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#agguati alle parole
marcogiovenale · 17 days
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oggi, 10 settembre, a firenze: presentazione del libro "come agisce nanni balestrini", di cecilia bello minciacchi
https://www.carocci.it/prodotto/come-agisce-nanni-balestrini VOCI LONTANE VOCI SORELLE, 22a edizione Firenze, martedì 10 settembre 2024, h. 18.00, Libreria Libraccio, Via de’ Cerretani 16r Presentazione del volume di Cecilia Bello Minciacchi Come agisce Nanni Balestrini. Le parole che cercano (Carocci, 2024) Partecipano, con l’autrice, Stefano Colangelo e Luigi Weber Nanni Balestrini (1935-2019)…
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popolodipekino · 3 months
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atrabiliosi di tutto il mondo..!
Quando la bile nera è fredda, il melanconico [...] perde ogni desiderio di vivere. [...] Tutto ciò che attrae gli altri non gli piace: tutto ciò che amano gli altri lo infastidisce; la primavera lo annoia come l'autunno, l'inverno e l'estate paiono uguali al suo occhio. Se legge un libro, non riesce a figgere gli occhi nei segni: le lettere non diventano parole, le parole non diventano immagini, le immagini non si muovono davanti agli occhi. Legge senza partecipare, senza comprendere, senza gioia, senza che in lui si accenda la luce interiore che lo assicuri di avere capito. [...] Non riesce ad amare se stesso, e ha l'impressione che tutti gli altri lo sospettino, lo detestino o gli preparino insidie ed agguati. Qualche volta, uno slancio di euforica frivolezza lo spinge verso di loro: li vorrebbe stringere contro il suo cuore morto; più spesso, non prova per loro che una gelida ostilità, un amaro rancore, e ride di un riso amaro alle loro spalle. [...] L'altro polo della melanconia ha l'ardore e i colori del fuoco. Quando la bile nera è calda, il saturnino [...] non è mai stato così radioso. Tutto lo diverte, lo interessa, lo attrae. I suoi sensi sono più attenti e minuziosi: i sentimenti scorgono dovunque analogie segrete, i pensieri, continuamente attivi e in moto, sono accompagnati da una scossa nervosa, che li introduce nel cuore della realtà. da P. Citati, Saturno e la melanconia, in La luce della notte
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forgottenbones · 5 years
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Forse la vita adulta è questo. Capire una volta per tutte che la tristezza non andrà via. E non poterlo dire a nessuno. E che non c'è persona o cosa al mondo che te la potrà togliere. Né il successo lavorativo temporaneo, né la storia di una notte. Puoi avere tutto o non avere niente.
Tu dovrai essere quello che ti guarda le spalle.
Andare sempre avanti.
E fingere che vada tutto bene.
Alla fine della giornata, da solo. Che tu abbia fatto molto o non abbia fatto niente.
Tristezza è bere in un bar vuoto una birra d'importazione guardando attraverso il bicchiere nulla in particolare. E i cantanti con le loro lacrimose ballatine vomitevoli, dalle quali neanche lì trovi scampo, non sono certo d'aiuto.
Tristezza è camminare per le strade deserte del tuo paese, passare tra le case lungo i viali come se stessi attraversando un diorama, tanto irreale è il silenzio.
La tristezza ti tende agguati agli angoli di quelle strade, ti aspetta quando torni a casa, è sul volto delle persone con le quali condividi la tua vita, quando capisci che non avete più niente da dirvi.
È un cane nero che ringhia e ti guarda con aria minacciosa.
Sono le deboli parole che riverso su questo foglio.
È il continuo ritornare sui miei passi, cercare di volta in volta di mettere meglio a fuoco qualcosa senza mai riuscirci del tutto.
Forse è l'alcol che parla. Ah, se solo potessimo dare la colpa delle nostre leggerezze alle sostanze!
(se così fosse, perché le prendi?)
Sono un negativo che nessuno si è preso il disturbo di portare a sviluppare.
Come chi fa il jiǎnzhǐ, tento di togliere pezzi dalla carta per creare una forma. Lavoro per sottrazione.
Visto che vi piacciono le citazioni, ve ne passo una.
«Scrivere non provoca tormento, ma nasce dal tormento.»
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peoplemagrpg · 5 years
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Untitled Goose Game - A goose does what it has to do
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Benché in realtà non esista un metodo universale, per realizzare un gioco oggi si parte quasi sempre da un documento programmatico. Qualcuno, in genere un game designer, partorisce un’idea di massima su un gioco, la fa a pezzi, ne delinea gli aspetti fondamentali, dalle meccaniche allo stile grafico, poi traduce tutte queste intuizioni in un testo che verrà sottoposto a qualcuno con un qualche potere decisionale. Qualora dal quel foglio si intraveda un barlume di potenziale commerciale, il progetto entrerà in fase di approvazione, quindi il design iniziale subirà una serie di revisioni, verrà stabilito un budget e si cercherà il personale adatto per trasformare le parole in bit. Questo è quello che succede normalmente. Altre volte, invece, qualcuno posta la gif di un’oca nel canale Slack del team, qualcun altro ride dicendo che bisognerebbe farne un gioco e dopo un po’ di tempo salta fuori un indie pazzesco con un’oca come protagonista: Untitled Goose Game.
Quel che avete letto è tutto vero. Untitled Goose Game è nato quasi per gioco e il titolo decisamente provvisorio è testimone di questa origine incredula da cui è poi sbocciato non solo un gioco vero e proprio, ma uno dei più interessanti di questa seconda metà di 2019. Motivata da uno stile grafico accattivante e da un’ironia di fondo un po’ assurda e nonsense, la curiosità intorno al prodotto sviluppato da House House è progressivamente montata nei mesi scorsi, di pari passo a una domanda di fondo semplice: cosa ci sarà da fare nei panni di un’oca? Beh, la risposta non potrebbe essere più banale: molestare ogni singolo essere umano a portata di becco. Perché? Perché sì, ovvio. Volendo per forza ricondurre questo limpido sprazzo di genialità alle più banali categorie che si utilizzano per classificare i videogiochi, Untilted Goose Game andrebbe descritto come un puzzle stealth: un bizzarro punto di incontro tra le vecchie avventure LucasArts e le più recenti incarnazione dell’Agente 47. Subito dopo aver indossato piume e becco dell’oca senza nome, a video appaiono una serie di obiettivi collegati alla prima area di gioco, scritti a penna su un foglio di carta come la più classica delle liste della spesa.
Si tratta, in buona parte, di compiti semplici: oggetti da individuare e da spostare. La proprietà privata tuttavia – o purtroppo a seconda dei punti di vista – è ancora uno dei concetti più cari agli esseri umani, destinati a diventare per questo motivo i nemici giurati dell’oca. O forse l’oca ama molestarli semplicemente perché ne è in grado, chi può dirlo. Di sicuro, il suo starnazzare aspro e la sua capacità di interagire con gli oggetti attraverso il becco torna molto utile per imbastire piccoli e grandi diversivi con cui tenere occupati gli umani mentre i loro preziosi beni personali prendono il volo. Benché quelli appena descritti risultino in fin dei conti i soli comandi che è possibile impartire alla nostra malefica oca, oltre alla possibilità di muovere le ali, anche piani ben più elaborati sono alla portata del diabolico pennuto. Ci vuole un po’ di fantasia, una discreta dose di pensiero laterale e tanto spirito di osservazione, oltre a un minimo di pazienza e al giusto tempismo, ma anche imprese più elaborate possono essere portate a termine da un’oca abbastanza motivata. La seconda categoria di obiettivi manoscritti, infatti, costringe a elaborare macchinazioni più sofisticate il cui fine, inutile dirlo, è sempre quello di dare noia agli umani. Che si tratti di costringere un contadino a indossare il proprio cappello a tesa larga o di rinchiudere un ragazzino terrorizzato dentro una cabina telefonica, si ha sempre la sottile ma concreta impressione che l’oca provi una sorta di sadico piacere nel farlo.
È facile farsi entusiasmare da Untiled Goose Game. L’idea è originale e fuori dagli schemi. La realizzazione tecnica deliziosa e nel complesso il gioco pare non prendersi mai troppo sul serio. In realtà però dietro il look sbarazzino e il caustico cinismo c’è del talento indubbio che traspare da diversi elementi. A partire dai controlli, minimalisti, per necessità nello slancio di realismo attraverso cui sono replicate le possibilità di interazione di un’oca, eppure incredibilmente versatili. Le figure piene colorate a tinte piatte evocano atmosfere da campagna inglese degli anni ’80, tra il bucolico e il rurale: non che l’abbia mai vissuta la campagna inglese degli anni ’80, ma mentre gioco il mio cervello continua a riportarmi al Benny Hill Show, e direi che i motivi sono molteplici. A partire da quella comicità profondamente fisica, fatta di micro gag che si ripetono. Anche se il ragazzino occhialuto si spaventerà sempre allo stesso modo, sarà difficile resistere alla tentazione di mollare un “Honk!” a tradimento ogni volta che si finisce nei suoi paraggi. O trattenersi dal dare fastidio al contadino della prima area, spostando i suoi strumenti di lavoro qui e lì per puro gusto, o forse per ricambiare l’odio evidente con cui l’oca viene accolta ogni volta che varca i confini dell’orto. E come nelle gag di Benny Hill, la musica gioca un ruolo chiave. Se nelle situazioni di normalità la pace del villaggio è scandita solo dai tap tap delle zampette dell’oca in movimento, i momenti di rabbia e gli agguati sono scanditi dalle note dei preludi di Debussy, suonate in crescendo o in calando in combinazione a ciò che a quel momento sta accadendo in scena. La dimensione quotidiana, ridotta e contenuta di Untitled Goose Game è in fondo è il suo punto di forza. Questa volta non c’è un mondo da salvare, una maledizione millenaria da interrompere o un nemico che incarna in sé il male atavico, ma solo un’oca, due comandi in croce e una serie di piccoli compiti in cui cimentarsi. Invece di fare tante cose, Untitled Goose Game ne fa solo due. Per una volta è rassicurante. Non bisogna imparare combinazioni di tasti né viene da chiedersi si ci sia sfuggito qualcosa: tutto è a portata di mano. L’unico elemento esterno richiesto è lo spirito di osservazione, poiché quasi tutte le quest più articolate richiedono di intervenire al momento adatto nelle routine di comportamento dei personaggi del villaggio. Un po’ come in una domenica in provincia, con l’incentivo di potersi comportare peggio che si può.
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nusta · 6 years
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Artù amava dormire nei posti più comodi e nei posti più strampalati, amava le piante, il sole, il morbido e l’altezza, amava esplorare posti nuovi e ritrovare i suoi angoli preferiti, amava le coccole e le sorprese, amava fare gli agguati dietro alle porte e infilarsi dentro agli armadi. Mi ha insegnato la pazienza e la gentilezza, l’ostinazione e la precauzione. Mi ha costellato le gambe di lividi con i suoi morsi e mi ha lasciato una piccola cicatrice con i suoi artigli. Mi ha visto diventare grande, mi ha visto innamorarmi, mi ha visto andare via. Abbiamo condiviso un linguaggio di fusa e sguardi e testate. Il 18 di ottobre di 19 anni fa entrava a far parte della nostra vita e l’anno scorso in questi stessi giorni abbiamo dovuto salutarlo e mi manca in un modo che non so dire a parole.
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110daysofwriting · 7 years
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Day 3, 1021 words
Brooklyn non dorme la notte.
L'abbiamo imparato col tempo, abitandola, guardandola agitarsi nell'oscurità come fosse in catene, abbiamo brindato con scure boccette di assenzio alla sua insonnia, abbiamo urlato alle luci instancabili degli uffici, che restano accese anche la notte per qualche motivo.
Brooklyn non dorme la notte, e se non le stai simpatico puoi star certo che non farai una bella fine: tende ad annoiarsi facilmente. Quel che di giorno sarebbe nient'altro che un vicolo maleodorante e umido, di notte si trasforma in una potenziale tomba, per chi non sa ancora abbastanza del mondo.
Brooklyn soffre d'insonnia e così chi la abita, che si arrampica a popolare i tetti per ascoltare il via vai dei treni e delle auto e delle anime irrequiete che necessitano di non dormire e che si fanno irrimediabilmente compagnia per non soccombere ai sussurri della pioggia nera che pare petrolio che scivola sui vetri, lenta e viva.
"C'è da impazzire qua, te lo dico io", si divertiva a ripetermi la persona che mi affittò la prima stanza appena arrivato lì. Non era americano, ma ho l'impressione che se anche lo fosse stato me lo avrebbe detto lo stesso.
I neon sparpagliati per le vie caotiche e brulicanti di teste incappucciate fanno perdere la cognizione del tempo: pensi di essere fuori da un'ora? Controlla l'orologio (sempre che non te l'abbiano rubato): esatto, ne sono passate tre. E fa freddo, e hai fame, e c'è una prostituta che ti fa l'occhiolino e ha tutta l'aria di chi non ti lascerà in pace fino a che non chiarirai le tue intenzioni. Meglio passare avanti.
Brooklyn è un posto umido e perverso, a modo suo, come gli Stati Uniti dopotutto. Non è possibile abitarci per più di un anno, si finirebbe per diventare uno dei muschi che infestano i mattoni dei tanti, troppi palazzi del posto. Ma per un anno è vivibile.
Ciò che più amo fare a Brooklyn è sedermi sul davanzale della finestra, che in realtà affaccia su una di quelle scale antincendio di metallo che portano al tetto, ma che non ho mai provato per paura che si rompa o che sia io a rompermi scivolando di sotto, e fumarmi una sigaretta ascoltando il respiro del posto: quando dico "respiro" intendo quell'insieme di rumori, brusii, voci indistinte, sirene, copertoni che sfrecciano sull'asfalto bagnato, porte che sbattono, passi, insomma tutto ciò che rende vivo un posto. La condizione migliore in cui godermi questa abitudine è dopo che è piovuto per buona parte della giornata, quando l'aria è pungente e il tramonto intriso di nubi rosse e nere. Mi sento dentro a un film in quei momenti.
C'è davvero qualcuno al piano di sopra che suona il sassofono, non è solo uno stereotipo. Ma non è di colore. Ed è una donna. Polacca. Nemmeno troppo brava. Ma a me piace lo stesso ascoltarla.
Le mie giornate si compongono principalmente di piatti surgelati cotti male, videocassette di dubbia provenienza comprate al mercatino dell'usato (ci ho trovato molto di più film amatoriali di vario genere che i film riportati sulla custodia, ma mi diverto di più con quelli, quindi va bene), telefonate infinite al mio amico Jeff, che sono sicuro appoggi il telefono da qualche parte e si metta a fare altro quando lo chiamo, perché riesco a parlare indisturbato per due ore, inutili agguati al ragno che mi infesta la vasca da bagno e vodka liscia allungata con spremuta di mandarino. Niente degno di nota.
A volte mi chiedo se fosse davvero questa la realtà che volevo abitare, ma finisco per darmi sempre la stessa risposta: no. Non che avrei potuto farci granché, voglio dire, posso cambiare le cose fino a un certo punto, però... arriva un momento nella vita di una persona in cui si è più propensi all'insoddisfazione. È una brutta bestia quella, più della tristezza e della mancanza di motivazione (di solito queste due sono conseguenze della prima). Ci si sente a disagio qualunque cosa si faccia e non c'è rimedio se non accettarsi. Ed è la cosa più difficile del mondo.
Ogni tanto mi metto a cantare, di solito mentre mi faccio la doccia. Non credo sia una cosa bella per il mio vicino, sebbene io non mi ritenga stonato, perché ci tiene a battere forte sul muro ogni volta che lo faccio. Vero è che perlopiù mi lavo intorno all'una di notte, ma insomma, un po' di elasticità. Non so se mi aiuti o meno farlo, fatto sta che mi sale questo fiume di voce che ha un bisogno matto di uscire e ci passo un sacco di tempo, più o meno finché non sento più la gola. E il giorno dopo a stento riesco a parlare.
Brookyln ti succhia via l'anima, questa è la mia teoria. Lo fa senza che tu te ne accorga, un pezzo mentre dormi e un altro mentre sei al supermercato, uno mentre ti spezzano il cuore e un altro quando vinci una scommessa. Non lo fa perché abbia fame o perché in qualche modo questo la arricchisca, secondo me, ma perché si diverte. Come ho detto: umida e perversa. Come la prostituta che ti ha fatto l'occhiolino.
Eppure ha un viso meraviglioso, sì, ha il viso di una madre e di un'amante e di qualche stronzo cui è andata male la giornata e che con la scusa che l'hai guardato per mezzo secondo ti mette le mani al collo e sei costretto a fare a botte. Ma non puoi fare a meno di amarla, di vederci cose che non ci sono, di proiettarci i tuoi sogni e i tuoi bisogni, di perdertici e di finire a camminare senza andare da nessuna parte, a disegnare spirali per le vie che pullulano di gente che non conoscerai mai e che non ci tiene a conoscerti, perché in fondo vivere è questo, girare, girare, girare... e crepare, eventualmente. Ma direi che per oggi è abbastanza coi giri di parole senza senso, è il momento di mettermi al lavoro, il momento di scrivere l'articolo che mi cambierà la vita.
Lo dico sempre e poi sto sempre qua a respirare polvere. Ironia.
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daanselein · 7 years
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Foresta di Broken Arrow
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Varin Bjørn La pioggia battente aveva colpito Broken Arrow per quasi tutta la mattina. Il temporale ora era passato e Varin si era messo in sella per raggiungere la foresta, sicuramente umida, di Broken Arrow. Il sole si era aperto un varco tra le nuvole nere di quel temporale passeggero, l’aria stava tornando pesante, calda e umida. Il biondo aveva parcheggiato la moto al lato della strada e si era fumato una sigaretta in sella a essa, prima di decidersi a entrare nella radura. Spense la sigaretta contro la suola delle scarpe e gettò il mozzicone a terra. Bloccò lo sterzo della sua Harley con la chiave che poi assicurò a un moschettone che teneva appeso alla cintura, assieme alle altre chiavi. Appeso alla cintura aveva anche un minaccioso e lungo coltello da caccia. Era stato fermo a fumare non per pigrizia, ma per monitorare quante persone passassero su quella strada e aveva scoperto senza troppa sorpresa, che non passava molta gente per di lì. Il chiacchiericcio di svariati uccelli, una volta spenta la moto sembrava essersi fermato. Il biondo aveva mosso qualche passo lento sugli aghi di pino ancora umidi, subito gli sembrò di tornare a casa, nel suo ambiente naturale, nelle terre che lo avevano visto prima nella sua forma reale, poi come umano, in una Norvegia lontanissima dal suo luogo di provenienza. Si era lasciato parecchi metri alle spalle, ormai non poteva nemmeno vedere più la strada. Gli uccelli, poco lontano, tornarono a chiacchierare. Al suo passaggio tutto cadeva nel silenzio più spettrale e svaniva non appena si era allontanato sufficientemente. Il motociclista si guardava intorno, senza essere davvero convinto di trovare qualcosa, piuttosto sembrava interessato a scoprire i segreti di quella foresta, sempre che ne avesse. Sentì qualche lieve passo non troppo lontano. Si fermò in ascolto e chiuse gli occhi. Pronunciò una sola parola e ai suoi occhi tutto divenne buio, se non per tante macchie rosse, contornate via via da aloni sempre più chiari. Il rumore che aveva sentito era collegato a una macchia, che emanava parecchio calore: un comune lupo. Varin riaprì gli occhi e proseguì senza timore, la bestia si fermò subito al suo passaggio, non indietreggiò, ma nemmeno si mostrò pronta all’aggressione. L’uomo passò a qualche passo dall’animale, che sicuramente non era solo, poi proseguì. Il canide rimase fermò ancora un po’, poi Varin lo udì allontanarsi. Il silenzio era surreale, ma non ci trovava nulla di strano, niente che non avesse visto per secoli e secoli, durante la sua vita. Pensò che l’unica cosa che avrebbe potuto far sparire una ragazzina in quella foresta sarebbe stato un altro bipede, intenzionato a rapirla. O, al massimo, malauguratamente un lupo spintosi troppo lontano dal suo territorio avrebbe potuto aggredirla, ma in un caso così sfortunato il suo cadavere sarebbe stato rinvenuto.  Il biondo si fermò di nuovo guardandosi intorno, si chinò per osservare un ciuffo di peli marroni a terra, ma nulla che sembrasse insolito. Era come cercare un pesce su una montagna. La ragazzina non era chiaramente in quel bosco, nemmeno la sua vista termica sembrava individuarla.
Charlotte Hanna Holtz La pioggia portava via ogni cosa. Gli odori artificiali si affievolivano, risaltavano quelli della natura, di tutto ciò che l’acqua piovana toccava; i suoni, anch’essi, sembravano ovattarsi, sparire quasi con l’arrivo della pioggia, come se tutto calasse in un sommo silenzio per omaggiare quell’evento che la natura offriva a tutta la terra, come se, col suo intervento, tentasse nel migliore dei modi di cancellare ciò che di errato l’uomo aveva creato. Amava la pioggia, la calmava, sembrava tutto così tranquillo e silenzioso sotto quei rovesci, come se tutto si fermasse a riflette. La pioggia portava via ogni cosa, ma non il suo odore da lupo. No se finiva nella traiettoria di un altro della specie. Il vicesceriffo Perez sembrava, in quella mattinata, più che decisa nel voler estrapolare, da Charlotte, quante più informazioni, in via totalmente non ufficiosa, su tutto ciò che sapeva di Hope. Parlarle semplicemente in veste di agente, dato i precedenti dei giorni passati, non avrebbe funzionato ancora per capire che intenzioni, la lupa, avesse; aveva mostrato, Charlotte, fin troppo interesse sugli ultimi sviluppi riguardanti la sparizione della giovane figlia del sindaco, un interesse che, da parte di una forestiera, risultò più che sospetto. C’era da dire anche che, la bruna, non aveva di certo dei pratici mezzi, o scuse più che solide, per tentare di informarsi, era semplicemente andata lì, aveva posto alcune precise domande e, senza ottenere risposta alcuna, ricevette solo la porta in faccia da parte dello Sceriffo Fleming. “Questo è il ringraziamento per chi vuole dare una mano?” Fu questa la domanda che rivolse, giorni prima, allo Sceriffo nel suo ufficio e ora, con lo stesso tono marcano, ma leggermente più infuriato e sarcastico, la stava rivolgendo a Natalie nel cuore del bosco in cui si erano scontrate. La donna non aveva utilizzato mezze misure con Charlotte, le aveva fatto ben intendere che, dato l’odore, aveva capito che fosse un licantropo e che, se l’avesse beccata nuovamente in atteggiamenti sospetti a ficcanasare sulla scomparsa di Hope, di certo non si sarebbe limitata a qualche spintone e ringhi animaleschi. Un rapido scambio di battute, un veloce scontro sotto la pioggia e, dopo averla assicurata che l’avrebbe tenuta sott’occhio, prendendo le sembianze da lupo, il vicesceriffo, si allontanò facendo perdere le sue tracce. Charlotte, appoggiata al tronco di uno degli alberi, scivolò, con non poca difficoltà, lungo tutta la corteccia con la schiena, fino a sedersi sul suolo umido. La pioggia era finalmente cessata e lei, bagnata e sporca di fango, si concesse qualche minuto nel silenzio di quella fitta boscaglia, restando lì, seduta a riflettere, come un cane abbandonato. “Che problema ha questa città?!” Sì domandò appoggiando la testa al tronco. Sospirò, un sospiro pesante e frustrato che, in quel silenzio, fece un rumore assordante. Poi un’odore che aveva già sentito, ma dove? All’officina in cui aveva portato la moto? Possibile o ciò che aveva vissuto con Perez l’aveva portata in uno stato confusionario? Agì d’impulso, schizzò in piedi, estrasse la pistola che portava nascosta nella fondina sotto il giacchetto di pelle e, con presa salda, mirò verso il punto in cui credette di sentir provenire l’odore. Si scostò di poco dall’albero in cui si era appartata, per avere una maggiore movenza delle braccia tese e della visuale, in caso si sarebbe dovuta girare improvvisamente. In attesa di prendere visione della piena figura, preferì alcune chiare ed alte parole che, al momento, sembrò come riversare semplicemente al vento. «Non sono più in vena di altri agguati.»
Varin Bjørn Passo dopo passo si era spinto ancora più avanti, ormai però i suoi pensieri si erano incollati a quell’unica realtà, quella che legava la sparizione della ragazzina a qualcosa che in quella foresta non esisteva. Di nuovo una macchia, ma questa volta arancione. Gli animali solitamente emanavano molto più calore visto che la loro temperatura basale era molto alta, ma quella macchia arancione non poteva che appartenere a un bipede. Il biondo dischiuse gli occhi, in due fessure, colme di risolutezza e anche rabbia, sembrava che qualcuno in quella foresta si fosse appostato, forse proprio per controllare che nessuno entrasse nell’area dove avevano nascosto la ragazzina. Con passi silenziosi, inudibili, da predatore aumentò il passo, curvò la schiena in avanti e flesse le ginocchia, procedendo tra gli arbusti, senza essere visto. Affrontare i bipedi lo metteva comunque in posizione di superiorità, sebbene il suo corpo umano non gli permettesse di certo di essere potente come quando era nel suo vero corpo. Estrasse il coltello da caccia, gli bastava solo quello. Avanzò di nuovo, passo dopo passo, lentamente, ma improvvisamente quella macchia si mosse in fretta. “Non sono più in vena di altri agguati”, la voce apparteneva a quella di una donna. Il drago rimase immobile, con il manico del coltello ben saldo nel suo pugno e la lama rivolta verso il basso, contro l’avambraccio. Rimase lì, fermo, con gli occhi puntati verso di lei, poi decise di sollevarsi lentamente, con le mani sollevate, non era il caso che sparasse alla cieca e lo costringesse a settimane di agonia per via di un colpo che non lo avrebbe mai ucciso, solo rallentato. «Non. Sparare.» Scandì il motociclista muovendosi lentamente. Con fermezza e calma abbassò la mano che stava stringendo il coltello e lo rinfoderò, chiudendo l’impugnatura tra due lacci uniti da un bottone. Il drago uscì dal suo nascondiglio, con le mani in vista e a passi lenti e misurati. Quando la sua figura fu del tutto visibile riabbassò le braccia lentamente e le lasciò penzolare lungo i fianchi, senza dare l’idea di essere in procinto di attaccarla. Rimase nel più assoluto silenzio, la sua espressione era seria, calcolatrice.  «Potresti abbassare quell’arma? Qualcuno potrebbe innervosirsi nel vedersi una canna puntata addosso.» Mantenne un tono piatto e molto profondo, appariva fin troppo calmo, come se fosse abituato a quel genere di situazioni e in fondo lo era: avere una pistola puntata addosso ormai era quasi un marchio di fabbrica per quella gang di motociclisti.
Charlotte Hanna Holtz L’impulsività, con molte probabilità, era uno dei difetti di Charlotte, forse il maggiore. Agiva prima di pensare, spesso in maniera anche totalmente sbagliata e non solo a fatti, ma anche a parole. Parlava, non tanto a vanvera, quanto senza ponderare sul peso che, ogni parola, avrebbe potuto avere; cacciava fuori ogni pensiero, ogni ragionamento, senza troppi filtri, perché non ragionava, andava all’avanscoperta senza un reale piano, ma solo seguendo il proprio istinto, un istinto confusionario dato che, con la maggior parte delle proprie forze, era più presa a scindere quello umano da quello animalesco, invece che concentrarsi su i reali, giusti, segnali. Si rendeva conto troppo tardi di aver preso la strada sbagliata, doveva ammetterlo e, nonostante ci sbattesse la testa più e più volte, ancora non riusciva ad imparare quella semplice lezione: ragionare prima di agire. Tenne ancora ben salda la presa sull’impugnatura della pistola, la guancetta in legno, almeno secondo il suo giudizio, rendeva la presa molto più sicura, certo era che, col tempo, i segni di usura, piccoli graffi e taglietti, iniziavano ad essere più che evidenti, piccole ammaccature di vita alle quali, però, la bruna era molto legata. Lo sguardo ancora era assottigliato ed indagatore, le sopracciglia aggrottate, così tanto che, proprio alla crocio del naso, delle piccole pieghe, della pelle, sembravano creare un sorta di “v”. Le gambe leggermente flesse, come se si tenesse pronta ad un imminente slancio per evitare qualsiasi tipo di attacco, i vestiti erano già mezzi umidi e, a tratti, anche sporchi di fango, gettarsi a terra, nuovamente, non le avrebbe comportato nessun tipo di reazione. La sicurezza e la calma con la quale lo sconosciuto proferì le prime parole, così come tutte quelle che ne sarebbe seguite, quasi spiazzarono Charlotte. Non è di certo da tutti rimanere quasi impassibili in una situazione del genere, il che le fece pensare che, probabilmente, non era una situazione novella per l’uomo. Rifletté ancora per qualche secondo, attimi che sarebbero potuti sembrare eterni. In quel momento, in quel preciso momento, doveva ragionare davvero per bene. Non era di certo tipo che si fidava alla prima parola, non si fidava neanche alla seconda o dopo giornate intere di conversazioni, ma, ammirando quasi l’approccio del biondo, iniziò a rilassare i muscoli delle mani, fino ad impugnare l’arma con solo una mano, quasi anche in modo maldestro e, alzandole poi entrambe, gli fece capire che avrebbe posato la pistola. «Quel qualcuno, però, non mi sembri tu. Ne ho viste di persone nervose e tu di certo non fai parte della categoria.» Alzando di poco il bavero del giacchetto nascose nuovamente la pistola nella fondina che aveva legata attraverso un’imbragatura della schiena, indossa come fosse un gilet di cuoio. Non fu restia a mettere via l’arma, dato che, nel caso la situazione fosse peggiorata, avrebbe potuto mettersi quanto meno in salvo, con l’ausilio di un altro tipo di arma: la ferocia di un lupo che, però, preferiva non far venir fuori. Non abbassò la guardia, non poté far altrimenti, non era una questione personale, ma proprio non riusciva a fidarsi di nessuno. «Certo è che se magari evitassi di aggirarti di soppiatto per il bosco...»
Varin Bjørn La donna sembrò convincersi e ripose l’arma, nel mentre il biondo aveva abbassato le mani lentamente sollevando le sopracciglia. «Non mi stavo aggirando di soppiatto. Stavo solo cercando di non fare più rumore di un elefante, si fa così quando si seguono delle piste.» La sua naturale indole superiore era già fuoriuscita, davanti a quella donna che lo aveva visto si e no per un paio di minuti al massimo. Dava sempre il meglio di sé, fin da subito. «E tu cosa ci fai qui? Non dirmi che sei sulle tracce della ragazzina...Non hai l’aria di esserne la causa della sparizione, anche se...» Il drago incrociò le braccia sul petto, senza però muoversi ancora, per evitarsi una pallottola da qualche parte. «Sembri molto nervosa, stai nascondendo qualcosa per caso? E non mentire, riesco a riconoscere i bugiardi. Deformazione professionale.» Sollevò leggermente il mento assumendo una posizione indagatrice e in qualche modo superiore, il berretto che indossava proiettava una sorta di ombra trasversale sul suo viso pallido e coperto da una peluria talmente bionda da sembrare bianca. I suoi stessi tratti sembravano suggerire che non fosse americano, forse canadese o europeo. «Cosa sai della scomparsa della ragazzina? Spero che tu non sia una vedetta, perché come sentinella, lasciamelo dire, fai piuttosto schifo. Sappi che potrei metterci meno del previsto a trovare il vostro nascondiglio.» Sì, la stava decisamente provocando un po’, ma era un predatore e aveva un modo tutto suo per avere a che fare con quelle che lui considerava le sue prede: i bipedi. Provò a muovere qualche passo, ma non verso di lei, verso la propria destra, rimanendo alla stessa distanza ma cambiando angolazione dalla quale osservava la ragazza tesa.  Gli occhi erano ridotti praticamente a due fessure, le iridi azzurre studiavano ogni minimo dettaglio su di lei, persino il suo modo di respirare. «Però continuo a credere che tu sia qui per caso, ma dovresti evitare di aggirarti qui e sembrare così nervosa. La gente potrebbe iniziare a sospettare di te.» Dentro di sé il presidente iniziò a pensare che chiunque invece avrebbe potuto invece sospettare di lui, in fondo era solo un motociclista che si aggirava silenzioso e impavido nel bosco che aveva fatto da testimone alla scomparsa di una ragazzina innocente.
Charlotte Hanna Holtz Dritto al punto. Così quello sconosciuto si stava approcciando con lei. Non stava usando mezzi termini, giri di parole, frasi ambigue che altro non facevano che velare una verità difficile da esprimere a voce. Le piaceva, quel suo fare diretto e schiatto, erano delle caratteristiche caratteriali che non tutti possedevano e che lei apprezzava profondamente, poco importanza aveva il fatto che sarebbe potuto risultare fastidioso e indiscreto, lei anche, il più delle volte, preferiva apparire come acida e cinica pur di sputare in faccio a qualcuno ciò che realmente le frullava in testa, più tosto che fingere sorrisini e tergiversare con stronzata a cui non dava la minima importanza. Certo, c’era situazione e situazione, per quanto le pesasse, certe volte, sapeva bene di dover dosare le proprie parole e, in alcuni casi, fingere persino quei dannati sorrisini falsi che tanto odiava. «Non le mandi di certo a raccontare, tu, vero?!» Fu l’unica cosa che, al momento, riuscì a rivolgere all’uomo. Rimase ancora, per quei brevi secondi in cui fu lui a lanciare sentenze e supposizioni, in silenzio, osservandolo e cercando, in tutti i modi, di eliminare dalla mente ciò che era da poco accaduto con il vicesceriffo Perez. Non era facile, eliminare così di colpo l’accaduto, non farsi prendere dal panico quando, un altro licantropo, fiutava il suo vero odore e decideva, a brutto muso, di avere un faccia a faccia, men che meno un incontro come quello avvenuto con la donna, proprio in quel bosco, proprio qualche minuto prima di quello che ora stava prendendo piede. Se era agitata, nervosa? Sì, il biondo aveva ragione: lo era. Aveva visto bene anche sul fatto che aveva l’aria di una che stava nascondendo qualcosa. Chi diavolo era? Riusciva per caso a leggerle nella mente? Per questo, più di prima, stava tentando di eliminare da i suoi pensieri lo scontro avuto con il vice. «Buona fortuna nel trovare qualsiasi tipo di nascondiglio tu voglia trovare.» Poi rise, una risata stranamente divertita. Chiuso gli occhi, perdendo il contatto visivo, solo per un attimo, un brevissimo istante, il tempo di un sospiro, quasi rassegnata che, forse, quella conversazione e quello scrutarsi a vicenda, sarebbe andata più a lungo del previsto. Inoltre, se davvero quell’uomo riusciva a capire quando qualcuno gli stava mentendo, per evitare qualsiasi tipo di disastro, avrebbe dato risposte più che generiche. «Non so cosa di preciso tu voglia sentirmi dire, specialmente sulla sparizione di quella ragazzina, ma mi dispiace dirtelo, per quanto possa darti l’impressione di essere nervosa, provocarmi non ti aiuterà a farmi parlare. E ne so meno della gente del posto, se ti interessa saperlo. » Gli aveva sicuramente fatto intendere che era una forestiera. Un nuovo sospiro. Non era esasperata o stanca, voleva solo riprendere il possesso del proprio corpo, calmarsi, sì e trovare una scappatoia per evadere dal quel soggetto che non gliela raccontava esattamente tutta. «Hai detto che stavi seguendo delle piste, ma neanche tu mi dai l’aria di far parte del corpo di ricerca. Ma hai trovato me, giusto? Quindi complimenti, un punto a tuo favore.» Non voleva esattamente fare dell’ironia, voleva capire, più che altro, chi altri avesse incontrato, oltre a lei, se, nel suo “seguire delle piste” avesse visto più del dovuto.
Varin Bjørn Il presidente dei SAMCRO si guardò intorno, respirando l’aria colma di odori di quella porzione di foresta. La donna sembrava nascondere qualcosa, non era sicuro che però c’entrasse con la scomparsa della ragazzina. «Facendo così non ti stai aiutando, sai?» Non si mosse, non era ancora il momento. Semplicemente rimase in piedi, con le mani ferme lungo i fianchi, pronte a recuperare le proprie armi, in caso la donna avesse fatto qualcosa di stupido. Di certo non poteva morire a causa di un proiettile, che però avrebbe percepito per tutto il tempo, fino a quando a causa della sua natura avrebbe dovuto probabilmente rinunciare alle cure mediche. «Ho accettato di cercare la ragazzina, quindi eccomi qui. Potrei dire la stessa cosa di te, solo che da quel poco che ho visto mi sembri nervosa, tesa e di certo non hai l’aria di qualcuno che è nella posizione di fare la sostenuta.» Ora il biondo era entrato nella parte del gangster, quella che ormai gli usciva molto bene, dopo più di trent’anni che si trovava “nel giro”. «Senti, facciamo così: tu mi dici cosa stai facendo qui e io non risolverò la cosa. E sappi che non è nel mio stile chiamare la polizia. Sono un motociclista, non una casalinga borseggiata.» Il loro stile era piuttosto palese e riconosciuto in tutto il mondo. I motociclisti non erano persone troppo affidabili, o li odiavi a morte o eri dalla loro parte. In molti là fuori facevano solo i fantocci spacconi da bar per farsi qualche ragazza in più, ma i veri membri dei club più conosciuti nel mondo, erano criminali con un codice solido e non avevano paura di niente. «Se mi assicuri che sei qui anche solo per farti un trip di nascosto, io girerò i tacchi e ti lascerò perdere. Ma finché non mi darai una spiegazione temo proprio che non mi leverò dalle palle.» Con un cenno del capo sembrò incalzarla bruscamente, gli occhi azzurri di ghiaccio la scrutavano, mentre la posa piuttosto rilassata lasciava intendere che uno come lui aveva vissuto decine di volte una situazione simile.
Charlotte Hanna Holtz   «Oh, non mi dire! Quindi tu sei uno di quei motociclisti da poco arrivati in città? Non è così. Ho portato la mia moto qualche giorno fa da voi. Il “vichingo” mani di velluto è stato davvero in gamba.» Conversare non era di certo nel suo stile, se non in casi estremi, neanche interessarsi in faccende altrui o dar informazioni sulla propria persona o su i propri movimenti, ma in quel caso, tergiversare, forse fin troppo palesemente, le era sembrato la scappatoia migliore. Aveva, come dire, colto la palla al balzo quando, l’uomo, l’informò di essere un motociclista, “non una casalinga borseggiata”, parole sue.  Avrebbe persino voluto aggiungere di aver conversato, per tutto il tempo dell’assistenza, con una certa Nora, una donna che portava anche l’odore dell’uomo, ma non lo fece, voleva sviare il discorso sul perché si trovasse in quel bosco e non di certo focalizzarlo su “come fai a sapere che sto con lei?”. Aveva gesticolato più del dovuto, sia all’iniziale esclamazione sorpresa, una finta sorpresa dato che, percependo il suo odore, l’aveva già collocato in quell’officina, sia per apportare, con le dita, le virgolette quando proferì la parola vichingo. Se il suo tergiversare non fosse stato così palese, gesticolare, per chi la conosceva bene, sapeva esser un altro sintomo di tale atteggiamento. Ma niente, lui insisteva e voleva venire a conoscenza del reale motivo per cui, lei, si trovava in quel bosco. Dannata Perez, se non fosse stato per lei, per la deviazione che le aveva fatto prendere, per la perdita di tempo in cui l’aveva condotta, con molte probabilità non si sarebbe mai incontrata con quel biondo, anzi, senza ombra di dubbio avrebbe già raggiunto lo Schlotzky's Pub per farsi una bevuta. Forse anche due. E invece no. Un nuovo ostacolo, un nuovo inghippo. Altre domande. Alzò le mani, come in segno di resa. «Ho la tasca piena di erba, ok? Sono venuta qui per sballarmi un po’ in santa pace e invece tu mi hai interrotto sul più bello. Contento?» Sapeva che mai, quella risposta sarebbe stata accetta, lo sapeva bene e non aveva di certo proferito quelle parole per farle passare come veritiere, ma lui le aveva detto che, anche dicendo così, lui si sarebbe tolto dalle palle. Certa che così non sarebbe stato, ci aveva provato lo stesso. «Senti, non so per quale strano motivo ti sei messo a cercare quella ragazzina, ma io non voglio rogne con questa storia, dico davvero. Il bosco mi rilassa e non vado sempre in giro armata, stavo tentando di allenarmi un po’, come hai detto tu: sono nervosa con una di queste in mano e una donna, oggi giorno, deve sapersi difendere bene. Sai, non tutte hanno la fortuna di avere al proprio fianco un uomo a cui piace giocare al detective, macho e sicuro di sé a proteggerle.» Non era totalmente una balla, almeno la parte iniziale, quella di non voler rogne e del rilassarsi nel bosco, erano vere. Sperava solo che, quella mezza menzogna sarebbe stata convincente. Solo dopo, dopo aver scandito per bene ogni singola parola, si era resa conto di aver detto anche troppo. Ora non le restava altro che sperare che, quell’ultima frase, venisse allegramente ignorata lasciandola così passare in secondo piano.
Varin Bjørn Varin aveva annuito lentamente, mentre rispondeva mimicamente alla domanda della donna. «Sì sono il presidente del Club, il vichingo è il mio braccio destro. È norvegese, quindi sì, hai fatto centro.» Il presidente del Club spostò lo sguardo su di lei, lentamente, mentre continuava ad ascoltarla. I draghi erano astuti e spesso manipolatori, ma in quel caso a Varin poco importava se lei avesse qualche problema con la legge o fosse in crisi d’astinenza da quello che decisamente non era erba. Perché sì, gli sembrava proprio si comportasse come quei drogati che ogni tanto bussavano alla loro porta alla disperata ricerca di droga. E non credette ai suoi goffi tentativi di pararsi il culo, era chiaro. Il suo viso scettico lo dimostrava. Eppure non era di certo per cose strane che non si stava lasciando abbindolare dalle sue parole, era per un semplice fatto di tossicodipendenza, da quello che aveva visto, pensava fosse davvero quello il problema. «Senti, ci sono stato dentro anche io. Drogarti non ti aiuterà a risolvere i problemi. E nemmeno indebitarti.» Gli occhi caddero di nuovo sulla pistola. Era chiaro: la donna si era indebitata con qualche spacciatore e ora loro la stavano cercando per darle una bella lezione. «E conosco anche un certo tipo di mondo. Se non paghi e ti indebiti quelli ti fanno fuori o ti tolgono qualche parte del corpo, sai per darti una bella lezione. Però bella mossa muoverti in un bosco, solo che non risolverai nulla, magari non ti verranno a cercare qui, ma tu non potrai nemmeno riemergere tipo-bigfoot sperando che si siano dimenticati di te. Senti.» Varin mosse, dunque, qualche passo in avanti, verso di lei. Teneva le mani leggermente sollevate, per farle capire che non aveva brutte intenzioni e che, soprattutto, il coltello da caccia se ne stava ancora lì, appeso alla cintura. «Se vuoi posso darti una mano a uscire da questa foresta e posso offrirti un posto dove stare fino a quando non si risolve la situazione. È c’è un modo solo per risolverla: dirci chi ti vende la roba. Al resto ci pensiamo noi.» A lui poco interessavano le buone azioni, il riscatto dopo una vita di cattiverie e altre stronzate simili. A lui interessava il commercio illegale e quell’appiglio sembrava dannatamente invitante. «Non dovrai pagarci...Semmai puoi sdebitarti cucinando o servendo i clienti durante le feste. Liberarci degli spacciatori è già di per sé un buon pagamento.» Varin pensò che erano a un passo dal conoscere tutti i pezzi grossi del crimine di quel posto, il trucco era avere pazienza.
Charlotte Hanna Holtz   Era rimasta, ne vero senso della parola, a bocca aperta, non sapendo più cosa poter dire di preciso. Sicuramente, l’uomo, aveva capito quante stronzate, fino a quel momento, lei aveva cacciato fuori un po’ come se ne andasse della propria vita e forse, in un certo senso, poteva anche essere così; l’aveva capito che le sue parole altro non erano che un modo per pararsi il culo da ciò che realmente, fino a qualche minuto prima, stava facendo in quel bosco, ma la cosa che davvero la lasciò senza parole fu il motivo di cui si convinse: droga. L’aveva scambiata per una drogata e forse fu lo sbaglio più grande, ma allo stesso tempo fortunato, a cui si sarebbe potuta ritrovare in una situazione come quella. Avrebbe voluto ridere, ridere davvero tanto e di cuore, quel tipo di risata genuina che quasi è contagiosa, una vera risata divertita che racchiudeva un bel: “Che stupido, non sai quanto ti stai sbagliando.” Ah, l’avrebbe voluto davvero fare e c’era vicino, vicinissima, sentiva i muscoli dello stomaco contrarsi per rilasciare quel suono che avrebbe potuto rovinare, una volta per tutti, quella sorta di pace che aleggiava sopra di loro. Non rise, non poté, specialmente dopo aver udito quelle ulteriori parole. Le voleva fornire davvero una mano? La sua incredulità era ancora alle stelle, l’unica cosa che riuscì a fare fu chiudere, serrare, la bocca.   Sperava solo che tutta quella incredulità venisse scambiata per il fatto di esser stata “sgamata”. Quindi ora doveva comportarsi da drogata. E pensare che il massimo della trasgressione, in quel campo, furono le canne che si fumava di nascosto dal  padre fino ai venti anni circa. “Meglio drogata che licantropo” pensò all’istante, convinta. Avrebbe venduto l’anima al diavolo se avesse potuto concordare uno scambio del genere. Diede qualche colpo di tosse, forse anche due. Ora che era stata etichettata come drogata bisognosa d’aiuto, sì, ora stava riuscendo quasi a rilassarsi, sicuramente più di quanto non fosse qualche attimo prima. Guardò per qualche breve secondo a terra, come una finta imbarazzata, ma in realtà stava cercando di prendere tempo e capire come potersi tirar fuori da quella proposta, ma senza rifiutarla completamente. «Un posto in cui stare già ce l’ho. E’ come una zona neutra e per ora è tranquilla, ma...» Se voleva far fuori degli spacciatori, togliendo  così di mezzo ogni possibile concorrenza o chissà cos’altro, beh, se erano persone che gli stava chiedendo in cambio di un po’ d’aiuto, quello l’avrebbe sicuramente potuto fare e senza neanche troppi problemi. «Ho tutti i contatti nel posto in cui mi trovo, magari li contatto, fingo di poter saldare il debito e gli tendo un’imboscata, da te. Posso essere una brava infiltrata e farti avere, nel giro di poco, diversi agganci del posto, che dici?» Poteva davvero farlo e l’avrebbe fatto, avrebbe promesso e giurato di tutto se questo le avrebbe garantito il “rilascio” da quel bosco chiudendo una volta per tutte quell’incontro. «Ci stai? Per ora ognuno andrà per la sua strada, tu ritorni nel tuo posto, io nel mio e non appena ho una bella rete o comunque ogni volta che avrò delle piste, te le passerò. Mi chiamo Charlotte, te lo dico perché...perché sono davvero in debito con te, per l’aiuto che mi hai offerto.» Sì, più o meno, ma si stava davvero impegnando per quel ruolo da ragazza drogata pronta alla redenzione. 
Varin Bjørn Il biondo la stava osservando con il suo solito sguardo algido e distaccato, la osservava quasi di sbieco, senza lasciar intendere alcuna emozione. «D’accordo. Senti, tieni. Questo è un telefono usa e getta. Visto che sei per ora impossibilitata a prenderne uno ti lascio questo.» Aveva estratto dalla tasca un telefono piuttosto vecchio e datato, il tipico cellulare usa e getta che andava fatto sparire una volta raggiunto lo scopo per cui era stato utilizzato. «Trovi il mio numero sotto alla voce “Contatto Zero”, quando vuoi darmi qualche notizia chiamami lì. Quello non è il mio vero numero ovviamente, quindi non corriamo rischi.» Varin aveva compiuto qualche passo in avanti, annullando la distanza tra di loro, le aveva offerto il cellulare poggiato sul proprio palmo, rivolto verso l’alto. «Non fare cazzate, mh?» Le lasciò il telefono e si guardò di nuovo intorno, nei suoi occhi c’erano una miriade di pensieri e una concentrazione quasi smisurata.   Si tolse il cappellino e si passò una mano tra i capelli biondi, risistemandoli all’indietro, dopo di che si allontanò di qualche passo, senza perderla di vista, né darle le spalle. «Continuerei le ricerche, ma temo che qui non troverò altro che junkie, senza offesa.» Sembrò per qualche istante guardarle le braccia, senza voler davvero cercare di capire di cosa si facesse. «Senti, sei giovane, non dovresti rovinarti così. E te lo dico da uno che ci è stato dentro. Comunque ora vado. Ti serve un passaggio per qualche posto tranquillo?» Con un pollice sollevato si era indicato le spalle, probabilmente per farle capire la direzione dove aveva parcheggiato il suo mezzo. «Che ne so, un motel lontano da qui, un rifugio tra gli alberi...» Nel mentre aveva infilato la mano in tasca per recuperare le chiavi, spostando la giacca aveva messo in mostra per qualche breve istante l’arsenale che si portava sempre addosso, un ricordo della difficoltà della vita nei quartieri difficili di Los Angeles. «Adesso torno ad avvisare i ragazzi dell’operazione. Ci terremo pronti.»
Charlotte Hanna Holtz   Si sarebbe ricordata di quell’incontro per sempre, come per sempre si sarebbe detta che quella storia aveva preso una piega davvero, davvero, ma davvero tanto inaspettata. Lei che, normalmente, non coglieva l’ironia nelle cose, anche se queste gli sbattevano brutalmente in faccia, le stava davvero venendo da ridere e si stava impegnando con ogni fibra del suo essere a non mostrar nessun tipo di contrazione dei muscoli facciali, neanche il più piccolo, per non lasciar intendere che, oltre che drogata, stesse anche uscendo fuori di testa. Se la stava ridendo, però, fragorosamente da sotto i baffi, così tanto che avrebbe giurato di sentirsi anche gli occhi bruciare, come quando ridi troppo e a stento si riesce a trattenere le lacrime. Ecco, stessa situazione, con la sola differenza che lei non stava ridendo apertamente e non l’avrebbe potuto fare, non fino a quando, quel biondi, fosse restato lì a fargli da guida morale. Sospirò, forse una volta di troppo, ma lo vece per tentare di tener a bada il proprio corpo i propri muscoli, le proprie emozioni. Sospirò nuovamente, quasi con poca rilevanza, come se, ormai, dava per scontato che, un gesto liberatorio come quello, per una “drogata” come lei, poteva significare tante cose, specialmente ora che gli avevano offerto un aiuto. Poi quel telefono usa e getta, ora si che sarebbe stata dura non scoppiargli a ridere in faccia. Si umetto le labbra, anche qui, come i sospiri, più volte, per nascondere quel sorriso che aleggiava su di loro. Di poco l’angolo della bocca si alzò, ma subito parlò, per giustificare ogni cosa. «Grazie...davvero...grazie. Non sai che enorme sollievo, sono così...felice.» Scrollò poi le spalle, annuendo con il capo a quella sua raccomandazione. Arricciò poi le labbra, non sapendo cosa dire o cosa fare per dar modo a lui di riprendere la propria strada lasciandola così, finalmente in pace; optò per il silenzio e nel ripetere i suoi gesti, perché come lui iniziò a guardarsi attorno, anche lei, fece lo stesso. A quelle sue nuove parole e a quel nuovo gesto con cui indicava la strada che avrebbero potuto prendere insieme, continuando ad essere un bravo specchio, fece in egual modo: avambraccio piegato e pollice che indicava alle proprie spalle, praticamente la parte opposta rispetto alla prima via indicata. «Grazie, pa’, ma ho la mia moto che mi aspetta dall’altra parte e penso di riuscir a guidare da sola fino a...beh, al mio rifugio.» Iniziava a vedere la luce da tutta quella storia e si sentiva così solleva, ora. Incredibile come, per la prima volta, esser accusata di essere una drogata quasi senza speranza, fosse stata la sua salvezza. Poi alzò la mano con cui aveva preso il cellulare, poco prima, dal palmo di lui e con la quale ancora lo stringeva saldamente; qualche passo iniziò a muoverlo anche lei, all’indietro. Poco le importava se avrebbe detto qualcosa per fermala e tentare di farle cambiare idea sulla sua decisione di voler andare sola, ormai era intenzionata a lasciare quel bosco, anche a costo di iniziare a ringhiare. «Avrai mie notizie, “Contatto zero” non ti preoccupare.»
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lospeakerscorner · 4 years
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Questa domenica il nostro autore ci racconta di un delitto che fu all’origine della Cappella della Pietatella 
di Lucio Sandon
Ne reminiscaris Domine delicta nostra
In quella che al tempo dei greci era l’antica agorà napoletana, verso la metà del 1500 Giovan Francesco Paolo de Sangro, primo principe di Sansevero, diede all’architetto Giovanni Merliano da Nola l’incarico di costruire un palazzo signorile: il principe voleva sfruttare un vasto giardino di sua proprietà in piazza San Domenico Maggiore e, come fondazione volle riutilizzare quanto rimaneva del tempio di Iside di memoria ellenica. Macerie che deturpavano la piazza più antica di Napoli. Poiché poi lo spazio non mancava, a fianco della costruzione principale, venne eretto un altro edificio, detto Palazzo Piccolo, con lo scopo di darlo in affitto a persone di un certo rango.
  Al termine dei lavori della lussuosa costruzione, nella parte residua del giardino era rimasto ancora dello spazio, e per utilizzarlo venne edificata una semplice una cappella votiva, che fu consacrata dal figlio Alessandro, vescovo di Benevento.
Mentre i Sansevero abitavano nella costruzione principale, nella seconda dimora venne presto ad abitare una giovane coppia famosa per la bellezza della sposa, la principessa Maria dell’illustre famiglia d’Avalos, proveniente dalla Castiglia e trasferita a Napoli al seguito di re Alfonso I d’Aragona, e per la fama dello sposo, Carlo Gesualdo principe di Venosa, il più importante compositore di canzoni e madrigali del suo tempo, amico intimo del poeta Torquato Tasso.
Diciamo, due piccoli Fedez e Chiara Ferragni ante litteram.
La vita dei due nobili coniugi era serena, anche se Maria a volte non trovava gradevole il marito anche perché egli pensava solo alla sua musica, che lei invece non apprezzava per nulla. Gesualdo era piuttosto brutto, basso e perennemente accigliato e aveva modi rudi, ma in ogni caso ben presto gli sposi misero al mondo un bel bimbo, il principino Emanuele.
Un amore improvviso fu invece quello che durante un ballo, colse la bella Maria quando conobbe il giovane Fabrizio Carafa duca d’Andria e conte di Ruvo, considerato il cavaliere più bello di tutta Napoli. Quasi subito tra i due nacque una forte attrazione: tra incontri fortuiti e passeggiate romantiche, l’amore sbocciò sempre più potentemente.
Purtroppo però anche Don Giulio Gesualdo, zio di Carlo, si era da tempo invaghito di Maria, ma a nulla erano servite le sue lusinghe e i regali: il cuore della bella Maria apparteneva solo a Fabrizio. Don Giulio però, venne a sapere della tresca tra la giovane e il conte, e per gelosia ne informò subdolamente suo nipote Carlo, il quale iniziò ad indagare.
I due amanti erano però molto astuti e accorti, e il principe di Gesualdo non riusciva a raccogliere nessuna prova. Carlo decise allora di organizzare una trappola: il 16 ottobre del 1590, organizzò una finta battuta di caccia al bosco degli Astroni, e annunciò alla moglie che non sarebbe tornato a casa a dormire. Quella sera, la cameriera di donna Maria si accomodò su una seggiola fuori dell’appartamento dove i fedifraghi si erano incontrati. La sua signora le aveva raccomandato di non addormentarsi, ma la fatica colse la giovane servetta, che cadde in un sonno profondo, interrotto poco dopo da un improvviso frastuono.
Donna Maria invece non dormiva di certo tra le braccia del duca Fabrizio, quando la povera serva si ritrovò innanzi alcuni uomini armati, che si introdussero nella stanza della contessa, seguiti dal principe di Gesualdo.
«Avvicinandosi a Donna Maria D’Avalos che era rimasta fino ad allora sulla sponda del letto, la spinse con la punta della spada fino all’angolo dove si trovava il baule nuziale e tenendola lì inchiodata le disse: “Puttana!” Poiché si vergognava di trovarsi nuda, ella cercò di tirare a sé la coperta che pendeva dal letto. Il Principe glielo impedì con un colpo che le ferì il fianco. Lei allora si coprì con le braccia e attese, e poiché non la uccideva, la Principessa ebbe paura. Per allontanare da sé il terrore, cercò nella sua memoria il motivo di un canto che aveva spesso cantato da bambina e prese a sibilarlo tra i denti. Il Principe, furioso nel vedere che lei lo sfidava, la colpì al ventre gridando: «Ah, sporca puttana!» Lei smise di cantare e disse: «Signore, sono due anni che non mi confesso». A tali parole, il Principe di Venosa pensò che se lei fosse morta dannata, sarebbe tornata di notte a trascinarlo all’inferno con lei, poi le attraversò il corpo con la lama della spada e la colpì più volte al ventre e al petto.»
Così Anatole France descrisse la scena dell’omicidio, anche se è da dubitare che ne sapesse più di molti altri. Quel che è certo è che i due amanti vennero straziati da colpi di spada e archibugio, ed esposti nudi appesi al balcone dell’appartamento, in modo da rendere pubblica l’offesa subita dal principe.
Il sangue dei due giovani scorreva via dai loro corpi, e le cronache dell’epoca dissero che veniva leccato dai cani randagi. A segnare ancor di più l’orrore di quella notte, sembra che il cadavere della bella Maria sia stato violato da un sacrestano gobbo, nella chiesa dove le salme erano state trasportate dopo il delitto.
L’omicidio non venne mai punito: a parte la potente parentela del principe, le circostanze lo giustificavano dal punto di vista della legge e del costume del tempo, tanto che il viceré Miranda, dal quale Carlo si recò personalmente a dare notizia dell’accaduto, lo esortò ad allontanarsi da Napoli non per sfuggire alla legge, ma per non esasperare il risentimento delle famiglie degli uccisi.
Carlo fuggì da Napoli e si rifugiò nell’inaccessibile e inespugnabile fortezza di Gesualdo, facendo disboscare ettari di bosco tutto intorno al castello, onde evitare agguati, e dopo qualche anno fece uccidere anche il figlioletto Emanuele, forse impressionato dalla sua bellezza che gli ricordava quella di Fabrizio Carafa.
Il processo per omicidio a Carlo Gesualdo venne archiviato il giorno dopo la sua apertura: «Per ordine del Viceré, stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo Principe di Venosa ad ammazzare sua moglie e il duca d’Andria.»
Oltre che dal Vicerè di Spagna, Gesualdo era protetto anche dalla parentela: suo zio era il cardinale di Milano Carlo Borromeo, che diventò santo poco dopo la sua morte.
Anche il povero Fabrizio però, aveva dei parenti importanti. Sua madre, Adriana Carafa Della Spina era la moglie di Giovan Francesco di Sangro principe di Sansevero. Donna Adriana si recò a supplicare Orsola Benincasa, la suora eremita che viveva non lontano da lì, che le assicurò l’indulgenza divina per l’anima di suo figlio.
Così la nobildonna fece trasformare la cappella votiva del suo palazzo in una vera chiesa, dedicata alla pietà materna: la Pietatella.
Sopra l’altare maggiore della Cappella Sansevero, vi è un sole raggiante, sul quale vi è la scritta Mater Pietatis.
Il 22 settembre del 1771, nella stessa dimora maledetta morì, probabilmente avvelenato dalle sostanze che usava per i suoi esperimenti, il principe mago e sapiente, don Raimondo di Sangro principe di Sansevero.
Maria D’Avalos è sepolta nella basilica di San Domenico Maggiore, ma il suo fantasma viene sentito vagare urlante e insanguinato lungo i vicoli della Napoli più antica alla ricerca del suo bambino e forse del suo giovane amante.
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  Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio.
Notevole è il suo penultimo romanzo, “La Macchina Anatomica”, Graus Editore, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario veterinario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal suo ultimo romanzo “Cuore di ragno”, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
Sempre nel 2019,  il racconto “Nome e Cognome: Ponzio Pilato” ha meritatola Segnalazione Speciale della Giuria  nella sezione Racconti storici al Premio Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno, mentre il racconto “Cuore di ragno” ha ricevuto la Menzione di Merito nella sezione Racconto breve al Premio Letterario Internazionale Voci – Città di Roma. Inoltre, il racconto “Interrogazione di Storia”  è risultato vincitore per la Sezione Narrativa/Autori al Premio Letizia Isaia 2109. Nel 2020 il libro “Cuore di Ragno” è stato premiato come Miglior romanzo storico al prestigioso XI Concorso Letterario Grottammare
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Un delitto quasi perfetto Questa domenica il nostro autore ci racconta di un delitto che fu all’origine della Cappella della Pietatella 
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Anime visti in questo periodo:
✓ Miraculous - Le storie di Ladybug e Chat Noir: Serie 2 
[ Miraculous, les aventures de Ladybug et Chat Noir: Saison 2 ]
[ 25+1 episodi | 2017-2018 | Studi: Zagtoon, Toei Animation, SAMG Animation, Method Animation | ITA su Disney Channel ]
[ Majokko, Supereroi, Azione, Commedia, Sentimentale ]
→ [ Sulla prima serie ]
La programmazione più lunga e sofferta di sempre - quasi alla pari con quella di certe serie di Yu-gi-oh! in Italia, con l'unica differenza che questa di Ladybug & Chat Noir è la trasmissione ufficiale. 
A parte ciò, questa seconda mi è piaciuta quanto se non più della prima: nuovi akuma con design e concept fantastici, il legame tra Marinette ed Adrien in evoluzione, nuovi supereroi part-time (!), nuovi personaggi e un finale di stagione fantastico che promette grandi cose per la terza serie. Rena Rouge è una delle fanciulle animate più gnocche in circolazione e voglio un suo scontro con la sua finta controparte Volpina, donzella tanto irritante quanto bella. Mayura è bellissima e promette tante cose belle (più o meno). Cloè, da personaggio insopportabile, è diventata una miniera di Epic Win che non può mancare per illuminare una puntata. 
Un po' un peccato che tutto ciò sia nella seconda metà della serie, ma tant'è, pur con qualche falla (sì, Inverso, sto guardando te e il tuo essere palesemente un miniarco compresso in un unico episodio, sì, Captaine Hardrock, sto guardando te e il tuo shippaggio arrandom tra Marinette e Luka, insensato lì e già ben più logico in Le Patineur) è una seconda serie godibilissima lo stesso~
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? Cardcaptor Sakura: Clear Card 
[ カードキャプターさくら クリアカード編 | Cardcaptor Sakura: Clear Card-hen / Cardcaptor Sakura: Clear Card Arc ]
[ 22 episodi | 2018 | Studio: Madhouse | SUB ITA su Yamato Animation ] [ Majokko, Shoujo, Slice of life, Sonnifero ]
→ [ Sull'OAV che collega la vecchia serie alla nuova ]
Non ero proprio in hypissimo per questa serie, però, visto il mio amore per CCS, la attendevo abbastanza. L'aver letto i commenti in anticipo mi ha evitato una colossale delusione e mi ha permesso di saltare episodi senza il benché minimo rimorso. 
Cardcaptor Sakura: Clear Card è un sonnifero. Potrei usare un giro di parole per descriverlo, ma credo che quest'unico termine racchiuda la sua essenza fin nel profondo. 
Con a malapena quattro volumi a disposizione, la Madhouse ha scelto di animare ben 22 episodi, memore degli ottimi filler della serie madre... ma è successo qualcosa di strano e la storia, già lenta ad ingranare, è diventata talmente noiosa da far davvero annebbiare la mente e chiudere gli occhi. Mi sono trascinata fino al decimo episodio con immensa fatica, non riuscendo a vedere più di due puntate al giorno (io che non ho nessun problema a vedermi un'intera serie one-cour in un giorno); poi mi sono arresa e ho visto direttamente gli ultimi tre episodi, dove finalmente appare la Trama. 
Per farvi comprendere la sofferenza (e lo dico a malincuore), vi dico un'unica cosa: spesso e volentieri, la cattura della Carta del Giorno occupa dai trenta secondi ai tre minuti. Possibilmente verso la fine dell'episodio. No, non sto scherzando né esagerando. Da un certo punto in poi, guardavo con una certa bramosia il cursore che scorreva, quindi l’ho visto bene. Il resto dell'episodio è riempito di... chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere inutili, che non sono slice of life, non sono tenere, sono semplicemente inutili. In un episodio, ad esempio, credo che un intero minuto venga riempito da Sakura, Tomoyo e Akiho che si dicono "Buongiorno", a loro e ai peluches. Sì, si dicono solo "Buongiorno (nome)". Per credo un minuto. O trenta secondi abbondanti. Non ho la forza di ricontrollare. 
Qualsiasi barlume di curiosità per la vita da studenti delle medie dei protagonisti, per la vicenda delle Carte Trasparenti, per i (supposti) misteri, per un qualsiasi evento nuovo viene schiacciato da minuti e minuti di blablablabla - e quelli che masticano bene il giapponese sono rimasti molto turbati nel sentire i personaggi parlare in keigo, pure tra amici stretti. 
A dare il colpo di grazia, il doppiaggio di Sakura e Tomoyo. Sakura Tange ha finalmente smesso di parlare per ultrasuoni, ma la voce che usa per la sua omonima rimane sempre molto acuta; Junko Iwao, purtroppo, si sente tantissimo che si sforza di fare la voce di una ragazzina, ottenendo solo di far sembrare Tomoyo un'eterna moribonda. Senza scherzare, confesso che le scene in cui parlavano solo Sakura e Tomoyo mi facevano venire l'emicrania. So che è una cosa crudele da dire, ma voglio essere sincera. 
Ah, la serie finisce pure con Sakura che si scorda tutta la Trama che aveva scoperto. Che bello. 
In mezzo a questa prateria di camomilla, si erge, bellissima e splendente, la ShaoSaku, ciò che mi ha dato la forza di reggere dieci episodi prima di correre al finale (... Anche se non capisco per quale arcano motivo Sakura e Shaoran, che fino a tre anni prima litigavano e tra un po' si menavano pure, siano diventati super timidissimi alla sola idea di dire che stanno uscendo insieme. Però poi Sakura presenta Shaoran alla famiglia e ottengono pure la benedizione al matrimonio. D'accordo. (?)). Per quanto Shaoran si premuri di non fare assolutamente nulla per buona parte della serie, le loro scene sono le più belle, qualsiasi cosa facciano o dicano. L'episodio ricalcato con la carta carbone su quello che fu della Carta dell'Acqua resta uno dei migliori - oh, forse perché è incentrato sulla cattura di una carta, come si suppone sia! So che ci sono altre belle scene ShaoSaku dopo il decimo episodio, ma non ho la forza di cercarmele. Le leggerò nel manga, eventualmente. 
Una serie assolutamente non al livello della principale. Da vedere solo se si vuole un po' di bella ShaoSaku zuccherosa - passando sopra all'ipertimidezza random. Se proprio proprio proprio si vuole vedere la serie, è consigliato leggersi qualche recensione e guardarsi solo gli episodi in cui è pervenuta un po' di Trama.
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✓ Kagerou Daze -In a Day's-
[ MX4D™『カゲロウデイズ-in a day’s-』 | MX4D™ KAGEROU DAZE -IN A DAY'S- ]
[ Mediometraggio | 2016 | Studio: Jumonji | Inedito ]
[ Azione, Urban fantasy ]
Sono passati circa due anni dalla sua uscita ma, nonostante all'epoca ci fosse un fandom immenso, ad oggi nessuno, in Occidente, l'ha subbato. Così, conscia del fatto che si trattasse del Solito Inizio, ho deciso di vederlo in raw, seguendo i dialoghi attraverso il riassunto sulla kiwi. Non è stato male. Questo mediometraggio è la consolazione che tutti gli scottati da Mekakucity Actors aspettavano: un prodotto animato sul vero KagePro, con i veri personaggi del KagePro. Si tratta, infatti, di un mediometraggio fatto apposta per i fans: il Solito Inizio, questa volta, viene rielaborato in modo che tutti i personaggi abbiano modo di brillare e di sfruttare il proprio potere. 
A livello grafico, si vede che è un film pensato per il 4D: moltissime inquadrature in prima persona, movimenti di telecamera spericolati, esplosioni e fumo in abbondanza. Purtroppo, al bel character design non si accompagna una grafica allo stesso livello, spesso un po' povera. 
C'è un particolare che colpisce, di questo mediometraggio: si vede che è stato fatto da una persona che ha a cuore questa storia. E, credetemi, lo stacco con quell'orrore di Mekakucity Actors, per fortuna, c'è e si sente. Spero davvero che la famosa serie Mekakucity Reload segua questa linea... O che, magari, tipo esca-
BTW, la mia parte preferita rimane Momo che spinge un carrello con dentro Marry e quest'ultima che pietrifica tutti quelli al suo passaggio - mentre Kano, con tutta la nonchalance del mondo e camminata da diva, fa pulizia delle tasche dei malfattori.
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✓ Free! –Take Your Marks–
[ Free! -Take Your Marks- ]
[ Film | 2017 | Studio: Kyoto Animation | Inedito ]
[ Spokon, Slice of life, Commedia ]
→ [ Primo Film ] → [ OAV della Seconda Serie ]
Un film che non è un film ma quattro episodi ambientati dopo la seconda serie e va benissimo così. 
Non saprei neppure dove iniziare, se dall'epicità di aver oggettivamente girato la celebre prima ending (anche se un po' diversa, ma vabbè, dettagli-), dal fatto che un capibara è per sempre o dal fatto che anche dalle cose più "tenere" (Haru e Makoto che incontrano Misaki, Ai e Momo che vogliono regalare un soggiorno alle terme ai senpai) ne escano boiate assurde. 
Ritornano poi personaggi che non si vedevano dall'epoca di High Speed - confesso che sono rimasta stupita nello scoprire di Asahi e Kisumi. Mi sarebbe piaciuto se la terza serie avesse dedicato loro un po' di spazio- Ma la terza serie mi ha permesso di capire che, no, non era un'impressione e Natsuya aveva solo iniziato la sua (fallimentare) opera di rimorchio di Sousuke facendogli agguati nel suo habitat naturale (le macchinette). 
Menzione speciale all'ultimo episodio: si tratta dell'unicissimo caso in cui una commedia degli equivoci non solo mi è piaciuta ma mi ha fatto genuinamente ridere a lacrime. Sarà perché si arriva a vette quali il considerare una prova certa di dichiarazione d'amore l'aver regalato due chili di terriccio per cervi volanti o l'essere certi che qualcuno avrebbe quittato il nuoto perché affetto da un complesso di inferiorità verso del pinzimonio. O qualcosa del genere. E tutto perché Sousuke è riuscito a perdersi in un cinema e Rin è dovuto andare a recuperarlo al momento sbagliato.
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?✓ Free! -Dive to the Future-
[ Free! -Dive to the Future- ]
[ 12 episodi | 2018 | Studio: Kyoto Animation | SUB ITA su Crunchyroll ]
[ Spokon, Slice of life, CoseOffScreen ]
→ [ Primo Film ] → [ OAV della Seconda Serie ]
→ [ Commento ]
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✓ Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu
[ 昭和元禄落語心中 |  Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu (Rakugo e Doppio Suicidio nell'era Shouwa e nell'era Genroku) ]
[ 13 episodi | 2016 | Studio: Studio Deen | SUB ITA su VVVVID ]
[ Teatro, Storico, Drammatico ]
Avevo già sentito parlare di Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu e, dopo Kabuki-bu!, avevo voglia di altri anime sul teatro. Ed eccomi quindi a vederlo e a scoprire del rakugo. 
L'inizio è ingannevole: in un primo momento, il protagonista sembra essere il più giovane, quand'ecco che il più anziano inizia il suo racconto; così come il rakugo narra storie, Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu è la narrazione di una storia da parte del suo stesso protagonista, attore di rakugo. 
Non sono pratica dell'era Shouwa ma, da totale ignorante, mi sembra che sia stata ricreata molto bene: le guerre lontane e vicine al tempo stesso, le gerarchie rigidissime, quasi sacre, il Giappone che si apre al resto del mondo, il conflitto tra novità e tradizione, tutto racchiuso nei suoi due protagonisti, amici seppure agli antipodi - uno glaciale e legato alla tradizione, fino alla pedanteria, l'altro fin troppo entusiasta e sperimentale, fino all'arroganza. E, tra loro, una donna: non "contesa", non angelicata né femme fatale, ma genuinamente problematica - soprattutto verso se stessa. 
Il dramma di questa storia colpisce non perché è tutto triste, anzi: come nella migliore delle tradizioni, l'angst arriva tra momenti di calma e momenti cazzari, riuscendo ad essere efficace pure nel già abbondantemente rivelato epilogo. Non è una serie emo, né depressiva, ma non è neppure spensierata. 
Gli spettacoli di rakugo sono fantastici: Akira Ishida e Kouichi Yamadera riescono a trascinare lo spettatore in una storia nella storia (nella storia)... almeno quando l'anime rimane concentrato sullo spettacolo e si degna di far sentire tutta la storia- 
Menzione speciale allo spettacolo (in realtà mi pare questo fosse di kabuki) in cui il protagonista, Kikuhiko, interpreta una donna - che però non è una donna. Mi sarebbe piaciuto se ci fossero state più occasioni di concentrarsi così tanto sul prima-durante-dopo di uno spettacolo~
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✓ Banana Fish  
[ バナナフィッシュ ]
[ 24 episodi | 2018 | Studio: Mappa | SUB ITA su Amazon Video ]
[ Azione, Thriller ]
→ [ Commento ]
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✓ Kakuriyo no Yadomeshi  
[ かくりよの宿飯 | Kakuriyo no Yadomeshi (La Locanda dell'Altro Mondo) ]
[ 26 episodi | 2018 | Studio: Gonzo | Inedito ]
[ Jousei, Sovrannaturale, Cucina, Tradizionale giapponese, Isekai ]
Kakuriyo no Yadomeshi sembrava avere delle vibes à la Kamisama Hajimemashita, sembrava pregno di folklore giapponese, i design erano graziosi e NON era etichettato come reverse-harem, quindi perché no? 
Per prima cosa, tranquilli: NON è un reverse-harem. Non solo non è un reverse-harem, ma la componente romantica, in realtà, è estremamente ridotta. Inoltre la protagonista, Aoi, è una donna adulta ed indipendente, che fin da subito preferisce lavorare come cuoca piuttosto che sposarsi con il capo della locanda e vivere da mantenuta. 
Ammiro molto come l'autore/trice sia riuscit@ a tirare su un'intera storia intrisa di folklore basandosi quasi esclusivamente sul cibo, senza farla sembrare una cosa forzata. 
Alla fin fine, Kakuriyo no Yadomeshi è questo: le vicende dei vari personaggi che, in un modo o nell'altro, possono essere risolte grazie al cibo. Ciascun personaggio (o coppia di) ha il proprio episodio dedicato, che finirà con l'intrecciarsi con la situazione dedicata al personaggio successivo, senza dare troppo l'idea di un andamento episodico autoconclusivo. Ci sono miliardi di riferimenti alla cultura giapponese e alle creature folkloristiche, quindi è un anime che si può meglio apprezzare avendo almeno un'infarinatura circa queste cose. I design dei personaggi sono spesso semplici, ma azzeccati. 
Oltre ad Aoi e al sempre ricordato nonno Shiro, i personaggi che spiccano di più in assoluto sono Ginji, a conti fatti il coprotagonista, e suo fratello Ranmaru. Questo, tuttavia, porta ad un piccolo paradosso: Odanna-sama, l'oni a capo del Tenjin-ya, promesso sposo di Aoi, colui a cui tutti guardano con timore eccetera eccetera ha molto ma molto meno spazio di Ginji, quando si supporrebbe fosse lui il coprotagonista. Non che non sia caratterizzato e non che non abbia scene lol/adorabili con Aoi ma, anche da questo punto di vista, Ginji è molto più presente. Persino il climax della storia vede Aoi, Ginji e Ranmaru, con Odanna-sama che ha fatto cose dietro le quinte. E, confesso, sono molto stupita dal fatto che abbia aspettato così tanto a minacciare Raiju e non sia MAI apparso magicamente ogni qualvolta ha cercato di mangiarsi Aoi, cosa che... sì, di nuovo: ad aiutare Aoi con Raiju sono sempre stati Ginji o Ranmaru. Alla fine, si scopre anche che l'Ayakashi Misterioso era... Odanna-sama la prima e l'ultima volta e Ginji tutte le volte in mezzo. Okay, l'ha trovata Odanna-sama, ma alla fine è comunque stato Ginji a vegliare su di lei- 
Per quanto Odanna-sama sia simpatico e si vede che Aoi sta iniziando a pensare che forse sposarlo non sarebbe poi così male, il legame durante la storia lei l'ha creato con Ginji - per quanto, in tutta onestà, nessuno dei due abbia mai detto nulla in senso romantico, quindi potrebbero benissimo essere solo grandi amici. Però... 
Menzione d'onore al fatto che Odanna-sama sia doppiato da Katsuyuki Konishi, voce stupenda che non sentivo da eoni. 
Per il resto, Kakuriyo no Yadomeshi ha delle sigle davvero orecchiabili, delle ending cantate dai diversi personaggi quasi tutte stupende, video bellissimi, OST niente male, doppiaggio in realtà abbastanza nella norma, bei fondali... 
... ma la grafica è terribile. 
A parte i classici occhi che scappano e proporzioni discutibili, ci sono perle quali la bocca che si apre e chiude di scatto, sempre allo stesso modo e della stessa grandezza, che negli ultimi episodi viene utilizzata per indicare che Aoi sta masticando o sospirando, dando un orrorifico effetto bambolotto da ventiloquo. Oppure il teletrasporto: Aoi viene minacciata da Raiju nel corridoio, l'inquadratura dopo sta scappando dal castello (e non si sa come si sia divincolata); sempre Aoi, sta salendo sulla nave del Tenjin-ya e nell'inquadratura dopo è già in viaggio. La parte migliore, però, è la folla: pupazzi in CGI che si muovono pianissimo in file precise, con la stessa identica andatura. 
In compenso, a volte ci sono primi piani degli occhi che si prendono un terzo del budget della serie. Idem per due episodi che, non si sa come, si sono impossessati del budget (quello di Suzuran e quello sul passato di Ginji e Ranmaru), e palesi preferenzialismi per i due fratelli che, anche con una grafica così scarsa, vengono sempre disegnati belli. 
Sia ben chiaro: non è Sailor Moon Crystal. Ma scappa un occhio di qua, fai il pupazzo ventriloquo di là, fai le gambe inesistenti qui, fai gli slenderman lì, spiaccica i capelli da questa parte, metti i pupazzi in CGI da quell'altra parte, l'insieme ne risente tantissimo. E la cosa mi confonde fino a farmi colpire da sola, perché Kakuriyo no Yadomeshi è dello Studio Gonzo, che ha fatto robe come Last Exile e quell'apoteosi grafica di Gankutsuou, quindi wtf?. 
In conclusione, un anime molto carino e molto semplice sul cibo e sugli ayakashi, con una piccolissima dose di romanticismo che non sfocia mai, in nessun modo, nel reverse-harem, una protagonista determinata e personaggi simpatici. Le uniche pecche sono il fatto che il coprotagonista non è abbastanza coprotagonista ma che lo è invece quello che si supponeva un personaggio secondario e che la grafica può devastare un momento drammatico. Se poi siete a dieta, forse è meglio lasciar stare-  
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✓ Cells at Work! "Sindrome Influenzale" 
[ はたらく細胞 「風邪症候群」 | Hataraku Saibou "Kaze Shoukougun" ]
[ 1 OAV | 2018 | Studio: David Production | SUB ITA su Yamato Animation ]
[ Shounen, Comico, Splatter-sort-of, AltamenteIstruttivo ]
Ah, un episodio sull'influenza giusto in tempo per Natale! (E non dite che non l'hanno fatto apposta.) 
Nonostante l'immagine promozionale mostri i Soliti Noti, in realtà il protagonista dell'OAV è una povera cellula annoiata che scopre quanto sia giusta quella frase riguardo il non dare troppa confidenza agli sconosciuti, anche se si mostrano simpaticissimi e divertentissimi. 
L'avevo già letto nel manga, ma è stato comunque divertente vederlo animato~
✓ Code:Realize 〜Sousei no Himegimi〜 "Serve un ladro per catturare un ladro"
[ Code:Realize 〜創世の姫君〜「Set a thief to catch a thief」| Code:Realize 〜Sousei no Himegimi〜 "Set a thief to catch a thief" ]
[ 1 OAV | 2018 | Studio: M.S.C | Inedito ]
[ Shoujo, Steampunk ]
Un episodio tutto su Lupin, che scopre una passione per un nuovo tipo di vestiti a righe causa arresto per il furto sbagliato, ed Herlock, qui particolarmente gaio verso di lui. 
(In tutto ciò, ho scoperto che il nome di Herlock era sì per copyright ma già nei libri effettivi di Lupin. Okay, ho svelato un mistero misteriosissimo. (!))
Come già durante la serie, i produttori non sono poi tanto interessati a mostrare scene d'azione o intrecci da capogiro - anzi. Nonostante l'episodio in sé sia grazioso, l'ho trovato un po' più scialbo della serie e in qualche modo più lento, quasi non si sapesse esattamente come riempire gli spazi tra le parti importanti di trama. E poi non mi torna come Cardia non si faccia la minima domanda sul fatto che suo marito sparisca per due giorni senza saperne più nulla, ma vabbè... 
Ah, quando è il momento di dare le onorificenze, la Regina dà a Cardia una collana in quanto: "Una medaglia non si addice ad una lady.". Andate così, your majesty! Le vostre boiate non ci deludono mai! 
Riguardo cose più interessanti, è stato confermato che Lupin è francese. Posso aspettarmi che il resto del cast sia effettivamente composto da un altro francese, un olandese, uno svizzero e un americano? (Che città cosmopolita, SteamLondon!) 
Menzione speciale al finale, che nella sua semplicità si vale tutto l'OAV: l'episodio è incentrato sui ragazzi che fanno un regalo a Cardia e [SPOILER] Lupin, alla fine, dato che non sa cosa regalarle, le regala se stesso. Cardia è estremamente soddisfatta del regalo, la scena si chiude con un casto bacino e lei lo fissa con una certa insistenza. Mi sa che Lupin sparirà di nuovo per un bel po'. Rido fino a dopodomani. [/SPOILER]
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marcogiovenale · 23 days
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"come agisce nanni balestrini", di cecilia bello minciacchi: presentazione a firenze il 10 settembre
https://www.carocci.it/prodotto/come-agisce-nanni-balestrini VOCI LONTANE VOCI SORELLE, 22a edizione Firenze, martedì 10 settembre 2024, h. 18.00, Libreria Libraccio, Via de’ Cerretani 16r Presentazione del volume di Cecilia Bello Minciacchi Come agisce Nanni Balestrini. Le parole che cercano (Carocci, 2024) Partecipano, con l’autrice, Stefano Colangelo e Luigi Weber Nanni Balestrini (1935-2019)…
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pangeanews · 6 years
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Tanti auguri Alberto! Arbasino, il dandy di Voghera, in viaggio contro l’Italia e i suoi zombi
Alberto Arbasino. Niente preamboli. In medias res. Nel bel mezzo delle italiche cose… Tra inconsolabilità e consolazioni.
Le opere di Alberto Arbasino da Voghera (a Milano, a Roma e a Parigi), dandy, “scrittore per scrittori” e cronista, abbondano, sin dai titoli, delle parole “Italia” e “italiani”: Fratelli d’Italia fa evidentemente il paio con We are the Champions dei Queen; Paesaggi italiani con zombi solo per non ridondare non specifica zombi italiani; Un Paese senza, essendo queste le terribili liste delle cose di cui manca e di cui invece abbonda, Paese senza memoria, storia, passato, esperienza, grandezza, dignità, realtà, motivazioni, programmi, progetti, testa, gambe, conoscenze, senso, sapere, sapersi vedere, guardarsi, avvenire, Paese “senza memoria collettiva: con perdita generale e capillare di sapere collettivo, storia collettiva, realtà collettiva, conoscenza collettiva”, Paese “onirico senza nessi con la realtà né rapporti con l’esistente, senza resistenza ai ‘trips’ nell’immaginario, voltando le spalle a se stesso”, Paese ricolmo di violenza, ferocia, volubilità, intolleranza, incompetenza, incoerenza, arroganza, irresponsabilità, superficialità, conflittualità, aggressività, asocialità, criminalità, volgarità, vivacità, luttuosità, discorsi teorici e dibattiti astratti, villania e ladreria, banditismo, conformismo, scetticismo, parassitismo, opportunismo, macchiavellismo, trasformismo, senza dimenticare (per le casalinghe di Voghera) il caro vecchio dannunzianesimo, e ancora “la cosiddetta arte d’arrangiarsi, il presunto dolce far niente, […] la rivendicazione di privilegi a spese d’altri, […] la prepotenza e l’indolenza pubbliche e private, l’incertezza e vaghezza del diritto e della giustizia, la superficialità camuffata da seriosità, la smorfiosità e noiosità del pedantismo accademico, […] le bande, le minacce, le vendette, gli agguati,  rapimenti, l’armarsi, il rinchiudersi, il far prigionieri, […] le guerre sbagliate, le battaglie costose, le ‘cause’ deliranti”, e poi ancora gli “apparati reali o virtuali di poteri televisivi, pubblicitari, finanziari, giudiziari, bancari, commerciali, regionali, sindacati, politici, demagogici, burocratici, automobilistici, oltre che ecclesiastici e canzonettistici, modistici e calcistici”, partite, sfilate, vitalizi, sovvenzioni e salotti letterari, molti zombi e pochi lettori, e ovviamente l’eterno giochino anacronistico: “Sinistra e Destra, con tutte le loro tradizionali albagie e allergie e bigiotterie abituali, rituali”, fondato su vecchie convenzioni ideologiche: “Praticamente convenzioni anacronistiche, illeggibili rispetto alle nuove costituzioni materiali”.
Era il 1979, il 1980… Poi il 1997, il 1998… Oggi invece?
“Oggi, la trasformazione parallela degli ex-ceti guida e degli ex-ceti rivoluzionari in ‘classe commentatrice’ illustra […] l’emergere della casta produttrice di ‘bla’. Con una analoga ‘cultura del risentimento’ […] vocale”. “‘Oggi c’è l’Italia!’ significa, per i più, che stasera gioca la squadra omonima. Preparare le birre e le bandiere. (Le vendono gli extracomunitari ai semafori)”, scrive Arbasino in apertura di Paesaggi italiani con zombi, e d’altronde parla quasi sempre d’Italia, anche se lo si vedrebbe meglio poter fare scorribande erotiche, gastronomiche e bibliografiche tra territori imperialregi, comuni e principati, ducati e marchesati. E invece eccolo vivere nella “Grande Discarica Italiana”. E invece eccolo in Versilia tra pietose femmine italiche… “Non mi piacciono le ragazze del mio paese” – “Le madri sono peggiori di qualunque cosa” (da Le piccole vacanze a fine anni Cinquanta). E invece lo si vede transitare per una Bologna sfigurata: il centro pieno di distese di barboni, ubriaconi e coglioni ovvero pseudo studenti sordidi, lugubri, nomadi, ibridi, tra cocci, cagnacci e stracci, gente da centri sociali antiglobalisti, antisociali, globalisti e graffitari, comunisti, casinisti antivitalisti. E invece lo si vede passare per una Milano italianizzata: la Milano “città col clima peggiore d’Italia e il tasso più alto nell’ossessione tradizionale e maniacale del ‘lavurà’; la Milano in cui “chi viene da fuori è umanamente portato a domandarsi, come Bruce Chatwin: ma che cavolo ci sto a fare qui?… E finite le incombenze, salutati gli amici […], si corre alla stazione o a Linate e si riparte per destinazioni chatwiniane o proustiane più gradevoli” e “[l]a Milano trovata ancora bella da Stendhal, per la sua ‘magnificenza civile’ austriaca e napoleonica, e un ‘ornato’ neoclassico e romantico di prestigio per tutti i cittadini, è diventata una delle più brutte città d’Europa esclusivamente per colpa dei milanesi”. Eppure a Milano si fatica ormai a trovare un milanese… Una Milano infatti per nulla “millesimata”, ma mix di stilisti, artistoidi e creativi, suk di africani, maomettani e gitani, “convivialità, contrabbando, accoglienze, trasgressioni, […] commerci abusivi, […] furti, licenziamenti”; droga, eroina o cocaina; mafia, russa o algerina; ma soprattutto italiana; e “controculture e multiculture marginali e trasversali e di confine senza doveri civili o fiscali sul territorio”; Milano buco e non figa, aggiorna il concetto Camillo Langone pochi anni dopo.
Qualche consolazione nella Padanìa (ì) di Longhi e di Arcangeli: Parma e Modena e Ferrara… Qualche consolazione nel ricordo dei grandi  tedeschi e austriaci: Bach e Bruckner e Mahler… Qualche consolazione negli echi di Parigi e della grande Francia: Balzac e Stendhal e Proust… Dubbio: “Balbec, o Castelfusano?” La Francia oppure Roma?
Chiede, tra dubbi faceti: “Ma come faranno questi, a non capire che anche l’indice dei nomi nel Saint-Simon della Pléiade è una lettura molto più attraente di qualunque romanzo finto dei loro amici simpatici, con le figurette che fantasticarono, vagheggiarono, supposero, presunsero… però intanto parlano sempre come nei film o sceneggiati dove non si riesce a ricordare una sola battuta – una!” Chissà.
E poi un altro dubbio… Questa volta su Proust.
E se per caso fosse vissuto più a lungo? Avrebbe collaborato alla NRF vichista? Sarebbe rimasto in città come gran parte degli altri scrittori? Avrebbe ricevuto Ernst Jünger in divisa a discettare di fiori? Sarebbe stato sicuramente consapevole come Arbasino del fatto che “gli autori di sinistra collaborarono alla NRF con Drieu La Rochelle preparandosi a festeggiare gli americani da Maxim’s e al Ritz”.
Parigi o cara e caro il politicamente scorretto, à la Jouhandeau e à la Montherlant, de Le piccole vacanze in cui Arbasino si dice sicuro che di ragazze ideali ce ne siano – non solo sognate –, per lo più quando ci si muove – quando si viaggia –, nelle vacanze al mare, al sole – fugaci entusiasmi –, poi vengono delusioni, grane – è meglio l’istante.
Tutto il resto, è litania italiana e italico orrore…
Marco Settimini
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Le piccole vacanze di Alberto Arbasino (frammento)
Non credo di richiedere tanto. Ma l’esperienza fa un quadro pessimistico: ricordo troppe osservazioni sceme, ricordo troppe ragazze da cui non ho mai udito che l’espressione “he, he” (risatina gutturale); oppure “che matto!” (anche se in tono ghiotto) dopo che assecondando puntualmente le loro aspettative, si era stati lì a intrattenerle per ore continue. Si dirà che la memoria gioca il cattivo scherzo di conservare solo i ricordi sgradevoli degli incontri; ma questa impressione di silenzi grevi, di cervelli chiusi e netti, di “stare lì bella tranquilla” e basta, io non me la sono sognata. Si legge in ogni indizio il rudimentale calcolo: il bel nastro, il bel fazzoletto, sono per fare la carina adesso. Ma appena sono diventata una signora voglio un po’ vedere: “fare quel che voglio io”. (E dietro le spalle si profila sempre – l’ombra della madre ingombrante e trafficona, avida di imporsi e spadroneggiare con l’intrigo). Dopo quanto matrimoni si fa un controllo: dimenticato, scomparso, il fittizio interesse che lei mostrava, non so, per la musica, o la lettura, o la campagna, come mai esistito. Che cosa dire della sincerità di quell’atteggiamento?
Eppure ci sono ragazze – nessuno chiede che “sappiano tutto” – ma sono in grado di sostenere una conversazione da treno, con i diversi argomenti che si toccano successivamente, come d’abitudine, senza ripetere una quantità insostenibile di luoghi comuni. E per esempio – non si pretende che siano al corrente con i vient-de-paraître – ma sanno perché Manzoni è diverso da D’Annunzio, sanno il nome dell’attuale presidente del consiglio (e forse anche se comanda più lui o il presidente della repubblica), sanno domandare una informazione stradale in qualche lingua straniera, conoscono alcune città importanti, hanno visto degli spettacoli, sono in grado di distinguere una cosa bella da una brutta, quello che si può dire e fare, e quello che è meglio di no. […]
Qualche volta ho paura di esagerare; temo di giudicarle male, di lasciarmi influenzare dalle più serve, o da quelle delle città grosse, o conosciute in villeggiatura, che invece più spesso mi sembrano vicine al mio ideale, o addirittura al di là, le sofisticatissime che uno può anche incominciare a temere.
Eppure no, non esagero; ogni volta che torno a considerarle da vicino, anche evitando i rovinosi confronti con quelle conosciute altrove, mi accorgo che avevo visto giusto.
Si può anche riflettere che loro fanno certamente una vita scema, però anche noi le vediamo soltanto a pezzi, e in fondo non le conosciamo tutt’altro che bene […].
Sì sì, però sono serve; camminano da serve; e davanti alle vetrine; e voltandosi in tralice, pronte alla critica; e al pettegolamento; a confidenze da comodino o da gabinetto; dicono “le estremità” invece dei piedi. E “il sacerdote” invece del prete. E come vestono; e come parlano; i film che vedono; e quel che ne capiscono, i commenti, dopo; i giornali che leggono; ogni loro discorso; e dietro sempre le ombre perenni e schifose delle madri; e le apparenze domenicali; proprio come le serve.
[…] Se hanno studiato parlano di arte moda cultura politica, o male delle persone del proprio lavoro, le altre dicono le solite cretinerie da paese; e fanno le sciatte; oppure si vestono sportivamente, però male, anche la domenica, affettando disinteresse anche qui, ma poco sincero per chi ricorda i loro furiosi tentativi di eleganza, solo pochi anni addietro. Non riescono a ingannare nessuno: il loro pensiero è soltanto uno, riuscire a chiavare, lo palesa ogni loro discorso indiretto, o allusione, o confidenza, il cenno obliquo o la smorfia che fra loro si scambiano, la barzelletta grossolana raccontata senza garbo; e subito l’aria è più greve e mefitica. Fumano e bevono. E fra i diversivi d’ogni conversazione ritorna puntuale l’espressione sconcia. Chi ha fortuna in amore non pensa mai a queste cose perché non ne sente il bisogno, è sgombro, è tranquillo. Non le tollera.
Come queste quasi megere in cui si notano soprattutto sudore e peluria si sarà trasformata fra qualche anno più d’una delle ragazzine che considero? Questo è sufficiente per commuovermi davanti alla loro stupidità cieca e indifesa. La povera topolina di oggi non sa proprio niente…
Ma che cosa vogliono, infine? Bisogna guardarsi dal semplificare banalmente. Se consideriamo quelle aspirazioni, il risultato curioso molto spesso è che noi le vediamo riposare soddisfatte proprio là dove noi sentiamo più vivo il pungolo a raggiungere di più e dell’altro. E puntualmente il contrario: di quante cose ci si sente comunque appagati, cose alle quali non si attribuisce importanza, secondarissime o meramente strumentali; ma queste medesime sono l’oggetto dei loro sogni e delle loro speranze più alte.
Ancora due parole e basta sullo spirito “classista” di certe ragazze. Si può intenderlo riassumendone i vari aspetti.
Qui si allude soprattutto allo snobismo classificatorio, per cui loro vengono dividendosi in categorie infinite secondo quei pregiudizi di simpatie e antipatie che per noi è anche troppo facile definire come “dettati dall’utero” (pardon, “salpinge”). E così per esempio a seconda della posizione sociale o collocazione mondana della famiglia, o dell’arredamento della casa, o del tono delle “relazioni” o dell’eleganza personale; o secondo la bellezza, le gambe, le calze, l’autorità o la timidezza, il successo con i ragazzi e il peso delle parentele bene e delle amicizie tradite. Anche se nei nostri riguardi mostrano generalmente compatta la loro solidarietà di gruppo, quante complicate storie di alleanze rovesciate e improvvisi abbandoni si intuiscono, vedendo regger la coda a una o isolarne un’altra. È molto difficile tener dietro ai repentini mutamenti d’umore; “Ma fino a ieri eravate amiche, non passavate giorno senza vedervi”. “E adesso non ci salutiamo più”.
Alberto Arbasino
L'articolo Tanti auguri Alberto! Arbasino, il dandy di Voghera, in viaggio contro l’Italia e i suoi zombi proviene da Pangea.
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Cassina de’ Pecchi - 12-03-1974
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Prova di post con testo e immagine e bla.
Poi bla.
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l'alto consiglio s'adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de' prodi Atride e il divo Achille. E qual de' numi inimicolli? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Sire destò quel Dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d'Atride che fece a Crise sacerdote oltraggio. Degli Achivi era Crise alle veloci prore venuto a riscattar la figlia con molto prezzo. In man le bende avea, e l'aureo scettro dell'arciero Apollo: e agli Achei tutti supplicando, e in prima ai due supremi condottieri Atridi: O Atridi, ei disse, o coturnati Achei, gl'immortali del cielo abitatori concedanvi espugnar la Prïameia cittade, e salvi al patrio suol tornarvi. Deh mi sciogliete la diletta figlia, ricevetene il prezzo, e il saettante figlio di Giove rispettate. - Al prego tutti acclamâr: doversi il sacerdote riverire, e accettar le ricche offerte. Ma la proposta al cor d'Agamennóne non talentando, in guise aspre il superbo accommiatollo, e minaccioso aggiunse: Vecchio, non far che presso a queste navi ned or né poscia più ti colga io mai; ché forse nulla ti varrà lo scettro né l'infula del Dio. Franca non fia costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all'opra delle spole intenta, e a parte assunta del regal mio letto. Or va, né m'irritar, se salvo ir brami. Impaurissi il vecchio, ed al comando obbedì. Taciturno incamminossi del risonante mar lungo la riva; e in disparte venuto, al santo Apollo di Latona figliuol, fe' questo prego: Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo possente imperador, Smintèo, deh m'odi. Se di serti devoti unqua il leggiadro tuo delubro adornai, se di giovenchi e di caprette io t'arsi i fianchi opimi, questo voto m'adempi; il pianto mio paghino i Greci per le tue saette. Sì disse orando. L'udì Febo, e scese dalle cime d'Olimpo in gran disdegno coll'arco su le spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo su gli omeri all'irato un tintinnìo al mutar de' gran passi; ed ei simìle a fosca notte giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzìo terribile mandò l'arco d'argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esanimi corpi ardean le pire. Nove giorni volâr pel campo acheo le divine quadrella. A parlamento nel decimo chiamò le turbe Achille; ché gli pose nel cor questo consiglio Giuno la diva dalle bianche braccia, de' moribondi Achei fatta pietosa. Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo levossi Achille piè-veloce, e disse: Atride, or sì cred'io volta daremo nuovamente errabondi al patrio lido, se pur morte fuggir ne fia concesso; ché guerra e peste ad un medesmo tempo ne struggono. Ma via; qualche indovino interroghiamo, o sacerdote, o pure interprete di sogni (ché da Giove anche il sogno procede), onde ne dica perché tanta con noi d'Apollo è l'ira: se di preci o di vittime neglette il Dio n'incolpa, e se d'agnelli e scelte capre accettando l'odoroso fumo, il crudel morbo allontanar gli piaccia. Così detto, s'assise. In piedi allora di Testore il figliuol Calcante alzossi, de' veggenti il più saggio, a cui le cose eran conte che fur, sono e saranno; e per quella, che dono era d'Apollo, profetica virtù, de' Greci a Troia avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo pien di senno parlò queste parole: Amor di Giove, generoso Achille, vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo ti riveli lo sdegno? Io t'obbedisco. Ma del braccio l'aita e della voce a me tu pria, signor, prometti e giura: perché tal che qui grande ha su gli Argivi tutti possanza, e a cui l'Acheo s'inchina, n'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso. Quando il potente col minor s'adira, reprime ei sì del suo rancor la vampa per alcun tempo, ma nel cor la cova, finché prorompa alla vendetta. Or dinne se salvo mi farai. - Parla securo, rispose Achille, e del tuo cor l'arcano, qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo che pregato da te ti squarcia il velo de' fati, e aperto tu li mostri a noi, per questo Apollo a Giove caro io giuro: nessun, finch'io m'avrò spirto e pupilla, con empia mano innanzi a queste navi oserà vïolar la tua persona, nessuno degli Achei; no, s'anco parli d'Agamennón che sé medesmo or vanta dell'esercito tutto il più possente. Allor fe' core il buon profeta, e disse: né d'obblïati sacrifici il Dio né di voti si duol, ma dell'oltraggio che al sacerdote fe' poc'anzi Atride, che francargli la figlia ed accettarne il riscatto negò. La colpa è questa onde cotante ne diè strette, ed altre l'arcier divino ne darà; né pria ritrarrà dal castigo la man grave, che si rimandi la fatal donzella non redenta né compra al padre amato, e si spedisca un'ecatombe a Crisa. Così forse avverrà che il Dio si plachi. Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe il re supremo Agamennón levossi corruccioso. Offuscavagli la grande ira il cor gonfio, e come bragia rossi fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima squadrò torvo Calcante, indi proruppe: Profeta di sciagure, unqua un accento non uscì di tua bocca a me gradito. Al maligno tuo cor sempre fu dolce predir disastri, e d'onor vote e nude son l'opre tue del par che le parole. E fra gli Argivi profetando or cianci che delle frecce sue Febo gl'impiaga, sol perch'io ricusai della fanciulla Crisëide il riscatto. Ed io bramava certo tenerla in signoria, tal sendo che a Clitennestra pur, da me condutta vergine sposa, io la prepongo, a cui di persona costei punto non cede, né di care sembianze, né d'ingegno ne' bei lavori di Minerva istrutto. Ma libera sia pur, se questo è il meglio; ché la salvezza io cerco, e non la morte del popol mio. Ma voi mi preparate tosto il compenso, ché de' Greci io solo restarmi senza guiderdon non deggio; ed ingiusto ciò fôra, or che una tanta preda, il vedete, dalle man mi fugge. O d'avarizia al par che di grandezza famoso Atride, gli rispose Achille, qual premio ti daranno, e per che modo i magnanimi Achei? Che molta in serbo vi sia ricchezza non partita, ignoro: delle vinte città tutte divise ne fur le spoglie, né diritto or torna a nuove parti congregarle in una. Ma tu la prigioniera al Dio rimanda, ché più larga n'avrai tre volte e quattro ricompensa da noi, se Giove un giorno l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia. E a lui l'Atride: Non tentar, quantunque ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo né gabbo tu mi fai, divino Achille, né persuaso al tuo voler mi rechi. Dunque terrai tu la tua preda, ed io della mia privo rimarrommi? E imponi che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti concedanmi gli Achivi altra captiva che questa adegui e al mio desir risponda. Se non daranla, rapirolla io stesso, sia d'Aiace la schiava, o sia d'Ulisse, o ben anco la tua: e quegli indarno fremerà d'ira alle cui tende io vegna. Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti rematori fornita or si sospinga nel pelago una nave, e vi s'imbarchi coll'ecatombe la rosata guancia della figlia di Crise, e ne sia duce alcun de' primi, o Aiace, o Idomenèo, o il divo Ulisse, o tu medesmo pure, tremendissimo Achille, onde di tanto sacrificante il grato ministero il Dio ne plachi che da lunge impiaga. Lo guatò bieco Achille, e gli rispose: Anima invereconda, anima avara, chi fia tra i figli degli Achei sì vile che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada in agguati convegna o in ria battaglia? Per odio de' Troiani io qua non venni a portar l'armi, io no; ché meco ei sono d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre né destrier mi rapiro; essi le biade della feconda popolosa Ftia non saccheggiâr; ché molti gioghi ombrosi ne son frapposti e il pelago sonoro. Ma sol per tuo profitto, o svergognato, e per l'onor di Menelao, pel tuo, pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti, e a me medesmo di rapir minacci de' miei sudori bellicosi il frutto, l'unico premio che l'Acheo mi diede. Né pari al tuo d'averlo io già mi spero quel dì che i Greci l'opulenta Troia conquisteran; ché mio dell'aspra guerra certo è il carco maggior; ma quando in mezzo si dividon le spoglie, è tua la prima, ed ultima la mia, di cui m'è forza tornar contento alla mia nave, e stanco di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia, a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio al paterno terren volger la prora, che vilipeso adunator qui starmi di ricchezze e d'onori a chi m'offende. Fuggi dunque, riprese Agamennóne, fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego di rimanerti. Al fianco mio si stanno ben altri eroi, che a mia regal persona onor daranno, e il giusto Giove in prima. Di quanti ei nudre regnatori abborro te più ch'altri; sì, te che le contese sempre agogni e le zuffe e le battaglie. Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono la tua fortezza. Or va, sciogli le navi, fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno, ai Mirmìdoni impera; io non ti curo, e l'ire tue derido; anzi m'ascolta. Poiché Apollo Crisëide mi toglie, parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi io la rimando accompagnata, e cedo. Ma nel tuo padiglione ad involarti verrò la figlia di Brisèo, la bella tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga quant'io t'avanzo di possanza, e quindi altri meco uguagliarsi e cozzar tema. Di furore infiammâr l'alma d'Achille queste parole. Due pensier gli fêro terribile tenzon nell'irto petto, se dal fianco tirando il ferro acuto la via s'aprisse tra la calca, e in seno l'immergesse all'Atride; o se domasse l'ira, e chetasse il tempestoso core. Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione l'agitato pensier, corse la mano sovra la spada, e dalla gran vagina traendo la venìa; quando veloce dal ciel Minerva accorse, a lui spedita dalla diva Giunon, che d'ambo i duci egual cura ed amor nudrìa nel petto. Gli venne a tergo, e per la bionda chioma prese il fiero Pelìde, a tutti occulta, a lui sol manifesta. Stupefatto si scosse Achille, si rivolse, e tosto riconobbe la Diva a cui dagli occhi uscìan due fiamme di terribil luce, e la chiamò per nome, e in ratti accenti, Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni? Forse d'Atride a veder l'onte? Aperto io tel protesto, e avran miei detti effetto: ei col suo superbir cerca la morte, e la morte si avrà. - Frena lo sdegno, la Dea rispose dalle luci azzurre: io qui dal ciel discesi ad acchetarti, se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi, Giuno ch'entrambi vi difende ed ama. Or via, ti calma, né trar brando, e solo di parole contendi. Io tel predìco, e andrà pieno il mio detto: verrà tempo che tre volte maggior, per doni eletti, avrai riparo dell'ingiusta offesa. Tu reprimi la furia, ed obbedisci. E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva, benché d'ira il cor arda, il tuo consiglio. Questo fia lo miglior. Ai numi è caro chi de' numi al voler piega la fronte. Disse; e rattenne su l'argenteo pomo la poderosa mano, e il grande acciaro nel fodero respinse, alle parole docile di Minerva. Ed ella intanto all'auree sedi dell'Egìoco padre sul cielo risalì fra gli altri Eterni. Achille allora con acerbi detti rinfrescando la lite, assalse Atride: Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core! Tu non osi giammai nelle battaglie dar dentro colla turba; o negli agguati perigliarti co' primi infra gli Achei, ché ogni rischio t'è morte. Assai per certo meglio ti torna di ciascun che franco nella grand'oste achea contro ti dica, gli avuti doni in securtà rapire. Ma se questa non fosse, a cui comandi, spregiata gente e vil, tu non saresti del popol tuo divorator tiranno, e l'ultimo de' torti avresti or fatto. Ma ben t'annunzio, ed altamente il giuro per questo scettro (che diviso un giorno dal montano suo tronco unqua né ramo né fronda metterà, né mai virgulto germoglierà, poiché gli tolse il ferro con la scorza le chiome, ed ora in pugno sel portano gli Achei che posti sono del giusto a guardia e delle sante leggi ricevute dal ciel), per questo io giuro, e invïolato sacramento il tieni: stagion verrà che negli Achei si svegli desiderio d'Achille, e tu salvarli misero! non potrai, quando la spada dell'omicida Ettòr farà vermigli di larga strage i campi: e allor di rabbia il cor ti roderai, ché sì villana al più forte de' Greci onta facesti. Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea l'Atride di novello furor, quando nel mezzo surse de' Pilii l'orator, Nestorre facondo sì, che di sua bocca uscièno più che mel dolci d'eloquenza i rivi. Di parlanti con lui nati e cresciuti nell'alma Pilo ei già trascorse avea due vite, e nella terza allor regnava. Con prudenti parole il santo veglio così loro a dir prese: Eterni Dei! Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Prìamo gioia s'appresta ed a' suoi figli e a tutta la dardania città, quando fra loro di voi s'intenda la fatal contesa, di voi che tutti di valor vincete e di senno gli Achei! Deh m'ascoltate, ché minor d'anni di me siete entrambi; ed io pur con eroi son visso un tempo di voi più prodi, e non fui loro a vile: ned altri tali io vidi unqua, né spero di riveder più mai, quale un Drïante moderator di genti, e Piritòo, Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo, e l'Egìde Teseo pari ad un nume. Alme più forti non nudrìa la terra, e forti essendo combattean co' forti, co' montani Centauri, e strage orrenda ne fean. Con questi, a lor preghiera, io spesso partendomi da Pilo e dal lontano Apio confine, a conversar venìa, e secondo mie forze anch'io pugnava. Ma di quanti mortali or crea la terra niun potrìa pareggiarli. E nondimeno da quei prestanti orecchio il mio consiglio ed il mio detto obbedïenza ottenne. E voi pur anco m'obbedite adunque, ché l'obbedirmi or giova. Inclito Atride, deh non voler, sebben sì grande, a questi tor la fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace da' Greci il dato guiderdon consenti: né tu cozzar con inimico petto contra il rege, o Pelìde. Un re supremo, cui d'alta maestà Giove circonda, uguaglianza d'onore unqua non soffre. Se generato d'una diva madre tu lui vinci di forza, ei vince, o figlio, te di poter, perché a più genti impera. Deh pon giù l'ira, Atride, e placherassi pure Achille al mio prego, ei che de' Greci in sì ria guerra è principal sostegno. Tu rettissimo parli, o saggio antico, pronto riprese il regnatore Atride; ma costui tutti soverchiar presume, tutti a schiavi tener, dar legge a tutti, tutti gravar del suo comando. Ed io potrei patirlo? Io no. Se il fêro i numi un invitto guerrier, forse pur anco di tanto insolentir gli diero il dritto? Tagliò quel dire Achille, e gli rispose: Un pauroso, un vil certo sarei se d'ogni cenno tuo ligio foss'io. Altrui comanda, a me non già; ch'io teco sciolto di tutta obbedienza or sono. Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo lo rinserra del cor. Per la fanciulla un dì donata, ingiustamente or tolta, né con te né con altri il brando mio combatterà. Ma di quant'altre spoglie nella nave mi serbo, né pur una, s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi, vieni alla prova; e il sangue tuo scorrente dalla mia lancia farà saggio altrui. Con questa di parole aspra tenzone levârsi, e sciolto fu l'acheo consesso. Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi riede a sue navi nelle tende; e Atride varar fa tosto a venti remi eletti una celere prora colla sacra ecatombe. Di Crise egli medesmo vi guida e posa l'avvenente figlia; duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti già montati correan l'umide vie. Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne una sacra lavanda: e ognun devoto purificarsi, e via gittar nell'onde le sozzure, e del mar lungo la riva offrir di capri e di torelli intere ecatombi ad Apollo. Al ciel salìa volubile col fumo il pingue odore. Seguìan nel campo questi riti. E fermo nel suo dispetto e nella dianzi fatta ria minaccia ad Achille, intanto Atride Euribate e Taltibio a sé chiamando, fidi araldi e sergenti, Ite, lor disse, del Pelìde alla tenda, e m'adducete la bella figlia di Brisèo. Se il niega, io ne verrò con molta mano, io stesso, a gliela tôrre: e ciò gli fia più duro. Disse; e il cenno aggravando in via li pose. Del mar lunghesso l'infecondo lido givan quelli a mal cuore, e pervenuti de' Mirmidóni alla campal marina trovâr l'eroe seduto appo le navi davanti al padiglion: né del vederli certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto regal fermârsi trepidanti e chini, né far motto fur osi né dimando. Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse: Messaggeri di Giove e delle genti, salvete, araldi, e v'appressate. In voi niuna è colpa con meco. Il solo Atride, ei solo è reo, che voi per la fanciulla Brisëide qui manda. Or va, fuor mena, generoso Patròclo, la donzella, e in man di questi guidator l'affida. Ma voi medesmi innanzi ai santi numi ed innanzi ai mortali e al re crudele siatemi testimon, quando il dì splenda che a scampar gli altri di rovina il mio braccio abbisogni. Perocché delira in suo danno costui, ned il presente vede, né il poi, né il come a sua difesa salvi alle navi pugneran gli Achei. Disse; e Patròclo del diletto amico al comando obbedì. Fuor della tenda Brisëide menò, guancia gentile, ed agli araldi condottier la cesse. Mentre ei fanno alle navi achee ritorno, e ritrosa con lor partìa la donna, proruppe Achille in un subito pianto, e da' suoi scompagnato in su la riva del grigio mar s'assise, e il mar guardando le man stese, e dolente alla diletta madre pregando, Oh madre! è questo, disse, questo è l'onor che darmi il gran Tonante a conforto dovea del viver breve a cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia spregiato in tutto: il re superbo Atride Agamennón mi disonora; il meglio de' miei premi rapisce, e sel possiede. Sì piangendo dicea. La veneranda genitrice l'udì, che ne' profondi gorghi del mare si sedea dappresso al vecchio padre; udillo, e tosto emerse, come nebbia, dall'onda: accanto al figlio, che lagrime spargea, dolce s'assise, e colla mano accarezzollo, e disse: Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno? Di', non celarlo in cor, meco il dividi. Madre, tu il sai, rispose alto gemendo il piè-veloce eroe. Ridir che giova tutto il già conto? Nella sacra sede d'Eezïon ne gimmo; la cittade ponemmo a sacco, e tutta a questo campo fu condotta la preda. In giuste parti la diviser gli Achivi, e la leggiadra Crisëide fu scelta al primo Atride.
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tmnotizie · 6 years
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SAN BENEDETTO – Verrà presentato sabato 19 maggio alle ore 17, presso la Libreria Mondadori di San Benedetto del Tronto, il libro di Caterina Falconi “Milf è bello“. E’ una sorta di vademecum semiserio che illustra i segreti delle donne dai trent’anni in poi ed esplora l’immaginario dei loro ammiratori per mettere a confronto i reciproci mondi. Per fornire, in altre parole e senza la pretesa di esaustività, consigli e trucchetti di seduzione alle une e agli altri.
L’intento è debellare inutili pudori e indagare, in punta di penna e con il sorriso sulle labbra, una realtà ammantata da moralismi: il sesso delle e con le Milf, le Cougar e le Gilf. Non ci sono barriere anagrafiche al desiderio e l’amore, purché vissuto nel rispetto tra partner maggiorenni e consenzienti, fa i suoi agguati a ogni età.
Relatrice e moderatrice Nuela Celli.
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thewolrdofj · 7 years
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-VITTIMISMO-
Non capite un cazzo! Non avete mai capito un cazzo di niente. Avete sempre chiamato vittime le persone, avete sempre addossato colpe, siete sempre stati bravi a dire che la gente è chiusa è asociale, tutti esperti, tutti geni del cazzo che non capiscono una beata minchia di come ci si sente. 
Ora parlerò un po’ di me, troppo facile generalizzare di continuo. Partiamo dal presupposto che siamo in un periodo nettamente diverso di quello che ho vissuto io, del miei anni 90, dove non c’era così tanta condivisione, così tanta diffusione. Sono nata nel 1992, ho terminato gli studi obbligatori nel 2011. 
Io sono, almeno credevo di essere, una persona estremamente coraggiosa e espansiva. Sono sempre cresciuta giocando con tanti bambini, all’asilo e nei primi anni delle scuole elementari. Tutto è cambiato, il mio rapporto alla vita è cambiato, durante il mio secondo anno di scuola elementare. In classe si aggiunse una bambina, Lucia. Inizialmente timida e poco affiatata col resto della classe, poi, passato l’impatto iniziare, trasforma il suo essere timida nel suo modo, sconsiderato, di prendere di mira le persone più emotivamente fragili. Io, ho affrontato questa bambina, che ha fatto uscire il lato più debole di me. Il mio essere sempre stata umile, buona, fessa insomma, ha fatto sì che lei avesse un tappeto rosso verso la “vittoria”. Le sue azioni si limitavano nel rubare materiali di cancelleria, rovinare, strappare, distruggere cose, prettamente mie, perchè eravamo una classe numerosa, circa 25 bambini, ma lei prendeva di mira solo me, che ero più isolata, che non avevo fatto gruppo con nessuno ma parlavo con tutti. 
E’ sempre stato un mio enorme difetto, quello di non legarmi mai morbosamente a nessuno, ma di essere un po’ l’amica di tutti. Perchè ci ho provato, vi giuro, a legarmi a una sola persona, ma, puntualmente non andava bene. Sin dalle elementari. 
Dato che la sfortuna mi accompagna sempre, quando ti prendi la prima cotta per il tuo compagno di classe, tenti di non farlo sapere a nessuno, io, da perfetta idiota, mi “confidai” con questa Lucia che mi fece parlare a suon di minacce: se non me lo dici di rompo i quaderni, ti rubo tutti i colori. (come se già non lo facesse). La sua brillante idea fu quella di scrivere su tutti i muri del bagno che a me piacesse questo bambino, Giovanni. Non fu sufficiente, lo disse ai maestri, riempendomi di ridicolo, ridendomi in faccia. 
Alle scuole medie, eravamo pochi 16, 8 maschi e 8 femmine, alcuni dei miei vecchi compagni, altri totalmente nuovi. Speravo che con una classe più piccola avrei evitato problemi di questo tipo. NO, mi sbagliavo, Lucia era in classe con me, questa volta aveva un supporto, c’era un’altra ragazzina, Maria. Lucia era furba, sapeva come giocare, sapeva dove doveva puntare, con me, cosa fare. Si è solo ripetuto tutto per altri tre anni, quindi materiale di cancelleria rubato il primissimo giorno di scuola, una gomma, per essere precisi; quaderni rovinati, libri nascosti, cose messe nello zaino, tutto insomma. Nonostante questo, io andavo avanti, facevo i miei progetti, non uscivo con nessun mio compagno di classe. Sì qua si è creata la profonda crepa, io non ho legato con nessuno, ma parlavo con tutti, sempre lo stesso concetto di prima. Non andavo ai compleanni, non andavo alle feste, non facevo niente di tutto ciò. Anche alle medie mi ero infatuata di un ragazzino, Alessio, al quale piaceva però una mia compagna di classe Ilaria. Sì, ho avuto tante, troppe cotte a senso unico, anzi SOLO  a senso unico. Ovviamente Lucia e Maria non perdevano occasione di prendermi in giro. 
Oltre a questo ho dimenticato i simpatici appellativi: gallina (elementari, che poi non ho mai capito perchè mi chiamavano così), deficiente secchiona (sì, alle medie si erano evoluti con gli appellativi).
Liceo, ah, il pullman, la vita a Taranto, qualcosa che doveva essere diversa, ci speravo troppo. Lucia non veniva più in classe con me, ma frequentava il mio stesso liceo. Ma al liceo Lucia era il problema minore, in quanto si era calmata, stava crescendo e iniziava a capire che quello che faceva era sbagliato, almeno. Nel pullman c’erano tutti i ragazzini del mio paese, con il quale non avevo mai legato, ma che, comunque conoscevo e ci scambiavo qualche parola. La cotta del liceo è stata la più simbolica per me, Domenico, chi se lo scorda. Ovviamente il pullman lo sapeva, non so come, non so perchè, ma lo sapeva. Eh, badate bene, non c’era facebook, non c’era whatsapp, ma si sapeva tutto. Il vero problema del mio liceo era ed è sempre stato la mia classe. Stesso discorso, di nuovo, amica di tutti, compagna di nessuno. Scambiavo parole con tutti, anzi tutte, eravamo 25 ragazze in partenza, 22 all’arrivo. Ne conoscevo solo una, le altre erano tutte ragazze nuove. Ma non si sono mai controllate o frenate quando dovevano esprimere qualcosa. Era difficile per me, è sempre stato difficile, sopportare tutti i giorni continui insulti verbali, anche se palesemente leggeri: ma come ti vesti / perchè non ti lavi? / perchè non ti cambi? / perchè metti sempre le stesse robe? / ma non ne hai altre? / perchè ti vedi ancora i cartoni animati? / perchè vedi ancora le cose della disney?. La risposta più semplice, più ovvia, sarebbe stata “fatevi i cazzi vostri” ma io, no, non ci sono mai riuscita. Sono andata avanti  5 anni così, sopportando, tutti i giorni.
L'essere considerata infantile è sempre stato e continua ad essere un evergreen, un po' da tutti, genitori inclusi. E, come se non bastasse, la frase più scontata era “stai sempre con quelli più piccoli”
Ho provato a sopportare tutto questo. Io ci ho provato davvero. Come ho anche provato a candidarmi in 5 anni di liceo al ruolo di rappresentante, perchè amavo aiutare, amavo fare quello che faccio adesso, ma niente da fare, boicottavano le elezioni pur di non farmi eleggere. Sono state capaci anche di fare un'assemblea di classe “contro” di me, facendo emergere tutti i miei difetti che a loro non sono mai andati bene.
La batteria del mio telefono durava anche 3 giorni, non era necessario ricaricarlo, non parlavo con nessuno. Iniziavano a comparire le prime offerte per i messaggi, e, nell'anno del mio quarto liceo, sbarcò facebook. In quell'anno conobbi degli amici di mia cugina Ilaria, con il quale ho provato ad aprirmi di più, a legarmi, a confrontarmi, ma essendo più piccoli di 3 anni, non funzionò granchè. Conosco Eleonora, una ragazza che, inizialmente sembrava condividere quello che ero, perchè non ho mai cambiato il mio essere, nonostante non lo condividesse nessuno. Eleonora aveva 2 fratelli e una sorella, che, così, da un giorno all'altro si sono allontanati da me, e, ad essere onesta, non ricordo neanche il motivo. Lei ha creato tanti piccoli tagli su quella che era la mia personalità liceale. Rideva nei corridoi, quando passavo (sì, veniva nella mia stessa scuola), scriveva cose negative sul mio profilo facebook, mi mandava messaggi chilometrici dove scriveva che ero inutile per la sua vita. Ero ridicola, mi riempivo di ridicolo, piangevo in classe, ero effettivamente, molto debole. Ero, insomma, soggeta (come ero stata appellata)
Cercavo di mantenere rapporti anche fuori dalla scuola, che speravo durassero in qualche modo, ma non ci sono mai riuscita. Ho sempre creduto che avessi problemi seri a socializzare col mondo, a rapportare quello che ero con la realtà che girava intorno a me.
Mi sono diplomata, a modo mio, studiando, nonostante non fosse così compatta la mia classe, lo sapevano tutti, anche i professori, lo dicevano anche ai consigli di classe, lo hanno detto anche l'ultimo anno, quando riuscii ad ottenere il ruolo di “vice rappresentante” insieme a Roberta, che invece era la rappresentante. Avevo legato con qualcuno in maniera maggiore, ma era sempre in minoranza. Era sempre quel sentirsi in difetto in una classe che, in maggioranza, non ha mai apprezzato niente di me.
Università, Dio benedica l'università! Ho capito tanto, ho capito che si può legare con la gente, che non vieni giudicata sempre per come ti vesti, o perchè studi troppo o troppo poco. Era bello, è ancora bello.
Ovviamente, ci dev'essere sempre qualcosa che rompe tutta l'armonia senza che io chieda qualcosa. Perchè, nel 2012, dopo tante, troppe cotte a senso unico, arriva il mio primo ragazzo. Io avevo 19 anni, lui 17. Il problema non era lui, erano i genitori (che non volevano che io stessi col figlio, non ero all'altezza), la sorella (iperprotettiva, nonostante fosse più piccola di 5 anni), le minacce verbali, telematiche, gli agguati sotto casa mia, i capelli tirati in piazza, davanti a tutto il paese, le umiliazioni, pesanti, veramente pesanti, che io ho subito e che, come una cretina, mi sono auto inflitta, supplicando questo ragazzo, Mattia, di rimanere con me, o di continuare a parlarmi.
Poi c'è stata la mia seconda storia, nel 2015, con Peppe, che è andata meglio, decisamente. La fine no, come sempre. Bugie, troppe, veramente troppe. Ma di tutto questo racconto, è veramente il male minore.
A tutto questo enorme calderone si aggiungono 2 fattori fondamentali: ho sempre avuto una madre che mi considerava una nullafacente, una persona pigra, svogliata. Mi ha sempre descritta così, dopo, con la malattia, si è calmata, mi apprezzava, sapeva che quello che facevo lo facevo perchè mi piaceva, che se venivo bocciata agli esami dovevo essere spronata, non messa al patibolo e martoriata di grida e urla senza alcun fondamento.
Ho sempre avuto un padre che, per quanto premuroso, non ha mai preso una cazzo di posizione, neanche quando si trattava di scelte stupide, tipo comprare il tè o il latte; che mi ha sempre spezzato l'entusiasmo, facendomi sentire inferiore, che c'era sempre qualcuno più bravo più ordinato o più capace di me. Io, per lui, sono sempre stata la bambina infantile disordinata che poteva anche prendere tutti 30, però c'è già qualcuno che lavora, mentre io sto ancora studiando
Ho avuto una zia che mi ha sempre urlato quanto fossi infantile, stupida, come non sapessi affrontare le situazioni, di quanto facessi del mio vittimismo un motivo per far pena alla gente.
Ai miei genitori, ai miei parenti, non ho mai raccontato nulla delle mie difficoltà delle scuole medie e del liceo, in realtà cercavo aiuto nei professori, che non me lo davano come volevo io, infatti ero sempre punto e a capo. Non cambiava nulla, mai.
Ora, mia madre non c'è più, ha lasciato un grande vuoto, ma anche la consapevolezza che io non ho problemi a socializzare, che c'è chi mi apprezza per quello che faccio, c'è chi ama la mia personalità, c'è chi non riuscirebbe a fare a meno del mio aiuto accademico. Ho imparato tanto da tutto questo, ci sono state persone che mi hanno salvata, ci sono state situazioni che mi hanno aiutata, ci sono state canzoni che io ho amato e che mi hanno aiutata.
Dopo aver letto questo, che è la mia personale esperienza, e sicuramente ce ne saranno di più serie, vi pregherei, vivamente DI NON CHIAMARE VITTIMA LA GENTE, voi non sapete un cazzo! Non avete vissuto le loro esperienze, non avete fatto niente della loro vita.
Io non mi sono mai sfogata con nessuno, non ho mai condiviso le mie paure con nessuno, mi sono sempre chiusa. Alzavo la musica, chiudevo la porta e piangevo, piangevo tanto, piango ancora tanto, troppo, ma per motivi leggermente diversi.
Questa sono io, descrivendo ogni lato fragile del mio carattere che, per quanto bello e colorato, ha anche i suoi lati negativi, perchè non parlo, perchè non mi sfogo, perchè tengo tutto dentro. Perchè mi prendo una cotta per un ragazzo ogni 3x2, perchè forse ci trovo qualcosa di bello nel provare un sentimento per qualcuno, anche se a senso unico. In un certo modo mi aiuta a uscire fuori dall'apatia, dalla monotonia, mi aiuta a sognare. Sono la persona che, grazie all'università, ha scoperto le cose belle! E che, nononstante sia astemia per scelta, non fumi nulla, non beva il caffè, si può sempre condividere qualcosa.
Questa sono sempre io, che è stata chiamata e appellata in tutti i modi, che è la vittima di turno, la ragazza infantile che si incanta a guardare i peluche e che ama Harry Potter.
Questa sono e continuerò ad essere io, adesso, domani, ora e sempre.
NON MI CHIAMARE VITTIMA, NON MI CHIAMATE VITTIMA. Non avete vissuto un solo cazzo di giorno della mia vita.
State ZITTI, mannaggia a Dio almeno.
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Una donna con gli occhi è imboscata sulla seconda sponda di Torino, addormentata come una leonessa, contava i treni caduti e i nomi dei giovani impazziti in un fiume di fotografie sul fiume. Quattro bandite filosofe, impiccate nei suoi capelli di tempesta da rapine, il muro sbava un disastro di tulipani mentre la donna addomestica i ricordi. Ha tabacco per cani neri e un vestito boato di grano tenebra, assassinata più volte in Scozia, contro i denti del vuoto con i miei più cari complimenti di fuori di testa. Io sono sdraiato in un vagone ed ho bevuto tutti i fiori della finestra e penso al mio cappotto fuori da tutte le stagioni alle tue gatte avvelenate chiuse a chiave e agli ottocento volteggi malviventi che sai fare. E chi aveva agguati morbidi per la tua mostra di gambe bianche, di lotta a gomitoli in gomitoli di materassi e vino belva. Ma è già da un po' che ho smesso di lavorare nel tuo acquario di fototessere ed è da troppe poche sere che ti fai chiamare piccola sole triste. Nel tuo ossario di fulmini che traffica morsi sotto al cuore e l'abuso di vento che l'accresceva, non sono mai state le sue parole.. Quella giovane donna appartiene a nessuno e a nessun altro. Al suo castigo di stelle nella bottiglia e a nessun altro. Quella giovane donna appartiene a nessuno e a nessun altro. Al suo castigo di stella nella bottiglia e a nessun altro. Quella giovane donna appartiene a nessuno e a nessun altro.
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Quando la storia la scrivono i vincitori... Quello che narrarono gli storici (romani) sui Liguri Apuani...
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Quando la storia la scrivono i vincitori... Quello che narrarono gli storici (romani) sui Liguri Apuani...
La frase “la storia la scrivono i vincitori” in effetti insinua un grosso dubbio sui libri di storia… lascia intendere che tutto quello (o in parte) di quello che è scritto su questi testi non sia del tutto vero… e allora mi domando io… ma quanto sappiamo in verità del nostro passato? Difficile da dire, specialmente quando ci si riferisce ad epoche molte lontane. Se ci pensiamo bene è perfino difficile capire la verità di quello che succede quotidianamente e a volte non si conoscono nemmeno le verità in ambito di storia familiare, quindi è veramente complicato comprendere quando un fatto storico è stato volontariamente distorto. Pensare di coloro che secoli o millenni fa avevano l’onere di scrivere resoconti di storia come di casti e puri tramandatori di eventi oggettivi è come credere oggi che tutti i giornalisti raccontino i fatti in maniera imparziale o senza un credo politico alle spalle. In questi ultimi decenni però, gli storici stanno cercando di fare un grosso recupero di verità su determinati fatti, avvenuti in epoche lontane. Ad esempio mi viene in mente Nerone, l’ imperatore romano sempre descritto come un pazzo incendiario a quanto pare era molto amato dai sudditi ed esistono prove che non fu lui ad incendiare la “città eterna”… Ma allora, in conclusione, se la storia la scrivono i vincitori, quante altre volte c’è stata tramandata in modo falsato? Probabilmente non lo sapremo mai. Figuriamoci poi se in un contesto simile fosse esistito un popolo che non sapeva nè leggere, nè scrivere e che quindi non poteva dire “la sua” ai posteri… Eppure un popolo così esisteva veramente… erano i nostri antichi antenati, erano i Liguri Apuani. Non sapremo mai nè dai loro scritti, nè dai loro disegni le loro vicende e le loro sorti. Gli Apuani di se stessi non scrissero mai niente, semplicemente perchè non sapevano scrivere, le loro notizie ci sono state tramandate dal suo più acerrimo nemico… i Romani…
Di loro nell’antichità hanno scritto storici, geografi e poeti di tutto rispetto e rinomata valenza, ma però in termini diversi; i primi a scrivere degli Apuani e dei Liguri in genere furono i greci già VII e VI secolo a.C, il loro giudizio su questo fiero popolo era indifferente e quindi (forse) il più fedele alla realtà.
Poi cominciarono proprio i romani a menzionare i Liguri Apuani nei loro scritti e qui l’apprezzamento sicuramente era meno lusinghiero. D’altronde la lunga e sanguinosa guerra fra questi popoli avrebbe lasciato il segno anche nelle future memorie, facendo nascere opinioni non obiettive e serene, come normalmente è la storia scritta dai vincitori. Gli avvenimenti narrati dai romani ci raccontano che questi uomini erano ribelli, trogloditi, bestie selvagge e crudeli e che non vollero mai piegarsi alla potenza di Roma e allora sta a noi tradurre queste parole: la loro malvagità probabilmente era dovuta ad uno spirito indomito e la loro ribellione la si può leggere in un desiderio di libertà. Altre descrizioni invece ci tramandano un quadro piuttosto fedele sul loro aspetto e sul loro stile di vita.
Il greco Diodoro Siculo (90 a.C-27 a.C) nel suo libro “La Biblioteca Storica” così ce li descrive:
“tenaci e rudi, piccoli di statura, asciutti, nervosi… Costoro abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un’esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta di alberi, alcuni di costoro per l’intera giornata, abbattono gli alberi, forniti di scuri affilati e pesanti, altri, avendo avuto l’incarico di lavorare la terra, non fanno altro che estrarre pietre… A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini. Vivendo di conseguenza sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili sono forti e muscolosi nei corpi… Trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più spesso in cavità della roccia o in caverne naturali… Generalmente le donne di questi luoghi sono forti come gli uomini e questi come le belve… essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle condizioni della vita non scevre di pericolo”. 
Il generale romano Porcio Catone (234 a.C- 149 a.C) invece ci narra della loro incompetenza e li definisce ignoranti e bugiardi (“inliterati mendasque“), parlandoci ancora di un popolo che ha perso la memoria delle proprie origini e della propria identità. Dall’altra parte lo storico greco Erodoto (484 a.C- 430 a.C) ci racconta dettagliatamente dove abitavano:
“La parte convessa delle Alpi-che sono montagne molte alte e formano una curva- è rivolta verso le pianure dei Celti di cui si è detto e verso il monte Cemmeno; la parte concava verso la Liguria e l’Italia. Molti popoli occupano questi monti, tutti Celtici tranne i Liguri; questi sono di stirpe diversa, ma simili per stile di vita; occupano la parte delle Alpi che si congiunge agli Appennini ed abitano anche una parte degli Appennini“. 
Rimane il fatto che fra tutte queste parole quello che non lascia dubbio sono gli apprezzamenti non proprio benevoli della buona società romana del tempo nei confronti dei nostri lontani antenati…:
“adsuetumque malo ligurem”, così li definisce il sommo poeta Virgilio (70 a.C-19 a.C) nelle sue “Georgiche”, ossia: 
“il Ligure avvezzo alla perfidia”, 
non da meno il letterato Marco Terenzio Varrone (116 a.C-27 a.C): 
“Ligures Montane piratae, qui alpium asperrima colunt”,
“I Liguri sono predoni dei monti, che abitano i luoghi più inaccessibili delle Alpi”, non la “tocca piano” nemmeno il famoso oratore Cicerone (106 a.C-43 a.C) definendoli rozzi ed incolti (“intonsi ed inculti”). 
  Tito Livio
Tito Livio (59 a.C- 17 d.C) invece merita una menzione a parte, lui è lo storico per eccellenza dei Liguri Apuani, è lui che racconta (anche) nella sua magna opera “Ab Urbe condita” (n.d.r:ben 142 libri che vanno dalla fondazione di Roma alla morte di Druso, figliastro di Augusto nel 9 a.C) le abitudini e le guerre contro Roma e a proposito di guerre ecco quello che riferì:
“…entrambi i consoli conducevano una campagna nel territorio dei Liguri: un nemico che sembrava fatto apposta per tenere i Romani allenati alla disciplina militare durante gli intervalli tra i grandi conflitti perché non esisteva altra zona di operazioni in grado di stimolare maggiormente lo spirito combattivo dei soldati (…) nel territorio dei Liguri non mancava nulla di quello che serviva a tenere alta la tensione tra i soldati: territori montuosi e difficili; strade strette, anguste, ostili per i possibili agguati; un nemico agile, svelto, pronto agli attacchi inattesi, che non consentiva quiete e tranquillità da nessuna parte e in nessun momento; l’obbligo di andare ad attaccare fortini ben difesi tra fatiche e rischi; un territorio povero di risorse che costringeva i soldati a una vita misera visto che si offriva scarsa possibilità di preda(…)e con i Liguri non mancavano mai né occasioni né motivi per combattere perché a causa della povertà dei loro territori compivano incursioni nelle campagne vicine e i combattimenti non arrivavano mai ad essere decisivi”… 
Ecco a voi, il più classico esempio tratto della celeberrima serie “la storia la fanno i vincitori”. Per Tito Livio questi rudi uomini delle montagne erano avversari di poco conto, buoni per un semplice allenamento con i quali i romani stessi si tenevano in esercizio in vista dei grandi conflitti. Ma la storia dirà che il popolo apuano fu uno degli scogli più duri da superare per Roma, lo stesso Tito Livio si lasciò andare anche a parole sincere, tralasciando qualunque faziosità:
“et Ligures durum in armi genus” (“popolo forte, tenace nell’uso delle armi”) e rimase famosa nella storia la sua frase che racconta di quando gli Apuani sconfissero e misero in fuga i romani nella celeberrima battaglia del “Saltus Marcius”: “Si stancarono prima gli Apuani di inseguire che i romani di fuggire“.
Del resto, Giambattista Vico (filosofo del XVII secolo) ci insegna che la storia è fatta di corsi e di ricorsi. A conferma di ciò è evidente quello che capitò a Rutilio Namaziano (poeta e politico romano) nel 410 d.C, quando era di ritorno a Roma, dopo che nella Gallia Narbonese (territorio romano) aveva assistito alla sconfitta dell’esercito romano da parte dei rivoltosi Goti. Il suo ritorno fu un mesto e malinconico rientro che fece imparare a lui e a Roma una grande lezione, tant’è che nel suo componimento “De reditu suo” ebbe a dire:
“Quos timuit superat, quos superavit amat”,
ovvero: “Vincere chi si è temuto e amare chi si è vinto”…
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