#Luci Interattive
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Il Festival delle Luci 2024: Lione si Prepara a Splendere dal 6 al 9 Dicembre
Un evento imperdibile che trasformerà Lione in una città luminosa, combinando arte, tecnologia e sostenibilità.
Un evento imperdibile che trasformerà Lione in una città luminosa, combinando arte, tecnologia e sostenibilità. Il Festival delle Luci 2024, che si terrà a Lione dal 6 al 9 dicembre, è pronto a illuminare la città con una serie di installazioni artistiche e spettacoli luminosi mozzafiato. Questo attesissimo evento annuale, riconosciuto a livello mondiale, si propone di attrarre visitatori da…
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enkeynetwork · 2 months ago
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lamilanomagazine · 8 months ago
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Bari: presentato un modello innovativo di valorizzazione del patrimonio culturale
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Bari: presentato un modello innovativo di valorizzazione del patrimonio culturale. È stato presentato nella sala giunta di Palazzo di Città, alla presenza dell'assessora comunale alle Culture e al Turismo, il progetto iBari, realizzato da un consorzio di imprese composto dalla capofila THESIS S.r.l., dalla spin off dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro D.A.BI.MUS. S.r.l. e da Quorum Italia S.r.l., con il supporto scientifico dal Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica di UNIBA, in riscontro al fabbisogno di modelli innovativi di valorizzazione culturale e turistica del patrimonio culturale della città di Bari, manifestato dal Comune di Bari nell'ambito del bando regionale Innolabs a valere su fondi FESR. A illustrare il progetto il prof. Nicola Barbuti, legale rappresentante della D.A.BI.MUS. S.r.l., che ha spiegato come obiettivo dell'iniziativa sia quello di valorizzare il patrimonio culturale della città non solo dal punto di vista emozionale, ma anche dal punto di vista informativo, educativo e conoscitivo. A tal fine, è stato elaborato un modello innovativo di creatività digitale in grado di restituire all'esperienza della comunità monumenti e luoghi culturalmente simbolo della città, rigenerati nelle loro architetture originali in dimensione digitale. Quali evidenze particolarmente significative della storia recente, sono stati presi in considerazione due monumenti non convenzionalmente valorizzati nella loro dimensione di beni culturali: il Teatro Petruzzelli, costruito nei primissimi anni del '900 e da oltre un secolo uno dei teatri più prestigiosi al mondo, rigenerato in una suggestiva ed emozionante realtà immersiva fin nei minimi dettagli architettonici così come si presentava al momento dell'inaugurazione nei primi anni del Novecento; l'ex Mercato del pesce in piazza del Ferrarese, edificato ai margini della città vecchia nella tarda seconda metà dell'800, rigenerato nelle tre principali fasi del suo ciclo di vita in un'innovativa realtà mista fruibile on site e in movimento tramite un app scaricabile su dispositivi mobili. Le due esperienze sono state realizzate con grande accuratezza utilizzando fonti storiche originali: planimetrie, fotografie, cartoline, libri, documenti, incisioni, locandine e altri reperti, che sono state digitalizzati presso i laboratori delle imprese per creare le soluzioni interattive. Il Petruzzelli è stato ricostruito in realtà virtuale immersiva fruibile tramite visore a puntamento oculare e offre all'utente un'interazione che genera un impatto di notevole suggestione emozionale, in quanto si possono apprezzare pienamente i pregi architettonici e artistici del monumento, distrutti dall'incendio del 1991, quali gli affreschi della cupola, i tendoni dei sipari di apertura e di intervallo, gli ornamenti in legno e foglia oro che arredavano i palchi, in un gioco di luci e colori perfettamente ricostruiti per restituire le intense sensazioni emotive vissute dagli spettatori oltre cento anni fa entrando nel teatro per la prima volta. Negli ambienti è possibile integrare layer aggiuntivi con cui l'utente può interagire. Questa soluzione, che sarà disponibile al pubblico nelle prossime settimane, necessita di un punto di accesso dotato di hardware. L'app sviluppata per l'ex Mercato del pesce, disponibile sugli store digitali, offre agli utenti la possibilità di interagire con l'immobile nelle tre principali e diverse fasi edilizie che l'hanno profondamente modificato tra la fine dell'800 e i primi anni del '900, ricostruite in una dimensione digitale vivibile on site in prossimità dell'edificio e popolata da personaggi caratteristici integrati con tecnica particle system, alcuni dei quali animati tramite soluzioni audio-video che contengono narrazioni in vernacolo barese. "Siamo di fronte a due esperienze che non hanno semplicemente un valore in chiave turistica, ma anche "educational" - ha spiegato Nicola Barbuti -, in quanto i monumenti ricostruiti sono di fatto accessi tramite cui turisti e cittadini hanno la possibilità di entrare in contatto e conoscere le identità che definiscono la storia della nostra città, anche negli aspetti culturali altrimenti intangibili. Entrambe le installazioni sono incrementali e possono perciò essere ulteriormente popolate di contenuti anche attraverso il contributo partecipativo degli utenti e su richiesta di soggetti terzi. Ringraziamo il Comune di Bari per averci dato questa possibilità e aver contribuito alla realizzazione del progetto. Siamo convinti che i modelli di rigenerazione digitale creati possono diventare i nuclei primigeni di ecosistemi in cui attivare nuovi approcci di accesso alla conoscenza, che siano scalabili su diverse tipologie di contesti e di beni. In prospettiva, questo approccio potrà rappresentare un promettente avvio di strategie innovative di valorizzazione e conoscenza del patrimonio culturale locale e regionale, in grado di offrire agli utenti accessi e interazioni prima impensabili".... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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IKONO, il protagonista sei tu!
Curiosi di fare un’esperienza insolita nel cuore di Roma?
Si tratta di un percorso immersivo con diverse ambientazioni uniche nel loro genere della durata di circa 1 ora, che trasporteranno lo spettatore in un luogo surreale, viaggiando in mondi, culture ed epoche diverse. Pur rimanendo nella Capitale, si sentirà trasportato in Giappone, nell’antica Roma e non solo!
Dopo il lancio del primo museo a Madrid targato IKONO, è giunto in Italia con la sua prima apertura. Questa galleria d’arte è situata in una location storica nel cuore della Capitale, a pochi passi dal Pantheon, in via del Seminario 111.
Le installazioni interattive e artistiche con cui interagire sono ben 12 , e combinano sensorialità e tecnologia.
Tra le numerose esperienze interattive, spiccano sicuramente: le “Terme Romane“, con un’immensa piscina di bolle; la “Stanza dalle Infinite Lanterne“, che offre un surreale viaggio tra luci e ombre;
“La Donna tra le Foglie”, opera immersiva astratta di ispirazione rinascimentale realizzata dall’artista statunitense Heather Bellino, che coinvolge il visitatore in un gioco di specchi e luci; ancora, l’imperdibile esperienza del “Light Painting“, ispirata all’arte di Pablo Picasso, dove i visitatori possono sfogare la propria creatività, utilizzando pennelli luminosi per creare disegni, forme e frasi nell’aria; infine “Yokocho“, trasporterà i visitatori in una tradizionale stradina di Tokyo.
IKONO è la nuova esperienza immersiva e innovativa, ideale per giovani, adulti e famiglie che desiderano vivere un momento artistico e di intrattenimento inusuale, per evadere dalla solita routine o concedersi uno svago diverso dalla tipica passeggiata tra le strade e le bellezze di Roma.
A differenza delle tradizionali gallerie d’arte, in IKONO il vero protagonista sei tu! L’unico requisito è quello della creatività!
Cosa aspettate?
Se non vedete l’ora di provare una tra le esperienze più immersive e divertenti, correte a prenotare la prossima vacanza a Roma! Soggiornate nei nostri B&B e affittacamere Roma che si trovano a pochi minuti dall’esperienza IKONO! Troverete B&B Roma adatti alle vostre necessità! Prenota subito nei nostri B&B Roma centro!
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altabattery00 · 2 years ago
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Tesla sta aggiornando diverse funzioni delle sue auto elettriche
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Tesla sta lanciando un nuovo aggiornamento per le sue auto. Questo porta diverse nuove funzionalità. Attivazione automatica del volante riscaldato. L'accensione automatica delle luci dell'auto in modalità sentinella. Queste nuove funzionalità sono in arrivo su Model 3 e Model Y. L'aggiornamento include anche altre nuove funzionalità, ma la maggior parte non viene implementata in Francia. Ecco l'elenco completo.
Ci sono molti interessi in una Tesla. Uno dei principali è la capacità dell'auto di evolversi. Ciò significa che i veicoli migliorano nel tempo, attraverso gli aggiornamenti. Questi consentono all'auto di accedere a nuove funzioni interattive. Può riguardare l'intrattenimento, la guida, il comfort o la sicurezza. L'esempio più lampante è il pilota automatico. Quest'ultimo dovrebbe finalmente essere in grado di offrire una guida completamente autonoma in autostrada, ma anche in città. Oggi non è ancora così. Ma Elon Musk lo ha promesso... da diversi anni!
In attesa dell'arrivo di una versione definitiva e sicura, il cui costo di attivazione è già proibitivo, Tesla rilascia regolarmente aggiornamenti per i suoi veicoli. L'ultima è datata 24 gennaio 2023. È numerata 2023.2.0.5. E porta alcune nuove funzionalità per tutti i modelli Tesla. Ovviamente la compatibilità varia a seconda dei veicoli, ma anche della posizione geografica.
TESLA MIGLIORA IL VOLANTE RISCALDATO E LA MODALITÀ SENTINEL NELLE SUE AUTO Le prime due nuove funzionalità, disponibili in Francia, sono compatibili con Model 3 e Model Y:
Il primo è l'attivazione automatica del volante riscaldato. Questa funzione consente all'auto di controllare la temperatura del volante in base all'ambiente e alle preferenze dell'utente. Se hai acquistato l'opzione “volante riscaldato”, questa novità ti riguarda direttamente. La seconda novità è l'accensione automatica delle luci in modalità sentinella. Quando una Tesla entra in modalità Sentinel, analizza costantemente il suo ambiente utilizzando le telecamere di bordo. Registra anche gli eventi nelle vicinanze. E ora può accendere a intermittenza i suoi fari anabbaglianti per 60 secondi. Questo indica che l'auto sta registrando un evento. Altre nuove funzionalità sono incluse in questo aggiornamento. Aggiunta la lingua tailandese per la navigazione stradale. La possibilità di visualizzare in anteprima l'interno dell'auto prima di una videoconferenza (incompatibile con le vecchie Model S e Model X). L'aggiunta di un'icona "sedile riscaldato" nel launcher dell'applicazione. L'arrivo del riconoscimento della grafia (e quindi della grafia nell'interfaccia). E aggiungendo nuovi programmi WeChat Mini e app Mango TV nel sistema. La maggior parte dei suoi nuovi prodotti non è disponibile in Francia.
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daniele-guidi-san-marino · 3 years ago
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San Marino il Natale delle Meraviglie
San Marino inaugura il Natale e la diciannovesima edizione del Natale delle Meraviglie “Un’Opera Fantastica”: il taglio del nastro è avvenuto il pomeriggio del 27 novembre alle ore 17.00 in Piazza della Libertà alla presenza del Segretario di Stato per il Turismo, Federico Pedini Amati e del Direttore Artistico, Andrea Prada.
Per l’inaugurazione è stata iluminata Piazza della Libertà con proiezioni di luci, colori e suoni, trasformando i luoghi più iconici di San Marino per Natale in opere d’arte per ben 19 km che comprendono mercatini e spazi divertimento per bimbi.
13 le location del centro storico allestite con installazioni, opere interattive, spazi-divertimento, mercatini e aree eventi per un caldo Natale che illumini cuori dei cittadini e dei turisti.
Leggi la news sul blog: Daniele Guidi San Marino
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clicknart-blog · 6 years ago
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“Studio Azzurro”: Nuova Arte e Tecnologia
Una delle caratteristiche principali che contraddistingue l’arte è la sua capacità di adattarsi a ogni condizione storica e sociale: in questo periodo, in cui la “Rivoluzione Digitale” sta cambiando la nostra vita sotto ogni punto di vista, essa non può che adeguarsi a tali circostanze, determinando la nascita di un nuovo paradigma artistico.
L’invasività dei mezzi tecnologici, infatti, ha causato un ripensamento totale del modo di fare arte, tramite l’utilizzo, come veri e propri strumenti di lavoro, di video, luci, suoni e interfacce interattive.
È proprio nel bel mezzo della Rivoluzione Digitale che si colloca l’esperienza di “Studio Azzurro”, un gruppo di ricerca artistica italiano la cui produzione è incentrata sull’utilizzo delle nuove tecnologie applicate all’arte.
Uno degli interessi principali del collettivo è dunque il rapporto fra opera artistica, interattività e multimedialità: la riflessione su questo tema porta alla realizzazione di videoambientazioni e di installazioni multimediali in cui lo spettatore stesso è portato a interagire con l’opera artistica. Nascono quindi gli “Ambienti Sensibili”, una serie di lavori caratterizzati da ambienti che reagiscono alle sollecitazioni, che possono essere suoni o sollecitazioni sensoriali, mediante un cambiamento dello scenario stesso.
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Ambientazione di “Tavoli (perché queste mani mi toccano?)" Fonte: Studio Azzurro
“Tavoli (perché queste mani mi toccano?)”, realizzato nel 1995, è uno dei primi Ambienti Sensibili realizzati da Studio Azzurro: l’opera consiste in sei tavoli di legno posizionati in una stanza, su cui sono proiettate sei figure all’apparenza immobili; una donna che dorme distesa, una goccia d’acqua che cade dentro un vaso, una candela spenta. I tavoli, però, sono dei tavoli sensibili; al tocco, le immagini proiettate reagiscono, determinando un cambiamento dello stato di partenza: ed ecco che la donna, come se fosse infastidita, cambia posizione, l’acqua trasborda dal vaso e la candela si accende.
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Video dell’opera “Tavoli (perché queste mani mi toccano?)” Fonte: YouTube
Ad oggi sono più di 30 gli ambienti sensibili realizzati da Studio Azzurro, a cui si aggiungono anche un gran numero di videoinstallazioni e di “Musei di narrazione”, percorsi espositivi in cui vengono “esposti” non beni materiali, ma racconti, testimonianze e ricordi: è uno dei primi passi effettuati verso una “rivoluzione del museo” tramite l’utilizzo di strumenti tecnologici e interattivi. Un esempio di questi è “Bambini Migranti: Storie di Viaggi e di speranza”, realizzato nel 2017 per ricordare il naufragio avvenuto a Lampedusa il 3 ottobre 2013, dedicata al racconto dei viaggi verso l’Europa di cinque bambini.
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Estratto dell’evento "Bambini, storie di viaggio e di speranza" Fonte: YouTube
Samuele Mannalà
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italianaradio · 5 years ago
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IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery)
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/ipsia-siderno-sfila-lofferta-formativa-in-occasione-dellopen-day-fotogallery/
IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery)
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IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery)
IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery) Lente Locale
di Antonella Scabellone (foto-servizio Enzo Lacopo)
SIDERNO- Applausi a scena aperta per gli allievi dell’Ipsia di Siderno che, sabato 25 gennaio, si sono resi protagonisti della consueta sfilata di moda organizzata, come ogni anno, in concomitanza con l’Open Day. Un’ occasione per aprire le porte dell’istituto a quanti, a conclusione della scuola media, si  apprestano a scegliere l’indirizzo di studi piu’ consono alle proprie inclinazioni e, per tale motivo, decidono di visitare i locali e i laboratori dell’istituto e raccogliere tutte le informazioni utili sull’offerta formativa dello stesso.
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L’iniziativa, pertanto, ha consentito al folto pubblico presente sabato pomeriggio nei locali della sede centrale di via Mazzini, di poter prendere contezza di tutti gli indirizzi di studio che verranno ulteriormente potenziati a partire dal prossimo anno scolastico.
Molto apprezzata la “performance” delle studentesse del corso “Produzioni Tessili e  Sartoriali” (ex “Abbigliamento e Moda”) le quali, con la collaborazione di alcuni compagni degli altri indirizzi di studio, sotto le direttive delle Prof.sse Cristina Crea e Carmela Megali, e dell’assistente tecnico Anna Spanò,  hanno portato in passerella gli abiti da loro stesse confezionati.
La serata è stata presentata con grande professionalità dalla docente Katia Aiello, coadiuvata nell’organizzazione dalla prof.ssa Renata Commisso e nella presentazione degli abiti dall’allieva Ilaria Spano, che ha spiegato che la passerella di quest’anno, dal titolo “Will Power”    (volere è potere), è un omaggio a tutte le donne che con il loro coraggio e la loro intelligenza hanno cambiato il mondo.  
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“ WILL POWER È la forza che ci spinge a esplorare territori sconosciuti, ad affrontare le nostre paure e a vincerle-ha detto la prof.ssa Aiello. Attiviste, politiche, astronaute o scienziate, ma anche scrittrici, giornaliste, artiste o sportive, sono le donne che hanno ispirato la sfilata”. Donne Diventate il simbolo dell’emancipazione, della libertà, del coraggio di osare, a cui è stato dedicato un video che ha aperto la manifestazione.
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Da Lady D, a Jacqueline Kennendy, a Giovanna D’Arco, ad Anna Frank, per continuare con Rita Levi Montalcini, Evita Peron, Madre Teresa di Calcutta, Luisa Spagnoli, e Clelia Pellicano, solo per citarne alcune. “Ispirati a loro-ha precisato la prof.Aiello- i capi di quest’anno sono colorati, leggeri e luminosi; essi sembrano fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni delle nostre allieve. Dall’organza alla pelle, dal twill alla seta, offrono un ampio ventaglio di tessuti romantici e declinati in una palette ricca di colori”.
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In apertura è stata presentata al pubblico una simpatica invenzione, uno squalo ” volante” costruito in laboratorio dagli studenti dell’indirizzo Manutenzione e Assistenza Tecnica, sotto le direttive del prof.Serafino Pascuzzi, telecomandato tramite app sviluppata sul cellulare.
Gli abiti, divisi per generi, hanno poi sfilato in una sequenza ritmica scandita dalla musica mixata con maestria dal duo Francesco Mammoliti e Aldo Sainato, che hanno dato il loro prezioso contributo anche come tecnici delle luci.
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La sala è stata addobbata con le creazioni floreali della ditta “Krisis War”. Suggestivo il momento dedicato agli abiti da sposa, anche questi interamente ideati e confezionati dalle studentesse dell’indirizzo “Produzioni Tessili e Sartoriali”.
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In concomitanza con la sfilata si è svolto l’Open Day che ha visto la scuola aprire al pubblico i suoi moderni laboratori: di Elettrotecnica e di Elettronica, Meccanici e di manutenzione/riparazione dell’autoveicolo, Sartoriali, Chimico-Microbiologico, Odontotecnici, di Fisica, Scientifici, Linguistici, “Fab Lab”, quest’ultimo munito di stampanti 3/D di ultima generazione, nonché Laboratori informatici e aule dotate di lavagne interattive multimediali (LIM), ed altri Ambienti di apprendimento tecnologicamente attrezzati, come la Palestra e l’Aula Magna.
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Il Dirigente scolastico, Gaetano Pedullà, a conclusione del suo intervento di saluto, nel ringraziare il corpo Docente e tutto il Personale dell’Istituto per l’impegno quotidianamente profuso, ha inteso rimarcare  l’offerta formativa della scuola a partire dall’anno scolastico 2020/2021.
A Manutenzione e assistenza tecnica (negli ambiti: Elettrico/Elettronico, Sistemi energetici e Meccanica);  Industria e artigianato per il Made in Italy (Abbigliamento e Moda); Arti Ausiliarie delle Professioni Sanitarie (Odontotecnico e Ottico); si  aggiungono i seguenti indirizzi, ossia: 1) “Servizi per la Sanità e l’Assistenza Sociale”, 2)“Servizi Culturali e dello Spettacolo”,3) “Agricoltura, sviluppo rurale, valorizzazione dei prodotti del territorio e gestione delle risorse forestali e montane” 4) “Gestione delle acque e risanamento ambientale”.
Altra significativa  NOVITA’: già attivi dal corrente anno scolastico i corsi serali per Adulti negli Indirizzi: “Industria ed Artigianato per il Made in Italy “ e  “Manutenzione ed Assistenza Tecnica”, dal prossimo anno scolastico sarà possibile frequentare, anche in orario serale, il nuovo corso di studi “Servizi per la Sanità e l’Assistenza Sociale”.
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FOTO GALLERY by ENZO LACOPO
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IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery) Lente Locale
IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery) Lente Locale
di Antonella Scabellone (foto-servizio Enzo Lacopo) SIDERNO- Applausi a scena aperta per gli allievi dell’Ipsia di Siderno che, sabato 25 gennaio, si sono resi protagonisti della consueta sfilata di moda organizzata, come ogni anno, in concomitanza con l’Open Day. Un’ occasione per aprire le porte dell’istituto a quanti, a conclusione della scuola media, si  apprestano […]
IPSIA Siderno, sfila l’Offerta Formativa in occasione dell’Open Day (FotoGallery) Lente Locale
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Antonella Scabellone
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swarmeducation · 8 years ago
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DOCENTE: SAMUELE CIGARDI 9-11 Novemre 2016 17.00 - 21.00 SWARM Via Malaga 6 20143 Milano Descrizione Un corso base di Unity - condotto da Samuele Cigardi - che ha come obiettivo la realizzazione di un applicativo per GearVr o Cardboard, il tutto partendo dalle basi di Unity con l’introduzione dell’interfaccia, l’importazione di modelli 3D (da noi forniti), proseguendo con l’importazione di texture, la creazione di shader, fino ad arrivare ad animazioni semplici. Questo darà modo agli iscritti di provare un’app in VR realizzata da loro il primo giorno. Il secondo giorno si continuerà a parlare di Unity, di Luci, Skyboxe, Bake definendo con attenzione le varie tecniche di ottimizzazione per rendere prestante il più possibile la loro applicazione su tutti i dispositivi. Inoltre si inizierà ad a introdurre i primi cenni di interazione sfruttando il plugin Playmaker, che consente la programmazione a nodi in Unity. Il terzo giorno sarà concentrato sullo studio dell’interazione in Unity: utilizzeremo a pieno Playmaker, parleremo del Raycast Tool (molto utile per intuire cosa l’utente sta guardando), si introdurranno i fondamenti basilari di C#. Infine, ci si addentrerà in ciò che dà il nome al workshop: verrà presentato un metodo semplice per poter far camminare la persona nello spazio virtuale, si analizzeranno i sistemi esistenti, verrà mostrato praticamente come funziona un sistema di tracking. Successivamente, verrà introdotto un sistema di camminata molto elementare affinché ognuno possa facilmente integrarlo nella propria applicazione senza la necessità di hardware esterno. Il workshop è rivolto a studenti e designer, artisti e sviluppatori che studiano e lavorano con i mondi virtuali e con la realtà virtuale, con le possibili esperienze di trasposizione sensoriale in VR, sia in chiave ludica che in chiave narrativa e progettuale. Obiettivi formativi: Obbiettivo del workshop è avere una stanza in VR realizzata con modelli forniti durante il laboratorio (layouting) nella quale è possibile muoversi camminando sul posto e interagire con vari oggetti. SAMUELE CIGARDI Samuele Cigardi si è da sempre si è interessato alle nuove tecnologie e ciò lo ha portato a sperimentare in molti campi differenti. Successivamente sviluppa le sue competenze nel campo delle installazioni interattive, collaborando con Emanuele Lomello, Otolab e NABA. Grazie alle competenze acquisite da queste collaborazioni e dalla passione per i videogiochi, arriva a lavorare anche nel campo dello sviluppo di questi ultimi, collaborando con grandi aziende come Nestlé. In seguito lavora come freelance sviluppando installazioni interattive per musei e manifestazioni. In questo periodo sviluppa una passione per il 3D e volendone approfondire le conoscenze, segue un Master in Computer Grafica a Treviso presso BigRock Institute of Magic Technologies. Qui impara a gestire a pieno le potenzialità del 3D e di tutto ciò che ne consegue. Grazie alla sua intraprendenza viene poi assunto nel reparto di ricerca e sviluppo di BigRock, fondando dopo pochi mesi il primo Master in Virtual Reality italiano. Grazie a queste competenze, lavora in NABA in veste di docente per seguire il corso tecnico in Sviluppo di Videogiochi. Oltre alla carriera nella didattica, continua a lavorare come libero professionista, collaborando con grandi nomi come Augusta, Ducati, TIM e Il Sole 24 Ore, mentre nel mondo dei videogiochi collabora come supervisore nello sviluppo di Runes The Forgotten Path, il primo gioco di ruolo in VR per HTC Vive. Combinando la sua passione per l’interaction design con le continue collaborazioni nel mondo della virtual reality e della realtà aumentata, seguendo il filone videoludico e non, è in costante ricerca di sviluppo di nuove tecnologie e applicazioni.
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tmnotizie · 5 years ago
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MONTEPRANDONE – Dopo le oltre 10.000 presenze dello scorso anno tra Rifugio di Babbo Natale, Mercatino delle Botteghe Artigiane, pista di pattinaggio sul ghiaccio a Centobuchi e mostra dei Presepi e Aperitivi al Borgo nel Centro Storico di Monteprandone, torna l’appuntamento con il “Natale al Centopercento”.
 La quinta edizione della manifestazione punta, quest’anno, ad attrarre turisti sul territorio valorizzando la figura di San Giacomo della Marca e offrendo la possibilità ai potenziali visitatori di conoscere la sua storia, di visitare la Chiesa del Convento, i musei dedicati al Santo e i luoghi in cui è vissuto.
L’ampio programma che va da sabato 16 novembre 2019 a lunedì 6 gennaio 2020, è organizzato dall’associazione “Centopercento”, in collaborazione con tutte le forze vitali del paese, dagli artigiani ai commercianti, dal mondo della scuola alle Istituzioni, dalle realtà associative alle parrocchie, dal tessuto imprenditoriale ai singoli cittadini che credono nelle finalità sociali del progetto.
Facendo rete e creando iniziative rivolte a famiglie, giovani e bambini, il “Natale al Centopercento” è riuscito negli anni a rinvestire risorse nella comunità. Sono, infatti, stati donati giochi alle scuole dell’infanzia, personal computer e quattro lavagne interattive multimediali (LIM) all’Istituto Comprensivo “Monteprandone”, per un valore complessivo di oltre 9000 euro.
Tutte le iniziative beneficiano del patrocinio e del sostegno del Comune di Monteprandone, della Regione Marche e del Bim – Bacino Imbrifero del Tronto, del patrocinio della Provincia di Ascoli Piceno, sono realizzate in collaborazione con l’Istituto comprensivo di Monteprandone, l’Associazione Proloco Monteprandone, l’Associazione San Giacomo della Marca l’Associazione Segui la Cometa, sono sostenute da aziende più grandi del territorio che condividono il progetto e scelgono di essere partner attraverso erogazioni liberali tramite Art Bonus, tra queste Baden Haus.
Questo il programma completo
Dal 16 novembre al 6 gennaio
Pista di pattinaggio sul ghiaccio, in piazza dell’Unità a Centobuchi
Inaugurazione sabato 16 novembre ore 15:30
La Pista di pattinaggio sul ghiaccio con 300mq di puro divertimento con insegnanti pronti ad aiutare coloro che non sanno pattinare. Per i più piccini che inforcano i pattini per la prima volta ci sono degli amici che li aspettano: i pinguini guida che li sosterranno nelle loro pattinate.
Aperture:
Dal 16 novembre al 21 dicembre
dal lunedì al sabato, dalle 15 alle 19
domenica, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 20
Dal 22 dicembre al 6 gennaio
Tutti i giorni, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 20
Aperture straordinarie:
Martedì 24 e 31 dicembre, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 17
Mercoledì 25 dicembre e 1° gennaio, dalle 15 alle 19
Lunedì 30 dicembre, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 24.
Dal 16 novembre al 6 gennaio
Mercatino delle Botteghe del Paese e dei Prodotti tipici, in piazza dell’Unità Centobuchi
Inaugurazione sabato 16 novembre ore 15:30
Sono 18 casette, più una casetta per la pesca solidale raccolte tutte nella stessa piazza, pronte ad accogliere i visitatori in un’atmosfera unica, illuminate da luci ed addobbi natalizi per offrire tantissime idee regalo con oggetti d’artigianato locale e prodotti tipici a km zero.
Aperture:
Tutti i sabato, dalle 15:30 alle 20
Tutte le domenica, fino al 22 dicembre dalle 10 alle 20; domenica 29 novembre e domenica 5 gennaio, dalle 15:30 alle 20
Aperture straordinarie:
lunedì 23 dicembre, giovedì 26 dicembre, lunedì 6 gennaio, dalle 15:30 alle 20
martedì 24 dicembre, dalle 15:30 alle 17
lunedì 30 dicembre, dalle 15:30 alle 24
Chiuso il giorno di Natale (25 dicembre) e il giorno di Capodanno (1° gennaio).
 Dal 1° dicembre al 6 gennaio 
Rifugio di Babbo Natale, Centro GiovArti, viale De Gasperi n. 235, Centobuchi
Inaugurazione domenica 1° dicembre ore 15:30
Il GiovArti diventa il Rifugio di Babbo Natale con la sala del trono, la camera da letto, la cameretta degli Elfi, l’Officina e il Giardino di Babbo Natale. Ci saranno proiezioni di film e cartoni natalizi nella sala cinema e laboratori creativi sempre diversi, animazioni, racconta storie, maghi e trucca bimbi e un baby park per i più piccini.
Aperture:
venerdì e sabato dalle 15 alle 20
domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 20 tranne domenica 5 gennaio, solo dalle 15 alle 20
Aperture straordinarie:
lunedì 23 dicembre, mercoledì 25 dicembre, mercoledì 1 gennaio e lunedì 6 gennaio, dalle 15 alle 20
martedì 24 e martedì 31 dicembre, dalle 15 alle 18
mercoledì 25 dicembre e giovedì 26 dicembre, dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 20
Dal 1° dicembre
Accensione dell’Albero di Natale ore 17, piazza dell’Unità
Dall’8 dicembre al 6 gennaio
Presepi al Borgo, Centro Storico Monteprandone
Inaugurazione sabato 8 dicembre ore 15:30
Itinerario presepiale al Borgo: dalle parrocchie Sacro Cuore, Regina Pacis, Santuario San Giacomo della Marca e San Niccolò di Bari, alla vie Limbo, Carlo Allegretti e Corso a cura dell’Associazione Pro Loco di Monteprandone che comprende anche la XXV Mostra Nazionale di Arte Presepiale, a Palazzo Parissi curata dell’Associazione Segui la Cometa e la Mostra dei Presepi da tutto il mondo di Padre Nicola Iachini, presso Palazzo Parissi “Museo dei Codici di San Giacomo”.
Apertura: tutti i giorni dalle 15:30 alle 19:30
Domenica 8 dicembre
Accensione dell’Albero di Natale ore 17, piazza dell’Aquila
Domenica 8, domenica 15, domenica 23 e giovedì 26 dicembre, dalle ore 17:30
piazza IV Novembre e Museo dei Codici di San Giacomo della Marca, Centro Storico Monteprandone
Aperitivi al Borgo. Degustazioni di tipicità enogastronomiche
a cura delle attività del Centro Storico Monteprandone e della Proloco Monteprandone
Domenica 8 dicembre, dalle ore 17, Centro Storico, Monteprandone
Concerto jazz a cura dell’associazione Marche Jazz
Domenica 15 dicembre, ore 16:30, piazza dell’Unità, Centobuchi
Sfilata sul ghiaccio del Centro di formazione professionale di Daniela Giobbi
Educational tour con agenzie di viaggi
Sabato 21 dicembre, ore 16, piazza dell’Unità, Centobuchi
Concerti di Natale degli allievi dell’Istituto Comprensivo “Monteprandone”
Domenica 22 Dicembre, ore 16, sala Consiliare, Centro Storico Monteprandone
Il Frustingo: il dolce più antico delle Marche. Tavola rotonda sulla storia e le tradizioni locali per la sua preparazione.
Fino al 22 Dicembre
Concorso a premi “Il frustingo più buono 2019” per massaie e operatori.
Premiazione domenica 22 dicembre, ore 17:30, piazza dell’Aquila, Centro Storico Monteprandone  
Domenica 22 Dicembre, ore 16, piazza dell’Unità, Centobuchi
AVIS Comunale Monteprandone presenta il 1^ Harley Biker Claus in collaborazione
con il gruppo V Piceno
Domenica 29 dicembre, dalle ore 16, piazza dell’Unità, Centobuchi
Domenica solidale a cura delle associazioni di Clown terapia dei nostri ospedali
Domenica 29 dicembre, dalle ore 17, piazza dell’Unità, Centobuchi
Concerto Gospel a cura di Seventeen Eventi
Lunedì 30 dicembre, dalle ore 21, piazza dell’Unità, Centobuchi
Anteprima Capodanno
Tombola musicale, spettacolo piro musicale della pirotecnica Santa Chiara e brindisi finale
Domenica 6 gennaio
mattina, Arrivano i Re Magi sulle tappe di “Segui la cometa” nelle parrocchie Sacro Cuore, Regina Pacis, Santuario San Giacomo della Marca e San Niccolò di Bari e per le vie del Centro Storico di Monteprandone
ore 16, Arriva la Befana, piazza dell’Unità, Centobuchi
ore 18, Premio  la scopa D’oro, terza edizione concorso Befana:  più brutta, la più simpatica, la più sexy.
Dicembre – Gennaio
Addobbiamo il nostro paese. Balconi e vetrine di Natale
Concorso a premi per il miglior addobbo di balcone, finestra, vetrina a tema natalizio per tutto il territorio. Premiazione domenica 6 gennaio ore 17, piazza dell’Unità, Centobuchi
Arrediamo il nostro paese: verranno realizzati decori coordinati per abbellire il Centro Storico e piazza dell’Unità curati dai bambini e dai ragazzi dell’Istituto Comprensivo di Monteprandone e dalla attività associate
Iniziative promozionali in tutte le attività associate della “Centopercento”
Pesca solidale, in piazza dell’Unità: si possono vincere subito premio oppure buoni, sconti o prodotti tipici locali da ritirare nei negozi del territorio.
Ogni domenica animazione con laboratori tematici e trucca bimbi al GiovArti, artisti di strada e musica in piazza.
APPUNTAMENTI
Sabato 16 e domenica 17 novembre
Sabato 16 Novembre, piazza dell’Unità, Centobuchi, ore 15:30
Compagnia Due Piume – Trampolieri 
Compagnia Due Piume nasce nel 2014 dal desiderio di condividere con altri artisti la passione per l’arte e il teatro di strada. Nasce così un piccolo collettivo di artisti che porta in scena spettacoli di trampoleria, magia, clownerie, acrobatica, laboratori creativi, Ludobus e progetti di circo sociale.
Domenica 17 Novembre, piazza dell’Unità, Centobuchi, ore 15:30
Mattia Sannicandro – Illusioniere
Urban Magic  di Mattia Sannicandro è un vero e proprio show che fonde l’antica arte della magia e manipolazione con il teatro moderno. Non crederete ai vostri occhi!
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enricocassi · 6 years ago
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La mostra Alba. Nuove luci sul passato è stata allestita in due sedi: al Museo Diocesano e al Museo Civico Federico Eusebio e resterà aperta fino al 30 giugno 2019.
I risultati delle indagini archeologiche effettuate ad Alba tra il 2008 e il 2018 restituiscono ai cittadini un significativo spaccato della propria storia e fissano le conoscenze attuali sulle fasi di vita più antiche della città.
Museo civico
Sono esposti i reperti provenienti da un nucleo di sepolture preistoriche portate in luce in corso Langhe e alcuni significativi oggetti di età romana, tardo antica e medievale, recuperati durante i cantieri di corso Europa, via Ospedale e via Vida.
Sono predisposte postazioni multimediali finalizzate all’approfondimento delle tematiche sviluppate nei percorsi espositivi.
Per rendere più accattivante la visita vi saranno mappe interattive con l’illustrazione dei più recenti scavi archeologici urbani al museo civico.
Fabio Tripaldi, Assessore alla Cultura e Turismo
La costante e capillare ricerca archeologica condotta ad Alba da decenni ha fatto sì che la tutela sia diventata strumento attivo per la conoscenza e la valorizzazione del territorio, determinando la nascita di un itinerario archeologico, che unisce la visita alle sale museali con quella della città, e portando alla creazione del Sistema Museale Albese, che raggruppa i musei e i luoghi della cultura cittadini.
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enkeynetwork · 1 year ago
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Padova: "Arte e Musica Sotto le Stelle" Happening in vicolo S. Margherita
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Padova: "Arte e Musica Sotto le Stelle" Happening in vicolo S. Margherita. Giovani artisti, assieme a quelli di Galleria Città di Padova, invitano cittadini e visitatori ad entrare nel cuore del centro storico della città, a ridosso dei portici alti di via S. Francesco, per dare energia a vicolo Santa Margherita, un luogo suggestivo dove l'arte è di casa. L'evento, che rientra nel programma "Percorsi di Arte Contemporanea" per la valorizzazione di Via San Francesco, prevede nella serata di venerdì 28 l'esposizione di opere lungo la strada completamente pedonalizzata in una suggestiva cornice di luci e musica, a cura di Stefano Tolusso. Nella stessa serata, in occasione dell'apertura al pubblico dell'Oratorio settecentesco di S. Margherita da parte di Legambiente, Paolo Vanin, eclettico scultore, proporrà una particolare performance artistica mentre Luisa Vittadello, artista digitale, presenterà una sua installazione. Sabato 29, il Gruppo Astrofili proporrà ai partecipanti una dimostrazione degli oggetti astronomici più brillanti visibili in questo periodo grazie all'utilizzo di un telescopio. Gli artisti - Paolo Vanin è uno scultore che, utilizzando la creta insieme a materiali diversi, riesce a caratterizzare le sue opere grazie alla forte espressività che riesce a imprimere nei personaggi che crea. Luisa Vittadello è un'artista digitale i cui lavori hanno il potere di trasportare il pubblico in mondi alternativi, stimolando l'immaginazione e l'emozione con opere d'arte interattive.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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itsnerdpool-blog · 7 years ago
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Harry Potter Exhibition - Una Magica mostra Meneghina
Nuovo Articolo https://www.nerdpool.it/2018/06/17/harry-potter-exhibition-una-magica-mostra-meneghina/
Harry Potter Exhibition - Una Magica mostra Meneghina
La famosa Harry Potter Exhibition da Maggio a Milano
Con un post pubblicato il 26 Gennaio 2018,  James e Oliver Phelps (gli attori che hanno interpretato Fred e George Weasley) annunciavano  ad Orlando (Florida) l’arrivo della Harry Potter Exhibition in Italia.
Con oltre 4 Milioni di fan già conquistati dall’evento, la Magica Mostra sul mondo di Harry Potter approda a Milano dal 12 Maggio al 9 Settembre 2018.
Nei mesi precedenti all’inizio della mostra, Milano è stata invasa da realistici mega gadget del film, una strategia di comunicazione già collaudata per l’uscita di film o serie tv.
I 1400 metriquadri di esposizione  sono stati alloggiati nella centrale La Fabbrica del Vapore, un’ex-fabbrica di treni e tram ristrutturata in un polo artistico a tutto tondo. Milano è la Diciassettesima tappa di un tour mondiale partito a Chicago nel 2009.
Non una semplice mostra, ma un vero e proprio tour (guidato con l’ausilio di audio guide opzionali) attraverso i set dei film del maghetto più famoso della storia (dopo Merlino!).
Una carrellata di abiti e oggetti di scena, mini set perfettamente ricostruiti (ad esempio la serra della Professoressa Pomona Sprout o la Tana di Hagrid) oltre alla riproposizione dei famosi quadri parlanti che ti fanno sentire a casa.
Un’esperienza adatta ai fan della saga ma anche agli amanti del genere fantasy, ai più piccoli e ai relativi genitori. Un modo per entrare dalla porta principale all’interno del Wizarding World una volta per tutte. In tempi in cui il digitale e le esperienze sempre più interattive imperano, una mostra “analogica” così dettagliata e realistica sembra alzare l’asticella fra analogico e digitale.
Una nota di assoluta eccellenza va al curatore della mostra e all’addetto delle luci: con qualunque dispositivo fotografico o reflex le foto  e video verranno favolosi!
Questi gli orari di apertura annunciati:
lunedì dalle 15 alle 22
martedì, mercoledì e giovedì dalle 10 alle 22
venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 23
Vi lasciamo con un video della nostra esperienza dal vivo alla Harry Potter Exhibition.
vimeo
Harry Potter Exhibition from Silvia Mercuri on Vimeo.
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shoppingare01 · 7 years ago
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Giochi Preziosi Dottoressa Peluche Clinica Mobile, con Luci e Suoni
Dottie ‘Doc’ McStuffins, a six year old girl, ‘fixes’ toys, with a little help from her stuffed animal friends, Stuffy, Hallie, Lambie and Chilly. The Doc McStuffins Get Better Talking Mobile gives kids everything they need to provide on-the-go care! Kids can let friends know they’re in a hurry with the motion-activated siren that lights-up and plays the Doc Mobile song. The Doc Mobile is equipped with a working ladder to help toys wherever they are. Future doctors can use the light and sound heart monitor, otoscope, and thermometer to give on-site checkups and fix boo boos with the bandage sticker dispenser. They can call in their diagnosis using the working CB radio, and then secure their patients for rolling rescue using the stretcher and patient seat! Does NOT include Lambie soft toy.  For ages 3 and above. Batteries required 2 x AA (included). Some Adult Assembly Required. Warnings: Not suitable for children under 3 years due to small parts which can be ingested and/or inhaled.
Features
Gioca con l’originale clinica di Dottie e cura i tuoi giocattoli
Computerino removibile completo di luci e suoni, mentre le schede sono removibili ed interattive
Lavandino con suoni realistici e soap dispenser
Inclusi accessori medici per le visite mediche: stetoscopio, siringa, termometro e otoscopio
Peluche non incluso nella confezione
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melaccia · 7 years ago
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PUBBLICATO IL
28 GENNAIO 2018
Alfadomenica #4 – gennaio 2018
Questa volta il nostro alfadomenica si apre con un focus dedicato al teatro. Dal seminario sullo spettatore nel teatro e nelle arti performative avviato all’interno del dottorato di Musica e Spettacolo, Sapienza, e del dottorato di Lingue, letterature e culture straniere di Roma Tre, proponiamo due testi di Valentina Valentini e di Francesco Fiorentino discussi nell’incontro del 15 dicembre, insieme a un intervento di Sergio Lo Gatto che verrà presentato nell’incontro del 23 febbraio. Ma, come sempre, non mancano escursioni in altri ambiti e, in chiusura, la rubrica alfagiochi.
Ecco il sommario completo:
Valentina Valentini, Per un repertorio di figure spettatoriali
Francesco Fiorentino, Lo spettatore governato
Sergio Lo Gatto, La “critica applicata”. Uno sguardo alle pratiche di formazione dello spettatore
Piero Del Giudice, Il canto del popolo ebreo massacrato
Andrea Inglese, Interférences 14: il romanzo come arte. Intervista a Lakis Proguidis sull'Atelier du roman
Antonella Sbrilli, Alfagiochi / Mi ritorno in mente
PUBBLICATO IL
28 GENNAIO 2018
Per un repertorio di figure spettatoriali
Valentina Valentini
Porre la questione dello spettatore oggi significa prima di tutto chiedersi in che misura la richiesta insistente di una partecipazione (inter)attiva dello spettatore sia un segnale del deficit di vita democratica che si riscontra a tutti i livelli del sociale. Significa chiedersi in che misura le pratiche di partecipazione “attiva” dello spettatore rappresentino delle compensazioni momentanee a questo deficit, tali da trasformare lo spazio della fruizione artistica in uno spazio per il gioco sociale le cui dinamiche sono eterodirette. Al mediato, al contemplativo, alla rappresentazione, all’opera vengono contrapposte la dimensione performativa, l’immediatezza del web. Si tratta allora di capire di quali strumenti di analisi disponiamo per comprendere i ruoli che l’arte e il teatro di oggi assegnano allo spettatore, ovvero individuare le figure spettatoriali inscritte nella produzione artistica contemporanea. Come mi ha scritto Francesco Fiorentino, la domanda da farsi è: «come si può pensare una partecipazione dello spettatore che non sia né consumo di uno spettacolo né attivismo eterodiretto, cioè che non sia né eteronoma, né consumistica? La partecipazione riguarda anche il livello mentale, immaginario, cognitivo... è a quel livello che avvengono l'incontro e lo scontro tra la società che portiamo dentro di noi (in forma di attese, abitudini, metri di giudizio ecc.) e l’arte a cui lo spettacolo (in quanto lavoro dell’artista) ci espone. Ci sarebbe anche da riflettere su come si può pensare la dimensione comunitaria dell'essere spettatore».
Riprendo dal saggio di Hans Robert Jauss Estetica della ricezione (1988) una premessa fondamentale: lo spettatore è un oggetto storico. Ogni testo è un atto storico con il quale lo spettatore interagisce in base alle sue esigenze e alle sue competenze. Bisogna considerare la dualità del soggetto-spettatore (ricezione) e del soggetto-autore (produzione), perché soggetto che osserva e oggetto osservato stanno in rapporto dialettico.
Negli anni Settanta, concepire l’opera come meccanismo di inclusione dello spettatore aveva un intento rigenerante la prassi fruitiva. Lo spettatore era chiamato dall’autore a eseguire azioni – nel ruolo di performer – guidate da istruzioni verbali prescrittive. Tali costrizioni miravano a una rieducazione percettiva a base di tecniche come l’ottundimento, la reiterazione, l'autoriflessività. Il dispositivo dell'iterazione, in particolare, richiedeva allo spettatore un’attenzione non agli eventi della fabula, ma ai micro-eventi dell'intreccio, con l’intento di svuotare il racconto di senso e restituirlo alla sua essenza di atto narrativo. Tali procedimenti hanno modellizzato uno spettatore superattivo psichicamente e, nel contempo, abbandonato a flussi percettivi in uno stato semicosciente.
Un’altra strategia che esaltava e minimizzava il lavoro dello spettatore è stato il dispositivo della spazializzazione del tempo mediante iterazione e decelerazione del movimento che presiede la composizione degli spettacoli dei primi anni Settanta di Robert Wilson. La loro durata fuori standard (12 ore, 24 ore, o addirittura 7 giorni e 7 notti), inoltre, concedeva allo spettatore la libertà di distrarsi, di abbandonare la coscienza vigile, ma gli chiedeva anche di assumersi la responsabilità di farsi strada nei molteplici sentieri che lo spettacolo intrecciava. Questo nuovo spettatore, disorientato da un flusso plastico-visuale-sonoro, dalla stratificazione di quadri in simultanea, ha accesso – come scriveva Franco Quadri – a «una possibilità pluralistica di opzioni, di combinazione o di interpretazione delle diverse immagini». L’intento era «la riproduzione della molteplicità del pensiero, con la sua velocità di associazione e dissociazione».
Anche la struttura labirintica dei film di David Lynch pone allo spettatore il problema di trovare il filo che lo porterà fuori, ovvero un modo per tenere insieme le storie che vengono avviate e abbandonate a un certo punto per iniziarne altre. Come in ogni labirinto, allo spettatore viene chiesto di perdersi, di cedere alle tante suggestioni di storie, al fluire delle immagini. Tale procedimento costruttivo – basato sulle figure della disseminazione, moltiplicazione, ripetizione – prevede uno spettatore che non chiede compimenti, suture, nodi che si allacciano per sciogliersi, uno spettatore che cede alla seduzione del flusso audiovisuale, ma senza smettere di essere un soggetto pensante che si chiede se possa esistere non tanto una via per uscire dal labirinto, quanto qualcosa che tenga insieme i diversi percorsi.
La scena teatrale che usa dispositivi tecnologici offre allo spettatore una fruizione immersiva, con proprietà tattili: da Voyage au boit de la nuit (1999) a B. #03 Berlin (2003), terzo episodio della Tragedia Endogonidia, gli spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio funzionano come organismi tellurici: luci pulsanti, proiezioni di lettere in morphingvelocissimo, suoni assordanti. L’intento è di toccare la “voce nascosta del corpo dello spettatore”, di penetrare nel suo corpo con gli strumenti chirurgici offerti dai nuovi dispositivi che destabilizzano la sua intoccabilità.
Negli anni Novanta la relazione con il sociale segna un ribaltamento radicale rispetto al ventennio precedente, perché è il curatore, l’artista che occupa un territorio esterno al suo studio, territorio dal quale preleva idee, materiali, documenti che seleziona e trasforma o che mostra nella loro autenticità di reperto etnografico, come ha scritto Hal Foster. In Il ritorno del reale, Foster ha analizzato il Project Unité a Firmin (1993), una mostra che si situa in un edificio progettato da Le Corbusier, vicino a Saint Étienne, lontano dal centro, un edificio abitato da immigrati, anziani, pensionati, studenti, ragazze madri. Gli artisti (fra cui architetti e designer) occupano 40 appartamenti vuoti utilizzandoli come gallerie per una esposizione personale in situ: Individual Comfort, di Christian Philipp Müller prepara ed espone su cornici dorate un rapporto sulle condizioni acustiche dell’edificio; Clegg & Guttman costruiscono un mobile sul modello dell’edificio e vi inseriscono le raccolte dei brani musicali che gli abitanti, su richiesta degli artisti, avevano preparato e donato: Firminy Music Library. Foster critica questi interventi site specific chiamati a risuscitare il locale e il quotidiano in versione disneyana, ovvero – in fin dei conti – a rivalutare luoghi dismessi a fini di mercato. Sulla stessa scia si pone Richard Maxwell, regista del New York City Players, che nel 2010 con Ads (abbreviazione di advertisement) ha realizzato un ciclo di installazioni teatrali in diverse città del mondo coinvolgendo decine di cittadini chiamati a rispondere pubblicamente a domande come: «In che cosa credo?» e «Cosa è più importante per me?», insomma a formulare il proprio advertisement inteso come professione di fede nella vita. Si ritiene che privilegiare gli interventi estemporanei delle persone comuni, anziché i testi letterari, aumenti il quoziente di presa sulla realtà dello spettacolo e il quoziente di partecipazione dello spettatore. In reazione all’anestetizzazione mediatica, la mediatizzazione del vissuto individuale e collettivo chiama alla condivisione e al fare.
Una modalità spettatoriale invalsa nell’estetica di fine XX secolo è quella interattiva, che affida il compito di far esistere l’opera allo spettatore, conducendolo in una dimensione ludica e collettiva, come avviene con installazioni multimediali interattive dove le funzioni spettatoriali cedono di fronte a quelle performative: allo spettatore si richiede di eseguire il compito previsto per lui, affinché l’opera possa dispiegare le sue potenzialità e manifestarsi. Lo sguardo è messo di fronte a una dimensione evenemenziale, discontinua, in cui non c’è totalità né oggettualità, né permanenza. In Tavoli (Perché queste mani mi toccano), realizzato da Studio Azzurro nel 1995, la ciotola, la fiamma, il corpo si scuotono dallo stato di riposo in cui versavano e balzano nello spazio ogni volta che un visitatore cerca di afferrarli, rompendo il tabù secondo cui l’opera d’arte va guardata a rispettosa distanza, per privilegiare, al contrario, la dimensione ludica, magica e sensoriale. «Al fruitore menomato e imprigionato nell’occhio», ha scritto Federico Luisetti «è restituito un corpo - libidinale e sociale - e con esso la possibilità di indignarsi, di toccare, di desiderare e demistificare gli oggetti» (F. Luisetti, “Il dentro, il fuori, il “parergon”, in Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero, a cura di Antonio Somaini).
La domanda da porsi è allora quali procedure operano desautorando e quali magnificando lo spettatore. Lo si magnifica attribuendogli la responsabilità di ricomporre l’opera. Lo si desautora quando si mette in scena un rituale ma non si trasforma il suo ruolo, oppure quando lo si trasforma in performer, quando si interrompe la relazione fra platea e scena, e si rende quest’ultima autosufficiente, proteggendola dallo sguardo spettatoriale mediante un diaframma che elimina il dialogo con l’altro da sé (l’antagonista, il mondo, lo spettatore). Un’autosufficienza che è dovuta alla predominanza, nella scena teatrale, del dispositivo della visualità che modellizza lo spazio scenico come un’installazione, con attanti che hanno il ruolo di figure plastiche piuttosto che di dramatis personae.
La dinamica fra spettatore ed evento scenico corre dunque fra una separatezza e neutralizzazione dell’interazione e una tendenza a includere lo spettatore all’interno, ad attirarlo, renderlo complice di quanto accade, perfino a incorporarlo, a farlo coincidere con l’actor stesso, a istituire lo sguardo spettatoriale all’interno della scena stessa. Fra Novecento e nuovo secolo, la questione dello spettatore teatrale va letta all’interno del generale processo di depersonalizzazione delle pratiche artistiche che si declina sia come reversibilità fra autore (attore) e spettatore, sia come inclusione nell’opera di materiali grezzi, non lavorati, casuali che comporta una riduzione delle operazioni di simbolizzazione e interpretazione. Da una parte si attribuisce allo spettatore la responsabilità di dare senso e coerenza a un’opera che è dispersa, smembrata, non più “quadro”; dall’altra gli si chiede un’immersione sinestetica e sensoriale nello spettacolo.
Come si ripercuote nel soggetto spettatoriale questa opposizione fra tattile e ottico, fra esclusione e inclusione, distanza e flusso sensoriale, fra esaltazione e riduzione del suo ruolo?
PUBBLICATO IL
28 GENNAIO 2018
Lo spettatore governato
Francesco Fiorentino
Ha scritto Peter Brook in The Empty Space che perché si dia un’azione teatrale basta che ci sia qualcuno che si muove in uno spazio e qualcun altro che lo osserva. La presenza dello spettatore è da sempre la condizione di possibilità delle arti performative. Ma non ha dovunque e sempre la stessa forma.
Per rendersene conto basta leggere libri come The Contested Parterre (1999) di Jeffrey S. Ravel, che offre una storia del pubblico teatrale francese tra il 1680 e il 1791, ma anche un importante contributo alla storia della sfera pubblica. Studiando gli atti di polizia, Ravel ricostruisce l’atmosfera delle platee teatrali di quel periodo: erano luoghi chiassosi, focolai di disordini, pieni di gente che beveva, inveiva, litigava, giocava d’azzardo, addirittura urinava in pubblico. Ancora nell’Ottocento, si legge in un’altra testimonianza, osti e prostitute rivendicavano il diritto di poter esercitare la loro professione durante gli spettacoli. Colluttazioni, scambi di intemperanze, anche tra palcoscenico e platea, erano tutt’altro che rari. Ai tempi in cui era direttore del teatro di Weimar, Goethe ottenne dalle autorità di polizia che gli venissero messe a disposizione guardie in uniforme per prevenire tafferugli e incendi. Un altro mondo.
Per trasformare questo pubblico indisciplinato nel pubblico composto e attento di cui entriamo a far parte quando andiamo a teatro, ci sono volute una serie di riforme e anche una profonda ristrutturazione dell’architettura teatrale. È un processo che ai tempi di Goethe era già iniziato. Nel Settecento, infatti, un nuovo teatro borghese concepisce gli spettatori come soggetti da costruire tramite un assoggettamento a nuove regole estetiche, morali, sociali. Fa scalpore la reazione del pubblico alla prima di Miss Sara Simpson di Lessing: «Gli spettatori hanno ascoltato per tre ore e mezza, seduti in silenzio come statue e hanno pianto», scrive Karl Wilhelm Ramler in una lettera del luglio 1755. L’obiettivo del nuovo discorso teatrale è questo spettatore capace di concentrare tutta l’attenzione sugli eventi scenici, di guardare e ascoltare silente e immobile, tenendo sotto controllo le sue pulsioni, anzi affidandole alla guida della scena, per lasciarsi commuovere e trasportare in un altro spazio, lontano da quello in cui si muove tutti i giorni. Brecht diceva che in questo tipo di teatro è come se le persone, nell’entrare, lasciassero la loro intera esistenza al guardaroba insieme al soprabito, per poi riprendersela all’uscita. Una volta dentro poi, si ci trasforma in esseri incantati e rapiti dalla scena, affrancati da ogni attività che non sia indotta da essa, esseri che «tra di loro non hanno quasi contatti», che stanno insieme come lo sono persone che dormono. «Certo, hanno gli occhi aperti, ma non guardano, fissano, come non ascoltano, ma origliano», scrive Brecht.
La costruzione di questo tipo pubblico è il prodotto di una serie di divieti e di prescrizioni che regolamentano comportamenti e interazioni sociali sulla scena come in platea: proibiscono, ad esempio, scambi di saluti tra pubblico e attori, vietano di mangiare, di bere o discutere durante lo spettacolo, prevedendo per tali attività spazi e tempi determinati come la pausa e il foyer (che comincia a essere previsto architettonicamente solo dopo il 1800). Si fissano al pavimento e si numerano le sedie, inibendo così il movimento in sala. L’oscuramento della platea, resa possibile dalla luce a gas prima e poi da quella elettrica, permette quella divisione di due spazi e due tempi che introduce una frattura tra l’azione (sulla scena) e l’osservazione (in platea). Tutto ciò produce, insieme a un nuovo tipo di spettatore, ovviamente anche un nuovo modo di recitare, di strutturare la scena e il testo, il quale acquista una inusitata centralità.
Che questo processo sia parte del processo più ampio di formazione dello Stato moderno, lo mostrano non solo molti trattati politici del tempo, ma anche discorsi come Il palcoscenico come istituto morale, pronunciato da Schiller nel 1784. Già il titolo indica come il teatro venga ora compreso tra gli strumenti di governo, considerato sotto l’aspetto del mantenimento dell’ordine pubblico e della necessità di soddisfare in modo utile allo stato il bisogno di divertimento del popolo, anzi la sua propensione alla distrazione e alla passionalità, come dice Schiller. Controllo dell’attenzione e controllo della passioni vanno di pari passo. Per Schiller il teatro è un’«istituzione pubblica dello Stato», il «canale pubblico» (cioè il medium di massa) che il legislatore può usare per guidare lo spettatore «attraverso la vita borghese» e nei «recessi più segreti dell’animo umano», cioè per esercitare un controllo sulla sua socialità come sulla sua intimità.
Siamo in un’epoca in cui – come ha mostrato Foucault – l’arte di governare, cioè di «strutturare il campo di azione possibile degli altri», assume importanza senza precedenti. Così anche il teatro viene reinventato come strumento volto a questo scopo. In altre parole: i nostri comportamenti attuali, a teatro, sono il prodotto di un processo di governamentalizzazione del vivente che – a partire dal XVII secolo – investe tutti gli ambiti della vita individuale e sociale: le anime come i corpi, l’infanzia come la povertà, la famiglia, la città ecc. Come ha mostrato Foucault, tutto avviene a partire dall’idea che ogni essere umano, per la propria salvezza, debba essere governato e lasciarsi governare per tutta la vita e in tutte le sue azioni. Si sviluppano così una moltitudine di arti e istituzioni volte a tal fine: il teatro diventa una di esse.
Ma non è solo questo. È anche il medium di un desiderio nuovo che, ancora secondo Foucault, proprio quella governamentalizzazione sempre più invasiva produce: un desiderio di non essere eccessivamente governati, di non essere governati nel modo in cui le istituzioni di governo vogliono governarci. Un desiderio che produce una nuova arte: l’arte della critica. La quale si affianca alle arti di governo come loro controparte dialettica, come modo per diffidare di esse, riportarle alla loro misura, trasformarle, di sfuggirne gli effetti.
Tutto ciò si è manifestato anche sulle scene, in forma di progetti di liberazione dello spettatore dalla sua condizione di più o meno presunta passività. Progetti che hanno operato sostanzialmente in due modi: tentando di cambiare le condizioni di ricezione in cui è posto lo spettatore, oppure spingendo quest’ultimo ad abitarle diversamente. È importante sottolineare che – da Mejerchol’d alle neoavanguardie, da Artaud all’agit prop, da Brecht alla performance art – questa liberazione dello spettatore viene tentata sempre dalla scena stessa, che è l’agente della governamentalità nel dispositivo teatrale: il teatro accusa se stesso di rendere passivo lo spettatore, ma per emanciparlo lo manipola nuovamente, trattenendolo in una condizione di minorità.
«Si deve mostrare che già il primo sguardo dello spettatore è eterodiretto», scriveva perciò Peter Handke negli anni Sessanta. Il suo programma era «mostrare la manipolazione», interrompere abitudini della visione, rendere lo spettatore consapevole del fatto che esegue le disposizioni della scena, che guarda dove ci si aspetta che guardi, reagisce come è previsto che reagisca. Anche quando accoglie l’invito a partecipare attivamente all’evento teatrale, perché una scena che stimola una tale partecipazione in realtà vuole soltanto consolare lo spettatore dal fatto che nella vita quotidiana egli viene «brutalmente dissuaso dall’intervenire e soprattutto dal ‘partecipare’». Handke è acuto nel rilevare la complicità inconsapevole che lega un certo teatro impegnato con la società che esso accusa di mancante democraticità. Per lui, è soltanto lo spettatore che può emanciparsi dal proprio atteggiamento sottomesso. Il palcoscenico ovviamente dovrà fare la sua parte, deludendo le sue attese, sottraendogli spiegazioni e rassicurazioni, costringendolo quindi a lavorare a una costruzione soggettiva del significato.
In una direzione analoga si muove Jacques Rancière nel saggio Le spectateur émancipé (2008), di cui è imminente la traduzione italiana presso Derive Approdi. «L’emancipazione inizia quando si comprende che il vedere è un agire», scrive Rancière. Quando si comprende che la presunta opposizione tra vedere e agire è parte di un meccanismo di dominio e sottomissione, lo spettatore smette di essere qualcuno che deve essere tratto da una condizioni di passività, di alienazione, per diventare un soggetto che sceglie cosa vedere, lo connette con altre cose già viste, fatte o sognate, producendo così la propria opera.
Il saggio di Rancière è segnato da un’ambigua oscillazione tra una posizione normativa e una posizione descrittiva. Da una parte si presenta come descrizione del carattere già emancipato dell’attività di ogni spettatore: quando assistiamo a uno spettacolo, siamo sempre performer che mettono in relazione quel che comprendono con quello che non comprendono, ampliando così il proprio sapere. Insomma, siamo già emancipati e quindi non abbiamo bisogno di desiderare d’essere altro. Se è così, la scena è sgravata da ogni responsabilità, dal momento che tutto dipende dallo spettatore, il quale è emancipato o non lo è. Il teatro non cambia nulla.
Ma in Rancière c’è anche una posizione normativa sul dover essere dello spettatore e dell’artista. A quest’ultimo è assegnato il compito di produrre l’opera senza preoccuparsi di un effetto da ottenere, limitandosi a mettere a disposizione materiali, tra i quali ogni spettatore potrà scegliere quelli da associare liberamente con la propria esperienza. L’artista rinuncia a governare, lo spettatore a essere guidato. L’idea è che in questo modo la scena non eserciti uno stesso effetto su tutti gli spettatori trasformandoli in un pubblico omogeneo, e che al posto di questo si costituirebbe una comunità d’altro tipo, fondata sulla condivisione della possibilità di costruire percorsi di ricezione incondivisibili. Ma una tale posizione non è perfettamente in linea con il nostro presente individualista, neoliberale o, nel migliore dei casi, astrattamente comunitarista? Sembra proprio che i filosofi abbiano smesso di voler cambiare il mondo e che abbiano scoperto che basta interpretarlo diversamente per conquistare la libertà. Al potere sale non l’immaginazione, ma l’immaginario.
PUBBLICATO IL
28 GENNAIO 2018
La “critica applicata”. Uno sguardo alle pratiche di formazione dello spettatore
Sergio Lo Gatto
Al di là di ogni classificazione di genere, le arti della scena condividono una splendida specificità: la richiesta costante e problematica di uno sguardo che ne osservi il risultato e, nello stesso tempo, il processo. Nel contratto di relazione che si stipula tra artista e fruitore, le arti performative portano l’azzardo dato dal non dover (o non poter) davvero definire delle clausole. Lo spiega bene Jacques Rancière in quella sorta di “paradosso dello spettatore” citato anche nel contributo di Francesco Fiorentino, in cui di fatto la responsabilità sulla costruzione di un senso, condivisa tra palco e platea, viene abdicata da entrambe le parti in causa fino a creare una comunità impegnata a definire qualcosa di indefinibile e comunque (ormai) impossibile da condividere.
Nell’ambito di una riflessione sullo spettatore, sul suo ruolo e sulla sua funzione nel tempo passato e in quello presente, a rappresentare un dato ulteriore è la crescente attenzione che viene oggi rivolta a questa figura da due punti di osservazione convergenti: da un lato la sfera normativo-istituzionale, dall’altro quella delle comunità del teatro.
La prospettiva istituzionale è resa chiara da un fenomeno: la comparsa, in quasi tutte le norme che disciplinano il finanziamento pubblico alle arti, di un capitolo d’azione identificato con il termine inglese audience development. Un termine complesso da interpretare e tradurre, che nella nostra lingua appare di rado come “sviluppo del pubblico” (o “incremento”o “evoluzione”, che sarebbero termini più letterali), ma più spesso come “formazione del pubblico”. Il fatto che la nostra lingua abbia sostituito, in un certo senso, a un processo una strategia, appare molto indicativo. E l’affermarsi e il diffondersi di questo requisito sta avendo, negli ultimi anni, un ruolo fondamentale nel dare forma e sostanza allo spettatore e al ruolo che ricopre di fronte alla presentazione dei linguaggi, ma anche al variegato sistema produttivo, distributivo e di programmazione che un altrettanto variegato contesto nazionale e internazionale propone.
Questo fenomeno motiva e in parte disciplina la seconda prospettiva, quella legata alle comunità. Lo studio della spettatorialità è qualcosa di assolutamente recente, rispetto alla millenaria storia del teatro (o dovremmo dire “dei teatri”); per attivarsi ha dovuto attendere che il teatro stesso assumesse, nel proprio complesso, lo statuto di opera d’arte.
L’atto di responsabilità che “completa” un processo creativo è stato suddiviso tra artisti e spettatori all’interno di una camera di relazione che ha cambiato forma di pari passo con l’evoluzione dei linguaggi e della posizione della cultura teatrale nel tessuto sociale dei popoli. Di certo la conformazione dell’ambiente comunicativo ha sempre giocato un ruolo nella definizione di questi spazi di ragionamento e mai come oggi appare necessario contestualizzare il posizionamento di quella cultura nei sistemi di relazione virtuale. L’intero universo culturale è dominato da complesse – e spesso ingovernabili – forme di informazionalismo; l’offerta (apparente) di una totale libertà di ingaggio nel discorso ha riformulato il concetto di partecipazione, plasmandolo sulle logiche di interazione e di creazione partecipata di immaginari, caratteristica primaria della comunicazione digitale.
Comprendere il lato problematico di questo scenario – che di certo porta con sé anche un aumento delle opportunità di contatto tra le comunità – serve a capire in che modo la pratica e la scienza della spettatorialità stiano cambiando. La pubblicistica giornalistica di informazione e commento sulle arti della scena è di certo un mezzo prominente attraverso il quale gli spettatori possono completare l’esperienza di visione, accedendo a un approfondimento curato da chi abbia incarico di ragionarvi attorno e di diffondere quel ragionamento. La diminuzione degli spazi dedicati sulla stampa locale e nazionale – o la loro trasformazione in spazi di promozione – è stata compensata da un’evidente fioritura del discorso sulle piattaforme web e sui social media, che hanno creato una nuova agorà in cui portare avanti la comprensione dei linguaggi, la loro messa in discussione, la loro difesa. Il passaggio chiave sta nel fatto che, rispetto a quelli precedenti, questo periodo storico assegna la stessa potenziale influenza a tutti coloro che partecipano al sistema delle arti, siano essi artisti, operatori, critici o appassionati e spettatori.
La relazione di compresenza tra artista, spettatore e oggetto spettacolare, oggi, si espande oltre le mura della sala e trova uno spazio di condivisione globale su mezzi di comunicazione condivisi, in termini di funzionamento e di affidabilità.
A rispondere, in Italia, a entrambe le esigenze – quella istituzionale e quella comunitaria – è, negli ultimi anni, un fenomeno piuttosto organico, un movimento che sta provando a organizzare una risposta attraverso una molteplicità di metodologie, spesso legata a specificità territoriali. Nella grande varietà di presupposti teorici e di applicazioni pratiche, si possono evidenziare alcuni punti di contatto fondamentali, che danno forma a una strategia condivisa: alcuni dei percorsi di formazione dello spettatore hanno come punto di partenza la pratica del pensiero critico.
Nelle occasioni di confronto sulle metodologie di educazione alla visione, a livello nazionale, è emersa spesso, come esigenza insita in questi percorsi di studio e di approfondimento, quella di fronteggiare una dispersione dei saperi scontata soprattutto dalle generazioni più giovani, alle quali – attraverso un’agorà di espressione sempre più preda di meccanismi di funzionamento controllati dal software – arriva un’idea del teatro che non rende giustizia delle sue potenzialità e della sua efficacia nella costruzione di un’esperienza estetica variegata.
In questa direzione si spingono i percorsi ideati da gruppi come Altre Velocità (Bologna, attivo dal 2005 come osservatorio critico), Stratagemmi (Milano, attivo dal 2011 e dagli anni precedenti con con una rivista accademica) e Teatro e Critica (Roma, attivo dal 2009 come webmagazine e dal 2012 come progetto di formazione). Queste tre realtà sono più o meno coeve e sono state fondate e animate negli anni da persone attualmente intorno ai trentacinque anni di età, con formazione accademica nel campo degli studi teatrali o in generale umanistici e con una pratica – raccolta sul campo – nell’ambito della critica delle arti e del giornalismo culturale.
È importante specificare che tutte e tre queste esperienze devono le proprie origini a un contatto con la generazione di critici appena precedente. Altre Velocità deriva direttamente da un laboratorio tenuto dal critico Massimo Marino al festival Contemporanea del Teatro Metastasio di Prato nel 2005, esperienza fondativa di una modalità di attraversamento della forma festival cui il gruppo bolognese ha dato poi vita in maniera autonoma. Le lezioni di Marino al Master di Critica Giornalistica dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma ha ispirato la fondazione di Teatro e Critica. Stratagemmi ha potuto affiancare alla redazione di una rivista accademica la pratica critica e, negli ultimi anni, una fervente attività di formazione del pubblico.
Un’occasione per la conoscenza reciproca tra i membri di questi gruppi è stato il Festival del Teatro della Biennale di Venezia: nelle edizioni dal 2010 al 2013 Andrea Porcheddu ha tenuto una serie di laboratori di critica, inseriti nel programma di Biennale College. I percorsi di formazione di Stratagemmi sono stati sostenuti da istituzioni pubbliche e private, così come quelli di Altre Velocità, prima tra queste realtà a ricevere il sostegno del Fondo Unico per lo Spettacolo nel capitolo Promozione / Formazione del pubblico (triennio 2014-2017) per il progetto Crescere Spettatori, rivolto agli studenti delle scuole superiori del territorio.
I format sviluppati da questi gruppi – attivi in territori molto diversi e dunque alle prese con diversi referenti e target di partecipanti – hanno in comune un’impostazione critica di base. Proprio la questione della relazione appare centrale: tutti sono impostati come percorsi collettivi in cui i formatori guidano un gruppo di partecipanti nella visione di un programma di spettacoli (la cui selezione mira a mostrare la molteplicità dei linguaggi del contemporaneo) attraverso incontri preparatori, con domande chiave attorno a cui sviluppare delle riflessioni sulle funzioni del teatro, e produzione di materiali di restituzione. Questi materiali assumono, a seconda dei casi, formati molto diversi: dallo storytelling di un evento teatrale come un festival alle recensioni, fino (nel caso degli studenti delle scuole medie) al racconto per immagini e a rielaborazioni dell’esperienza di visione in forma di disegno o fumetto.
Nelle varie declinazioni si ritrova un comune approccio che si potrebbe definire di “critica applicata”, un tentativo di formalizzare non un programma didattico frontale, ma un tipo di discussione mirato a condividere, tra formatori e partecipanti, certi strumenti di analisi e di elaborazione della visione, replicando dal vivo il processo di ragionamento speculativo su cui si fonda la critica delle arti. In particolare, questa impostazione riflette le attuali modalità di creazione e diffusione prese in carico dalla maggior parte della critica attiva sulle piattaforme Web, che cerca di fronteggiare la potenziale dispersione innescata dalla gestione non regolamentata delle comunità virtuali.
In questo senso un tipo di avvicinamento favorito dalla conoscenza degli strumenti dello sguardo critico risulta particolarmente efficace nel fronteggiare le difficoltà comunicative dell’era digitale. Zygmut Bauman parla in questo modo del concetto di «pluralità»: non fa di esso un prodotto esclusivo dell’era postmoderna, ma in quest’ultima egli vede il formarsi di un «clima intellettuale […] nel quale il pluralismo di esperienza, valori e criteri di verità rifiuta di essere trattato come un aspetto transitorio della realtà ancora incompleta, come una caratteristica che sarà eliminata nel processo di maturazione» (in Legislators and Interpreters: On Modernity, Post-Modernity and Intellectuals, Polity 1987). Riportato a un’attività come la spettatorialità teatrale, questo pone un accento significativo sulla responsabilità di uno sguardo individuale, la stessa che si tenta di stimolare nei percorsi di formazione votati alla critica applicata.
Come nota Diana Damian Martin, «se consideriamo che il processo critico emerge dal nostro incontro con lo spettacolo, ci incoraggiamo a elaborare più a fondo le modalità secondo cui questo potrebbe possedere una propria materialità. Il tutto diventa ben più evidente nel momento in cui si guarda al critico come a un elemento materiale di quel processo, e al contempo come al suo agente. Il processo critico è sempre incorporato […]. Si giunge così a un risultato materiale che non mette fine a quel processo, permette a esso di dispiegarsi in un ambiente collettivo».(Deliberation, Embodiment and Oral Criticism: A Case Study on Spill Festival of Performance, in Critical Stages, n. 13 – Giugno 2016).
Contrastando una modalità di discussione che oggi, sfruttando la virtualità, da essa si fa sfruttare, la missione di queste metodologie di formazione dello sguardo è di riportare il confronto sul piano della presenza, evidenziando la fondamentale componente relazionale propria delle arti performative. Riportando, dunque, l’analisi dei linguaggi e della condizione dello spettatore su un piano materiale e incorporato.
Il 15 dicembre 2017 è stato promosso da Altre Velocità a Bologna il convegno “Pubblico a chi?”, evento conclusivo del progetto Crescere Spettatori che ha illustrato un bilancio del triennio e ha raccolto diverse riflessioni di tipo teorico e metodologico sulle pratiche della formazione dello spettatore non solo nelle arti performative, ma anche nella didattica della lettura, nell’audience development per le arti visive e nell’audiovisivo. Pur essendo evidente, anche in questo caso, la presenza di approcci specifici molto diversi, determinati dal contesto territoriale e dalle peculiarità dell’arte di riferimento, è emersa la dimensione della discussione collettiva come strumento formativo in grado di creare una conoscenza condivisa.
Ciò che i percorsi di formazione citati in questo articolo si impegnano a creare è dunque una sorta di terreno critico che sia in grado di pensare le arti della scena come un territorio plurale di relazioni complesse, che può essere conosciuto al meglio e al meglio compreso nella sua potenza – anche politica – attraverso un processo di esternalizzazione dell’esperienza individuale. La discussione collettiva, un ragionamento di natura critica condotto innanzitutto attraverso il confronto orale e solo dopo messo alla prova di una documentazione testuale o grafica, si pone innanzitutto come antidoto alla dilagante virtualità del discorso tra le comunità delle arti, riportando l’atto di visione e il suo approfondimento a una dimensione materiale. In una forma collettiva dove la sfera soggettiva e quella analitica si confrontano in maniera diretta, si crea così un documento incorporato dell’esperienza, forse in grado di raccontare al meglio che cosa significhi oggi essere spettatori.
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28 GENNAIO 2018
Il canto del popolo ebreo massacrato
Piero Del Giudice
Miriam Novitch: dobbiamo molto a questa donna dal bel viso largo, dal bel naso così radicato. Sopravvissuta al campo di sterminio ha lavorato in Europa come storica (Women and The Holocaust), come storica dell'arte (il suo rapporto con il pittore Giuseppe Guerreschi e il ciclo di disegni e incisioni Judaica), ha polemizzato duramente con la nuova generazione di scrittori dello sterminio come Jean Francois Steiner (La verité sur Treblinka), si è occupata della rivolta del campo della morte di Sobibor (dopo la rivolta del ghetto di Varsavia, dopo la rivolta di Treblinka, in ottobre del '43 si tenta la rivolta armata a Sobibor).
La Novitch, nata nel 1908 a Vilna – Russia Bianca, al confine con la Polonia – muore nel 1990. Combatte nella Resistenza Francese, viene catturata nel 1943 e tradotta nel campo di Vittel dove incontra lo scrittore Yzhak Katzenelson (Russia Bianca 1886-Auschwitz 1943). A Vittel è confinato Yzhak Katzenelson – scrittore, autore di teatro, insegnante, militante del movimento clandestino Dvor (libertà) e scrittore sull'omonimo giornale – in attesa di riuscire a espatriare verso l'America Latina. Nell'autunno del 1943 Katzenelson scrive il poema Il canto del popolo ebreo massacrato, opera in 15 cantiche, la più espressiva, la più importante della letteratura yiddish del secolo scorso e della Shoah. Yzhak e Miriam decidono di interrare i fogli del poema «là dove si esce [dal campo] vicino al sesto palo». Katzenelson finisce nella fornace di Auschwitz a fine aprile del '44, ucciso il 1° maggio; la Novitch sopravvive e a guerra finita ritorna a Vittel, ritrova tutto e pubblica l'opera. Il Canto è un lavoro spinto sul pedale espressivo, forte di ripetizioni ossessive e disperatamente lucido. Non vi è più un orizzonte di natura, ma invece si è dentro un hangar dove echeggiano i colpi, un enorme recipiente chiuso, il pentolone di rame dove sono inceneriti le centinaia di migliaia di donne e uomini, il popolo eletto. Allora il sole 'è una lampada': «Non invocare il cielo, non ti sente. Né ti sente la terra questo mucchio di letame/ Non gridare al sole: non si supplica una lampada. Oh se potessi/ spengerlo come una lampada in questa tana di assassini». Un poema per un popolo: «disponetevi in cerchio attorno a me fino a formare un grande anello/ nonni, nonne, padri, madri con i bambini in collo/ Venite ossa di ebrei ridotte in polvere e cenere». Il popolo, la testimonianza e la memoria. Ma la memoria di che? Cosa erano i campi di sterminio – di lavoro/sterminio – se non fabbriche, forza lavoro disposta in grande abbondanza selezionata e mandata dentro la 'tana' del reparto? Quale era l'architettura del progetto di lavoro-sterminio, l'equilibrio tra sfruttamento e resistenza dell'operaio malnutrito, malvestito, dalla breve vita, se non una radicata convinzione fordista? Negli slums ottocenteschi di Londra si è snodata questa vicenda. Ci si avvolge negli stracci della sovrastruttura, nelle sue agiografie, nelle sue biografie edificanti, nei suoi santi, o – ecco la sua originalità – come in Katzenelson si guarda in faccia la realtà, e da lì, da quegli squarci si va all'universale enorme reparto di fabbrica, la tana del capitale estremo, dove ogni apparenza, ogni convenzione della vita cade: «Il sole, levandosi sugli shtetlekh di Lituania e di Polonia, non incontrerà più/ un vecchio ebreo raggiante intento a recitare alla finestra un salmo…/ il mercato è morto…/ Mai più un ebreo vi porterà la sua allegria, la sua vita, il suo spirito».
Viene un paragone qui, un'eco anzi – per qualche suono, per qualche silenzio – di Lugi Di Ruscio: «Questa notte vi ho sognato/ tutti/ compagni con cui ho lavorato per quasi una vita/ splendidamente vivi/ ritornammo a rivedere/ tutti gli orrori di quel reparto ridendo/ non sono riusciti ad ammazzarci/siamo ancora tutti vivi/ nuovi come fossimo risuscitati/ non più contaminati della sporca morte». La deportazione è sì il viaggio verso il Grande Buco Nero che Cresce - fine della Storia, fine del rapporto con dio - ma, nello stesso tempo, è il viaggio verso la fabbrica perfetta, lanuda produzione di valore. Il lager è il luogo perfetto del lavoro subordinato, disciplinati gli oppressi, iperbolico il rapporto tra costo della riproduzione della forza lavoro e produttività. Non vi è nessuna ironia nel Verbo d’entrata “Arbeit macht frei”. È ciò che ripete il capitale oggi nella crisi: lavorare di più, a meno. Là l’abbondanza senza limiti di una forza lavoro razziata, ridotta in schiavitù, a costi di rigenerazione vicini allo zero, rendeva lecito e ragionevole il suo sterminio. La camera a gas è il luogo terminale, l’ultima stazione, della parabola di quella forza-lavoro.
PUBBLICATO IL
28 GENNAIO 2018
Interférences 15: il romanzo come arte. Intervista a Lakis Proguidis sull’Atelier du roman
Andrea Inglese
A. I. – Sei direttore da 24 anni di una rivista intitolata L’Atelier du roman, nata a Parigi all’inizio degli anni Novanta e che, da allora, non ha smesso d’interrogare, difendere, esplorare le ragioni della scrittura romanzesca al di là di ogni frontiera storica e geografica. Una delle caratteristiche principali di questo progetto intellettuale è la sua attitudine militante, che rivendica una netta distanza nei confronti del discorso e del gergo accademici. Coerentemente con queste premesse, L’Atelier ha sempre privilegiato la forma del saggio rispetto a quella dello studio specialistico. Quali sono state le circostanze e le motivazioni che hanno accompagnato in Francia la realizzazione di un tale progetto? E per quale ragione vi è un intellettuale, un saggista, insomma uno scrittore greco all’origine dell’avventura? Mi sembra importante conoscere anche un pezzo della tua storia personale, almeno negli anni che precedono la nascita della rivista.
L. P. – Io vengo dalle scienze esatte. Ho esercitato per una decina d’anni la professione d’ingegnere dei lavori pubblici. Ma, fin dall’adolescenza, sono stato un lettore di letteratura, e soprattutto di romanzi. Pensavo che i romanzi mi aiutassero a comprendere la mia epoca. Verso la fine degli anni Settanta, mi sono a tal punto innamorato dell’opera di due romanzieri, Milan Kundera e Witold Gombrowicz, che ho deciso di cambiare vita e di dedicarmi completamente alla letteratura. Il punto comune di questi due scrittori è stata l’esplorazione, romanzesca ovviamente, di un’esistenza umana minata dal pensiero astratto – o, se vogliamo, dall’ideologia –, prodotto tipico del XX secolo. Data la mia formazione e la mia vita di allora, ero nelle condizioni giuste per rendermi conto che avevano ragione. Di questo percorso parlo approfonditamente nel mio ultimo saggio, Rabelais – Que le roman commence !, pubblicato all’inizio del 2017 (Pierre-Guillaume de Roux).
L’idea di fondare L’Atelier du roman ha iniziato a prendere forma in me alla fine degli anni Ottanta. In quel periodo, scrivevo un saggio sull’opera romanzesca di Witold Gombrowicz. Gombrowicz si lamentava spesso nel suo Diario della scomparsa dei “caffè letterari” nella vita letteraria che stava emergendo in Francia e altrove nel corso degli Cinquanta. Mi sono detto allora che un caffè simile, ossia un focolaio di dialogo estetico, poteva rinascere sotto forma di rivista letteraria. L’idea fu accolta con entusiasmo da alcuni amici che, come me, assistevano all’epoca a un seminario sul romanzo che Milan Kundera teneva all’EHSS di Parigi, un seminario cosmopolita.
È del tutto evidente che se Gomobrowicz si lamentava della scomparsa dei caffè letterari non era per nostalgia. Deplorava il fatto che il discorso sull’arte, nel suo tempo, abbandonasse lo spazio pubblico per rifugiarsi negli istituti universitari, nella ricerca supposta scientifica e nei convegni e altri dibattiti di specialisti, ossia di persone risolutamente orientati verso ciò che viene oggi chiamata, senza vergogna, “l’industria del sapere”.
L’Atelier du roman è stato fondato nel 1993. Noi scrittori, che alimentiamo le sue pagine, cerchiamo di dire che un abisso invalicabile separa “l’industria del sapere” (i soldi) dal dialogo estetico (il piacere), al quale è consacrata la rivista. Da una parte, c’è il concetto; dall’altra, l’affetto. Parlo di affetto artistico. Dell’affetto che è proprio dell’essere umano. Di quell’affetto che è presente tra gli uomini e che, per questo, non sarà mai analizzato, quantificato, digitalizzato.
Per quel che riguarda la mia origine, chissà, è forse la lingua di Omero che mi ha reso così refrattario alle potenze dell’astrazione che minacciano attualmente sia l’arte che il commento estetico.
A. I. – Siamo confrontati a questo paradosso. Da un lato, il romanzo sembra aver vinto la battaglia per l’egemonia nel mercato editoriale. La sola cosa che potrebbe davvero vendere è il romanzo, la sola cosa di cui gli editori sono ghiotti è il romanzo. Ognuno, oggi, ha diritto di scrivere un romanzo. D’altra parte, più il romanzo si generalizza come prodotto, più l’estensione delle sue frontiere si riduce. La sua forma e la sua lingua si ammansiscono e si codificano secondo le norme dei diversi sotto-generi. Il nostro comune amico (e redattore di lunga data della rivista) Massimo Rizzante citava in un numero recente dell’Atelier questa frase di Mario Vargas Llosa: “Il romanzo, per me, comincia laddove finisce il romanzo. Appena la gente inizia a dire che non è romanzo, è proprio a questo punto che il romanzo comincia”. Siamo ancora in grado di udirle queste parole?
L. P. – Tutti i miei lavori, L’Atelier du roman incluso, consistono principalmente nel dimostrare che il romanzo è un’arte vera e propria, come la musica, il teatro, ecc. Il romanzo come arte, quindi, è coinvolto quanto le altre arti dal paradosso che tu menzioni. Le opere degne d’integrarsi, di diversificare e di arricchire la storia dell’arte alla quale appartengono e dalla quale traggono legittimità sono rare – come sempre – con la differenza che oggigiorno, per snidarle, devi andare a frugare nell’Himalaya di una superproduzione che si vorrebbe artistica. In questo, i nostri pretesi artisti, così come coloro che di professione si occupano della commercializzazione delle loro opere, non fanno che applicare la legge dell’economia della sovrabbondanza: noi offriamo, il cliente (il drogato) lo fabbrichiamo di conseguenza – d’altra parte, anche i pubblicitari debbono pur vivere, no? Da ciò l’importanza, oggi più che mai, della critica e del dialogo estetico. Insisto su questo abbinamento, perché di critica o, per essere più precisi, di commenti promozionali ne abbiamo a bizzeffe. È il dialogo estetico che diventa sempre più raro. Perché? Perché un tale dialogo presuppone degli individui liberi e autonomi, ossia delle persone che non sono connesse 24 ore su 24 all’attualità.
Quanto all’idea di Mario Vargas Llosa, ne vedo chiaramente l’utilità. Serve per poter distinguere la creazione dalla creatività, la forma unica dalla fabbricazione in serie, l’opera innovativa dalla doxa. Ma Vargas Llosa parla in qualità di romanziere. Un critico che prende sul serio il suo lavoro non può ignorare l’ontologia dell’arte di cui si occupa. E se è critico letterario, non può evitare di interrogarsi su ciò che unisce, attraverso i secoli, tutte queste opere che hanno fatto la loro apparizione come “non romanzi”.
A. I. – Una delle caratteristiche dell’Atelier è senz’altro questa scommessa nel dialogo tra individui liberi e autonomi, un dialogo che si realizza evidentemente nella rivista, attraverso delle discussioni intorno a degli autori (Bulgakov, Perec, Sciascia, ecc.) o a un’opera particolare (Pastorale americana di Roth, Rosie Carpe di Ndiaye, Tworki di Bieńczyk, ecc.) o a delle tematiche (filosofia e romanzo, la francofonia letteraria, l’industria culturale). Ma questo dialogo è anche nutrito da incontri conviviali a scadenza regolare nei caffè di Parigi e anche da appuntamenti più strutturati come Gli incontri di Thélème. Ci puoi parlare più precisamente della forma che questi dialoghi hanno preso nel corso degli anni?
L. P. – Quello che è estremamente difficile di questi tempi è far capire che il vero dialogo – amoroso, politico o estetico – presuppone la presenza fisica degli interlocutori. Lo scambio di messaggi, d’informazioni e di conoscenza per via elettronica non costituirà mai un dialogo. I dibattiti, così apprezzati dai media, tra avversari di cui si conosce già il pensiero non hanno niente a che vedere con il dialogo. Sono delle contese. Ai convegni, simposi e altri incontri, non si dialoga, si giustappongono monologhi. Ho quasi vergogna a dirlo, ma le persone che vogliono condurre un dialogo estetico devono aver costruito qualche legame affettivo tra di loro. È di scambi, di gusti e di piaceri personali che parliamo di fronte a opere artistiche. Non siamo in una competizione economica, sportiva o di altro tipo, dove non ci sono che vincitori e vinti.
Dal momento che ci occupiamo del romanzo, dobbiamo far incontrare le nostre letture, senza escluderne nessuna, senza eliminarne nessuna. L’unico vincitore al termine di un vero dialogo estetico è l’opera d’arte in questione. È l’opera che impone l’amicizia tra i suoi diversi ammiratori. E chi dice amicizia, letteraria o d’altro tipo, dice scambio tra corpi. Altrimenti siamo nel virtuale, ossia da nessuna parte. È così che l’opera d’arte meritevole s’inscrive durevolmente nel tempo e può apparire sempre sotto una luce nuova, per la nostra più grande felicità.
Ecco perché tutte le manifestazioni dell’Atelier du roman si caratterizzano per questo spirito di amicizia. Di amicizia letteraria, intendo. Cosa che non ha niente a che vedere con le relazioni che possono unire i membri d’un qualsiasi gruppo di pressione – di quelli che proliferano vertiginosamente ai giorni nostri. L’amicizia letteraria si coltiva. E, per quanto mi riguarda, cerco di porre questa amicizia al di sopra delle divisioni politiche, nazionali o di altro genere.
Una di queste manifestazioni è quindi l’incontro annuale di Thélème. Si svolge all’abazia di Seuilly (in Touraine) il primo week-end di ottobre e deve il suo nome all’abazia che, secondo Rabelais, il re Gargantua ha costruito per frate Giacomo, volendolo ringraziare dei suoi straordinari servigi durante la guerra contro il re Picrochole. Sul frontone di questa abazia si poteva leggere: FAI QUELLO CHE VUOI. In accordo con questa iscrizione, abbiamo scelto come argomento permanente di questi incontri la Libertà. Ogni anno undici scrittori e una quarantina di persone, che vi partecipano attivamente, parlano della libertà. Ma non parliamo mai della stessa cosa. Ogni anno, infatti, tocca a un nuovo scrittore proporre la visuale a partire dalla quale discutere della libertà. Va da sé che gli scrittori invitati – ogni volta è un gruppo nuovo – non arrivano con un testo già scritto, ma con degli appunti. Vengono per discutere. Scriveranno il testo in seguito. Per il numero de L’Atelier du roman che farà da eco all’incontro al quale hanno partecipato. E un’altra cosa va da sé: non andiamo certo nelle terre rabelesiane per parlare senza bere. D’altro canto, è risaputo dalla più lontana Antichità che non c’è miglior mezzo per costruire un’amicizia letteraria durevole che il vino…
A. I. – Mi pare che tu abbia a lungo considerato che non soltanto l’invenzione del romanzo è strettamente legata alla storia dell’Europa, alla sua grande ricchezza di lingue e culture concentrate su una superficie geografica relativamente ristretta, ma che la buona salute di una cultura europea dipende anche dalla vocazione polifonica e critica del romanzo. La cultura europea, infatti, si costruisce grazie a un dialogo cosmopolita, ma anche attraverso i malintesi, le contaminazioni, l’interrogazione libera e insolente delle identità nazionali e del loro passato. Il direttorio finanziario che dirige le istituzioni europee, da un lato, e i nostalgici delle identità nazionali “stagne”, dall’altro, non sembrano più lasciare molto spazio a un’idea di Europa… Si può parlare ancora oggi di una cultura europea e del ruolo che il romanzo potrebbe svolgere nella sua creazione?
L. P. – Non lo so. Condivido in ogni caso la tua affermazione. Riguardo all’Europa (dall’Atlantico agli Urali) lo spirito e la coscienza politica sono stretti tra la cupidità che genera la mondializzazione e l’idiozia che coltiva il nazionalismo. E questo non da eri. Nel mese di dicembre, vent’anni fa, è morto a Parigi Cornelius Castoriadis. Qualche mese prima aveva dato a Praga una conferenza intitolata “Un rinascimento democratico o la barbarie”.
Non so se si possa “parlare ancora oggi di una cultura europea e di un ruolo che il romanzo potrebbe svolgere nella sua creazione”. Quello che però so con certezza è che il romanzo è consustanziale all’Europa (dall’Atlantico agli Urali) come la tragedia fu consustanziale all’Atene democratica. Il suo ruolo? Continuare ad essere ciò che è stato per cinque o sei secoli. Il ruolo della critica? Continuare a valorizzare il legame profondo tra “Europa” e “romanzo”. E quindi continuare a interrogarsi sulla necessità estetica, spirituale e storica di questo legame. Del resto, è soprattutto per rispondere a questo compito che abbiamo intrapreso i nostri incontri annuali, di cui il primo, nel 1999, s’intitolava “Romanzo: un’arte dai molteplici nomi”. È possibile trovare gli articoli dei partecipanti di questo incontro nel numero 22 della rivista (“C’era una volta l’Europa”, giugno 2000). Si trattava di riflettere sul fatto che le differenti lingue europee hanno ognuna il proprio nome per indicare il romanzo. Diciassette anni fa, ecco ciò che si poteva leggere, tra le altre cose, nel pezzo d’apertura del numero in questione:
Quelli che fanno l’Europa ?
Sono questi pochi eruditi gioiosi, questi scrittori e traduttori, che un anno fa hanno messo in comune per due giorni dizionari, letture, opere e lavori, conoscenze, gusti e preferenze a partire da una sola parola: romanzo. Perché lo chiamiamo, noi Francesi, roman, i Polacchi, powiesc, gli Islandesi, skáldsaga e gli altri Europei diversamente?
Romanzo, non è un nome qualsiasi. Designa l’arte che è consustanziale alla nascita dell’Europa, alle sue contraddizioni e malintesi, alla sua storia multidimensionale e multietnica, ai suoi itinerari nazionali sfasati, alle sue incomprensioni, le sue rotture, la sua polifonia, la sua cacofonia, la sua unità profonda, unità tessuta malgrado le guerre, le lacerazioni, i disastri e le cadute, malgrado le frontiere.
A. I. Uno degli aspetti affascinanti de L’Atelier è il suo rapporto con l’attualità. Non fate alcuno sforzo per mostrarvi aggiornati con le novità editoriali, le nuove mode letterarie, o i dibattiti intorno ai premi; ma nello stesso tempo vi è uno sguardo spesso polemico e caustico nei confronti della società contemporanea e dei suoi miti. Sapete essere nel contempo inattuali e inopportuni. Non è per nulla facile costruire questa “giusta” distanza con l’attualità. Come ci siete riusciti? Come si può sfuggire alla dittatura dell’attualità, senza rischiare di assumere la posa dello scrittore che osserva con sprezzo e sdegno confortevoli la decadenza dei tempi?
L. P. – Facciamo una distinzione: c’è l’attualità del mercato e l’attualità della creazione. Mi sembra che con la seconda abbiamo mancato di rado l’appuntamento. Le opere d’arte sono rare. Non si fabbricano su commissione e, soprattutto, non si moltiplicano per il fatto della moltiplicazione vertiginosa delle persone che si autoproclamano artisti (pittori, poeti, romanzieri, ecc.). Ciò detto, noi non voltiamo le spalle a quella che viene considerata oggi l’attualità. Al contrario, quest’attualità ci interessa moltissimo, in quanto vi cogliamo i segni dell’instaurazione di rapporti nuovi dell’uomo con il tempo. Il primo di questi segni, il più inquietante, è il rifiuto del passato, e questo avrà come conseguenza immediata la sterilizzazione totale della stessa attualità: da istante misterioso all’interno del tempo vasto, essa si ridurrà a somma di avvenimenti fortuiti. Odysséas Élytis diceva : “un giorno il passato ci sorprenderà con la forza della sua attualità”, il che vuol dire che se l’attualità vuole essere vissuta come un tempo umano, ossia un tempo aperto al caso e all’imprevisto, deve portare affettuosamente nel suo seno tutto il passato.
Sì, non è facile “sfuggire alla dittatura” dell’attuale, così come domina ai nostri giorni. Certo, non smettiamo di far dialogare nelle pagine de L’Atelier du roman le grandi opere del passato con il nostro presente. Ma questo non è sufficiente. Bisogna anche riflettere sul fenomeno di questa mutilazione del tempo e dei pericoli covati dall’uomo che soccombe al suo fascino. Uno dei nostri incontri – L’Atelier du roman, n° 73, marzo 2013 – aveva per titolo : “La guerra del Tempo e dell’Attualità”.
A. I. – Vorrei concludere questa intervista con almeno una domanda sul tuo ultimo saggio Rabelais – Que le roman commence ! Nel tuo sforzo per definire un’estetica del romanzo, fai leva su una categoria per te centrale e che è stata pertanto trascurata dall’immensa produzione accademica intorno al romanzo, ossia il “riso romanzesco”. Quale sarebbe la specificità di questo ridere?
L. P. – Sento spesso intorno a me lamentele sul fatto che l’uomo di oggi perde il sentimento del tragico. Quando le riflessioni di questo tipo sono intrecciate con i discorsi che teniamo con i nostri simili su ogni cosa e il suo contrario, ciò non ha alcuna importanza. Si vuole solamente dire che bisogna prendere la vita sul serio, che la vita non deve essere vissuta come una festa illimitata. Per contro, quando sono i giornalisti, i professori di filosofia e altre personalità delle arti e delle lettere che tengono questo genere di propositi è sconfortante, in quanto prova l’abissale mancanza di cultura delle nostre supposte élite. Il sentimento del tragico e il suo correlato, la catharsis, corrispondono a un mondo scomparso da due millenni. Ovvero un mondo dove l’uomo si sente intrappolato da forze che sovrastano la sua comprensione. In seguito, e per secoli e secoli, il tragico è stato rimpiazzato dalla salvezza cristiana – dalla supposizione che il Creatore ci ami. Ma già da quattro secoli l’uomo, proclamandosi “maestro e possessore della natura”, ha preso il timone dell’universo e del suo proprio destino. Allora, in questo mondo nuovo, nuovo per l’esistenza, la sola cosa che tiene, esteticamente parlando, è il riso romanzesco. È il riso dell’uomo che si scopre intrappolato dalle sue stesse opere. È il riso che l’uomo indirizza a se stesso. Questo riso non viene dall’alto – da Dio o da Satana – né dai suoi pedagoghi, dai suoi profeti o dai suoi cinici professionisti. Viene dalle profondità della sua anima, e subito vi ritorna. Si tratta di auto-ironia. Ma questa autoironia non riguarda gli individui presi isolatamente, ma è l’autoironia della nostra civiltà nel suo insieme. Evidentemente, questo riso romanzesco non esiste in sé. Una grande arte lo porta nel suo seno, lo nutre di sé e lo trasmette attraverso le epoche e i continenti. Di quest’arte, della sua storia, del suo nocciolo estetico, parlo appunto nel saggio che hai citato.
PUBBLICATO IL
28 GENNAIO 2018
Alfagiochi / Mi ritorno in mente
Antonella Sbrilli
Nella scorsa rubrica abbiamo parlato di Tabloid Art History, geniale progetto di tre curatrici britanniche che raccolgono accostamenti fra foto di celebrities e opere d’arte di tutte le epoche, pubblicandole su Twitter e Instagram e discutendone nel loro magazine “TAH”.
Mentre giocavamo anche noi cercando similitudini, molti articoli si occupavano di una nuova funzione disponibile nell’app di Google Arts & Culture, una funzione che fa leva su uno stesso desiderio visivo: trovare somiglianze, cogliere l’aria di famiglia fra capolavori conservati nei musei e forme presenti. E non forme qualunque, incontrate in giro, ma quelle che più ci connotano, le fattezze del nostro viso.
L’attrazione per il sosia, il mito pericoloso del Doppelgänger, l’ambiguità della donna che visse due volte, ma anche il piacere di vedersi incorniciati: il gioco di cercare il proprio viso nell’arte non è nuovo, ma la funzione dell’app di Google Arts & Culture lo traghetta nella dimensione quantitativa e automatica e nel tempo reale:
bisogna infatti scattarsi un selfie e avviare la ricerca nell’enorme database di immagini di ritratti conservati, finché il sistema presenta il risultato: il dipinto a cui il proprio scatto somiglia di più.
Non ancora disponibile in Italia, “Is your portrait in a museum?” ha avuto picchi di gradimento anche perché il risultato cambia modificando l’espressione facciale e dunque può essere avviato più volte.
Intanto anche noi abbiamo giocato con la ricerca delle somiglianze, muovendoci sulla scorta della memoria personale e dell’incontro casuale. In queste immagini, le proposte che sono arrivate dalle giocatrici: una regina Elisabetta separata alla nascita da un ritratto di Renoir (Viola Fiore), due mangiatori di spaghetti, uno interpretato da Alberto Sordi e l’altro dipinto da Guttuso (Miriana Grassi), una cavallerizza e il Cavaliere polacco attribuito a Rembrandt (Sabstone23), una fanciulla nel paesaggio scozzese e il reverendo pattinatore della National Gallery of Scotland.
E diversi altri, rintracciabili sui social seguendo gli hashtag #miritorniinmente e #alfagiochi.
Alcuni di questi confronti sono stati rilanciati anche dagli account di Tabloid Art History, che ringraziamo e invitiamo a seguire.
Ancora per questa settimana, si può continuare a contribuire al gioco di @tabloidarthistory su Instagram o Twitter cercando foto di VIP che somiglino a opere d’arte oppure si può giocare in casa: c’è una vostra foto personale in cui il soggetto, la posa, il contesto, i colori, ricordino per caso un capolavoro?
Gli accostamenti si possono inviare via mail a [email protected] o su Twitter e Instagram con l’hashtag #alfagiochi.
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