#la luce della notte
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monomania
Qualche volta Majnun, l'"amante folle", invidia gli altri innamorati [...]: gli altri baciano, abbracciano, posseggono la donna amata; mentre il suo amore (anche se nessun padre nemico lo allontanasse) non tollera il possesso, proscrive la vicinanza, esige la distanza e l'eterna separazione. Ma proprio a causa della separazione, egli vive soltanto d'amore: l'amore lo pervade, lo possiede, distrugge qualsiasi altra realtà attraversi il suo animo; tutti gli altri esseri umani, tutti gli altri oggetti gli sono indifferenti e il suo io si scioglie come un cero arso da una fiamma troppo forte. (da P. Citati, Due libri di Nezami, in La luce della notte)
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Gocce di Rugiada: Una Poesia di Ely tra Sogno e Realtà
Ely Gocce Di Rugiada esplora la notte come luogo di rifugio e introspezione, tra ombre, paure e un dolce riposo.
Ely Gocce Di Rugiada esplora la notte come luogo di rifugio e introspezione, tra ombre, paure e un dolce riposo. Recensione:La poesia Gocce di Rugiada di Ely ci conduce in un viaggio nella notte, quel momento magico in cui l’oscurità si mescola ai sogni, creando uno spazio di introspezione e rifugio. Con parole delicate e immagini evocative, l’autrice riesce a trasformare la notte in una tela su…
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Voglio te, solo ed esclusivamente te. Come un riflesso di stelle in un lago placido, così luminosa nella tua quiete, eppure profonda come l'abisso più insondabile. Così educata, gentile, umile, sincera, introversa. La tua riservatezza è un prezioso scrigno che custodisce tesori inestimabili, e io desidero essere il custode di quei segreti, colui che svela il mistero celato dietro ogni tuo sguardo.
Ma anche con un mondo intero da raccontare, nella tua anima. Un universo intessuto di sogni, di pensieri e desideri che attendono solo di essere svelati. Le tue parole sono come il vento che accarezza dolcemente le fronde degli alberi, sussurrando storie di meraviglie e di passioni segrete. Ed io, affamato di quella tua bellezza nascosta, voglio immergermi in questo tuo mare d’inchiostro, esplorare ogni tua emozione, ogni tua paura, e celebrare la tua essenza.
Voglio plasmarti, guidarti, insegnarti tutto ciò che posso. Con la mano del creatore che modella la creta, ma anche con la delicatezza di chi ama senza condizioni, valorizzando ogni curva della tua anima, ogni tua sfumatura. Desidero essere il faro che ti guida attraverso la tempesta, l’ancora che ti tiene salda nei giorni di burrasca. Ma anche colui che ti insegna il volo, libero e audace, senza catene, per raggiungere insieme cime inimmaginabili.
E tenerti accanto a me per tutta la vita. Come un poeta che non può vivere senza il suo verso più amato, così io non posso immaginare un’esistenza senza la tua presenza al mio fianco. Ti desidero come il respiro desidera l’aria, come la notte brama il giorno, in un abbraccio eterno che non conosce fine. Sarò il tuo compagno fedele, l’ombra che ti segue, la luce che ti riscalda, e insieme, intrecciati in un eterno balzo nel tempo, vivremo la più bella delle storie d'amore, scritta a quattro mani, indissolubile come il destino.
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L'innocenza
A vederti ti si scambierebbe per una bambina. Eppure hai già venticinque anni. Un accenno di seno, magra ma tonica. Ben allenata, eppure piccola e tenera. Solo io so di quali numeri sia capace la tua bocca. Solo io conosco quanto sia morbido e accogliente il tuo culo, quando s’allarga elastico per farmi entrare. Impazzisco, se sto senza vederti un giorno, senza poterti baciare tra le gambe e sentirti godere mentre vieni in silenzio.
Perché la cosa che più ti piace è vestirti in modo sexy, anche in casa; e stimolarmi, farmi andare fuori di testa con la tua aria da studentessa modello e puttanella da adorare e sfondare. Sei diabolica. Ami trascinarmi in un’altra stanza dove tua madre, mia compagna da anni, non ci possa vedere. Per toccarmi nei pantaloni, frugarmi e sentirmi crescere. Baciarmi sulle labbra, iniziare a masturbarmi per poi improvvisamente fuggire via nella tua cameretta.
Adoro la tua fica strettissima e il modo in cui di notte nel tuo letto mi accetti dentro di te senza fare un fiato, per non svegliarla mentre dorme serena. Dovrei sentirmi in colpa. Ma il desiderio non conosce tabù da rispettare e a te io non so rinunciare, gemma di primavera nel mio autunno ormai tormentato dalla voglia di te. Ormai è da qualche mese, da quando è sbocciato questo frutto amaro, che ogni notte sgattaiolo in silenzio e mi ficco a letto con te per quei preziosi venti minuti di puro sesso animale.
Non dovremmo, lo so; ma ormai non ho più scrupoli o vergogna. Poi, di mattina si fa colazione tutti e tre insieme. Ognuno andrà dove deve, chi a lavorare chi all’università. Io nella mia mente comunque sarò soprattutto impegnato ad aspettare impaziente tutto il giorno i tuoi messaggi, che puntualmente risveglieranno il mio desiderio. Nessuno potrebbe resistere alle tue tettine dolci ma sode e alla tentazione del tuo corpo scattante, magro e nervoso. Ma è la tua mente perfida, quella che mi vince. Che mi possiede totalmente. Sei desiderio puro.
Ogni volta che mi ripropongo di smetterla, di non farmi più ossessionare dall’idea di te, dal tuo profumo, metto una mano in tasca al giaccone e lì trovo sempre il promemoria, quel tuo perizoma che mi ci hai infilato di nascosto tempo fa, per rimarcare il territorio. L’annuso profondamente e torno a pensarti con intensa passione. Lo custodisco come una reliquia. Sei un’ossessione. Occasionalmente, finito di scoparti lo prendo e te lo passo tra le gambe, per pulirti e impregnarlo nuovamente del profumo più buono al mondo: quello della tua fichetta.
Oh, come mi piace vederti remissiva e obbediente a tua madre quando lei bonariamente ti rimbrotta. O se magari, osservandoti con lo sguardo pieno d’amore, ti dà dei consigli pieni di saggezza e affetto su quanto sia importante comportarsi bene e trovare un bravo ragazzo. Sei la sua bambina innocente, la luce dei suoi occhi. E la pura perdizione, per me. Ogni tanto parlando di te lei mi dice: “non è adorabile, la mia ragazza?” Occasionalmente capita qualche giornata in cui tua mamma mandi un messaggio a entrambi e ci comunichi che purtroppo per un imprevisto o la malattia improvvisa di qualche collega lei debba fare straordinario fino a sera tardi, per coprire un doppio turno.
Allora io so già come andrà il pomeriggio, tra noi. Lei è una donna d’oro: t’ha avuta giovanissima e da ragazza madre modello t’ha allevata con sacrifici neri, prima di incontrare me qualche anno fa. Solo allora s’è potuta rilassare un po’. Avrebbe diritto soltanto a un enorme rispetto, da parte nostra. A non essere ingannata, tradita in modo così subdolo. Mi vergogno da morire. Lei è un’anima adorabile: con me si comporta sempre in modo inappuntabile, da vera compagna fedele, devota e al tempo stesso, in privato, da femme fatale.
Si fa sempre bellissima e come sai bene, perché la invidi un po’, è ancora giovane e molto sexy: s’ammazza di palestra solo per piacermi e ha un corpo da urlo, letteralmente. Le piace sedurmi e legarmi ogni giorno di più, col suo innegabile e intelligente charme di donna pantera. Impazzisco sia per il suo sorriso che per il suo corpo caldo di femmina matura, molto esperta nei giochi di sesso e nel trattenimento del pene. Sessualmente mi vizia di continuo: mi fa fare e mi fa di tutto. Adora succhiarmelo e inghiottire il mio seme. Già questo dovrebbe bastarmi, no?
Ma io invece per il puro gusto del proibito, del peccato, della trasgressione, del non si fa, del sesso assolutamente vietato dalla comune morale e tabù, voglio sempre e solo te. Ti desidero, ti devo leccare, odorare, toccare, violare ovunque e ho bisogno di riempire di sborra ogni tuo orifizio. Devo sentire che sudi, sotto di me; che vibri e godi da impazzire. Poi mi sento sempre in forte colpa. Vorrei confessare tutto a lei e ricominciare daccapo insieme, in modo pulito e onesto. Perché la amo da impazzire. Ma così la distruggerei, la perderei. E anche tu avresti perso tua madre. Dall’altro lato però francamente spero non finisca mai, questo nostro osceno, indicibile, deprecabile peccato. Adesso lecca tuta la mia sborra e ingoiala. Amore mio segreto.
RDA
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Il nostro sonno spegne la luce e la vitalità dei nostri pensieri, per dare luce e vita nella quiete della notte ai nostri sogni.
- Luciano Meran Donatoni
Buonanotte...🌙
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Frammento da "Le emozioni difettose" romanzo di Laurie Halse Anderson pubblicato nel 2011
Mi piace correre di notte, quando nessuno mi guarda, quando nessuno sente le mie scarpe da ginnastica sfrecciare nella ghiaia sul ciglio della strada. La gravità non esiste. Non mi fanno male i muscoli. Galleggio, lascio che mi scivolino accanto chiese, negozi e scuole, e poi porte chiuse a chiave e finestre che si illuminano di tanto in tanto con lampi di luce blu. Mi sento serena.
Una presenza incombe sulla mia spalla sinistra. Riesco quasi a sentirla respirare. Continuo a correre. Non mi fa paura, so che vincerò. Ne sono quasi certa. Ci sono ottime probabilità.
[Opera di Jean Pierre Gibrat]
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abolire
"Intendiamo negare tutte quelle arbitrarie distinzioni tra vizi e virtù, tra lealtà e slealtà, su cui anche i comuni ribelli si basano. Quegli sciocchi sentimentalisti della Rivoluzione Francese parlavano dei Diritti dell'uomo! Noi detestiamo i diritti, tanto quanto detestiamo i torti. Per noi non esiste il Giusto e lo Sbagliato." "E neppure la destra e la sinistra, - disse Syme con sincero entusiasmo - mi auguro che abolirete anche queste, perché mi danno ancora più fastidio." da G. K. Chesterton, L'uomo che fu Giovedì
che mi fa ricordare di questo:
La più perversa incarnazione della linea retta è la morale. Prima che qualcuno la inventasse, gli uomini andavano per la giusta strada senza conoscere il senso del dovere: si amavano l'un l'altro senza professare l'ideale dell'amore umanitario: erano sinceri senza sapere che cosa fosse la lealtà, erano di parola senza conoscere il valore della fiducia. Con l'imposizione della morale cominciarono a smarrire l'intuizione profonda del Tao, e a perdere la spontaneità e la scioltezza con la quale si erano aggirati tra le acque nutritrici del mondo. da P. Citati, I giochi del Tao. in La luce della notte
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Il Festival delle Luci 2024: Lione si Prepara a Splendere dal 6 al 9 Dicembre
Un evento imperdibile che trasformerà Lione in una città luminosa, combinando arte, tecnologia e sostenibilità.
Un evento imperdibile che trasformerà Lione in una città luminosa, combinando arte, tecnologia e sostenibilità. Il Festival delle Luci 2024, che si terrà a Lione dal 6 al 9 dicembre, è pronto a illuminare la città con una serie di installazioni artistiche e spettacoli luminosi mozzafiato. Questo attesissimo evento annuale, riconosciuto a livello mondiale, si propone di attrarre visitatori da…
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Vi vedo, qui, così estremamente belle. E io mi sento così incompatibile che mi sembra di impazzire. È come se la vostra luce splendente fosse il riflesso di un mondo a cui non appartengo, un mondo fatto di bellezza intangibile, di armonia perfetta, di lineamenti che si intrecciano con la delicatezza di una melodia suonata dal vento. E io, in questa notte senza stelle, mi trovo a vagare nel buio della mia stessa esistenza, dove ogni pensiero si perde, si confonde, come un eco che svanisce nell’abisso dell’inquietudine.
Mi sembra che ogni vostro sguardo, ogni vostro sorriso, sia un universo a sé stante, un universo in cui non trovo il mio posto. Mi sembra di essere una nota stonata in una sinfonia sublime, una sfumatura di grigio in un quadro dove voi siete colori vibranti, vivi, pulsanti. Eppure, non posso distogliere lo sguardo. Non posso fare a meno di essere attratto da questa bellezza che mi consuma, da questa bellezza che mi sembra così irraggiungibile, eppure così vicina.
È un tormento dolce, questo. Un tormento che mi strappa via ogni certezza, che mi lascia nudo davanti all’immensità del vostro essere. E mentre vi osservo, mentre il mio cuore si perde nei vostri occhi, mi chiedo se mai ci sarà un momento, un singolo istante, in cui le nostre anime potranno sfiorarsi, in cui le mie insicurezze si dissolveranno come nebbia al sole, lasciando spazio solo alla pura essenza di ciò che siamo.
Forse, è proprio in questa distanza che risiede la nostra bellezza. Forse, è questo il segreto di ciò che ci rende umani: il desiderio incolmabile, l’attesa, la speranza che non muore mai, anche quando sembra destinata a non essere mai soddisfatta. Forse, è questo il modo in cui l’universo ci insegna a sentirci vivi: facendoci assaporare la bellezza dell’impossibile, facendoci desiderare ciò che non possiamo avere.
E mentre vi guardo ancora, in silenzio, sento che c’è qualcosa di sacro in tutto questo. Qualcosa che va oltre le parole, oltre i pensieri, oltre la ragione. C’è una verità nascosta nelle pieghe del tempo, una verità che solo i cuori più audaci possono comprendere: che è nell’incontro delle nostre fragilità, delle nostre paure, che si nasconde la vera forza. Che è nel riconoscere la nostra stessa vulnerabilità di fronte alla bellezza del mondo che diventiamo davvero umani, davvero vivi.
E allora, anche se mi sento così piccolo, così lontano, continuerò a cercare quel legame invisibile che ci unisce, quella scintilla che, anche solo per un attimo, farà brillare la mia oscurità. Perché in fondo, in questo grande teatro della vita, non è forse la bellezza di quel che sfugge, di ciò che non possiamo possedere, a renderci eterni sognatori?
#citazioni#compagnia#distanza#frasi famose#frasi pensieri#mancanza#nuove amicizie#pagine di libri#sentimenti#tristezza
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Mi hai mostrato il Tuo lato oscuro ed io... l'ho stretto nel buio della notte.
La luce attrae tutti...la penombra è per i pochi che ne sanno cogliere l'essenza.
⛓️🐺🖤⛓️
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“Sto ccà”
(“Sto qua”, versione tradotta in Italiano)
Sto, qua, Isabella, sto qua.
Che c’è? Non mi vedi?
Già, non puoi vedermi,
ma sto qua, sono in mezzo ai libri,
tra le carte antiche,
dentro ai cassetti del comò.
Mi trovi quando il sole entra di sguincio,
s’intrufola di taglio
e fa brillare queste cornici dorate
d’argento
grandi e piccoline
di legno pregiato
acero noce palissandro mogano
sembrano finestrini e finestrelle
aperte sul mondo…
Mi trovi quando il sole si fa rosso
prima che tramonti
dipingendo d’oro i rami degli alberi
e s’infila tra le foglie
per farsi guardare.
Altrimenti mi potrai trovare
quando è notte
in cucina, per cercare qualcosa da mangiare
un pezzetto di formaggio, un’insalata,
quel poco che ti sostiene lo stomaco
e poi te ne vai a letto.
Prima della luce dell’alba poi
mi trovi alla scrivania,
con la penna tra le dita
e gli occhi al cielo,
pensando a ciò che ti ho raccontato
e non ho scritto
e chissà se non sia stato un bene
che questi pensieri si siano persi,
distratti, e stanchi di essere pensati,
che volteggiano nell’aria insieme a me.
E se guardi lassù
può succedere
che se ci sono le nuvole
mi trovi.
Il vento straccia le nuvole
e, così, come viene viene,
puoi trovare certi occhi che ti guardano.
Sotto una fronte larga larga
e lunga
e due solchi lungo il viso…
sì, li puoi trovare.
Eduardo De Filippo
Era l’anno 1963, e l’autore si rivolge alla compagna Isabella per narrarle di ciò che sarà oltre la vita terrena, e del sentimento che li lega: “Sai, quando non ci sarò più, guarda bene, perché, in tanti segni, io mi paleserò e tu mi troverai”.
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Amava farsi scoprire tra le ombre,
quel chiaroscuro alla luce del sole
svaniva al primo tepore della notte.
Tepore dai molteplici risvolti,
finché la fantasia non prendeva il sopravvento.
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Mare, mare, mare: ma che voglia di arrivare fino a te
Ho quarantotto anni e sono già... una nonna! Mia figlia è separata e sgobba dalla mattina alla sera, con scarse ferie o permessi. Pur di far fare un paio di settimane di mare a Livio, il mio nipotino di tre anni, io e mio marito Luca ci siamo recati a Grottammare il sabato stabilito, nell'albergo prenotato tempo addietro. Scesi in spiaggia, abbiamo stretto amicizia con i nostri vicini d'ombrellone. Kiluake è un senegalese pallavolista professionista: alto, tutto muscoli e bellissimo. Nora è sua moglie, romagnola e avevano con loro il figlio Adam, di tre anni anche lui come Livio, la luce dei miei occhi.
All'una del primo giorno abbiamo mangiato nella sala pranzo dell'albergo. Recatici in stanza, ho notato che Kiluake e Nora erano alloggiati proprio nella stanza di fianco alla nostra. Domenica sera infine mio marito Luca è ripartito; sarebbe tornato solo il sabato mattina successivo per stare con noi due giorni. Il lunedì appresso Nora s'era offerta di badare per un paio d'ore ai due piccoli sulla riva, così io avrei potuto prendere un po’ di sole sdraiata. Indossavo un costume veramente ridotto e avevo di fianco quel bellissimo pezzo di manzo senegalese.
Dalla lettura distratta e francamente impossibile dei giornali, tanta era la voglia reciproca di parlare finalmente da soli, siamo subito passati alle chiacchiere. Lo desideravamo entrambi molto. Era il palese inizio di una vera, inevitabile intimità tra due poli che percepiscono una latente, vicendevole attrazione. Non potei fare a meno di notare che lui guardava con insistenza il mio basso ventre, i miei seni sodi, le mie gambe e il mio culo, quando ero a pancia sotto. Per parte mia, io mi interrogavo su come potesse essere bello da drizzato quell'ammasso di ben di Dio che gli riempiva il costume davanti.
La cosa mi stuzzicava non poco, confesso. Lo volevo dentro. Moltissimo. Ora, va detto che io la mia età me la porto benissimo e ho un fisico decisamente tonico. Faccio pole dance tre volte a settimana. Poi yoga, plank e corro ogni domenica mattina. Nora invece dopo il parto, così lui mi confidò, s'era un po' lasciata andare. Era notevolmente ingrassata e non curava più il suo aspetto; adesso era fuori forma e aveva quindi perso molto del sex appeal che aveva su di lui originariamente. Il giorno prima le avevo chiesto, in confidenza tra donne, come fosse partita la storia con Kiluake.
Lei mi aveva detto che, da sostenitrice, dapprima seguiva la squadra. In seguito, trovandosi spesso insieme nel dopo partita, da cosa nacque cosa. E a mia domanda esplicita, mi fece capire che il capitolo “dimensioni” non era stato secondario nella sua decisione di accaparrarselo. La sera alle dieci il piccolo Livio già dormiva della grossa nel suo lettino, anche in quel primo lunedì da soli senza mio marito. Quindi uscii sul balcone per respirare un po’ e guardare il mare di notte. Vi trovai Kiluake appoggiato alla sua ringhiera. Mi disse che la moglie era di sicuro un tipo mattiniero, ma che la sera, stanca morta dopo una giornata appresso alla piccola canaglia, crollava letteralmente.
Scherzando dissi: “allora potremmo farci un po’ di compagnia, noi due!” Egli rispose: “certo, scendiamo giù e andiamo a farci un drink.” Io ormai senza più pudore: “intendevo qui in camera mia.” L'uomo divenne serio, mi guardò fisso e rientrò dentro. Ero convinta di aver combinato un guaio ed in realtà ero rossa di vergogna. Ma subito dopo sentii bussare leggero alla porta: era lui. Mi disse con un tono comprensivo che nella sua cultura loro rispettano molto una donna sposata. Ero di brace. E che la vagina di una sposa è solo ed esclusivamente del marito. Io chiesi: “tutto il corpo della sposa?” e lui: “Beh, il culo e la bocca no!”
Ci facemmo una risata che sbloccò qualsiasi imbarazzo. Quindi lo abbracciai. Lui si scongelò, mi baciò infilandomi mezzo metro di lingua in bocca e poi scoprì i miei seni. Li soppesò, li accarezzò dolcemente e io iniziai a gemere. Li succhiò a lungo; poi si decise e mi distese sul letto, mi girò sul ventre e iniziò a massaggiare le mie natiche; me le divaricò, per disporre liberamente dell'interno del solco e vi sputò abbondantemente dentro, proprio sull'ano. Poi leccò e lubrificò con molta esperienza. Non ci potevo credere: tra un po’ avrei preso nel culo un guerriero africano! Appoggiò la sua cappella e cercò di entrare. Mi trattava come la sua troia.
E mi piaceva moltissimo: con sua moglie a due metri di distanza. A me francamente piaceva ancora di più, con mio marito a un'ora di viaggio. Gli dissi di aspettare, che il culo non l'avevo mai concesso a nessuno, neppure a mio marito e temevo mi rompesse, con quell'affare enorme. Rise di cuore e mi disse di non preoccuparmi. Mi fece rilassare e riprese il suo lavoro. Pian piano riuscii a prenderlo nel culo per metà. Dapprima stavo per svenire dal dolore. Ma lo volevo sentir sborrare dentro di me con tutta l'anima. Lui si accontentò del parziale ingresso nel mio culo e prese a tenere un'andatura molto lenta.
Man mano che procedeva, sputava sempre dall'alto della nuova saliva direttamente nel mio culo, così che il suo cazzo entrasse sempre un po’ di più. Era un'emozione nuova e bellissima: avevo scopato al di fuori del matrimonio già diverse volte, ma mai con un pezzo d'atleta del genere. E non l'avevo mai preso in culo: porca puttana, iniziavo direttamente dal top! Alla fine, con mia grande sorpresa, il suo cazzo entrò tutto! E prese a essere più veloce. Inarrestabile. Una vera bestia. Io non sapevo più se godere di lui e con lui o se invece soffrire per il mio culo dolorante palesemente rotto, sanguinante e dilatato al massimo.
Sentivo i suoi coglioni sbattermi sul perineo. Era il più dolce e gradito massaggio. Mi sembrò di vivere impalata ma… in paradiso! Sborrò dentro di me forse una mezza litrata di roba. E sotto di lui divenni una morbida bambola di pezza, mentre venivo gemendo più volte, se solo pensavo a lui dentro di me. Ero completamente sua. I seni erano nelle sue mani a coppa. Mi baciava il collo, me lo leccava, mi torceva la testa per baciarmi lingua in bocca. La sera dopo, martedì, mi feci trovare supina e nuda. Depilata, profumata e bellissima. A sorpresa, mentre tentò di girarmi, rimasi ferma, col culo incollato al letto e gli presi il cazzo enorme con le mie due mani e lo puntai decisa contro le mie piccole labbra.
Lui disse: “no, amore mio; questo non posso farlo” ma intanto non accennava ad andarsene. Per di più, io tenevo le sue palle strette nel mio pugno. Come faceva per allontanarsi, io glieli strizzavo. La sua indecisione e gli scrupoli durarono forse dieci secondi. Poi alla mia fregna già ben lubrificata e totalmente aperta per lui non seppe resistere; si decise. Entrò e mi sventrò letteralmente. Fu una cosa incredibile. Non la finiva di sborrarmi dentro. Ero incosciente dal piacere. Quel martedì sera mi fece venire tre volte. Scopammo regolarmente tutte le sere, fino al venerdì incluso e poi di nuovo da domenica sera fino alla fine della vacanza.
Ebbi modo anche di prenderglielo in bocca, ma solo fino a quasi metà. Era un suo grande desiderio, quello di riuscire a trovare una donna che glielo prendesse tutto in gola. Avrei dovuto avere più tempo a disposizione. Sospetto che la moglie Nora sapesse, ma non ci fu mai problema tra noi. Anzi: forse era sua complice. Aveva probabilmente capito che per tenerselo avrebbe dovuto sempre condividerlo con donne magari anche più mature ma più attraenti di lei.
Ci scambiammo i numeri e ci ripromettemmo di non perderci di vista. Conoscendomi bene, io da parte mia già sapevo che avrei comunque fatto in modo di godere ancora di quel bellissimo uomo durante i prossimi mesi. Ero sicura: infatti ero innamorata persa di quel vero guerriero africano, ma soprattutto del suo enorme arnese. E poi mi sarei esercitata ogni giorno con dei falli in gomma, per riuscire a prenderglielo in bocca tutto. E farlo finalmente felice.
RDA
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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turni
Ogni città ha mille fortezze, e in ognuna di queste fortezze c'è una guarnigione di mille soldati che vi fanno la guardia ogni notte. L'uomo che vi fa la guardia non ripete il suo turno che l'anno dopo. (da P. Citati, La Bibbia vista dall' Islam, in La luce della notte)
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Comincia con la neve, la storia che parla di te. Ho provato a farla cominciare in tanti altri modi. L'ho fatta cominciare con il caldo, con la luce, in un altro paese - piú selvatico, piú sporco, piú povero - in un altro letto, non in questo. Ma ogni volta uno zoom mi riporta a quella casa nella parte piú degradata della città e a quella notte buia e gelida in cui ci siamo baciati per ore, io e te, baci feroci che hanno colto tutti e due alla sprovvista, sbucati dal nulla e proseguiti finché il cielo è schiarito e noi ci siamo addormentati... Comincia con la neve...
Julie Myerson
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