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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
ARTE STORIA DELLO STILE
Roberto Longhi, piemontese di Alba, classe 1890, è stato uno dei più pregevoli critici d'arte italiani.
Per alcuni, il maggiore.
Non faccio classifiche.
Ricordo solamente il suo concetto del fare artistico:
«[...] l'arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione individuale di essa [...] Mentre il poeta trasfigura per via di linguaggio l'essenza psicologica della realtà, il pittore ne trasfigura l'essenza visiva: il sentire per l'artista figurativo non è altro che il vedere e il suo stile, cioè l'arte sua, si costruisce tutto quanto sugli elementi lirici della sua visione.»
Così affermava nella sua "Breve ma veridica storia della pittura italiana", effetto di un compendio proposto da Longhi, tra il 1913 e il 1914, per i maturandi dei licei romani "Tasso" e "Visconti".
Era un giovane laureato.
Ma tenne quell'impostazione per tutta la vita: l'arte nasce dall'arte.
Ed è dunque storia dello stile, o meglio degli stili.
Difficile tenere quel modello concettuale entro solidi margini nella creatività caotica dell'arte contemporanea.
A maggior ragione per chi come me sostiene che l'atto lirico non sia individuale e originale libertà ma il riflesso di una cultura che fa traccia nel tempo facendo del corpo dell'artista il suo strumento espressivo.
Eppure, quando osservo i cosiddetti "illustratori", tra XIX e XX secolo (tra i quali è annoverato Toulouse-Lautrec) che per me sono artisti senza alcuna limitazione, mi sento additato dalle parole di Longhi come in un invalicabile atto d'accusa.
René Gruau, al secolo Renato Zavagli Ricciardelli delle Caminate, riminese dalla nascita avvenuta nel 1909, è tra quelli che più di altri mi mettono in crisi.
Ma che, paradossalmente, concorre a salvare la mia tesi.
Infatti, mentre la sorprendente sintesi stilistica dell'artista italiano attraversa il '900 in un raffinato allungarsi e diffondersi di figure dalla strepitosa e diafana eleganza, corroborando la sentenza longhiana sulla traccia lirica come epicentro dell'arte, quelle apparizioni affascinanti altro non sono che l'espressione dell'estetica del secolo, punto di convergenza delle necessarie concatenazioni causali capaci di rendere riconoscibile il gusto per modelli rappresentativi inequivocabili: rammentano la stampa quotidiana e periodica, la pubblicità, il cinema, la moda di quegli anni ruggenti e tragici, disseminati di straripante follia ed estro creativo.
L'arte emerge dalla vita concreta delle società e dalla grafia delle loro visioni culturali.
Nondimeno, sono un tuffo nel passato recente, con una proiezione nel presente e nel futuro: la linea di Longhi mai spezzata nel suo farsi storico.
Dal fondo, emerge l'essere umano, illuso della libertà e immemore del destino di finitezza assegnata ai confini invalicabili di tempo e di spazio.
Che costui disegna nel colore di un'agognata dimenticanza.
- Le immagini sono un'antologia di espressioni figurative di René Gruau sparse lungo tutto il XX secolo.
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Venerdì 15 dicembre alle ore 18.00 sarà inaugurata a Roma, presso le Case Romane del Celio, uno dei luoghi più affascinanti della Roma sotterranea (Via Clivo di Scauro adiacente piazza Santi Giovanni e Paolo), a cura di Romina Guidelli e Tanja Mattucci, la mostra “MATER MATERIA” di Carola Masini e Patrizia Molinari. Ideata e organizzata da CoopCulture, l’esposizione vuole essere motivo di un confronto concettuale tra due artiste, dedite entrambe all'uso della materia come strumento comunicativo. Dalle sculture/installazioni in vetro lucente della Molinari alla calda terracotta usata dalla Masini per le sue opere, la MATERIA è assoluta protagonista dell'evento, elemento creativo vivo e pulsante: MATER. Le opere, attentamente selezionate o create appositamente per il sito, si integrano armoniosamente nell'ambiente, tratto distintivo di ispirazione per entrambe le artiste. “La scelta di portare il progetto espositivo MATERIA MATER nella Case Romane del Celio risponde profondamente alla nostra continua e accurata ricerca di occasioni sempre nuove da proporre ai visitatori, affinché possano fruire di luoghi della cultura, così intimamente legati alla storia e al patrimonio archeologico della Roma antica, anche in momenti di incontro tra arte classica e arte contemporanea” dichiara Letizia Casuccio, direttrice generale di CoopCulture, una delle più grandi cooperative italiane operanti nei servizi per i beni culturali e nella valorizzazione integrata dei territori. “Le potenti opere delle Maestre si offrono al contempo come delicatissime ma profonde impronte contemporanee che attraversano la maestosa architettura delle Case Romane del Celio - spiega la curatrice Romina Guidelli - Accolte nelle antiche mura del Museo, testimoni di una straordinaria Roma velata, amplificano le percezioni della memoria e il senso del tatto diviene impulso evocato come invito alla creazione, all'evoluzione, al rispetto e alla conservazione della Storia e delle Arti nel Tempo”. Carola Masini, che vive e lavora a Pomezia, è titolare di cattedra di Discipline Plastiche presso il Liceo Artistico di Pomezia. Si è diplomata all’Accademia delle Belle Arti di Roma nella sezione di scultura. La sua ricerca è incentrata soprattutto sulla scultura, sulla pittura e sulle arti visuali in genere privilegiando l’uso di materiali poveri e di recupero. Patrizia Molinari vive e lavora a Roma. E’ nata a Senigallia nel 1948 Laureata in Lettere all’Università di Bologna, ha conseguito il Corso di specializzazione in Storia dell’Arte all’Università di Urbino, è Professore Emerito di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti dal 1976, Membro del Comitato d’onore della Fondazione Dià Cultura e Membro della Commissione Nazionale A.O.N.I. Le Case, o Domus, Romane del Celio, sottostanti la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, tra il Colosseo e il Circo Massimo, sono state aperte al pubblico nel 2002. Note anche come la “casa dei martiri Giovanni e Paolo”, racchiudono oltre quattro secoli di storia e testimoniano il passaggio e la convivenza tra paganesimo e cristianesimo. I vasti ambienti interni, in origine botteghe e magazzini di un edifico popolare a più piani (insula), furono infatti trasformati nel corso del III sec. d.C. in un’elegante domus. Qui è possibile ammirare alcuni tra gli affreschi più belli di età tardo-antica. Le Case sono di proprietà del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno. La mostra, dal giorno successivo all'inaugurazione (ingresso gratuito), è visitabile fino al 15 gennaio 2024 con biglietto di ingresso (Intero € 8.00 | Ridotto € 6.00, nei giorni: lunedì, mercoledì, venerdì, sabato, domenica e festivi dalle ore 10.00 alle ore 16.00) La biglietteria chiude un’ora prima. Chiusura: martedì e giovedì non festivi.
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Fondatore del dadaismo, sapete chi è?
Il fondatore del dadaismo, sapete chi è? Per saperlo non c'è certamente bisogno di essere grandi esperti di storia dell'arte ma in quanto sanno effettivamente chi sia? Andiamo, allora, alla sua scoperta tramite questo piccolo viaggio nel mondo dell'arte. Cos'è il dadaismo? Il Dadaismo è stato un movimento artistico e culturale che ha avuto origine a Zurigo, in Svizzera, durante la prima guerra mondiale. Il Dadaismo era caratterizzato da un forte senso di anarchia, irriverenza e provocazione, e si opponeva alle tradizioni artistiche e culturali del passato. Gli artisti Dada cercavano di creare opere d'arte che fossero completamente prive di senso, usando collage, assemblaggi e altre tecniche che rifiutavano la logica e la razionalità. Le loro opere erano spesso irriverenti e provocatorie, e si rivolgevano alle emozioni e ai sentimenti più che alla ragione. Il Dadaismo ha esercitato una grande influenza sull'arte e la cultura del XX secolo, e ha ispirato numerosi movimenti artistici successivi, tra cui il Surrealismo, l'Arte Concettuale e il Fluxus. Chi è il fondatore del dadaismo? Non c'è un unico fondatore del Dadaismo, poiché il movimento è nato da una serie di incontri e collaborazioni tra artisti e intellettuali di diverse nazionalità. Tuttavia, si può dire che il Dadaismo abbia avuto origine a Zurigo, in Svizzera, durante la prima guerra mondiale, dove un gruppo di artisti e poeti, tra cui Tristan Tzara, Jean Arp, Hugo Ball e Marcel Janco, iniziò a incontrarsi in un locale chiamato Cabaret Voltaire per discutere di arte, cultura e politica. Questi artisti erano uniti dal desiderio di sfidare e rovesciare le convenzioni artistiche e culturali esistenti, e di creare un nuovo movimento artistico che fosse completamente libero dalle regole e dalle convenzioni. Il nome "Dada" è stato scelto casualmente da un dizionario, e non ha un significato specifico, ma è diventato il simbolo di questo movimento artistico rivoluzionario e irriverente. Chi fu il massimo esponente? Tzara è stato uno dei fondatori del Dadaismo a Zurigo nel 1916, ed è stato uno dei suoi principali promotori e teorici. Era noto per la sua creatività e la sua abilità nel manipolare il linguaggio e le parole per creare poesie che erano assurde, contraddittorie e prive di senso. Tzara ha inoltre svolto un ruolo importante nella diffusione del Dadaismo in altri paesi europei, come la Francia e l'Italia, dove ha collaborato con altri artisti e intellettuali per creare opere e spettacoli dadaisti. Ha scritto inoltre numerosi saggi e manifesti sul Dadaismo, contribuendo a definire e diffondere i principi del movimento. Nonostante Tzara sia stato uno dei membri più noti del Dadaismo, è importante sottolineare che il movimento era caratterizzato dall'assenza di una figura guida o di un leader riconosciuto, e si basava invece sulla collaborazione e l'interazione tra i vari artisti e intellettuali coinvolti. Foto di Gerd Altmann da Pixabay Read the full article
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I can remember when this artwork meant a lot to me, as a contemporary art historian, and - I thought - to Culture and the World alike. But History itself proved me wrong; this work matters mostly within the conceptual framework of (a certain) Art History, a pretty narrow frame at that.
Ricordo bene quando quest'opera d'arte era importantissima per me, in quanto storico dell'arte contemporanea, e - pensavo - ugualmente per la Cultura e per il Mondo. Tuttavia la Storia stessa mi ha dato torto; questo lavoro ha senso prevalentemente nel contesto concettuale di (una certa) Storia dell'Arte: contesto piuttosto angusto, tra l'altro.
(A.)
Kazimir Malevich, Suprematist Composition: White on White, 1918 (Oil on canvas, 79.4 x 79.4 cm)
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141
141 - Un secolo di disegno in Italia
Bologna, Palazzo Paltroni, dal 13 aprile al 24 giugno 2021
Inaugurazione 10 aprile
141 - Un secolo di disegno in Italia è il titolo della grande mostra antologica promossa e organizzata dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, che indaga le evoluzioni del segno in cento anni di arte italiana con opere su carta di 141 artisti dalle Avanguardie Storiche ai giorni nostri.
Dal 13 aprile al 24 giugno nelle sale espositive della Fondazione, in Via Donzelle 2 a Bologna, il pubblico potrà intraprendere un viaggio davvero unico, lungo oltre un secolo, nella storia del disegno italiano tra le opere di artisti straordinari, selezionate una ad una dai curatori Maura Pozzati e Claudio Musso, per offrire – a partire da un disegno del 1909 di Boccioni fino ad opere del 2020 – uno spaccato delle infinite possibilità offerte da una tecnica antica che, anche in questa occasione, non manca di rivelare la sua incredibile attualità. L’ingresso è gratuito ma, nel rispetto delle norme vigenti a tutela della salute pubblica, è necessaria la prenotazione (fondazionedelmonte.it).
Con questo percorso espositivo, frutto di una rete di collaborazioni tra archivi, gallerie, collezionisti privati e artisti, Fondazione del Monte sostiene gli artisti, che tanto contribuiscono alla ricchezza del nostro patrimonio culturale, e riapre le porte al pubblico nella ferma convinzione che la cultura sia un bene primario per il benessere della collettività.
Nella lista degli artisti in mostra compaiono figure di spicco dei principali movimenti e delle più innovative tendenze del XX secolo: dal Futurismo alla Metafisica, dall’Informale alla Nuova Figurazione passando per la Pop Art, dall’Arte povera al Concettuale. Allo stesso tempo, attraverso l’eterogeneo panorama delle singole ricerche, sono incluse le svariate tecniche dell’arte contemporanea dalla pittura alla scultura, dalla performance ai nuovi media, unite dal denominatore comune del disegno.
Come sostiene Maura Pozzati nel suo testo Le mani pensano quando disegnano: «questa mostra su un secolo di disegno in Italia in fondo è un omaggio a chi ama il disegno, a chi si fa emozionare dal segno, a chi ricerca nell’arte la traccia di una espressione libera, di una energia accumulata, di un pensiero ossessivo».
«Il disegno - spiega Claudio Musso - come il linguaggio, è materia viva, pulsante, brulicante di vita indipendentemente dalla data della sua creazione, tende inoltre a rigettare schemi e regole se non autoimposti e si presenta a tutti gli effetti come un processo creativo che non si esaurisce nel rapporto tra l’artista e la sua creazione, ma che viene sollecitato e riattivato da ogni singolo osservatore».
La mostra è accompagnata da un prezioso volume Corraini Edizioni, realizzato dallo Studio Filippo Nostri e pensato come una raccolta di schede organizzate in ordine di nascita in cui ai lavori sono affiancati testi degli artisti legati all’esperienza del disegnare. Oltre alle riproduzioni delle 141 opere in mostra, il catalogo raccoglie il pensiero degli autori in forma scritta affiancando ai paragrafi dedicati ai maestri tratti da libri spesso introvabili, numerosi testi inediti commissionati ai contemporanei. Concludono il tomo le riflessioni dei curatori in lingua italiana e in inglese.
Il progetto fa parte del programma istituzionale di ART CITY Bologna 2021 nell'ambito di Bologna Estate.
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L'estetica senza etica è cosmetica
Fin da bambino ho sempre avuto una particolare predisposizione per la fotografia; pensate che, benché i miei mi riempissero di attenzioni e di giocattoli, i due due “giochi” che preferivo erano la vecchia reflex e la videocamera di mio padre. Ho passato ore ed ore a giocare con questi due strumenti tanto complessi per me e allo stesso tempo tanto affascinanti, al punto che, oltre ad averli distrutti, ancora oggi quando vedo una fotocamera o una videocamera impazzisco. La fotografia... che mondo affascinante e complesso; ancora più affascinante quando diventa oggetto di una performance. L’artista di cui voglio parlare oggi è venuto a mancare da poco, e nello stesso tempo ha vissuto l’intera esistenza nell’ombra dell’ex compagna, ma, dal mio punto di vista, è stato ideatore di qualcosa di innovativo e geniale.
Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, nasce durante il secondo conflitto mondiale, sotto le bombe degli alleati, figlio di un gerarca nazista. Resta orfano precocemente rimanendo totalmente privo di legami familiari. Come molti suoi coetanei, cresce con il senso di colpa per i padri nazisti e nella tensione provocata dallo smembramento del paese, diviso in due fra territori filo-occidentali (la Germania Ovest) e filo-sovietici (la Germania Est). Vive quindi in maniera conflittuale le proprie origini, tanto da arrivare alla rinuncia del nome e della nazionalità tedesca.Alla fine degli anni sessanta l'insofferenza verso il proprio paese lo spinge ad allontanarsi, lascia la moglie e un figlio piccolo e si trasferisce ad Amsterdam, attratto dal movimento olandese Provo di ispirazione anarchica. Si iscrive alla Kölner Werkschulen di Colonia dove conosce Jürgen Klauke, artista fotografo con cui avvia una collaborazione ispirandosi ai lavori di Pierre Molinier, Hans Bellmer e Hannah Wilke. Presto Ulay inizia a provare interesse per discipline non previste nell'offerta formativa dell'università scelta, pertanto abbandona gli studi per avvicinarsi alla fotografia analogica e all'uso artistico della Polaroid. Intraprende una ricerca sulle nozioni di identità e corpo, documenta la cultura di travestiti e transessuali attraverso foto, aforismi e performance. Progressivamente l'approccio alla fotografia diventa sempre più complesso: l'espressione fotografica viene messa in stretto rapporto con la live performance come nella serie Fototot e in There is a Criminal Touch To Art, entrambe del 1976.
Lo stesso anno alla Galleria de Appel di Amsterdam conosce Marina Abramović, invitata a esibirsi per un programma televisivo dedicato alla performance; è il 30 novembre, data di nascita di entrambi. Tra i due nasce subito un'intesa artistica che sfocia in una profonda e travagliata relazione sentimentale. Realizzano insieme una serie di performances dal titolo Relation Works, una forma estrema di body art, che li porta ad esplorare i limiti della resistenza fisica e psichica. Dopo 12 anni di amore e di sodalizio artistico, decidono di lasciarsi e di sancire la fine del loro rapporto con un'ultima performance, The Wall Walk in China: entrambi percorrono a piedi tutta la grande muraglia cinese partendo dai capi opposti per incontrarsi al centro e dirsi addio. Seguono anni di ostilità e battaglie legali circa i diritti d'autore della produzione artistica: Ulay denuncia Marina per aver venduto autonomamente opere appartenenti ad entrambi. Nel settembre 2016 il giudice gli dà ragione e costringe Marina a versare 250 mila euro all'ex partner per violazione di un contratto firmato nel 1999, che regolamentava l'uso dei lavori realizzati insieme fra il 1976 e il 1988. Dopo la fine della relazione, Ulay concentra la propria attività sul mezzo fotografico affrontando il tema dell'emarginazione e ritornando su quello del nazionalismo. Nel 2009 si trasferisce da Amsterdam a Lubiana; qualche mese più tardi gli viene diagnosticato un cancro. Dopo una serie di trattamenti chemioterapici che migliorano il suo stato di salute, decide di partire con una troupe per visitare i luoghi più importanti della sua vita e incontrare compagni e amici per un ultimo saluto. Da fine 2011 la telecamera lo segue per un anno intero, dall'Istituto di Oncologia di Lubiana fino a Berlino, a New York e alla Amsterdam della sua giovinezza. Ulay tratta la malattia come il più grande e più importante progetto della sua vita, un'occasione per interrogarsi sulla natura della vita, dell'amore, della storia e dell'arte, e per raccontare la propria carriera attraverso interviste, video di archivio, fotografie e riproduzioni dei suoi principali lavori. Ne scaturisce un documentario uscito nel 2013, intitolato Project Cancer, diretto da Damjan Kozole. Durante tutta la carriera rimane fedele al proprio motto: "L'estetica senza etica è cosmetica". Preferisce lavorare senza compromessi, rigoroso e coerente, anche a costo di rimanere ai margini del mercato. Insegnava New Media Art presso l'Università di Arte e Design di Karlsruhe in Germania. Lavorava tra Amsterdam e Lubiana, città dove viveva da 10 anni. Muore il 2 marzo 2020 all'età di 76 anni a causa di un linfoma, conseguente al tumore diagnosticatogli undici anni prima.
“Senza distruzione non c’è creazione e la sua performance ne è letteralmente un esempio: creare fotografie con lo scopo di distruggerle come parte di un’opera d’arte”, scrive Noah Charney in Il museo dell’arte perduta (tr. it. Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi 2019). Da una parte Charney accosta Fototot alla scena iniziale de Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, dall’altra evoca Fototot II, remake del 2012 in cui la galleria viene immersa in un buio pesto. Opera concettuale e post-situazionista, Ulay realizza una sorta di polaroid all’inverso, un medium di cui è stato uno dei primi artisti a servirsi. Il titolo lo riprende da un film-performance di Claes Oldenburg, Fotodeath (1961, 16mm). Estate 1976. Gli spettatori sono invitati a entrare nella galleria de Appel di Amsterdam, uno spazio cieco fondato appena un anno prima. Su tre pareti, sopra la testa della ventina di spettatori, campeggiano nove fotografie in bianco e nero di 1 m x 1 m. Banale il soggetto: una persona intabarrata nel suo cappotto evolve su un viale alberato; è quanto perlomeno s’intravede nella tenue luce giallo-verde, simile a quella utilizzata in camera oscura. Quando la porta della galleria viene chiusa, si accende una lampada ad alogeno. Quello che accade lascia basiti gli spettatori: hanno appena il tempo di cogliere il soggetto che, nell’arco di 15-20 secondi, le stampe fotografiche si anneriscono e svaniscono. In questo modo fanno esperienza di quello che il titolo funereo della performance – Fototot I – promette a chiare lettere: la morte della fotografia o meglio la morte dell’oggettività fotografica, il disvelamento dell’immagine fotografica come mera illusione. Gli spettatori restano soli con queste stampe di grandi dimensioni, monocromi neri che incombono su di loro.
Valerio Hank Vitale
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D’arte si può morire facilmente. Si comincia pian piano a patire la propria solitudine nello scoprire la vacuità dei gesti pensati eroici e radicali, schiacciati dall’evidenza dell’illusione d’aver per tanto tempo vagheggiato d’esser parte di un magico universo make believe, l’illusione di credersi eroi di un mondo esclusivo ricco di senso capace di farci sentire lontani e noncuranti dei traffici e delle bassezze del quotidiano. Presto si scopre – a volerlo fare – d’essere immersi in un brodo creativo svuotato di certezze e convinzioni, orfani di pensieri guida, in anni in cui pare per sempre svaporata la favolosa e comoda èra dell’everything goes, quelle stagioni allegramente sostanziate del qualunquismo postmoderno, gli anni obliqui del tutto è arte e tutti sono artisti. Si può davvero morire per la malinconia di ritrovarsi nudi e orfani, al freddo e al gelo di una slavata waste land, attoniti a contemplare la propria confusa e faticosa avventura solitaria. Scomparsa di teorie e teorici, quelli capaci almeno di rubacchiare ancora dai polverosi armadi dell’estetica indicazioni su cui erigere progetti di una qualche sostanza, lanciare manifesti che non siano soltanto surrogati, parodie teoriche di estinte avanguardie, quelle dei tempi della preminenza di cultura, pensiero e azione. Proprio le teorie erano gesti radicali per definizione, atteggiamenti critici, irriverenti, persino contro, tabule rase spesso dai toni utopici ma generosi e capaci di rinsanguare i debilitati e confusi gesti del fare arte. Si muore perché si sa di vivere il tempo delle superchiacchiere, perché si è sommersi da cataste rovinose di oggetti eterogenei in cui volume e peso sono inversamente proporzionali al loro sapere e potere culturale. Già Marcel Duchamp nel 1964 diceva, nel suo modesto appartamento newyorchese sulla Decima Strada West a New York, a Calvin Tomkins che lo intervistava: «Una produzione cosí abbondante è veramente dannosa». Superproduzione travolgente che inquina il mondo con «la monotonia e la quantità», sentenzia Robert Hughes. Si muore a sentire l’amico Jean Baudrillard a ricordarci di stare vivendo il «grado Xerox dell’arte», il suo vanishing point, la sua totale simulazione, un’arte che «sembra non avere piú poste in gioco». Si può anche morire per la vacuità di un mestiere che ha abolito il mestiere, quel craft, quella capacità manuale e concettuale, morire anche per la scomparsa di una qualsiasi bellezza intorno, schiavi del dogma dell’indifferenza estetica dove la bellezza – ricorda Maurizio Ferraris – è un fossile fuori luogo. Mette angoscia intanto l’universo asfittico di un concettualismo d’accatto, privo di qualsiasi profondità e appeal, triste e unico tentativo di feticizzare gli oggetti come opere e del decorativismo di un’arte che «non ha piú autonomia!» Si muore senza scampo nel trovarsi condannati alla dannazione del prezzo. Fa davvero male l’impossibilità di spezzare i vincoli dittatoriali dell’Artworld quando ci chiede, con tutto l’autoritarismo di cui dispone, di apprezzare quello che qualcuno prezza senza ritegno. Ti può trafiggere l’assioma del ciò che costa vale, ti ferisce sentir dichiarare da Brett Gorvy, vicepresidente della sezione Arte Contemporanea di Christie’s: «È solo business, non storia dell’arte», o Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum of Art di New York: «L’arte è sexy, l’arte è soldi sexy arrampicata sociale fantastica». Si può morire anche al sapere che l’arte ai nostri giorni altro non è che una commodity, proprio come cacao, soia, nichel, gas naturale, maiali e tutto il resto. Ugo Nespolo - Per non morire d'arte - Einaudi
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La fotografia come forma d’arte (prima parte)
di Lorenzo Ranzato
-- il confronto fra arte e fotografia nella seconda metà dell’Ottocento
“Quando si diffuse la voce che due inventori[1] erano riusciti a fissare su lastre argentate ogni immagine posta ad esse di fronte, si produsse uno stupore generale che oggi non potremmo neppure concepire, abituati come siamo alla fotografia da un bel po’ di anni, indifferenti ormai alla sua grande diffusione”.
(Nadar, Quand j’étais photographe, 1900)
Introduzione
L’occasione per affrontare il tema della fotografia come forma d’arte, nasce dalla lettura del libro Art photography (2015) di David Bate (trad. it La fotografia d’arte, Einaudi 2018) . Il fotografo e saggista ripercorre alcuni significativi momenti della storia della fotografia con interpretazioni del tutto originali e, partendo dalla constatazione che la fotografia ha assunto oggi un ruolo centrale nell’arte e nella cultura contemporanea, ne esplora i rapporti con le diverse esperienze artistiche, dalla pittura impressionista alle avanguardie artistiche del Novecento, sino all’arte concettuale.
La fotografia “ancella” della pittura: E. Durieu 1854, E. Delacroix 1857
La sua narrazione è “tendenzialmente anacronistica”, distaccandosi dalla lettura lineare e cronologica dei tradizionali metodi della storia dell’arte e della fotografia, e “procede in modo libero in cerca di progettualità di natura artistica vicine fra loro, o avvicinabili”[2]. Questo metodo gli consente di proporre inediti accostamenti di immagini fotografiche e pittoriche della fase pionieristica e moderna con quelle di fotografi e artisti contemporanei. Ad esempio, già all’inizio del suo libro ci spiazza deliberatamente con un salto temporale di oltre tre secoli, mettendo a confronto il quadro seicentesco di Jan Vermeer, Ragazza che legge una lettera davanti alla finestra aperta, con la fotografia di Tom Hunter del 1998, Donna che legge l’ordinanza di sfratto.
Il suo metodo interpretativo fa riferimento a tre categorie, che contraddistinguono “il fotografico”[3]: categorie che possiamo riconoscere nei diversi periodi della storia della fotografia, a partire dalle invenzioni di Daguerre e Talbot per arrivare fino ai giorni nostri: il pittorialismo, il documentarismo e il concettualismo.
Il pensiero di Bate si basa sul presupposto che “l’essenza della fotografia d’arte” non è produrre somiglianze, cioè mostrare il mondo così com’è, ma piuttosto creare “dissimiglianze”. Il termine è preso a prestito dal filosofo francese Jaques Rancière[4], utilizzato per sostenere che il principale obiettivo dell’arte contemporanea è quello appunto di produrre dissimiglianze.
Non è questa la sede per approfondire la sua personale costruzione narrativa: più semplicemente, prenderemo spunto da alcune sue riflessioni per indagare quel periodo della storia della fotografia a cavallo fra Ottocento e Novecento, che inizia con la prima immagine fotografica realizzata da Niépce nel 1826/27[5] e si conclude nel 1917 con la chiusura della rivista Camera Work, fondata da Alfred Stieglitz. E’ il periodo durante il quale si afferma il pittorialismo, termine con il quale si individua la tendenza della fotografia a imitare canoni estetici propri della pittura, con lo scopo dichiarato di conferire dignità artistica alle immagini.
Nel capitolo del suo libro “La svolta del pittorialismo”, David Bate mette in luce interessanti aspetti di quella pratica fotografica, che individua con l’espressione “primo pittorialismo” (per distinguerlo dal neo-pittorialismo degli anni Ottanta); nato nella Gran Bretagna del tardo Ottocento, in breve tempo si diffonderà su scala mondiale, diventando “il primo movimento artistico realmente internazionale nell’ambito della fotografia” e contribuirà a promuovere la fotografia come autonoma espressione artistica; il suo declino inizierà negli anni Dieci del Novecento, quando la sua visione del mondo sarà definitivamente scalzata dalle idee delle avanguardie, ma resisterà ancora per decenni in diverse nazioni dove si era progressivamente affermato. E conclude, infine, constatando che quel periodo al giorno d’oggi è poco apprezzato e per lo più viene “considerato in termini negativi e non è al centro di alcuna discussione critica (con pochissime eccezioni)”[6].
Alle origini del pittorialismo: la reciproca influenza fra pittura e fotografia
Dopo la fase pionieristica caratterizzata dalle invenzioni di Daguerre (il dagherrotipo, esemplare positivo unico su lamina di metallo, presentato nel 1839 all’Accademia delle Scienze di Parigi) e Talbot (la calotipoia, processo brevettato nel 1841 e basato su un negativo, dal quale ricavare più copie di una medesima immagine), la fotografia nei decenni successivi trova una vasta diffusione sia in ambito amatoriale che professionale, affrontando tematiche che spaziano dai “panorami” ai ritratti.
L. Daguerre, Boulevard du Temple, 1838 - H. F. Talbot, Il fienile, 1842
La fotografia si afferma anche grazie alle Esposizioni Universali del XIX secolo: sia a Londra nel 1851 che a Parigi nel 1855 viene presentata una grande varietà di immagini proveniente da diverse nazioni (ma soprattutto Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti), realizzate a fini scientifici, industriali, artistici e commerciali, che consentono ai diversi fautori della fotografia di iniziare “a pronunciarsi sul valore espressivo e intrinseco del nuovo strumento”[7].
Il progresso della fotografia è senza dubbio correlato all’affermarsi del pensiero positivista e all’impetuoso avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecnologiche tipiche della seconda Rivoluzione Industriale, che gli storici collocano nel periodo compreso tra gli anni ‘50 dell’Ottocento e il 1914, con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Soprattutto grazie all’evoluzione dei dispositivi di ripresa e al continuo aggiornamento dei procedimenti di sviluppo e stampa (collodio umido, fotoincisione, gomma bicromata, gelatina d’argento) la fotografia è in grado di proporsi come una pratica innovativa, alla ricerca di una propria identità, condividendo forme di sapere a cavallo fra sperimentazioni tecnico-scientifiche ed esperienza artistica.
Ed è proprio il confronto con le tradizionali arti figurative e in particolare con la pittura che accende la discussione tra fotografi, artisti, letterati e critici d’arte sul ruolo che la fotografia deve svolgere all’interno della nascente società industriale. Il nodo cruciale da sciogliere è se debba rimanere circoscritta nell’ambito della sfera tecnica come riproduzione del visibile o se possa aspirare a uno spazio autonomo all’interno del variegato mondo della produzione artistica. In altri termini, la fotografia è soltanto un mero processo meccanico e chimico di rappresentazione del mondo, che la relega inevitabilmente alla funzione di “sorella minore dell’arte” o può acquisire anche quella capacità interpretativa della realtà e della “natura”, che le consente di ottenere un proprio riconoscimento e statuto all’interno delle arti maggiori?
Tra i critici più radicali c’è Baudelaire che definisce la fotografia un rifugio per pittori falliti, “troppo vicina alla natura e troppo lontana dall’immaginazione umana”, mentre altri considerano la fotografia come un’eterna “ancella” della pittura. Resta il fatto che in quel periodo si crea un’inevitabile e proficua interazione fra pittura e fotografia: i pittori, per creare i propri quadri, possono utilizzare le riproduzioni fotografiche, accanto o in sostituzione delle impegnative riprese dal vero, mentre la fotografia può arricchirsi apprendendo le tecniche compositive e stilistiche della pittura nei suoi diversi generi (le vedute e i paesaggi, le nature morte, l’arte del ritratto e del nudo). Non va peraltro dimenticato che molti fotografi sono anche pittori e che molti pittori nel corso della loro carriera si avvicineranno alla pratica fotografica.
La fotografia di ispirazione pittorica: la diatriba fra H. P. Robinson e P. H. Emerson
In questo contesto si afferma la cosiddetta “fotografia di ispirazione pittorica”, anche grazie alla divulgazione di libri come quello di Henry Peach Robinson, L’effetto pittorico in fotografia (1869), che illustra una serie di tecniche e metodi costituiti da “un intreccio tra arte, natura, verità e bellezza e una giusta dose di inganno in camera oscura”[8], mediante i quali creare fotografie “artistiche”.
Sempre nel capitolo “La svolta del pittorialismo”, Bate analizza la famosa fotografia di Robinson, Spegnersi (Fading Away), del 1858, costruita grazie al montaggio di cinque diversi negativi (stampa combinata), con un procedimento che è molto simile a quello del fotomontaggio novecentesco e alle recenti tecniche presenti in tutti gli attuali programmi di manipolazione digitale delle immagini.
H. P. Robinson, Spegnersi, 1858
La fotografia descrive gli ultimi istanti di vita di una giovane donna vegliata dalla madre e dalla sorella, con la figura del padre in secondo piano che volge le spalle e guarda dalla finestra il mondo esterno. La posa delle persone accuratamente studiata contribuisce a creare una “composizione armoniosa”, che vuole rappresentare “una morte dolce e bella”.
H. P. Robinson, Cappuccetto rosso, 1858
Se da un lato sono state avanzate molte critiche in riferimento alla costruzione artificiale dell’immagine (pensata come una scena teatrale) e quindi alla creazione di una falsa realtà fotografica, dall’altro non dobbiamo dimenticare - come ci ricorda David Bate - che “tali obiezioni si basano però su un fraintendimento degli ideali di bellezza che sono all’origine di questa pratica”. Ma ancor di più: con questo procedimento si legittima “la manipolazione di immagine”, addirittura la si postula “come necessaria al raggiungimento dell’effetto pittorico ideale, come lo definiva Robinson”[9].
Su posizioni antitetiche, in aperta polemica con Robinson, troviamo Peter Henry Emerson, che nel 1889 pubblica il manuale Naturalistic Photography, ben presto paragonato a una “bomba lanciata in una sala da tè”. Medico con una solida formazione scientifica e di idee progressiste, è convinto che il mezzo fotografico in quanto tale sia in grado di produrre opere di grande bellezza ed espressività, senza la necessità di interventi manipolatori. Da questo punto di vista, la sua concezione - che la scienza sia l’autentico fondamento dell'arte e della fotografia – si allinea perfettamente con quella “positivista” dello scrittore e polemista francese Émile Zola, di convinzioni repubblicane, che in modo analogo propugna l’adozione del metodo scientifico in letteratura. Diversamente dal “conservatore” Robinson che scatta fotografie con una nitidezza uniforme su tutto il campo dell’immagine, Emerson arriva a elaborare un'estetica della visione basata sulla "messa a fuoco selettiva, al pari dell’occhio umano, per rispecchiare la visione soggettiva dell’individuo”[10]. Nella sua opera Life and Landscape on the Norfolk Broads (Vita e paesaggi nei Norfolk Broads) del 1886 fotografa le condizioni e lo stile di vita dei lavoratori della terra, con un approccio naturalista che risente dell’influenza impressionista dei nuovi pittori en plain air.
P. H. Emerson, Raccolta del fieno in palude, 1885 circa
Se riprendiamo l’interrogativo che precedentemente ci eravamo posti, possiamo rilevare come le posizioni di Robinson ed Emerson rappresentino le due polarità (effetto pittorico vs. fotografia naturale) attorno alle quali ruota l’approccio pittorialista: l’artificialità dell’immagine costruita in studio opposta alla rappresentazione della terra e del lavoro, il montaggio fotografico antitetico alla “vera osservazione della natura”, fondata su presupposti scientifici, la nitidezza uniforme della fotografia che contraddice la messa a fuoco selettiva. Questi due opposti punti di vista, che rinviano all’eterno dilemma su quale valore attribuire alla fotografia, intesa come “costruzione di un significato ideale” oppure come documento oggettivo del reale, restano dialetticamente irrisolti: il movimento pittorialista non ha mai dato una risposta definitiva – afferma David Bate – e la tendenza prevalente è stata quella di “fondere e mescolare le due alternative in vari modi”[11].
Fotografie di Peter Henry Emerson
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[1]- I francesi Niépce e Daguerre.
[2]- Roberta Valtorta, “Dissimiglianza vs. somiglianza: un concetto in flashback”, recensione del libro di Bate in rivista di studi di fotografia, n.8, 2018.
[3]- David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi 2018, p.5 e 19. Con “fotografico” Bate intende “un valore visivo che precede l’invenzione stessa della fotografia” e che possiamo ritrovare, ad esempio, nei quadri dell’olandese Vermeer, ai quali “viene retrospettivamente riconosciuta una qualità visiva eminentemente fotografica”.
[4]- Il termine viene usato da Racière durante una conferenza del 2002 al Centro nazionale della fotografia di Parigi.
[5]- Vista dalla finestra a le Gras.
[6]- Bate, op. cit., p.46-47.
[7]- Juliet Hacking (a cura di), Fotografia la storia completa, Atlante 2013, p.67.
[8]- Ivi, p.160.
[9]- Bate, op. cit., p.49-50.
[10]- Ivi, p.53.
[11]- Ivi, p.54.
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Cultura: Come l’Arte può cambiare il mondo?
🇮🇹 / 🇬🇧
“Ero al Tate Modern a London city, girovagavo tra dipinti e installazioni; quando mi ritrovai in una stanza bianca e amplia sommersa di domande. Ce n’era una in particolare modo che mi ha fatto riflettere a lungo: How can Art change the world? ...Era un messaggio, era diretto a me. Da lì, mi sono sentito responsabile di dedicare la mia vita al cambiamento ed il miglioramento del pianeta.”
È una delle domande più grandi che ci vengono in mente quando pensiamo davvero, veramente al valore dell'arte: l'arte può fare la differenza? Molti movimenti nella storia dell'Arte hanno cercato di cambiare la società in un modo o nell'altro: gli artisti dadaisti sostenevano la stupidità e il comportamento senza senso nella vita quotidiana come unica risposta agli orrori della prima guerra mondiale. Fluxus ha cercato di "promuovere un'inondazione e una marea rivoluzionarie nell'arte, promuovere l'arte vivente, l'anti-arte" attraverso la sua rete di artisti internazionali. E gruppi come i Situationist International hanno svolto un ruolo importante negli eventi rivoluzionari di Parigi del 1968, esponendo le divisioni tra artisti, consumatori e mezzi di produzione. E naturalmente l'Arte può assumere la forma di protesta, affrontando questioni politiche e sociali con un'azione diretta.
"Penso che l'Arte possa cambiare la società. Non penso che sia un'opera d'arte che lo fa, penso che sia lo sforzo collettivo di artisti e istituzioni insieme."
-Bojana Janković, Sceneggiatore
Abbiamo esempi significativi di movimenti artistici che hanno lasciato la loro impronta, come ad esempio L'Arte Femminista, Il Modernismo, L'Arte concettuale. Quindi sappiamo che i movimenti artistici possono cambiare la società, ma che dire dell'Arte oggi? Ci sono opere d'arte che hanno cambiato il modo in cui pensi o provi qualcosa? Tutti questi piccoli cambiamenti possono sommarsi a qualcosa di più grande?
“La scelta è l’arma che usa l’uomo per forgiare il proprio destino. Senza dubbio la volontà è il mettere in pratica un lavoro studiato sono gli strumenti fondamentali per realizzare concretamente ciò che si desidera e cambiare realmente il mondo. -Stefano Avvenente, Designer Italiano
E tu che ne pensi? L'Arte può davvero cambiare il mondo?
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How can art change the world?
“I was at the Tate Modern in London city, wandering among paintings and installations; when I found myself in a large white room filled with questions. There was one in particular that made me think for a long time: How can Art change the world? ... It was a message, it was aimed at me. From there, I felt responsible for dedicating my life to changing and improving the planet.
"It's one of the biggest questions that comes to mind when we really, truly think about the value of art: can art make a difference? Many movements in art history have tried to change society in one way or another: Dada artists advocated for silliness and nonsensical behaviour in daily life as the only response to the horrors of the First World War. Fluxus sought to "promote a revolutionary flood and tide in art, promote living art, anti-art" through its network of international artists. And groups like the Situationist International played a major role in the revolutionary Paris events of 1968 by exposing the divisions between artists, consumers, and the means of production. And of course art can take the form of protest, addressing political and social issues with direct action.
“I do think that art can change society. I don’t think it’s one artwork that does it, I think it’s the collective effort of artists and institutions together.”
-Bojana Janković
So we know that art movements can change society, but what about art today? Are there works of art that have changed the way you think or feel about something? Can all of those small changes add up to something bigger?
"The choice is the weapon that man uses to forge his own destiny. Undoubtedly the will is to put into practice a studied work are the fundamental tools to concretely realize what you want and really change the world.”
-Stefano Avvenente, Italian Designer
What do you think? Can art really change the world?
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La mia foto “Tra cielo e mare” partecipa, con numerose altre fotografie di fotografi da tutto il mondo, a questa lodevole iniziativa di raccolta fondi. Grazie a Tiziana Ruggiero mente e cuore di questo progetto e allo staff di Welcome in Passione Foto. A questa foto si sono aggiunte nel frattempo, per gentile richiesta dell’organizzazione, altre mie foto: “Solitudine” una foto in bianco e nero del Ponte di Rialto in inverno e “L’anima fotografata” utilizzata per la copertina dell’omonimo libro di racconti scritti da Tania Piazza. Il gruppo fotografico internazionale WPF - Welcome in Passione Foto, fondato nel 2010 dalla fotografa Tiziana Ruggiero presenta la rassegna fotografica “Giorni nuovi 2010-2020” che si terrà dal 5 al 20 settembre 2020 presso il Palazzo Ducale di Martina Franca (Ta) Italia, nella Sala ex museo delle Pianelle. La rassegna è stata organizzata per festeggiare i dieci anni di attività fotografica e solidale che WPF -Welcome in Passione Foto ha svolto, autofinanziandosi, attraverso la promozione delle opere fotografiche di autori contemporanei, noti a livello nazionale ed internazionale, e fotografi emergenti che si sono distinti per originalità e qualità delle loro opere e che hanno messo la loro arte al servizio della solidarietà. Saranno esposte le fotografie di più di 100 fotografi internazionali che, in questa occasione, sosterranno attraverso una raccolta fondi la Fondazione Giorgio Di Ponzio. I generi fotografici spazieranno dal paesaggio alla ritrattistica, dal concettuale alla street photography, dal minimal all’architettura. Ci sarà inoltre una parte dedicata alle emozioni fotografiche nel periodo del Covid-19. Ospite d'onore della rassegna il fotoreporter Manoocher Deghati. La rassegna ha il pregio di avvalersi della presenza e il sostegno dell’Assessore alla Cultura del comune di Martina Franca, prof. Antonio Scialpi, del docente Did FIAF Raimondo Musolino, del Presidente del CF Il Castello Galleria FIAF di Taranto professor Massimiliano Catucci, del docente FIAF e storico ricercatore di storia della fotografia professor Gianni Iovacchini ,del critico d'arte professoressa Iris Missaggia e della dottoressa psicologa Claudia (presso Palazzo Ducale A Martina Franca) https://www.instagram.com/p/CE3mvaQAtYl/?igshid=3nlbexblminv
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niente è più come prima
di Silvia Petronici
senseOFcommunity #16 // CA’ INUA
L’innesto è una pratica agricola con un enorme valore simbolico. Dal momento che due esseri si incontrano tutto cambia. L’uno diventa due e il due ritorna uno includendo l’intera molteplicità come condizione della sua esistenza. Una nuova consapevolezza che giunge alla coscienza cambia l’intero assetto delle nostre credenze includendo in esso la visione di un mondo nuovo che prima non si vedeva, non c’era, forse.
La formula del lavoro in questo progetto che intitolai senseOFcommunity, fin dalla sua prima edizione nel 2013, punta tutto sull’incontro, cerca, in ogni passaggio, di creare le migliori condizioni per favorire la relazione come luogo della creazione ma anche della comprensione e dello sviluppo di soluzioni poetiche alle domande che ognuno porta con sé, incontra lungo la strada della ricerca, domande che, per gran parte, ci riguardano tutti.
Persone, artisti, curatori, ricercatori, insieme in un luogo che, dopo alcuni momenti iniziali di esplorazione e di allineamento, inizia a parlare, porta messaggi e, a sua volta, domande. Quindi, persone, piante, animali, spazi aperti, edifici, il vento, la terra, l’acqua che beviamo e il cibo che ci attraversa, tutto questo mondo di esseri, situazioni e storie si incontra, cambia.
Da quando è stato chiaro che la situazione globale del clima avrebbe messo seriamente in discussione la nostra presenza in questo ecosistema, niente è più come prima. Il mio lavoro è cambiato, io sono cambiata. E, con me, questo progetto di ricerca che, proprio in quanto tale, non poteva non seguire il cambiamento, cercare di comprenderlo, tentare di condurre la pratica artistica verso la ricerca di soluzioni.
A piedi nudi ballano i santi.
Ancora una volta, gli artisti e i curatori, tolti gli orpelli dello stile, lasciate le categorie del linguaggio codificato nel sistema dell’arte, disattese con energia le regole del mercato, hanno ascoltato la canzone della terra. Hanno lavorato, al servizio, a piedi nudi. In questo modo sono emersi lavori radicali, nel senso dell’impegno sociale e contemporaneamente radicanti, nel senso dell’indagine dentro la dimensione comunitaria del fare poetico condiviso. Mettere radici nel sentimento di un luogo, creare intorno ad esso una comunità di cura, ci ha condotti a svelare il valore simbolico della pratica agricola come pratica inevitabilmente comunitaria.
La riflessione sulla pratica agricola genera una consapevolezza che noi “urbani” che torniamo alla terra abbiamo bisogno di mettere a fuoco, forse di ricordare o forse, proprio, di ricostruire innestando la nostra storia nelle storie che ci vengono incontro. La consapevolezza del rapporto simbiotico con la natura.
Condividiamo e abitiamo la terra insieme alle altre forme di vita, siamo inclusi in un sistema complessivo di forze che per mantenersi in equilibrio richiede equità, sapere, generosità e propensione all’alleanza. Piante e animali, montagne e oceani, stelle e cieli infiniti ci determinano per ciò che siamo di più e prima di qualsiasi nostra volontà o principio o dimensione. Da soli non saremmo niente, non potremmo esistere, gli amminoacidi alla base del nostro dna sono stati generati dalle stelle, respiriamo perché le piante respirano, l’ossigeno deriva dalla fotosintesi, mangiamo i frutti delle piante, camminiamo perché la gravità ci tiene ancorati al suolo.
Il fare agricolo che sintetizza la relazione di cura reciproca tra noi e le piante mette in gioco la relazione fondativa da cui deriva la possibilità stessa della nostra esistenza.
Divenire comunità significa comprendere l’essenziale mescolanza del molteplice di cui siamo fatti. La comunità cui la ricerca degli artisti in questo progetto si è dedicata è quella delle persone e delle piante e degli animali e delle pietre e di tutto ciò che esiste e ci tocca mutandoci continuamente.
La mostra, esposta nello spazio di ricerca curato da Panem Et Circenses, il Centro per l’Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare (CACCA), risulta dal percorso compiuto dagli artisti e dalle curatrici durante la residenza, senseOFcommunity #16 / Come le piante, svoltasi dal 4 all’11 settembre a Ca’ Inua, azienda agricola e progetto di arte contemporanea sull’Appennino bolognese, nel comune di Marzabotto.
Le opere esposte sono una ulteriore elaborazione che conduce gli esiti di quelle ricerche oltre la dimensione specifica del loro luogo d’origine, su un piano condiviso, formale e concettuale, con i partecipanti alla mostra.
senseOFcommunity è un progetto che invita artisti e curatori a intraprendere un percorso di coinvolgimento fino alla creazione di una comunità di partecipanti all’opera partendo da sé, dalle proprie capacità di ricognizione delle forze in campo, dal proprio stare in una determinata situazione con determinate persone in costante confronto con tutto ciò che vive e si manifesta in quel luogo, persone, piante, animali, storie, ricordi e molto altro.
Imparare a misurarsi con la semantica degli spazi, infatti, con la loro estensione relazionale, con le storie oltre che con le geometrie, è, a mio parere, di grande valore e una disciplina utile in generale allo sviluppo delle idee e dei comportamenti nella sfera dell’arte.
Nell’ambito del determinato approccio alla ricerca rappresentato da senseOFcommunity, lo studio di questa tipologia di interventi artistici si propone in sintesi come uno studio sullo spazio, appunto, nella sua dimensione simbolica e nella sua densità di luogo abitato.
Gli artisti che operano site specific osservano e lavorano con le connessioni esistenti e con quelle da riattivare tra il luogo e la comunità che lo abita, sollevando interesse e affezione verso aspetti meno noti della memoria collettiva. A questo scopo, attraverso dispositivi poetici di relazione, tentano il coinvolgimento delle persone, ascoltano le storie, ripensano sogni e bisogni, provano a colmare lacune, a investire sulla relazione.
Ca’ Inua è, a prima vista, un’azienda agricola. Osservando meglio e parlando con i fondatori, il collettivo Panem Et Circenses, Alessandra Ivul e Ludovico Amedeo Pensato, si capisce che Ca’ Inua è un’opera d’arte e, precisamente, un’opera di arte pubblica partecipata, un progetto artistico community based con chiari obiettivi di valore sociale che unisce pratiche agricole e pratiche comunitarie attraverso dispositivi costruiti nell’ottica delle pratiche artistiche di partecipazione.
Questa edizione di senseOFcommunity si proponeva di indagare la relazione tra l’arte (le cui pratiche abbiano un approccio site specific o territory related) e l’agricoltura, come una relazione derivata dalla relazione tra l’arte e il cibo o, meglio, il nutrimento o meglio ancora, il legame con la terra.
Pertanto, le artiste ospiti, che, insieme a Panem Et Circenses, hanno lavorato durante la residenza, Virginia Lopez e Valeria Muledda, si sono trovate a farlo dall’interno di un’opera concepita con gli stessi presupposti della ricerca che stavano percorrendo mantenendo un filo di continuità e connessione molto forte con le loro stesse ricerche. Valeria Muledda con il suo progetto Studiovuoto – Studio di architettura che non costruisce indaga lo spazio come dimensione dell’esistenza, “l’azione dell’abitare lo spazio e la Terra”. Virginia Lopez ha fondato un analogo di Ca’ Inua nelle Asturias, PACA, Projecto Artisticos Casa Antonino, dove pratiche agricole e pratiche comunitarie sono osservate con il linguaggio di quella parte dell’arte contemporanea che indaga il rapporto tra le persone e i luoghi, le storie e i segni nel paesaggio.
Questa residenza, al suo interno, a sua volta, ospitava una masterclass per curatori che, quindi, hanno potuto lavorare all’interno di questo speciale modulo di ricerca a stretto contatto con i tre artisti in residenza.
Si è trattato di un lavoro intenso, una completa sospensione del tempo ordinario e una totale immersione nella ricerca condivisa. Vita e lavoro tutti insieme, quattro curatrici, quattro artisti e me lungo otto giorni di coabitazione e convivenza. Le curatrici insieme a me hanno potuto osservare l’emersione di tre percorsi di ricerca: la pratica dell’innesto; l’identificazione con un luogo della persona che lo vive; la progettazione partecipata di una Food Forest.
Virginia Lopez ha esplorato la pratica materiale dell’innesto, da un lato e quella simbolica, dall’altro, dove ciascuno di noi è coinvolto nel mutare ed essere mutato dall’incontro con un luogo e con tutto ciò che comprende e vive al suo interno: tutti noi dentro l’opera di Ca’ Inua, gli artisti che tornano alla campagna, le pratiche dell’arte che intercettano e, forse, per gran parte, salvano le pratiche comunitarie, sono solo esempi che derivano da questa riflessione.
Valeria Muledda compie insieme a Costantino, il proprietario del castagneto confinante con i terreni del podere di Ca’ Inua, un viaggio poetico tutto dentro la relazione con il castagneto, il luogo che Costantino ama e custodisce, nel quale ogni giorno lavora. L’esito di questo viaggio è la scrittura di una storia di quel luogo nella cui narrazione si passa dalla terza persona (“il mio castegneto è …”) incredibilmente e con grande commozione alla prima persona (“io sono il castagneto”).
Panem Et Circenses, immersi dentro Ca’ Inua con tutta la loro vita di artisti, famiglia, membri di una comunità, giungono alla conclusione che può esistere un’agricoltura sentimentale e che non sia meno produttiva o efficiente rispetto ai bisogni per cui la si pratica. Si rivolgono alla piccola comunità temporanea dei residenti di questo progetto e ci chiedono di portare noi stessi e ognuno la propria preziosa specificità
– ciò che si sa e ciò che si è sono punti di partenza utili per costruire qualsiasi ambiente resiliente – a prescindere da presunte competenze tecniche agroforestali.
Da qui si sono piano piano chiariti i progetti artistici, gli impianti teorici e gli obiettivi, fino a giungere alla forma di una prima restituzione l’ultimo giorno della residenza con la partecipazione di tutte le persone coinvolte in un’azione collettiva che intrecciava i diversi percorsi di ricerca esplorati durante la residenza.
La mostra, infine, comporta una seconda fase formale, data la circostanza espositiva specifica e, a questa ulteriore fase, sono associati gli apparati critici, l’ultimo esercizio per le curatrici della masterclass.
In conclusione.
Niente è più come prima.
La filosofia del soggetto e dell’individuo non funziona. Le separazioni sono pratiche ma non essenziali. L’innesto è inevitabile.
Tutto è mescolanza e noi siamo tutto, insieme a ciò che esiste. Un immenso organismo che abita questa dimensione composto di forme di vita in simbiosi.
Wittgenstein sosteneva che ci sono forme di vita che non sono fatte per comunicare, questo però non significa che non siano connesse e che non dipendano per vivere (e determinarsi) dalla stessa relazione con l’ambiente.
Per fare solo un esempio, un credente e un non credente non si capiscono quando parlano perché non condividono la stessa visione del mondo e quindi il loro piano di credenze derivate è talmente differente che di fatto appartengono a due mondi diversi. Una montagna e un bambino, un albero e un e una formica, un marinaio e un minatore. Tutto, però, ha una forma, evolve, genera e lo fa a partire da una base di possibilità per l’esistenza che sono comuni e che, intersecandosi tra loro, danno vita alla trama del mondo che conosciamo.
Nota: testo parzialmente tratto dall’intervista fattami da Francesca Di Giorgio per la rivista Espoarte, Chi sa danzare a piedi nudi? Un’intervista sul valore sociale dell’arte, 25 settembre 2019
Veloci riferimenti bibliografici: Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018; Daniele Zovi, Alberi sapienti antiche foreste. Come guardare, ascoltare e avere cura del bosco, Utet, Milano 2018; Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 2001; Qing Li, Shinrin-yoku. Immergersi nei boschi, Rizzoli, Milano 2018
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Les Deux Plateaux. Daniel Buren. Parigi
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La pittoscultura di Pasquale Pitardi
di Paolo Vincenti
Cursi, pochi chilometri da Maglie, è la patria delle cave di pietra ed è anche la patria di Pasquale Pitardi, che però vive a Galatina, “poliedrico artista informale nell’anima e nei fatti”, come scrivono di lui, spinto da quella irrequietezza un po’ randagia, che forse è propria di tutti i creativi. Ma i viaggi di Pitardi, oltre che nelle dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro, sono viaggi nel colore, nella materia, nella libera creazione fantastica.
“Pittoscultografia” è il neologismo coniato per definire l’arte di Pitardi, o quello che è oggi l’approdo dell’arte di Pitardi. Infatti, l’artista, che provava un senso di profonda insoddisfazione misto alla curiosità e alla voglia di intraprendere nuovi percorsi, ha iniziato a scomporre le sue opere e dalla bidimensionalità, tipica do ogni dipinto, è approdato alla tridimensionalità di quelle che sono oggi le sue pennellate di colore che, come variopinte tavolette votive, si accumulano nella sua casa laboratorio, oppure nelle mostre alle quali partecipa.
Partendo dalla acquisita consapevolezza che la pittura è finzione, e che come tale non lo appagava più, Pitardi ha iniziato a staccare questa pittura dai suoi canonici supporti, a scomporre l’opera d’arte visiva quadro, e a cercare sfondo per le sue pennellate di colore nei materiali più disparati, dal legno alla plastica, che danno comunque al fruitore la percezione tattile di un corpo tridimensionale che fa tabula rasa di ogni menzogna immaginativa, di ogni illusione ottica quale è, fra chiari e scuri, il quadro tradizionalmente inteso.
Per le sue opere, usa acrilico e pennelli di tutte le dimensioni ed offre così al visitatore un’esperienza singolare, perché i suoi prodotti artistici sono tutti originalissimi in quanto pezzi unici, non riproducibili, sfuggono alle omologazioni, a qualsiasi catalogazione. “Sono lì, si vedono, si toccano, hanno la dimensione che è sotto gli occhi di chi guarda; non ci sono illusioni ottiche, non ci sono giochi di prospettive e chiaroscuri ingannevoli, niente è diverso da ciò che colpisce i sensi del visitatore. Non si compongono in immagini. Possono suscitare sensazioni di piacere o di rifiuto, questo importa poco. Non hanno messaggi o significati da trasmettere.
Sono colore puro e sconvolgono con la loro urgenza fisica, con il loro nonsenso”, scrive Maria Rosaria Cesari, in uno dei tanti blog on line sulle mostre del Pitardi. Pasquale Pitardi è stato vincitore a soli 16 anni del concorso di disegno pubblicitario promosso a Milano dalla casa editrice Aldo Palazzi.
Fino al 1986, ha lavorato presso il centro stile design della Fiat, Torino, ma poi ha abbandonato tutto ed è tornato nel Salento, a Galatina, per dedicarsi alla sua arte. Ha tenuto numerose mostre, fra le quali ci piace ricordarne alcune. Nel novembre 1997, presso l’Associazione culturale Amaltea, Lecce, presenta “Differendo. Personale di pittura”. Dal 3 al 21 dicembre 2005, tiene a Lecce, presso i Cantieri Teatrali Koreja, la mostra “Nulla da dipingere: nulla da scolpire”. Una personale, “L’Opera,”, a Spoleto, dal 18 agosto all’8 settembre 2007.
Questo “smontare l’opera pittorica” diventa un po’ la cifra distintiva di Pitardi. Nell’agosto del 2008, a Gagliano del Capo, partecipa alla mostra collettiva su Vincenzo Ciardo. Scrive Massimiliano Cesari, in occasione della “Mostra Bellomo Luchena Pitardi” (che si tiene nell’aprile 2002 a Soleto presso l’Opera Pia ): “E’ apparentemente difficile collocare la produzione artistica di Pasquale Pitardi all’interno di una categoria delle arti figurative, così come la tradizione artistica spesso pretende, e pericolosamente realizza.
L’artista, e lo posso affermare senza perplessità, vive la sua ricerca in una fluttuante zona di frontiera, dove il bidimensionale (allegabile alla pittura su un qualsiasi supporto) si plasma con la tridimensionalità, ricca di vuoti e pieni, della scultura (praticata in maniera quasi classica), alla ricerca del genere artistico universale e completo, lontano dalla contemporanea e diffusa concezione autoptica che comunemente si ha.
E’ una lotta che Pitardi conduce incessantemente con consapevolezza, cosciente dell’importanza che essa detiene su se stesso e che gli permette, attraverso continui impulsi vitali, di concretizzare le ricerche e le sperimentazioni ‘pittografoscultoree’. Una lotta generatrice, quindi, paradossale per certi versi, ma evidentemente emblema di un disagio ricollegabile ad una collettività sempre più distante e sprezzante, nei confronti di chi pratica arte: l’artista ha un bisogno costante, quasi spasmodico, di dialogare con chi si pone davanti all’opera; egli rivendica con forza il ruolo di catalizzatore tra i messaggi figurativi e il comune fruitore, cercando di scuotere e di invadere la coscienza estetica del pubblico”. (pubblicato in Massimiliano Cesari, Bellomo-Luchena-Pitardi: tre percorsi contemporanei, in «Note di Storia e Cultura Salentina»,n.17, Lecce, Grifo 2005, pp. 256-257).
Nel 2011 espone presso la Mediateca Comunale di Melpignano “Peppino Impastato”, con la mostra “Pittoscultografica” l’opera”, curata dalla coordinatrice della Mediateca Ada Manfreda. Qui ha esposto ben 5000 pennellate, mentre nell’ex Convento degli Agostiniani una tela bianca di 570 metri x 146 centimetri e nell’ex Manifattura Tabacchi 39 contenitori. Infatti, negli ultimi tempi Pitardi cerca di distanziare quanto più possibile il contenuto della sua opera dai contenitori, fino a realizzare, ci confessa, il sogno impossibile di distanziarli quanto l’intera circonferenza della Terra.
Come scrive Salvatore Colazzo in I colori caduti. La pittoscultura di Pasquale Pitardi ( pubblicato in “Amaltea”, trimestrale di cultura on line, dicembre 2010, e in “Il Paese Nuovo”, Lecce, sabato 16 aprile 2011), “parlando dell’inaugurazione della mostra ( “La pittoscultura di Pasquale Pitardi”, Galatina, Galleria D’Enghien, 1-30 novembre 2010) l’artista ha tenuto a ribadire la sostanziale identità tra il gesto del pittore e quello dell’imbianchino […] E’ molto concettuale l’idea di materializzare una pennellata e metterla in mostra […] Concettuale è pure l’idea di gettar giù dalla torre di Pisa piuttosto che dal Campanile di San Marco che dal Duomo di Lecce secchiate e secchiate di colori, come fossero coriandoli, solidificati”.
C’è da aspettarsi dunque nuove spiazzanti realizzazioni da questo poliedrico artista dai lunghi capelli contenuti da un cerchietto e dalla bianca barba che lo fanno simile ad un santone indiano oppure ad un mitologico sileno salentino.
#Paolo Vincenti#Pasquale Pitardi#pittoscultura#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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RECENSIONE: Little Simz - GREY Area (Age 101, 2019)
Simbi Ajikawo, in arte Little Simz, è una dei più talentuosi e prolifici rapper della scena inglese, ma purtroppo è anche una dei più sottovalutati. Ha spesso ricevuto complimenti da Kendrick Lamar, è stata scelta da Lauryn Hill per seguirla nel suo tour, ha collaborato coi Gorillaz ed i suoi primi due album sono stati apprezzati da critica ed estimatori del genere, compreso l’intricato Stillness in Wonderland del 2017 che, però, non è riuscito a farsi notare allo stesso modo da un pubblico più ampio a causa della sua complessa natura concettuale che richiede uno sguardo troppo attento per essere capita. Con una tale reputazione sorge spontaneo domandarsi cos’altro potesse fare la rapper inglese per raggiungere il tanto meritato successo di cui molti suoi colleghi uomini stanno usufruendo, ritrovandosi una volta per tutte nella loro cerchia. Per tutta risposta, il terzo disco GREY Area è un’opera molto più coincisa ed immediata che si focalizza sulla musicalità piuttosto che sulla narrativa.
Contrariamente a come potrebbe sembrare, tali decisioni non sono le conseguenze di una voglia d’emergere, trovandosi quindi nel mainstream e correggendo alcuni aspetti “anti-commerciali” della sua musica. Piuttosto, è semplicemente l’avvenuta esplorazione di un nuovo territorio artistico con una ritrovata sicurezza d’animo. A conferma di questo, Simz non si fa ostacolare da un problema che può essere definito una vera e propria discriminazione di genere ed invece di commentare direttamente sulla questione, in GREY Area la rapper decide che a parlare del suo indiscutibile talento sia la musica stessa, continuando ad affinare la sua arte senza farsi distrarre dall’ingiustizia dell’industria musicale ed approdando ad un audace nuovo sound che la vede sfruttare il suo agile flow ed i suoi superbi giochi di parole spaziando tra un’eclettica gamma di diverse influenze musicali tra cui jazz, funk e soul fino al punk ed il rock, intercalando le voci di quattro collaboratori accuratamente scelti.
Strutturalmente quest’album non ambisce a qualcosa di troppo memorabile ed i brani sono prettamente composti da strofe e ritornelli standard hip-hop, ma ciò che li distingue è la personalità dell’artista e ciò che ha da dire. Simz colpisce per essere un’osservatrice acuta delle cose che la circondano, risultando piuttosto matura per la sua età. Ha un cinismo ed una sicurezza che non danneggiano il fatto che questo sia un album che si propone onesto e confessionale in cui si toccano argomenti abbastanza vari - dalle difficoltà dell’artista, problemi affrontati a causa della sua etnia e genere fino a relazioni affettive che l’hanno segnata. Il titolo, GREY Area, allude proprio all’incertezza dell’essere giovani adulti, periodo della vita che lei vede come una grande zona grigia da decifrare. Anche se le sue performance non sono sempre le più tridimensionali e non offrono una grande estensione vocale, la sua tonalità nasale ed un’attitudine tagliente conferiscono personalità a tutto ciò che dice, risultando veramente credibile soprattutto quando impersona il suo lato più vaneggiante. Insomma, consapevole di poter risultare vocalmente limitata, Simz interpreta con maestria ciò che dice per eludere una rigidità comune a chi fa soltanto rap e non canta.
Simz sa quando è il momento di non rimanere in silenzio e sin dall’inizio prende il comando della situazione nella traccia d’apertura Offence, chiarendo di saper schivare qualsiasi offensiva in quanto consapevole delle sue potenzialità tramite liriche pungenti e fiere, strumentazioni analogiche ed un atteggiamento che dichiara senza mezzi termini: “questa sono io, guardatemi tutti”. Il flauto contribuisce all’intero vaneggiamento della traccia, così come i violini ed il pianoforte che conducono con molta efficacia ad un ritornello sinceramente apologetico, unendosi ad un basso sintetico truce ed una batteria sicura e convincente. Simz oscilla tra due approcci diversi. Uno, appunto, è quello apologetico e combattivo che continua anche nella successiva Boss, una traccia funky con un’altra linea di basso abrasiva accompagnata da una batteria semplice che la risalta e voce distorta, sporca e lo-fi in cui Simz sembra davvero godersi il suo momento sputando barre a briglia sciolta. “I don't need that stress / I'm a boss in a fucking dress”. E’ un approccio abbastanza essenziale e sinistro, ma rende la sua performance molto più evocativa, cogliendo l’occasione per ripercorrere la storia dei rifiuti di vari contratti discografici per rimanere indipendente, decidendo di investire piuttosto su sè stessa senza però sorvolare su quanto questo l’abbia riempita di preoccupazioni nel pensare continuamente ad un modo per contribuire economicamente al sostentamento della famiglia.
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L’altro approccio è quello più riflessivo e vulnerabile che le permette di tingere la voce di sfumature più calde. Ad esempio, in Wounds - affiancata dalla voce di Chronixx per rendere più fruibile e melodica una traccia principalmente guidata da una chitarra che altrimenti risulterebbe troppo ripetitiva - Simz scrive sul delicato argomento della cultura delle armi da fuoco nella società americana, parlando delle devastanti conseguenze dal punto di vista di chi le ha subite in prima persona. “Just had a dream and holes in my jeans” dice, invece, ad un certo punto in Pressure, un brano in collaborazione di Little Dragon in cui su uno sfondo sempre di violenza, intreccia questa volta le difficoltà del portare avanti i propri sogni essendo un’afroamericana che vive in un contesto in cui bisogna sacrificarsi anche per le cose più essenziali. Sembra che Simz stia veramente cercando di fare un passo indietro per capire come affrontare queste problematiche e crescere nel modo più indolore possibile, lavorando ancora una volta su sé stessa invece di addossare le colpe a qualcun’altro, ed effettivamente ha la giusta lucidità per farlo senza, però, sacrificare in cambio l’onesta emotiva. In Sherbet Sunset, il brano forse più personale del disco, è tutto un ripercorrere una storia per cercare di razionalizzare e guarire. “I wonder what I did for me, I hardly remember me / What a waste of chemistry, energy and empathy / Wonder when you plan to let me know about her pregnancy / You have no integrity, emotion or respect for me”. Tra i profumi jazzati della traccia di chiusura Flowers, la sua riflessione la porta a considerare anche l’impatto delle proprie ambizioni in relazione con la mortalità dell’essere umano. “Wanting to be legendary and iconic, does that come with darkness?”.
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L’uso di strumentazioni analogiche è molto prominente all’interno del disco e sicuramente è un grande punto a favore in quanto enfatizza con incisività sia i punti di forza tecnici sia caratteriali dell’artista. E’ proprio Simz a suonare quel basso che musicalmente fa la differenza in tante occasioni, ma non sempre ogni colpo di basso o batteria sono pugni duri di sicurezza. A volte, se combinati con il pianoforte ed una bella voce femminile, possono aprire delle parentesi neo-soul come in Selfish, il brano più orecchiabile del disco. “No validation, no applause / You don't have prove you got it when you know it's yours”. Capita anche di dedicarsi di più all’elettronica, come nel caso di 101 FM, un brano vivido e giocoso fatto di reminiscenze dell’adolescenza. In conclusione, GREY Area vede al comando una Little Simz competitiva, acuta e carismatica che in trentacinque minuti è capace di rispolverare le vere ragioni per cui l’hip-hop è stato creato: testi auto-celebrativi a cui non serve svergognare il prossimo per affermarsi e rime dalla ritmica fresca e mai banali che per sbalordire a pieno hanno bisogno di una seconda lettura. Ed anche se i toni tendono ad ammorbidirsi dopo le prime tracce, questo disco ci offre un’introspezione psicologica sempre gradita.
TRACCE MIGLIORI: Boss; Offence; Sherbet Sunset
TRACCE PEGGIORI: Venom
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Manifesto
La settimana scorsa io e Izzy siamo andati alla mostra “Manifesto”. Si trova al Palazzo delle Esposizioni vicino a piazza della Repubblica. Mi aspettavo nulla e per questo la mostra è stata una sorpresa grandissima. Alla fine mi è piaciuta un sacco e volevo condividere questa esperienza con voi.
L’ opera – una video installazione a tredici schermi, ognuno dedicato a un diverso stile artistico. Sono stati considerati i tredici stili più importanti del 20° secolo. Tra loro ci sono per esempio il surrealismo, il dadaismo, il futurismo, il minimalismo, il pop art e l’arte concettuale. Ognuna delle clip è ambientata in un diverso contesto. Tutti, a eccezione del prologo, sono magistralmente interpretati dall’attrice australiana due volte Premio Oscar, Cate Blanchett. Manifesto è un prodotto di Julian Roosevelt, un artista che viene da Berlino. Il testo della mostra è composto da opere di cento artisti diversi e inizia con le parole: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels.
Secondo me questa mostra è così unica perché mette in discussione non solo l’arte di oggi ma l’intero sistema capitalistico e la struttura della nostra società.
“Tutta l’arte di oggi è un falso, non perché copia, appropriazione, simulacro o imitazione ma perché manca del fondamentale impulso di energia, coraggio e passione.”
Se mi chiedete questa è la mostra più straordinaria che potete trovare a Roma quest’anno. Un capolavoro che mette in questione la nostra intera esistenza.
Alle fine vorrei condividere una parte del testo del primo film:
“Il genere umano sta attraversando la più profonda crisi della sua storia. Il vecchio mondo sta morendo; un altro sta nascendo. La civiltà capitalistica, che ha dominato la vita economica, politica e culturale dei continenti, subisce un processo di decadimento. In questo momento sta generando nuove devastanti guerre. In questo preciso momento l’Estremo Oriente ribolle di conflitti militari e preparativi che avranno conseguenze di vasta portata sull’umanità intera.
Nel frattempo la crisi economica imperante mette sempre più fardelli sulle masse della popolazione mondiale, e soprattutto su quelle che lavorano con le braccia e con la mente.
La crisi presente ha messo a nudo il capitalismo. Oggi più chiaramente che mai si dimostra come un sistema di rapina e frode, disoccupazione e terrore, fame e guerra.
La crisi generale del capitalismo si riflette nella sua cultura. L’ingranaggio politico ed economico della borghesia si sta corrompendo, la sua filosofia, la sua letteratura e la sua arte sono in bancarotta. La borghesia non è più una classe progressista e le sue idee non sono più idee progressiste. Al contrario il mondo borghese man mano che avanza verso l’abisso, ritorna al Medio Evo e al suo misticismo. Il fascismo in politica va di pari passo con il pensiero del neo-cattolicesimo.
L’arte moderna, soffrendo di una tendenza permanente verso tutto ciò che è costruttivo e di un’ossessione de obiettività, rimane isolata e importante in una società che sembra incline alla sua stessa distruzione. L’arte occidentale, un tempo celebrazione di imperatori e di papi, sta diventando strumento di glorificazione di ideali borghesi.” –Manifesto
Prezzo: normale 12€, ridotto 8€
Lingua della mostra: Inglese
- Eric
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