papel importante en la creación de organizaciones jóvenes exitosas, la más destacada de las cuales es el Instituto Iliade, fundado en 2014. Es cierto que, tras una audaz y espectacularmente fallida iniciativa de entrada – en otoño de 1978, el periodista amigo Louis Pauwels nombró a algunos funcionarios del GRECE miembros del consejo editorial de la recién fundada revista Le Figaro como contrapeso al liberal de izquierda Nouvel Observateur, que había inspirado a la prensa dominante, hasta entonces distanciada e interesada, a lanzar furibundos ataques contra la «nueva derecha», ahora denunciada como neonazis hábilmente disfrazados (8) – a partir de principios de 1980 se produjo un movimiento general para expulsar a los «arribistas» del GRECE. Faye, antaño uno de los más vehementes defensores del concepto de metapolítica basado en las enseñanzas de Antonio Gramsci – es decir, la búsqueda a largo plazo de la «hegemonía cultural» – lo encontró refutado por la realidad y, en consecuencia, se distanció de la «Nueva Derecha» en su conjunto, cuyo rasgo constitutivo es el objetivo metapolítico (y no el distanciamiento de los decorados «nacionalsocialistas») (9).
Factor de modelo cuestionable
Mientras que Faye y otros esperaban ganarse la vida en el Frente Nacional de Jean-Marie Le Pen, de Benoist, como cara pública de la organización, se distanciaba cada vez más de este mismo partido y de su líder, al que siempre había considerado un idiota y al que llamaba explícitamente así. La ruptura con los «arribistas» estaba por lo tanto preprogramada, incluidas las recriminaciones mutuas.
Sin embargo, a Faye también se le negó una carrera en el partido debido a sus conocidas posiciones radicales, que fueron el verdadero trasfondo de su rechazo público de toda política y su giro de 180 grados en 1986. A esto siguió una inmersión enérgica en la corriente cultural dominante y pasó los diez años siguientes como animador en la emisora de radio de hip-hop Skyrock y en la televisión de desayunos France 2, como periodista de prensa sensacionalista (que, desde un punto de vista decididamente anticristiano y neopagano, abogaba a menudo por una mayor visibilidad de los homosexuales y transexuales, especialmente entre los adolescentes) y – según su propia declaración – como actor porno (10). La «arrogancia e ignorancia» de la que Olles acusa a Benedikt Kaiser en particular y a «la mayoría de la “Nueva Derecha”» en general hacia el «extraordinario erudito» Faye, al que promociona, se convierte en una sana desconfianza de cantonistas inseguros con esta necesaria contextualización.
Esta cabeza encontró entonces un nuevo colchón justo a tiempo para el «fin del fin de la historia», el giro occidental liderado por Estados Unidos contra la esfera de influencia árabe, con La Colonisation de l'Europe, que condujo a una nueva y definitiva ruptura con Benoist y el GRECE debido a su biologismo. Posteriormente intentó erigirse en ideólogo principal de la asociación cultural «Terre et Peuple» (círculo de renegados del GRECE y del Frente Nacional); en este contexto se publicó su ensayo sobre la «convergencia de las catástrofes». Sin embargo, Faye se hizo tan impopular allí con La Nouvelle Question juive («La nueva cuestión judía») en 2007 que a partir de entonces sólo publicó como autor solitario. Las pruebas anecdóticas, con razón, no valen gran cosa, pero es elocuente que Karlheinz Weißmann – probado experto en la Nouvelle Droite y compañero de autor de Werner Olles en Junge Freiheit, que probablemente no sea sospechoso de parcialidad – me preguntara en Schnellroda en otoño de 2013, debido a un malentendido, si yo había asistido realmente a una conferencia de Faye porque lo consideraba un «completo loco».
El largo sueño del imperio
Con este telón de fondo, la caracterización que hace Olles de Faye como «el verdadero padre del “Movimiento Identitario”» acaba por cortar sin necesidad toda la rama de la tradición del «Movimiento Identitario» histórico. Su función como concientización de la comprensión europea de la identidad no residía en una visión completamente nueva, sino en un refrito «renovado» -según un popular meme – y de lo que ya se había establecido en medio siglo antes por los pensadores de la “vieja derecha”.
En efecto, mientras Werner Olles seguía publicando la revista anarquista berlinesa agit 883 con el llamamiento a «morder a los fascistas» (13), estos últimos, por su parte, llevaban mucho tiempo preocupados por la reorganización geopolítica del mundo, que Olles presenta desgraciadamente de forma engañosa como una idea de Faye, «esbozos[] visionarios de ideas [de] una teoría de la contrarrevolución»: ya en 1964, el emprendedor belga Jean-François Thiriart había publicado su manifiesto Un empire de 400 millions d'hommes l'Europe (14) , en el que proyectaba un imperio «euro-soviético» «de Dublín a Vladivostok». Era una frase tan pegadiza que Alexander Dugin, que trabajó con Thiriart hacia el final de su vida y al parecer tomó muchas cosas de él, la abordó en detalle en su obra de 1997 Основы геополитики («Fundamentos de geopolítica»). Es una coincidencia realmente memorable que este libro, que marcó el inicio del giro periodístico de Dugin, alejándose del «nacionalbolchevismo» y acercándose al «eurasianismo», se publicara sólo unos meses antes que L'Archéofuturisme de Faye, el cual trabaja temáticas muy similares. Es aún más notable que en su texto Olles establezca instintivamente la conexión entre Faye como epígono de Thiriart y la hija de Dugin, Daria.
Thiriart, por su parte, estaba fuertemente influido por el misterioso filósofo cultural estadounidense neospengleriano Francis Parker Yockey (15), que ya había desarrollado una crítica contra todo nacionalismo mezquino, que podría ser fácilmente dominado por el poder estadounidense y soviético en 1948 (¡!) en su libro fundamental Imperium, publicado bajo seudónimo, incluido su tono apocalíptico: “La única esperanza de éxito reside en la amplitud y minuciosidad del primer paso, el triunfo de la idea de imperio en las mentes formadas. Entonces ningún poder dentro de la civilización podrá resistirse a la reunificación cultural que unirá al Norte con el Sur, a los teutones con los latinos, a los protestantes con los católicos, a Prusia, Inglaterra, España, Italia y Francia para enfrentar grandes desafíos”. La edición alemana está desgraciadamente muy abreviada y sólo tiene valor museístico.
En los doce años siguientes, hasta su muerte no natural, Yockey se esforzó por participar en animadas, pero en última instancia en gran medida inútiles, actividades internacionales de creación de redes entre diversas organizaciones de una «Tercera Vía» dentro de la confrontación de bloques. A través de sus estrechos contactos con el Sozialistischen Reichspartei y el Deutsche Reichspartei, sus ideas convergieron con el trabajo de Thiriart en el intento de fundar un movimiento nacionalista paneuropeo. El legado intelectual de estos llamados eurofascistas fue similar a la notoria y deliberadamente provocativa declaración posterior de Alain de Benoist: «Algunas personas no pueden hacerse a la idea de tener que llevar algún día la gorra del Ejército Rojo. Ciertamente, no es una perspectiva agradable para el futuro. Pero no toleramos la idea de tener que vivir los días que nos quedan en Brooklyn a base de hamburguesas». Esto fue escrito en el contexto de que un sometimiento soviético violento podría alimentar el espíritu de resistencia y promover el renacimiento de Europa, mientras que el veneno liberal occidental del consumo acabaría por corroerlo todo: «Toda dictadura es vil, toda caída es aún más vil. La dictadura puede matarnos mañana individualmente. Pero la caída destruye nuestras posibilidades de supervivencia como pueblo» (16).
Una vieja historia
La conclusión es que toda la disputa fraternal dentro de la derecha está demostrando una vez más ser, en pocas palabras, una disputa entre culturalistas y esencialistas (a través del vector de la «conectividad») (17). Es probable que esto siga siendo así por el momento, aunque los frentes endurecidos se están licuando rápidamente frente a fenómenos globales como las guerras de Ucrania y Gaza y, nota bene, a favor de la convergencia de crisis en lugar de la convergencia de catástrofes. El debate interno en el seno del entorno de las derechas merece librarse a cara descubierta en lugar de con hombres de paja y lágrimas de cocodrilo sobre la supuesta insensibilidad hacia los mayores extranjeros. Tampoco está de más posponerlo para más adelante. Porque, en palabras de Günter Maschke, bien conocido por Olles: «No porque no haya diferencias [¡sic!], sino porque lo reclaman las personas equivocadas y, además, no se hace ante los oídos del enemigo común» (18). El problema tiene ya décadas, así que está por ver cuándo se pondrá fin a este círculo vicioso de disputas, esperemos que pronto.
Notas:
1. Siegfried Bublies: « Werner Olles zum 80. Geburtstag: ein sozialpatriotischer, ein sanfter Reaktionär», wir-selbst.com, 12 de septiembre de 2022. ︎
2. Lorenz Erren, »Selbstkritik« und Schuldbekenntnis. Kommunikation und Herrschaft unter Stalin (1917–1953), Múnich 2008, p. 146. ︎
3. Cf. Guillaume Faye, Archeofuturism. European Visions of the Post-Catastrophic Age, Londres 2010, p. 57. En consecuencia, sólo este relato – sin el adorno teórico – se tradujo al alemán. ︎
4. Cf. Guillaume Faye, Convergence of Catastrophes, Londres 2012. En general, el continuo hablar de catástrofes por parte de Faye desde finales de 1990 como requisito básico para la idea chilástica de redención que propagaba representa la versión máxima de la «mentalidad del Día X», cuyo determinismo critica muy acertadamente Benedikt Kaiser en su libro y del que se distancia regularmente de forma expresa, por ejemplo, el representante «identitario» Martin Sellner. ︎
5. Werner Olles: «keine amnestie für die justiz»; en agit 883 62/1970, p. 14. ︎
6. De hecho, la gran tragedia de esta difusa escuela de pensamiento, que desde hace tiempo se ha extendido por toda Europa y más allá, comienza con el hecho de que ella, que persistentemente se autodenomina Nouvelle École, o «Nueva Escuela» en el sentido de una salida de la dicotomía derecha-izquierda, fue etiquetada con éxito como «de derechas» desde el exterior y aceptada internamente casi sin contradicción. ︎
7. Véase la concisa valoración de Faye, Archeofuturism, p. 19, así como passim en sus otras obras tardías de finales de 1990. ︎
8. Véase, entre otros, Alain de Benoist: Mein Leben. Wege eines Denkens, Berlín 2014, pp. 176-183. Es notable hasta qué punto este proceso resultaría ser una prefiguración menos miserable de la farsa de Alemania Occidental en torno a la «Nueva Derecha Democrática» tricéfala unos 15 años más tarde, en la que los autores neoconservadores Zitelmann, Schacht y Schwilk intentaron ejercer influencia dentro del complejo editorial Axel Springer. ︎
9. El importante rechazo de las fantasías reaccionarias de una restauración de la monarquía, del imperio colonial añorado y de otras reliquias del siglo XIX, que empezaron a arraigar en Francia a principios de los años sesenta en torno al multiactivista Dominique Venner, no puede tratarse aquí. Es de esperar que el libro de Benedikt Kaiser sobre «la Nueva Derecha» y la adaptación derechista del gramscismo, anunciado para finales de 2024, aporte algunas aclaraciones. ︎
10. Cf. Stéphane François: «Guillaume Faye and Archeofuturism»; en: Mark Sedgwick (ed.): Key Thinkers of the Radical Right. Behind the New Threat to Liberal Democracy, Nueva York 2019, pp. 91-101, aquí p. 93. ︎
11. Cf. Faye: Archeofuturism, p. 56 y ss. ︎
12. Cf. Guillaume Faye, Why We Fight. Manifesto of the European Resistance, Londres 2011, p. 160 y ss. ︎
13. Werner Olles, «beisst die faschisten ...»; en: agit 883 24/1969, p. 5. ︎
14. Traducido toscamente al alemán bajo el difícil título Eine Weltmacht von 400 Millionen Menschen: Europa. Die Geburt der europäischen Nation durch eine gesamteuropäische Partei, Bruselas 1964. ︎
15. Cf. Kerry Bolton: Yockey. A Fascist Odyssey, Londres 2018, pp. 557-566, y Kevin Coogan: Dreamer of the Day. Francis Parker Yockey and the Postwar Fascist International, Nueva York 1999, pp. 541-551. Si no quieren fiarse del análisis de un anarquista como Coogan, pueden leer a un santo pilar del tradicionalismo que tematizó y criticó la idea de Europa de Yockey y Thiriart ya en 1953, la cual es rescatada por Faye y Dugin; véase Julius Evola: Menschen inmitten von Ruinen, Tubinga, Zúrich y París 1991, pp. 374-387. ︎
16. Ambas citas del libro de Alain de Benoist: Die entscheidenden Jahre. Zur Erkennung des Hauptfeindes, Tubinga 1982, p. 87 y ss. ︎
17. Para aclarar éste y otros malentendidos, la anunciada reseña de François Bousquet: Alain de Benoist à l'endroit. Un demi-siècle de Nouvelle Droite, París 2023, ayudará. ︎
18. Günter Maschke: “Mit der Jugend damals wurde diskutiert” en Junge Freiheit de 25 de agosto de 2000, p. 3. ︎
Fuente: https://podcast.jungeuropa.de/guillaume-faye-ideenhistorie/
0 notes
Text
§ 3.686. Nosferatu, vampiro de la noche (Werner Herzog, 1979)
DOMINGO, 9 DE FEBRERO DE 2025

Me ha gustado mucho. Tiene ese punto artesanal que gusta uanto en la película inglesas. Parece una edición cuidada por un productor británico.. Los encuadres y los planos son ortodoxos, sencillos y naturales, nada artificiosos.
Los actores parece muy compenetrados. Sobre todo Klaus Kinski y su desquicie mental, al borde del consumo de drogas tóxicas automáticas y la revelación social con armas de destrucción masiva. El un actor que ya de por sí provoca miedo, aversión, asco. Para estos papeles de demente peligroso, enfermo mental y asesino psicópata funciona a la perfección. Su caracterización está muy lograda, con el tono de piel blanquecina, las uñas afiladas, los ojos inyectados en sangre, las orejas y los dientes desmedidamente desproporcionados. Encorvado, flaco, espigado, apestoso, con la lengua fuera. Verdaderamente brillante.
Le acompaña un jovencísimo Bruno Ganz que está espléndido. Sobrio, sereno, apocado y algo frio. Pero con el transcurso de la película va cogiendo temperatura, calor, razón de ser.
. La chica es Isabelle Adjani, que parece tan frágil y delicada que tiende a considerarse de carácter enfermizo.
Supongo que la cinta está a medio camino entre el homenaje a Mornau por parte del director, la admiración por su técnica y el impacto monstruoso que causó en la cultura europea en general y alemana en particular tanto la novela como la película original.
Me han gustado mucho las escenas a campo abierto y la música (compuesta por un grupo musical llamado Popol Vuh), moderna pero muy bien ensamblada en la dinámica del miedo que pretende la película. Utiliza los sonidos habituales (aullidos, viento, estridencias, etc.) para provocar la sensación de incertidumbre, desasosiego, maldad. Muy lograda.
Recuero bien la original, lo larga que era y cómo pasa en un suspiro. Pero esta cinta no le va a la zaga, tiene recorrido y se expresa muy bien. Me parece que el remake es tan buena película como su original.
Me ha parecido una película verdaderamente brillante.
0 notes