#melanconico
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popolodipekino · 4 months ago
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atrabiliosi di tutto il mondo..!
Quando la bile nera è fredda, il melanconico [...] perde ogni desiderio di vivere. [...] Tutto ciò che attrae gli altri non gli piace: tutto ciò che amano gli altri lo infastidisce; la primavera lo annoia come l'autunno, l'inverno e l'estate paiono uguali al suo occhio. Se legge un libro, non riesce a figgere gli occhi nei segni: le lettere non diventano parole, le parole non diventano immagini, le immagini non si muovono davanti agli occhi. Legge senza partecipare, senza comprendere, senza gioia, senza che in lui si accenda la luce interiore che lo assicuri di avere capito. [...] Non riesce ad amare se stesso, e ha l'impressione che tutti gli altri lo sospettino, lo detestino o gli preparino insidie ed agguati. Qualche volta, uno slancio di euforica frivolezza lo spinge verso di loro: li vorrebbe stringere contro il suo cuore morto; più spesso, non prova per loro che una gelida ostilità, un amaro rancore, e ride di un riso amaro alle loro spalle. [...] L'altro polo della melanconia ha l'ardore e i colori del fuoco. Quando la bile nera è calda, il saturnino [...] non è mai stato così radioso. Tutto lo diverte, lo interessa, lo attrae. I suoi sensi sono più attenti e minuziosi: i sentimenti scorgono dovunque analogie segrete, i pensieri, continuamente attivi e in moto, sono accompagnati da una scossa nervosa, che li introduce nel cuore della realtà. da P. Citati, Saturno e la melanconia, in La luce della notte
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lunamarish · 6 months ago
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Credo che la melanconia sia un problema musicale: una dissonanza, un ritmo alterato. Mentre fuori tutto accade con un vertiginoso ritmo da cascata, dentro c’è una lentezza esausta da goccia d’acqua che cade di tanto in tanto. Ecco perché quel fuori contemplato dal dentro melanconico risulta assurdo e irreale e costituisce “la farsa che tutti dobbiamo rappresentare”. Ma per un istante – grazie a una musica selvaggia, o a qualche droga, o all'atto sessuale nella sua massima violenza – il ritmo lentissimo del melanconico non solo riesce ad accordarsi con quello del mondo esterno, ma lo supera con un eccesso indicibilmente gioioso; e l’io vibra animato da energie deliranti.
Alejandra Pizarnik
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pataguja61 · 1 year ago
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Un dialogo intimo e doloroso, espresso dal tocco delicato di una melodia semplice e profonda.
L' orchestra accoglie la richiesta e l' amplifica, rendendola ancora più struggente, quasi un grido, inascoltato, un canto melanconico e rassegnato.
A volte, quando ascolto questo brano così espressivo, mi chiedo quale fosse la vera natura di Mozart e come le persone siano capaci di apparire tanto diverse da come sono veramente.
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nonamewhiteee · 1 year ago
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un fine settimana noioso e melanconico.
#me
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ilpianistasultetto · 2 years ago
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Charles Aznavour non l'ho mai visto nella veste del cantante. Per me lui e' stato una lacrima che lenta scivola sul viso e poi cade a terra senza rumore; una carezza lieve, un bacio sulla fronte un vento melanconico che soffia a volte suadente a volte prepotente, un viaggio nei meandri della solitudine. Lui e' stato uno che ha fatto amare la nostalgia dei ricordi, il gesto istrionico, le strade, le donne. Uno chansonnier di amori, tradimenti e cuori infranti. Un poeta della sofferenza sentimentale. Dentro le sue canzoni c'e' il dramma ma anche la speranza. Una luce fioca che schiara il buio e la consapevolezza che anche dopo cento sconfitte vale sempre la pena ritentare, tornare comunque a sperare... @ilpianistasultetto
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Fuggirei senza bagaglio e senza rimorsi
Lasciando qui i miei pensieri
E andare dove ragazze languide
Ti stappano il cuore..
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sottileincanto · 6 months ago
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Berenice
- Edgar Allan Poe -
La sventura ha molti aspetti; la miseria sulla terra è multiforme. Domina il vasto orizzonte come l’arcobaleno e i suoi colori sono altrettanto variati, altrettanto distinti eppure strettamente fusi. Domina il vasto orizzonte come l’arcobaleno. In che modo ho potuto trarre un carattere di bruttezza da un esempio di bellezza? Dal sogno dell’amicizia e della pace una similitudine di dolore? Ma come, in morale, il male è la conseguenza del bene, ugualmente, nella realtà dalla gioia nasce l’affanno; sia che il ricordo del passato felice crei 1’angoscia dell’oggi, sia che le agonie reali traggano la loro origine dalle estasi che sono state possibili.
Io ho da raccontare una storia la cui essenza è piena di orrore. La sopprimerei volentieri se non fosse piuttosto una cronaca di sentimenti che di fatti.
Il mio nome di battesimo è Egeo, il mio nome di famiglia non lo dirò. Nella regione non c’è castello più carico di gloria e d’anni che il mio vecchio e melanconico maniero avito. Da molto tempo la nostra famiglia aveva nome di una razza di visionari; il fatto è che in molte particolarità notevoli- nel carattere della nostra casa padronale- negli affreschi della gran sala- negli arazzi delle camere- nei fregi dei colonnini della sala d’armi- ma più specialmente nella galleria dei vecchi quadri, nell’aspetto della biblioteca e finalmente nella natura peculiare del contenuto di questa biblioteca- si può trovare di che giustificare ampiamente questa persuasione.
I ricordi dei miei primi anni sono legati unicamente a quella sala e a quei volumi dei quali non parlerò più. Quivi morì mia madre; quivi nacqui io. Ma sarebbe ozioso dire che non ho mai vissuto prima d’allora- che l’anima non ha un’esistenza anteriore. Lo negate?- non discutiamo su questa materia. Io son convinto ma non cerco di convincere altri. C’è, del resto, una rimembranza, di forme eteree, di occhi spirituali e parlanti, di suoni melodiosi e melanconici, una rimembranza che non vuole andarsene; una specie di memoria pari a una ombra,- vaga, trasmutabile, indeterminata, vacillante; e di questa ombra essenziale non potrò mai disfarmene, finché brillerà il sole della mia ragione.
Io nacqui in quella stanza là. Emergendo così di mezzo alla lunga notte che sembrava essere ma non era la, non esistenza, per cadere ad un tratto in una regione fantasmagorica, in un palazzo fantastico- negli strani domini del pensiero e dell’erudizione monastica- non è meraviglia che io guardassi intorno a me con occhio ardente e sbigottito- che abbia consumato l’infanzia fra i libri e prodigato la mia gioventù in fantasticherie; ma quel che è strano- quando gli anni passarono e il meriggio della mia virilità mi trovò vivo ancora nella dimora dei miei antenati- quel che è strano è quel ristagno che si produsse nelle sorgenti della mia vita, quella completa inversione che si produsse nelle qualità dei miei pensieri più abituali. Le realtà del mondo agivano su me come delle visioni e solo come visioni, mentre che 1’idee folli del mondo dei sogni divenivano, in compenso, non solo il pascolo della mia esistenza quotidiana, ma effettivamente la mia stessa unica, la mia intera esistenza.
Berenice ed io eravamo cugini e crescevamo insieme nella casa paterna. Ma crescemmo disugualmente: io malaticcio e sepolto nella mia melanconia, essa agile, graziosa, esuberante di energia; a lei il vagabondare per le colline- a me gli studi da monaco io vivevo nel mio cuore stesso e mi votavo, anima e corpo, alla più intensa, alla, più ingrata meditazione- essa errava traverso alla vita, noncurante, senza pensare alle ombre del suo cammino né nella fuga silenziosa delle ore alla nere piume Berenice!- io invoco il suo nome – e dalle grigie rovine della mia memoria su levano a questo nome mille ricordi tumultuosi. Ah, La sua immagine è là, vive dinanzi a me come nei giorni primi della sua spensieratezza e della sua gioia! Oh, magnifica e insieme fantasiosa bellezza! Oh silfide nei boschetti di Arnheim! Oh naiade di quelle fontane! Poi- poi tutto diviene mistero e terrore storia che non vuole esser raccontata. Un male- un male tragico piombo sul suo corpo come il simoun; anzi mentre la contemplavo, lo spirito trasformatore passava su di lei e la rubava a poco a poco, impossessandosi della sua mente delle sue abitudini, del suo carattere, perturbando perfino la sua fisionomia in modo sottilissimo e terribile. Ahimé! il distruttore veniva e se ne andava; ma la vittima- la vera Berenice- che è diventata? Quella lì non la conoscevo o almeno non la riconoscevo più quale la Berenice di un tempo. Nel corteo numeroso di malattie apportate da quel fatale e principale attacco che produsse una rivoluzione così orribile nell’essere fisico e morale di mia cugina, la più tormentosa e la più ostinata era una specie di epilessia che spesso finiva in catalessi- catalessi che rassomigliavano in tutto alla morte, da cui essa, certe volte, si risvegliava in un modo brusco e improvviso. Nel tempo stesso il mio male- perché mi hanno detto che non potevo denominarlo altrimenti- il mio male aumentava rapidamente i sintomi erano aggravati dall’uso dell’oppio; e finalmente prese il carattere di una monomania di nuovo genere e mai vista. Ogni ora, ogni minuto, guadagnava in energia e alla fine conquistò su me il più strano e il più incomprensibile potere. Questa monomania se devo servirmi di questo vocabolo consisteva in una morbosa irritabilità delle facoltà dello spirito che il linguaggio filosofico comprende sotto il nome di “facoltà di attenzione”. È più che probabile che non sia capito; ma in verità, temo di non poter dare in nessun modo alla più gran parte dei lettori un’idea esatta di questa intensità d’interesse per la quale, nel caso mio la facoltà meditativa- eviterò il linguaggio tecnico – si applicava e si sprofondava nella contemplazione delle cose le più banali di questo mondo.
Riflettere infaticabilmente per ore ed ore, inchiodando l’attenzione su qualche puerile citazione in margine o nel testo di un libro- restare assorto per quasi tutta una giornata d’estate per un’ombra bizzarra che si allungava obliquamente sugli arazzi o sul pavimento- dimenticare tutto per una intera notte nel sorvegliare la fiammella diritta di un lume o la brace del caminetto- sognare giorni interi sul profumo di un fiore- ripetere in una maniera monotona qualche parola volgare fino a che il suono a forza d’esser ripetuto, non rappresenti più allo spirito nessuna idea- perdere ogni coscienza di movimento e di esistenza fisica in un assoluto riposo prolungato ostinatamente- queste erano alcune delle più comuni e perniciose aberrazioni delle mie facoltà mentali, aberrazioni che certamente non restano del tutto senza esempi, ma che certamente sfidano ogni spiegazione e ogni analisi. Anzi mi spiego meglio. L’anormale, intensa, morbosa attenzione eccitata così da oggetti in se stessi frivoli, non e di natura tale da confondersi con quella inclinazione al fantasticare che è comune a tutta umanità, a cui si abbandonano sopratutto le persone di ardente immaginazione.
Non solamente non era, come si potrebbe supporre a prima vista, un termine remoto, un’esagerazione di quell’inclinazione, ma anzi n’era differente per origine e per qualità. Nell’un caso il sognatore, l’uomo immaginativo occupato da un oggetto generalmente non frivolo, perde a poco a poco di vista il suo oggetto attraverso un’ infinità di deduzioni e suggestioni che ne scaturiscono fuori, cosicché in fondo ad una di queste meditazioni spesso piene di voluttà si accorge che l’incitamentum o causa prima delle sue riflessioni è completamente svanito e dimenticato. Nel caso mio invece il punto di partenza era sempre banale sebbene assumesse un’ importanza immaginaria e di rifrazione, traversando il campo della mia visione malata. Io facevo poche deduzioni- se pure ne facevo, e nel caso, esse tornavano ostinatamente all’oggetto principale come a un centro. Le meditazioni non erano mai piacevoli; e alla fine del sogno la causa prima lungi dall’essere fuori questione aveva raggiunto quell’importanza straordinariamente esagerata che era il tratto dominante del mio male. In poche parole la facoltà dello spirito in modo speciale acuita in me era, come dissi la facoltà, dell’attenzione, mentre che nel sognatore comune quella della meditazione.
In quel tempo i libri se non mi servivano proprio a irritare il male, partecipavano ampiamente come si può capire, nel loro carattere imaginativo e irrazionale, delle qualità peculiari del male stesso. Mi ricordo bene, fra gli altri del trattato del nobile italiano Celio Secondo Curione, Della grandezza del felice regno di Dio; la grande opera di S. Agostino, La Città di Dio e Della carne del Cristo di Tertulliano, il cui inintelligibile detto: credibile est quia ineptum est; sepultus resurrexit, certum quia est quia impossibile est– assorbì esclusivamente tutto il mio tempo, per più settimane di una laboriosa e infruttuosa investigazione.
Senza dubbio più d’uno concluderà che la mia ragione, scossa nel suo equilibrio da certe cose insignificanti, offriva una certa somiglianza con quella rocca marina di cui parla Tolomeo Efestio che resisteva immutabilmente a tutti gli attacchi degli uomini e al furore più terribile delle acque e dei venti e che fremeva al tocco del fiore chiamato asfodelo. A un giudice superficiale parrà semplicissimo e fuor di dubbio che la terribile alterazione prodotta della condizione morale di Berenice dalla sua malattia dovesse fornirmi più di una occasione ad esercitare questa intensa e anormale meditazione di cui a grave fatica ho potuto definirvi la qualità. Ebbene le cose non stavano punto in questo modo. Nei lucidi intervalli della mia infermità, la sua sventura mi cagionava è vero molto dolore; quella rovina totale della sua bella e dolce esistenza mi pungeva acutamente il cuore; io riflettevo spesso e amaramente sul modo misterioso e strano nel quale aveva potuto prodursi una sì rapida trasformazione. Ma queste riflessioni non avevano il colore proprio al mio male ed erano uguali a quelle che in circostanze analoghe si sarebbero presentate alla massa comune degli uomini. Quanto alla mia malattia, fedele al suo carattere, si faceva un pascolo dei cambiamenti meno importanti ma più visibili, che si manifestavano nell’organismo fisico di Berenice- nella strana e spaventevole distorsione del suo aspetto. È certissimo che nei giorni più luminosi della sua incomparabile bellezza io non l’avevo amata. Nella strana anomalia della mia esistenza, i sentimenti non mi sono mai venuti dal cuore e le mie passioni mi son sempre venute dallo spirito. Traverso alla pallidezza del crepuscolo- a mezzogiorno fra le ombre intrecciate della foresta- e la notte nel silenzio della mia biblioteca- essa mi era passata oltre gli occhi e io 1’avevo vista, non come la Berenice vivente e respirante, ma come la Berenice di un sogno, non come un essere della terra, un essere carnale, ma come l’astrazione di un tal essere; non come una cosa da ammirare, ma da analizzare non come oggetto di amore, ma come il tema di una meditazione tanto astrusa quanto anormale. E ora, ora tremavo al suo cospetto, impallidivo al suo avvicinarsi; intanto sebbene lamentassi amaramente la sua triste condizione di deperimento, mi ricordai che essa mi aveva amato lungamente e, in un momento infelice, le parlai di matrimonio. Il tempo fissato per le nostre nozze si avicinava quando un pomeriggio d’inverno- una di quelle giornate nebbiose che preparano la febbre al cuore- mi sedei credendomi solo nella stanza della biblioteca. Ma, alzando gli occhi, vidi Berenice dinanzi a me.
Fu la mia immaginazione sovreccitata, o l’influsso dell’atmosfera brumosa o la veste oscura, che avvolgeva la sua persona, che le diede quel contorno così tremante e indeciso? Non potrei dirlo. Forse dopo la sua malattia era cresciuta. Essa non disse una parola; e io non avrei pronunziato una sillaba per nulla al mondo. Un brivido gelato mi corse il corpo; una sensazione di angoscia insopportabile mi opprimeva; una curiosità divorante s’introdusse nel mio animo; e appoggiandomi riverso sulla poltrona rimasi un po’ di tempo senza moto e senza respiro cogli occhi inchiodati sulla sua persona. Ahimé era estremamente smagrita; dell’essere di una volta non era sopravvissuto vestigio né era rimasto neppure un lineamento. Finalmente i miei sguardi caddero sulla sua faccia. La fronte era alta, pallidissima e supremamente serena; i capelli, una volta di un nero corvino la coprivano in parte e ombravano le tempie incavate colle fitte anella, ora di un biondo caldissimo; e quel tono capriccioso di colore stonava dolorosamente colla malinconia dominante sulla sua fisionomia. Gli occhi erano senza vita e senza splendore, come senza pupille, e involontariamente io distornai lo sguardo da quella vitrea fissità, per contemplare le labbra affinate e aggrinzite. Esse si aprirono e in un sorriso stranamente espressivo i denti della nuova Berenice si rivelarono lentamente alla mia vista. Non li avessi mai guardati o fossi io morto subito dopo averli guardati.
Una porta chiudendosi mi scosse e, alzando gli occhi, vidi che mia cugina era uscita dalla camera. Ma nella camera sconvolta del mio cervello lo spettro bianco o terribile dei suoi denti restava e voleva andarsene più. Non una scalfittura, sulla superficie di quei denti, non un’ombra sul loro smalto, non una punta sul quel sorriso passeggero non fosse bastato a imprimere nella mia memoria. Anzi li vidi allora più nettamente che non poco prima. Quei denti! quei denti!- Essi erano qui- poi là, per tutto- visibili palpabili, dinanzi a me; lunghi stretti e bianchissimi, colle labbra pallide che si torcevano intorno, orribilmente tese, com’erano poco prima. Allora sopraggiunse la furia piena della mia monomania ed invano lottai contro la sua irresistibile influenza. Nella massa infinita degli oggetti del mondo esteriore, non avevo pensiero che per i denti. Tutte le altre cose, tutte le alterazioni diverse furono assorbite in quella unica contemplazione. Essi, essi soli, eran presenti all’occhio del mio spirito e la loro esclusiva individualità divenne il fulcro della mia vita intellettuale. Io li guardavo sotto tutte le luci; li volgevo in tutti i sensi; studiavo le loro qualità; osservavo i loro segni particolari; meditavo sulla loro conformazione. Riflettevo sull’alterazione della loro natura. Rabbrividivo attribuendo loro nella mia immaginazione una facoltà, di sensazione e di sentimento e anche, senza neppure il concorso delle labbra, una potenza d’espressione morale. Fu detto eccellentemente della signorina Sallé che tutti i suoi passi erano dei sentimenti e di Berenice io pensavo seriamente che tutti i denti erano delle idee.- Delle idee!- ah! ecco il pensiero assurdo che mi ha perduto!! Delle idee! ah! ecco dunque perché li desideravo così pazzamente! Sentivo che solo il loro possesso poteva restituirmi la pace e ripristinare la mia ragione. E la sera così discese su di me- e le tenebre vennero, si fissarono e poi se ne andarono- e una luce nuova comparve e le nebbie di una seconda notte si agglomerarono su di me- ed io ero sempre immobile in quella camera solitaria, sempre seduto, sempre sepolto nella mia meditazione, o sempre il fantasma dei denti manteneva la sua influenza terribile a tal punto che io la vedevo fluttuare qua e là e traverso la luce e le ombre cangianti della camera, colla più viva e la più orrida limpidezza. Finalmente in mezzo ai miei sogni scoppiò un gran grido di dolore e di spavento al quale successe dopo una pausa, con suono di voci desolate, intramezzato da gemiti sordi di dolore e di lutto. Io mi alzai e aprendo una delle porte della biblioteca trovai nell’anticamera un servo piangente che mi disse che Berenice non viveva più! Era stata presa dall’epilessia nella mattinata; e ora, sul cader della notte, la fossa aspettava la futura abitatrice e tutti i preparativi del seppellimento erano terminati.
Il cuore grave di angoscia, oppresso da sbigottimento, mi diressi con una certa ripugnanza nella camera da letto della defunta. La camera era vasta e oscura e ad ogni passo inciampavo nei preparativi della sepoltura. Le cortine del letto, mi disse un domestico, erano chiuse intorno alla bara, e dentro a questa bara, aggiunse o, voce bassa, giaceva tutto quel che restava di Berenice. Chi fu dunque che mi domandò se volevo rivedere il corpo? – Io non vidi che nessuno muovesse le labbra; eppure la domanda era stata proprio fatta e l’eco dell’ultime sillabe strascicava ancora nella camera. Era impossibile opporsi e con un senso di oppressione mi trascinai accanto al letto. Sollevai adagio il cupo panno dello cortine, ma nel lasciarle ricadere discesero sulle mie spalle e separandomi dal mondo vivente mi chiusero nella più stretta comunione colla defunta. Tutta l’atmosfera della camera sapeva di morte; ma l’odore particolare della bara mi faceva male, e mi pareva che un odore deleterio esalasse già dal cadavere. Avrei dato l’oro del mondo per scappare, per fuggire il pernicioso influsso della morte per respirare ancora 1’aria pura dei cieli immortali. Ma non avevo più la forza di muovermi; i ginocchi mi vacillavano; avevo preso radice nel suolo, guardando fissamente il cadavere rigido, steso in tutta, la sua lunghezza nella bara aperta. Dio del cielo! è mai possibile? Il mio cervello delira? o il dito della defunta si è mosso sotto la tela bianca che lo chiude? Tremando di un terrore indescrivibile alzai gli occhi lentamente per vedere la faccia del cadavere. Avevano messo una benda intorno alle mascelle, ma non so come si era sciolta. Le labbra livide si torcevano in una specie di sorriso e traverso alla loro melanconica cornice i denti di Berenice bianchi, lucenti terribili mi guardavano ancora con una realtà troppo viva. Io mi scostai convulsamente dal letto e senza dir parola mi slanciai come un maniaco fuor di quella camera di misteri, di orrore e di morte.
Mi ritrovai nella biblioteca, ero e solo. Mi sembrava di uscire da un sogno confuso ed agitato. Vidi che era mezzanotte ed io avevo preso le mie precauzioni perché Berenice fosse sepolta subito dopo il tramonto. Ma di quel che accadde durante quel lugubre intervallo non ho conservato memoria certa né chiara. Pure la mia mente era ingombra di orrore, tanto più orribile quanto più vago, di un terrore che l’ambiguità rendeva più spaventoso. Era come una pagina paurosa nel registro della mia esistenza scritto interamente con ricordi oscuri, orrendi e inintelligibili. Mi sforzai di decifrarli, ma invano. Pure di tanto in tanto simile all’anima di un suono fuggevole, un grido sottile e penetrante- come voce di donna- mi sembrava che si ripercuotesse nelle mie orecchie. Io avevo fatto qualche cosa, ma che cos’era mai? Io mi rivolgevo la domanda ad alta voce e gli echi della camera mi bisbigliavano per tutta risposta: Che era mai?
Sulla tavola accanto a me ardeva una lampada e accanto c’era una piccola scatola di ebano. Non era una scatola di stile notevole e 1’avevo già vista più volte perché apparteneva al medico di famiglia; ma come mai era venuta lì, sulla tavola, e perché mi venivano i brividi a guardarla? Eran cose che non valeva la pena di attrarre l’attenzione; ma gli occhi mi caddero alla fine sulle pagine aperte di un libro e su una frase sottolineata. Erano le parole bizzarre, ma molto semplici del poeta Ebn Zaiat: Mi andavan dicendo i compagni miei che se avessi visitato il sepolcro dell’amica i miei affanni sarebbero alquanto allievati.
Perché mai dunque a leggere quelle linee mi si rizzarono i capelli sulla testa e il sangue mi si ghiacciò nelle vene? Un colpo fu battuto alla porta, e un servo, pallido come un cadavere, entrò sulla punta dei piedi. Aveva gli occhi sconvolti dallo spavento, e mi parlo con voce bassissima, tremante, soffocata. Che mi disse? Io sentii qualche frase qua e là. Mi raccontò, sembra, che un grido spaventoso aveva turbato il silenzio della notte, che tutti i domestici si eran riuniti, e che avevan cercato nella direzione del suono, poi la sua voce bassa divenne chiara in modo da darmi i fremiti parlandomi di violazione di sepoltura, d’un corpo sfigurato, spogliato del lenzuolo, ma che ancora respirava e palpitava, che viveva ancora.
Mi guardò i vestiti; erano imbrattati di fango e di sangue aggrumato. Senza far parola mi prese dolcemente per mano; la mia mano aveva delle impronte di unghie umane. Poi richiamò la mia attezione sopra un oggetto appoggiato al muro, 1o guardai qualche minuto. era una vanga. Mi gettai con un grido sulla tavola ed afferrai la scatola di ebano, ma non ebbi la forza di aprirla e nel tremito mi sfuggì di mano, cadde pesantemente e andò in pezzi; ne uscirono rotolando con fragore di terraglia degli strumenti da dentista e con essi trentadue piccole cose bianche, simili ad avorio, che si sparpagliarono qua e là sul pavimento
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per1w1nkl3 · 1 year ago
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francesco hayez "pensiero melanconico" (melancholy thoughts), 1841
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greenbor · 11 months ago
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di https://www.tumblr.com/volodiunacapinera
♠️… L'anno vecchio e logoro è giunto quasi al termine, desidero porgere a questo estenuante anno i miei saluti, mi metto comoda dunque e con fare lusinghiero mi inchino ad esso lo ringrazio per tutto ciò che ha rappresentato.
Non volevo esordire con un post melanconico, smielato, intriso di speranza, ricordi, dolori superati e ferite ancora aperte, perché in tutta onestà ne abbiamo avuti a ben donde a Natale e soprattutto le verità è che nessuna di queste caratteristiche mi appartiene tantomeno desidero guardare al passato con tristezza, rimorso, rimpianto, no decisamente no, le mie prospettive sono rivolte altrove, io guardo avanti e mai come oggi sono pronta ad accogliere questo nuovo anno con positività, ironia, passione,leggerezza, spiritualità, costanza, amore e con la consapevolezza che sono e saranno sempre i periodi difficili quelli da cui riusciamo a trarre il meglio di noi, quelli che ci plasmano, ci trasmutano, ci evolvono e ci rendono persone migliori.
Buon anno a voi tutti… nessuno escluso
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canesenzafissadimora · 1 year ago
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Sempre si trova la mano di una donna
che, fresca e lieve,
compatendo e un poco amando,
come un fratello ti quieti.
Sempre si trova il seno di una donna,
dove trovi rifugio il tuo respiro ardente,
dove nascondere la tua testa dannata,
e affidargli il tuo sonno ribelle.
Sempre si trovano occhi di donna,
che lenendo tutti i tuoi affanni,
o se non tutti, una parte,
vedano la tua sofferenza.
Ma fra tutte queste dolci mani,
una ve n’è, che ha una speciale dolcezza,
quando una fronte tormentata
sfiora, come l’eternità, il destino.
Ma fra tutti i seni di donna,
uno ve n’è (e il perché non si sa)
che non per una notte, ma per sempre ti è dato,
e questo tu l’hai capito già da gran tempo.
Ma fra tutti gli occhi di donna
ve ne sono il cui sguardo è sempre melanconico,
e sono questi, fino agli ultimi tuoi giorni
gli occhi del tuo amore e della tua coscienza.
E tu vivi malgrado te stesso,
e non ti basta soltanto quella mano,
soltanto quel seno e quegli occhi sacri
che tu tante volte hai tradito!
Ed ecco la punizione comincia.
Traditore! – la pioggia ti schiaffeggia.
Traditore! – i rami ti sferzano il viso.
Traditore! – l’eco si ripercuote nel bosco.
Tu ti agiti, ti tormenti, ti affliggi.
Tu stesso non saprai perdonarti.
E soltanto quella mano diafana,
sebbene sia ben grave l’offesa, perdona,
e soltanto quello stanco seno
perdona adesso e anche in futuro perdonerà,
e soltanto quegli occhi tanto tristi
perdonano ciò che perdonare è impossibile.
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Evgenij Evtusenko
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mybittersweet · 1 year ago
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Ora anche se sono 15 gradi fuori c'è una forte sensazione di aria gelida delle mattine nebbiose di ottobre...il freddo nelle ossa..il freddo nella testa. Mi scatena un sacco di sensazioni e stati d'animo. Melanconico..decandescente..triste. Non vedo l'ora che gli alberi prendono i colori dell'autunno.
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meiselgirl · 1 year ago
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BILE NERA
immagini di pensiero che riappaiono e scompaiono costantemente. Il desiderio, in fondo all'anima, di qualcosa che non si ha mai avuto ma di cui si sente dolorosamente la mancanza. La malinconia descritta come afflizione dell'anima è uno spazio di sospensione, un intervallo, un intreccio tra due poli dove, si potrebbe dire, gli opposti convivono, dando luogo a quella che Walter Benjamin chiama un'inquietudine irrigidita.
La malinconia non è una tristezza qualsiasi, è la felicità di essere tristi. E un sentimento che ci ricorda, un dolore raccolto e intimo. Ma-lin-co-ni-a, dal greco melanos= nero e cholè= bile. La bile nera era uno dei quattro umori corporei fondamentali della Teoria degli umori di Ippocrate. Questo temperamento è legato alla milza (lo spleen del romanticismo e di Baudelaire): gli altri, il sangue, la bile gialla e la flemma, si trovavano rispettivamente nel cuore, nel fegato e nel cervello. Per Ippocrate la melanconia era un modo di essere, un carattere. Il melancolico tende all'introflessione, alla genialità, alla chiusura e all'isolamento. Ha come caratteristica una prevalente quantità della bile nera rispetto agli altri umori. La bile nera è una forza stimolante, intensa che mette l'organismo in uno stato di tensione influenzando il suo spirito e il suo comportamento. Il temperamento malinconico è in se stesso variabile, dato che come l'acqua è a volte freddo e a volte caldo. La malinconia non smette di sgorgare, di fluire.
Quando la bile nera è fredda, il melanconico diventa rigido, torbido, immobile. All'improvviso, perde la facoltà di vedere. Come se qualcuno avesse spento un interruttore gigantesco, la luce lascia il mondo visibile. Nero è il colore del buio, ci parla del vuoto, del caos e delle origini. Un caos che può contenere ogni tipo di possibilità immaginabile e non immaginabile. Malinconia come irrompere del nero, uno stato in cui l'umore nero si trasforma in uno svuotamento dell'esistenza. Un ripensamento lento e dolce che comprime come un pezzo di carta. E' una sensazione in bilico tra la tristezza e la pienezza. Tristezza per ciò che non abbiamo più. Pienezza nel rivivere il ricordo di ciò che è stato.
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inesistenzadellio · 2 years ago
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Se mai esistesse un nocciolo puro di amore dentro di me, sarebbe costantemente contaminato da tutta una serie di costrutti interiori ed illusioni tali da renderlo alquanto debole nelle sue vibrazioni positive. Ancora di più, tutta una serie di menzogne che mi sono raccontato e tutta una serie di meccanismi di attaccamento, che mi hanno reso la realtà confusa e sconosciuta, lo hanno trasformato in fonte di dolore e mali vari verso di me e verso l'oggetto di questo amore.
Mi rendo conto, con tanta amarezza, che chi ha sempre tenuto le redini della mia relazione con te sia stato un bambino, forse alle volte adolescente, che vive nel magico mondo dove ogni cosa è costellata da un romanticismo melanconico il cui unico fine non è la felicità, ma bensì la sofferenza a cui si attacca come l'unica prova della propria esistenza e del proprio sentimento. Come se il dramma fosse l'ambiente ideale dove fare crescere l'energia di questo bambino che sennò si sentirebbe rifiutato; ma non dall'oggetto esterno a cui propone il suo amore infantile, ma da me stesso: sono io che lo rifiuto, è il mio amore che cerca.
Io non so bene perché sia così, ma mi è chiaro come io, nel rapportarmi ad una donna e ad una mancanza di reciprocità, vesta sempre le parti di quel bambino, già tanto innamorato dell'amore a 5 anni. Sono esattamente lui. E lui che per primo ha innescato tutta una serie di meccanismi di copying per gestire il rifiuto, per non essere abbandonato.
Il problema è che accanto a te, qualunque fosse la nostra relazione, avevi bisogno di un adulto, di un uomo, e invece ti sei trovata un bambino pieno di paure. Sfido io che non ne potevi più. Oltretutto questo bambino ostinato, continuava a ignorare la realtà dei fatti in cambio di una bellissima immaginazione che tanto lo cullava.
Io dovrei ammazzare questo bambino, quest'idea di un amore reciproco che mai è esistito. Dovrei farlo crescere ed in sostanza dovrei diventare un adulto cosicché possa almeno scoprire se quel nocciolo di sentimento sia mai esistito e se davvero sia stato amore; perché se lo era allora lo è ancora, e può esserlo nella più totale libertà mia e tua, sennò era solo un calesse.
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amusicalweb · 15 days ago
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Melanconico Valzer
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nonamewhiteee · 2 years ago
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16/04: l'ennesimo nuovo gruppo di qualcuno che si laurea e decide di calcolarti dopo tempo solo perché un tempo amici. odio queste finte considerazioni, l'impellente bisogno di apparire e le false parole che vengono pronunciate dai molti in queste occasioni. sono quasi le 19:00, non tocco tabacco da due giorni, sarà perché ha praticamente piovuto e basta in questo weekend e sono uscito solamente per andare all'incontro con la terapeuta ieri mattina. ho messo su una di quelle playlist instrumental synthwave che si trovano su YouTube, forse per alleviare il mio senso di alienazione, alcune frasi risuonano sulla base "potresti fare di più", "ci devi mettere anche del tuo", "se continui così ti daranno solamente altri farmaci". sconnesso, apatico, irrequieto, melanconico, continuo a ridurmi male unghia e dita.
#me
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ilpianistasultetto · 2 years ago
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Un duo intimista, sognatore, melanconico fino al midollo. Fiori dell'amore dentro note crepuscolari, canzoni intricate e oscure. Piu' che brani musicali sono storie di quieta disperazione, lacrime di paura. Perle di elettro-pop rinchiuse dentro ampolle di avorio e cristallo . Roland Orzabal e Curt Smith, due musicisti colorati di tinte dissonanti. Una musica che lascia intravvedere all'orizzonte le sponde dell'Acheronte sotto un cielo parte azzurro e parte nero..@ilpianistasultetto
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quartopiano · 2 months ago
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L'autunno è freddo e secco, generativo di umore melanconico, nelle sue qualità è contrario alla primavera e genera molte infermità, onde secondo Galeno e Ippocrate nell'autunno avvengono infermità acute e mortifere e per conseguenza l'autunno è più pestilenziale di tutti gli altri tempi. Nell'autunno si deve molto attendere a mangiar cibi buoni e laudabili perché il calor naturale è debilitato per la estate passata. [...] la melanconia se sia corrotta farà nascere il cancro, la lepra (intende la lebbra), il mal francese (intende la sifilide); il melanconico è invidioso, di mala voglia, ma anche tenace, timido, di colore del lutto.
Mela e sue proprietà e natura
La mela dolce è dotata di umidità e di acetosità, ha proprietà di confortare le membra principali quando esse sono distemperate dal caldo e massimamente agisce sul cuore e conforta il cervello per mezzo del suo odore (cioè il profumo delle mele conforta il cervello dice questo autore) ma genera grossa ventosità nella seconda e terza digestione, onde fu detto dai medici antichi che può generare la tisi ... perché i venti che di esso si generano han cattiva proprietà ad accendere le arterie del polmone. Dicono che devono essere scelte quelle che son dolci perché più temperate e dicono essere gettate quelle insipide perché sono cattive e poco nutrienti, similmente quelle ben mature sono tutte stittiche e quelle agre parimenti devono essere lasciate stare perché da esse si generano umori crudi, flemmatici, putredini che fan venire febbri (praticamente la mela da consumare non deve essere ne troppo matura ne troppo acerba, deve avere una dolcezza non eccessiva, tutte le altre vanno gettate). Il mangiar spesso mele nuoce allo stomaco, massimamente quelle fresche che nascono prima in estate (cioè sconsiglia le mele che nascono di estate o quelle troppo acerbe o colte troppo presto) mentre quelle che nascono nello autunno che son ben dolci confortano lo stomaco. E Galeno vuole che l'uomo si guardi da quei pomi che sono sull'albero che che in esso siano ben maturati, perché dice che son frigide, indigestibili... e soggiunge dicendo che qualche volta è bene mangiare mela dopo un pasto talvolta mela co'l pane per fortificare lo stomaco, dare mela e pane a chi son senza appetito, o a chi tardi digerisce, a chi tende a vomitare, massimamente quelle che tendono a vomitare ... non tanto come cibo ma come medicina. Generalmente tutte le mele sono nocive ai nervi specialmente quelle acerbe e quando se ne mangeranno molte guasterà lo stomaco... quando si colgono le mele dall'albero per conservarle, avvertasi che non siano verdi ma mature che si conservano con le mele cotogne fra orzo, paglia, gesso, o in una camera fredda ove non entri aria, distese sopra la paglia che vi si metta anche di sopra e sia il luogo asciutto. I pomi che si colgono verso lo inverno con le mani, e senza ammaccarsi, si conservano lungo tempo, massimamente colti con i suoi picciouli, impecciati con pece calda e posti in camere alte fra frondi di noci co'l picciuolo in alto.... Le frondi i rami la scorza di questo albero (albero delle mele) han virtù di restringere, mentre le mele piste scaldano le piaghe, ritenendo gli umori che non vi discendano, il pomo della mela e tutto l'albero è buono contro i veleni.
La Singolare Dottrina Di M. Domenico Romoli sopranominato Panunto Dell'ufficio dello Scalco, dei condimenti di tutte le viuande, le stagioni che si conuengono a tutti gli animali, vcelli & pesci, Banchetti di ogni tempo, & mangiare da apparecchiarsi di dì, in dì, per tutto l'anno a Prencipi : Con la dichiaratione della qualità delle carni di tutti gli animali ... ; Nel fin vn breue trattato del regimento della sanità ...
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