#poesia sul riposo notturno
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Gocce di Rugiada: Una Poesia di Ely tra Sogno e Realtà
Ely Gocce Di Rugiada esplora la notte come luogo di rifugio e introspezione, tra ombre, paure e un dolce riposo.
Ely Gocce Di Rugiada esplora la notte come luogo di rifugio e introspezione, tra ombre, paure e un dolce riposo. Recensione:La poesia Gocce di Rugiada di Ely ci conduce in un viaggio nella notte, quel momento magico in cui l’oscurità si mescola ai sogni, creando uno spazio di introspezione e rifugio. Con parole delicate e immagini evocative, l’autrice riesce a trasformare la notte in una tela su…
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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Immedesimandosi nella vita di un pastore girovago sugli altopiani asiatici, Giacomo Leopardi avvia nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829) un lungo struggente dialogo con la Luna. Al nostro satellite il poeta dischiude le domande più profonde sul senso dell’esistenza, con drammatica semplicità.
Le poesie più belle dedicate alla Luna
A partire dall’interrogazione iniziale, ‘Che fai tu, luna, in ciel?‘, Leopardi inizia un confronto tra la condizione umana, assediata da innumerevoli dolori, sofferenze, noia – per poi giungere a cosa? All’abisso orrido immenso, la morte, che tutto oblia – a quella della Luna, sempiterna peregrina, superiore agli affanni mortali.
Anche la Luna in fondo, ragiona Leopardi, partecipa dello stesso struggimento del poeta: anche il suo girovagare sembra essere privo di senso, così come quello delle stelle del firmamento, e di tutti gli esseri viventi. ‘A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito Seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?’
Una poesia capace di interrogare nel profondo sullo scopo della vita, sul senso di inadeguatezza di tutte le “cose mortali” rispetto a quello che desideriamo. Da leggere e rileggere, uno dei più grandi capolavori della poesia italiana.
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale E’ la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? Intatta luna, tale E’ lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perché delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito Seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, E’ funesto a chi nasce il dì natale.
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ORLO // SYLVIA PLATH IN “IL VIAGGIO SCIAMANICO”
La donna è a perfezione.
Il suo morto corpo
ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità
scorre lungo i drappeggi
della sua toga,
i suoi nudi piedi sembrano dire:
Abbiamo tanto camminato, è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti
Ciascuno come un bianco serpente
a una delle due piccole
tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino
s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.
05.02.1963, Sylvia Plath
(traduzione di Giovanni Giudici)
ORLO // SYLVIA PLATH IN “IL VIAGGIO SCIAMANICO” – PROF. CIRO SORRENTINO
La genialità di Sylvia Plath è tale da consentirle di utilizzare le parole come segni e rappresentazione degli ossimori della vita; ed è questa stessa genialità che sul piano stilistico si rappresenta in pensieri e forme mai definiti. E non potrebbe essere altrimenti, perché, della vita, Sylvia Plath percepisce i confini della vaghezza e dell’indefinibile, ne svela la fragilità, denunciandone l’impossibilità a determinarsi in modo assoluto. La sua è una scrittura dai toni accesi e innovativi, uno stile personalissimo, fatto di pause e slanci, di imperativi incisi che riflettono appieno la condizione dell’uomo come sospeso, tra indugi, inquietudini, aspirazioni. Il suo canto è espressione dell’essere, è grido dell’anima, e la scrittura è lo strumento per vincere la vuotaggine del silenzio, fissando sul foglio la provvisorietà della dimensione umana.
Espressioni-chiave caricano ogni verso di un forte valore simbolico, individuando il messaggio che, nella sua visione del mondo e della vita, scopre la volontà di trovare un luogo di quiete dove liberarsi dall’opprimente esistere. Quello di Sylvia Plath è un percorso poetico di sofferta conoscenza che la condurrà a scrivere una delle sue più “profetiche” poesie, Orlo. Emblematico l’inizio, “la donna è a perfezione”, un inciso che dichiara in maniera diretta la coscienza di aver raggiunto i confini dell’esperienza, sia sul piano intellettivo che su quello morale e sociale. È un esordio paradigmatico, perché contrappone la coscienza dell’io alla finitezza del mondo terreno e visibile: niente della realtà vissuta è eterno, la vita si lega ad un’esperienza di lacerazione continua, senza alcun fine.
Il nucleo fondante della lirica è dichiarato nello stesso titolo: Orlo, quasi fosse la meta definitiva della viaggiatrice, ormai giunta nel punto più distante dal mondo, laddove le è possibile osservare con “distacco” gli eventi e le azioni degli uomini. Si avverte una tensione estrema, perché Sylvia Plath è al capolinea, è sull’ Orlo che demarca il limite tra l’esistenza terrena dell’individuo e il misterioso altrove degli spazi imperscrutabili ed inaccessibili. Una poesia, Orlo, cadenzata su toni realistici e metafisici, drammatici, che convergono verso la rivelazione di una situazione oscura, la stessa che procura una vertigine spazio – tempo, dove un riverbero inesplicabile annulla ogni presunzione di vita. La condizione diventa maggiormente tragica quando quel riverbero gioca a rimpiattino, suscitando nell’animo percezioni e memorie d’una storia trascorsa:
“…i suoi piedi nudi sembrano dire: siamo arrivati fin qui, è finita.”
Perentorio come evento senza revoca, prorompe l’impeto angosciante di questi versi. Quello che si espande a dismisura e che si materializza è il cosciente dolore, la percezione di un vuoto che opprime e soffoca inesorabilmente, provocando un’irrevocabile torsione spaziale e temporale, un’esclusione dimensionale che precipita ogni fede in un’assenza estrema:
“i bambini morti si sono acciambellati, ciascuno, bianco serpente, presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.”
Al cadere di ogni attesa, Sylvia Plath sceglie di spingersi contro ed oltre una realtà che si scopre vago e indistinto presente; e comprende in sé i ricordi, se ne fa custode “lei li ha raccolti di nuovo nel suo corpo come i petali di una rosa si chiudono quando il giardino s’irrigidisce e sanguinano i profumi dalle dolci gole profonde del fiore notturno.”
Impercorribile sarà la strada del “ritorno”, e, a darne sentenza sono i versi finali, che definitivamente obliano ogni aspettativa. Nella visione di Sylvia Plath, la vita terrena non è altro che un continuo e ordinario scivolare verso l’inesorabile fine, prova ne sia che “la luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso, non ha motivo di essere triste. È abituata a queste cose. I suoi neri crepitano e tirano.” Ma a ben guardare, la luna è specchio dell’anima di Sylvia Plath, la donna che vede lontano, oltre ogni reale contestualizzazione, la donna che percepisce colori e tinte di nuove e sconosciute geometrie dell’universo.
Avendo raggiunto l’ Orlo, Sylvia Plath “è a perfezione”, ha percorso un cammino tortuoso, fatto di salite e discese, realizzando infine lo scopo assoluto, quello di riconoscersi inimitabilmente nell’unicità della sua essenza. “Il suo morto corpo”, la sua consistenza corporea sta svaporando, è al limite del visibile, compiutezza della carne che si scioglie per tornare alla sua risibile nullità. Il corpo senz’anima “ha il sorriso del compimento”, un sorriso che non dipende da un atto volitivo, ma che fornisce una pietosa e trasparente immagine della materia corporea in disfacimento.
A sorridere veramente è l’entità assoluta e spirituale di Sylvia Plath, l’oracolo che svela “un’illusione di greca necessità” nel mondo degli uomini, in quella finzione di statua divenuta ormai macchinazione e raggiro. In questo passo divinatorio viene denunciata la mistificazione, quella che “scorre lungo i drappeggi della sua toga”, quasi liquefazione di una chimerica esistenza. Fragile, limitata, minima, la vita trascorre velocemente e si consuma nelle pieghe di una vana e fugace bellezza.
In questa tragica consapevolezza “i suoi nudi piedi sembrano dire: Abbiamo tanto camminato, è finita.”. Dunque il corpo, senza più trovarsi confusamente smarrito sui sentieri tortuosi ed impervi della finzione umana, si dispone al riposo definitivo, avendo esaurito la sua energia di radice che nutre l’anima. Occorre prestare attenzione all’inciso “è finita” per non incorrere nell’errore di credere che in questo canto acquistino peso e forza i toni della rassegnazione e del rimpianto.
L’apparente nostalgia è solo una constatazione che solo il tempo umano si è esaurito. Di fronte alla prossima fine, “Si sono rannicchiati i morti infanti”, l’energia vitale e la logica che la guida restano sospesi, in attesa che si compia il tutto. La vita e il pensiero si sono raggomitolati “ciascuno come un bianco serpente a una delle due piccole tazze del latte, ora vuote”, serpenti senza veleno, creature senza più peso che sfiorano appena la terra, null’altro lasciando che un fruscio.
L’io allo specchio, il contraddittorio “essere o non essere”, per effetto di forza centripeta, crolla su se stesso: nulla della realtà può colmare il dubbio amletico dell’essere che si ritrova sdoppiato. La figura del doppio, fa emergere tutto il dolore dell’essere che scorge l’infinito quando ancora si ritrova, in qualche modo, legato al corpo, il misero involucro che non impedisce a Sylvia Plath di stabilire un contatto con l’energia immensa, circolare, eterna dell’infinito.
È a questa vastità che Sylvia volge la sua attenzione, ad essa sente di appartenere e si distacca, con lucida chiaroveggenza, da ogni umano impedimento. Ecco perché osserva il suo corpo e la terra come da lontano; quegli impedimenti, così finiti e vani, “Lei li ha riavvolti dentro il suo corpo come petali di una rosa richiusa…”. Sylvia è quella “rosa”, è bellezza e amore, mirifica essenza che richiude il suo ventaglio di colori, come attendendo e riparando l’incompreso universo della sua conoscenza.
Sylvia Plath ha raggiunto l’ Orlo, la piena coscienza dell’esistenza, sa che “quando il giardino s’intorpidisce…” sulla terra (il suo corpo) non possono germogliare più i semi, sa che inevitabilmente la vita ha bisogno di altra terra per espandersi. È questo il luogo epifanico che consente a Sylvia di poter affermare “…e sanguinano odori dalle dolci, profonde gole del fiore della notte”: la perfezione che la contraddistingue, l’immensità, che in lei è esplosa, ha necessità d’essere trasposta dal piano terreno alla dimensione insondata del sovrumano.
Non è più tempo delle emozioni che pulsano dando vita alle passioni: altro e nuovo sangue fluisce e permea l’essere di Sylvia: sono incantevoli fragranze (le sue stesse fragranze) che echeggiano da lontano, chiamandola, perché le raggiunga “all’infinitesimo lume delle stelle”.
Quelle fragranze “sonore” giungono dai profondi ed inesplorati abissi, da quella insondabile vastità dove si aprono i “petali” delle immense stelle e delle “stringhe” infinitamente piccole. In questo scenario dell’imponderabile (per le menti comuni, non certo per Sylvia Plath), la Luna/Specchio/Sylvia rappresenta il ponte tra la terra e il Cosmo. E seppure la Luna sia simbolo dell’immaginifico, delle paure e dei sogni, resta ferma nella sua imperscrutabile distanza, mentre “…guarda dal suo cappuccio d’osso”, perché “A certe cose è ormai abituata.”.
La Luna, in quanto parte di un Orlo di “perfezione” superiore ed universale, rappresenta l’assoluto e la compiutezza, quella totalità di cui Sylvia Plath è espressione e natura. E da lassù guarda gli uomini che “crepitano”, e, rumoreggiando come foglie fruscianti, si spengono rapidamente come scie di luce precipitate dal cielo.
Sono bricioli e lampi di luce su cui “…si tendono le sue macchie nere.”, le ombre di un buio dilagante, il buio che confonde gli uomini così persi nelle fedi apparenti del labirintico e presunto ordine della realtà.
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