#Testo greco a fronte
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Asking everyone who speaks Italian, and feel free to reblog this so I can get more answers: best Odyssey and Iliad italian translation?
Additional question, best edition with testo greco a fronte? Best as in one with a good translation and notes. Testo a fronte but no notes is useless, if pretty
#I have an Odyssey home but it's falling to pieces#I've seen what looks like a good Iliad with testo greco a fronte and notes but it's around 1000 pages long#might still buy it but I kind of want to bring the thing around#so#the Odyssey is the most pressing rn#personal
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A 160 anni dalla nascita di Konstantinos Kavafis (29 aprile 1863)
KONSTANTINOS KAVAFIS “Non sono morti gli dei” . Antologia poetica con testo greco a fronte Traduzione, introduzione e note di Aldo Setaioli Pagine 224, prezzo 15 euro Graphe.it edizioni Un modo assolutamente rispettoso di leggere Kavafis, ma anche nuovo, profondamente illuminante, rivelatore di significati che forse finora erano sfuggiti a molti. Kavafis aveva l’abitudine di selezionare con…
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#Graphe.it#KOSTANTINOS KAVAFIS "Non sono morti gli dei" . Antologia poetica con testo greco a fronte
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Quando l'uomo moderno dice parola, ci si immagina generalmente una parola singola, d'abitudine un sostantivo; e quasi sempre, o almeno spesso, si pensa a una parola scritta, di solito in una scrittura fonetica. Si potrebbe dire l'alfabetizzazione della parola che, secondo Ivan Illich, è cominciata in Occidente nel XII secolo. E' il passaggio dalla letteratura monastica alla letteratura scolastica: è la comparsa del testo. La letteratura non è più una ricerca di sapienza né una lettura del libro della natura o di Dio, ma una ricerca delle opinioni degli autori (sugli argomenti di cui trattano).
Non si legge più, come avveniva fino al XII secolo, in conformità alla tradizione vedica o bramanica, per ottenere la salvezza, come un pellegrinaggio attraverso l'universo dell'uomo, ma per informarsi e diventare eruditi o potenti. I vocaboli dell'era moderna sono creazioni dell'alfabeto. Il greco primitivo non aveva nessun vocabolo che indicasse la "parola". In effetti l'alfabeto è una tecnica elegante per la visualizzazione dei suoni. Così le parole diventano atomi del discorso. La parola però non è la scrittura, così come l'alfabeto non è la lingua. Nel corso dei 650 anni della dominazione romana nel Mediterraneo non è passato per la mente a nessuno di trascrivere le lingue parlate in caratteri romani. E quando nell'850 Cirillo e Metodio tradussero la Bibbia in bulgaro, non inventarono una lingua ma un alfabeto. Le lettere non servivano per riportare ciò che diceva la gente. La scrittura era uno strumento, la parola, no: era vita. In molti testi antichi le parole non erano separate tra loro: esistevano solo le righe, e fin dall'antichità ellenica è ben nota la figura dell'anagnōstēs, il lettore. L'uomo classico non leggeva, si faceva leggere.
E' significativo che la parola anagnōstēs derivi da anagignōskō e che anágnōsis definisca l'azione di far conoscere, cioè di recitare, di leggere a voce alta per un altro. La parola, confusa con la parola alfabetizzata (e dunque scritta), è assunta volgarmente come un mezzo di espressione, perfino come il mezzo per antonomasia dell'esprimersi umano. Il mediatore si è trasformato in intermediario. Comincia qui il cedimento del linguaggio di fronte alla scrittura.
-Raimon Panikkar -Lo spirito della parola
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Di sposarsi, Maria Gaetana non ne volle mai sapere.
Terza dei 21 figli di Pietro Agnesi, patrizio milanese arricchitosi con l’industria della seta, rimase presto orfana della mamma Anna Brivio, sfinita da otto gravidanze ravvicinate.
Pochi anni più tardi, a seguirla nella tomba fu la seconda moglie del padre, spirata dopo il secondo parto.
Soltanto la terza consorte riuscì a sopravvivere al marito, seppure sfiancata dalla titanica impresa di aver messo al mondo 11 pargoli in 12 anni di matrimonio.
Ovvio che lei, a prendere marito, non ci pensò nemmeno anche perché fin da bambina il più grande desiderio di Maria Gaetana fu di consacrarsi a Dio, diventando monaca.
Se non lo fece, fu soltanto per ubbidire al babbo che di lei proprio non voleva privarsi al costo di concederle, una volta diventata ragazza, di poter “vestire semplice e decoroso, recarsi ad ogni suo arbitrio in Chiesa e totalmente lasciare i balli, i teatri e i profani divertimenti”.
Dopo tutto, ciò che maggiormente premeva a Maria Gaetana, nata a Milano il 16 maggio del 1718, oltre alla preghiera, erano gli studi, in particolare di matematica e fisica.
Intelligentissima, già a 9 anni traduceva il latino a vista e a 12, di fronte all’uditorio composto dai numerosi invitati alle “dotte adunanze” organizzate dal padre nel salotto di casa, recitava versi e orazioni in greco, francese, spagnolo, tedesco e persino ebraico.
Ventenne, sostenne davanti a un nutrito numero di professori le 191 tesi pubblicate nelle sue “Propositiones Philosophicae”, raccogliendo plauso unanime tanto che la sua fama ben presto valicò le Alpi giungendo sia nella Francia dei “Lumi”, che nell’Austria dell’Imperatrice Maria Teresa d’Asburgo cui Maria Gaetana nel 1748 dedicò le sue “Instituzioni Analitiche ad Uso della Gioventù Italiana”, ricevendone in cambio un anello di diamanti.
Si trattava del primo vero e proprio manuale di algebra, geometria e calcoli differenziali mai scritto in Europa “ad usum studentium”, un’opera colossale in due volumi per un totale di oltre mille pagine subito tradotta in francese e inglese, nota anche perché per la prima volta vi si descriveva una curva particolare, poi denominata “la versiera di Agnesi”.
Il successo fu immediato e clamoroso, tanto che l’eco di Maria Gaetana giunse anche a Roma, dove Papa Benedetto XIV da buon bolognese aveva già preso sotto la sua ala protettrice la concittadina Laura Bassi, prima docente donna dell’Università di Bologna.
Papa Lambertini nel 1750 avrebbe voluto insignirla della seconda cattedra “al femminile” dell’Ateneo bolognese, quella di matematica, ma si sentì opporre un garbato rifiuto dall’interessata che, dopo la morte del padre, decise di vendere tutti i suoi averi e farsi povera fra i poveri per soccorrere indigenti e bisognosi sull’esempio della sorella Paola, fondatrice del milanese “Ospedale Fatebenesorelle”.
Diventata suora laica, pur continuando a dispensare pareri ai matematici e fisici che la consultavano da tutta Europa, nel 1771 Maria Gaetana fu nominata dal Cardinale Pozzobonelli, Arcivescovo di Milano, “visitatrice” delle ospiti donne del neo istituito “Pio Albergo Trivulzio”, di cui nel 1783 avrebbe assunto la direzione per mantenerla sino alla morte.
Quando spirò il 9 gennaio del 1799, lo storico monzese Antonio Francesco Frisi le dedicò un “Elogio” sul cui frontespizio campeggiava la seguente frase latina, tratta dal “De Agricola” di Tacito: “Dissimulatione famae famam auxit”, che significa “Dissimulando la sua fama, l’accrebbe”.
Senza dubbio il miglior epitaffio per una Donna meritevole di ben altri riconoscimenti, che l’intitolazione di qualche strada di periferia.
Accompagna questo scritto un’effigie postuma di Maria Gaetana Agnesi.
(Testo di Anselmo Pagani. Riproduzione consentita se indicante il nome dell’autore).
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METAFISICA CONCRETA (parte II)
(segue) Nessuna sostanza avrebbe in sé il fondamento del proprio apparire come sostiene lo stesso Spinoza. È evidente che il problema non è quello della sua esistenza, ma della necessità che il “Fondo” che la “Sostanza”, benché possa essere coniugata e nominata con vari termini, riporti sempre alla metafisica, in base alla quale, analogamente ai principi razionali, la nostra mente, sola tra tutti i viventi, elabora una scienza della natura che trascende la dimensione meramente empirica. Però la metafisica è sempre chiamata a giustificarsi di fronte al tribunale della scienza in uno scambio di ruoli: “non più il metafisico contiene nel suo ambito lo scientifico, ma è quest’ultimo che assume il potere di concedere diritto di cittadinanza al primo, ovviamente a condizione che anche questa sappia legittimarsi in quanto scienza” (pagina 164). Il conoscere non può essere sola ‘empiria’ e neppure soltanto osservazione-comprensione sulla base di forme a-priori. E su questo Cacciari appare categorico: “La scienza deve iniziare da una estetica trascendentale, dalla costituzione originaria del nostro Dasein. Ma un oggetto potrebbe essere pensato, mai potremmo formarcene un concetto se non disponessimo della capacità di riceverlo e di rappresentarlo” (pagina 176). Il “philosophein” sembra dover rispondere all’aut-aut tra il rigore della dimostrazione scientifica e l’intrascendibile angoscia dell’esserci. Un altro caposaldo del complesso ragionamento cacciariano è certamente quello che potremmo riassumere come l’ambito del possibile (confine che la scienza non può permettersi di superare ma nemmeno di comprendere a fondo senza l’aiuto della metafisica). L'indicibile, insomma è definito solo dal limite dell'osservabile-misurabile. Cacciari in questo ragionamento fa ricorso anche alle parole di Hanna Arendt che definisce ‘reale’ come il tutto compreso l'infinitamente improbabile. Il mondo reale è tutto ciò che accade e non qualcosa di ‘contenuto in potenza’ in una sua origine. Il tema dell'essente non può eludere il tema della morte: "Chiamo morte soltanto la vita che non vedo" confermando così l’assoluta convinzione del ruolo fondamentale della metafisica e aggiunge "Da dove verrebbe una sola molecola del mio corpo se non fosse sempre esistita?" (pagina 294), ed è la mente che dispone della facoltà di impedire o ritardare l'inevitabile collasso del corpo che la contiene e il testo lo dice chiaramente (e poeticamente): "Il corpo dei fotoni, come ogni altro, deve decadere, ma la sua decadenza è riassorbita nella stessa Energia che li ha prodotti..." (pagina 324). Del resto lo stesso Heidegger affermava che "l'esserci incontra la propria morte come l'estrema possibilità d se stesso". E la casistica dei sostenitori di una "metafisica concreta" si estende anche molti altri pensatori fino ad arrivare ad Emanuele Severino (di cui nella stessa collana Adelphi fu pubblicato nel 2007 l'incommensurabile "Oltrepassare”). Il sapere certo (‘epistéme’) quello sul quale si basano i paradigmi delle scienze esatte, anzi quelli creati appunto dalle scienze esatte, non riescono a dar conto di quell’Uno o meglio quello ’s-fondo’ come lo chiama Cacciari, che altro non è che la conoscenza trascendente non raggiungibile nemmeno attraverso la conoscenza intuitiva (‘noesis’ per usare il termine greco). La via maestra per arrivare a questa conoscenza fondamentale e fondante è quella metafisica. La conclusione della disamina cacciariana è perentoria e condivisibile: “L’esperienza dello ‘scientifico’ è un cammino di approssimazione che non esclude affatto precisione ed esattezza. La vera metafisica è essenzialmente solidale con questo cammino; essa non fa che interrogarlo sulla sua ragion d’essere, sulla sua origine, sulla sua destinazione. Da tale interrogazione possono sorgere, e sono sorte, intuizioni e scoperte determinanti nello sviluppo degli stessi saperi particolari…” Un volume sul quale vale la pena soffermarsi per metodo, profondità ed erudizione. Una prova di lettura molto impegnativa ma che come per la letteratura “radice amaras, fructus dulcis”
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Girare un film; l'abc della regia; Poetica. testo greco a fronte; Girare difficile; La sceneggiatura. Il film sulla carta
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Non sono morti gli dèi - Traduzione, introduzione e note di Aldo Setaioli - Graphe.it Edizioni
Non sono morti gli dèi Konstantinos Kavafis Kavafis e l’eredità dell’Ellenismo Antologia poetica con testo greco a fronte Traduzione, introduzione e note di Aldo Setaioli Graphe.it Edizioni Un modo assolutamente rispettoso di leggere Kavafis, ma anche nuovo, profondamente illuminante, rivelatore di significati che forse finora erano sfuggiti a molti. Kavafis aveva l’abitudine di selezionare con…
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#Aldo Setaioli#Graphe.it edizioni#Kavafis e l&039;eredità dell&039;Ellenismo#Konstantinos Kavafis#Non sono morti gli dèi
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Quesito Esimio e spettabile Padre Bellon Le scrivo per chiederle un chiarimento riguardo alla situazione di una mia conoscente che asserisce quanto segue 1) che è favorevole all’aborto 2) che è favorevole alle unioni omosessuali 3) che la chiesa (testuali parole) dovrebbe svecchiarsi per quanto riguarda questi temi e dichiararli normali o comunque che non siano peccati Io le chiedo, se questa mia conoscente può considerarsi eretica (e di specificarmi anche se eterodossia e eresia sono termini sinonimi) e se può incorrere in scomunica per queste sue tesi o no. Tra l’altro le chiedo se un cristiano cattolico sia libero di esaminare le sacre scritture, magari anche basandosi sui cosiddetti vangeli apocrifi ecc perché nella mia discussione con lei mi ha citato un testo aramaico in cui la vergine Maria non era stata definita vergine ma solo fanciulla ma dopo non so dove voleva andare a parare (magari non crede alla sua verginità? Non le so dire) anche perché mi sa da protestantesimo e poi se si è dentro la chiesa si dovrebbe seguire il magistero la tradizione dei padri della chiesa e dei concili). Sinceramente vostro Nicolò Tobia Risposta del sacerdote Caro Nicolò Tobia, 1. è necessario distinguere tra Magistero definitorio e Magistero definitivo. 2. Il Magistero definitorio è infallibile e sancisce verità di fede e cioè dogmi. Chi rifiuta il dogma è eretico e pertanto è scomunicato. Il magistero definitorio può essere espresso solo da un Concilio ecumenico oppure dal Papa quando parla ex cathedra. 3. Il Magistero definitivo viene espresso dal Papa quando dichiara la sua autorevolezza nel definire l’insegnamento della Chiesa. Questo emerge dal modo in cui si esprime e dal costante ribadimento di quella dottrina. Può essere anche frutto del Magistero collegiale e cioè del Papa con i vescovi sparsi per l'orbe terracqueo. Il Magistero definitivo, come ricorda la Lumen gentium del Concilio Vaticano II al numero 25, è ugualmente infallibile. Tuttavia questo insegnamento non viene sancito come dogma di fede o di morale per non porre i fedeli di fronte ad un aut aut, o dentro o fuori. La Chiesa, che è madre, è desiderosa della salvezza di tutti i suoi figli e pazienta con quelli che faticano ad aderire al Magistero su alcuni punti. Per questo chi non aderisce a questo insegnamento sbaglia e commette peccato. Ma non è eretico e conseguentemente non è scomunicato. 4. Il magistero sull'aborto e sull'eutanasia appartiene al Magistero definitivo della Chiesa, come si è espresso Giovanni Paolo II nell'enciclica Evangelium vitae. Ugualmente è Magistero definitivo è quello sulla contraccezione e sulla sodomia. Pertanto la tua conoscente, per quanto nell'errore, non è eretica. 5. Sono eterodossi quelli che si discostano dalla dottrina della chiesa. Ma poiché la dottrina della Chiesa si esprime in maniera definitiva e definitoria, sono eretici solo gli eterodossi sulla dottrina definitoria. Gli eterodossi nella dottrina definitiva, per quanto siano nell'errore come ad esempio la tua conoscente, non sono eretici. 6. Le Sacre Scritture vanno interpretate secondo la Tradizione definita dal Magistero della Chiesa. Questo perché è la Tradizione determinata dal Magistero della Chiesa che ci ha consegnato le Sacre Scritture. 7. I criteri secondo cui va intesa la Tradizione, e conseguentemente la Scrittura, sono tre e sono quelli determinati dai Santi Padri: quod ubique, quod a semper, quod ab omnibus creditum est: ciò che dovunque, ciò che da sempre, ciò che da tutti è stato creduto. 8. La parola almah di cui parla il capitolo 7,14 di Isaia, da sempre, dovunque e da tutti è stato creduto in riferimento ad una vergine. Quando la Sacra Scrittura è stata tradotta dagli ebrei in greco (è la versione cosiddetta dei LXX, Settanta) almah è stata tradotto con parthenos, e cioè con vergine. La versione dei LXX, che è stata attuata tra il 250 e il 100 a.C., era ritenuta ispirata dagli stessi ebrei e gode
va pertanto di un altissimo valore. 9. Come ho già avuto occasione di ricordare in altre risposte, almah significa giovane donna, giovane ragazza. Significa anche vergine. I LXX hanno optato per vergine. Perché? Perché il significato comune che da tutti veniva dato a quella profezia era proprio in riferimento ad una vergine. D’altronde che profezia sarebbe quella di indicare che una donna stava per partorire? Quante altre partorivano! I LXX, pertanto, sono rimasti fedeli alla Tradizione. Opportunamente la Bibbia di Gerusalemme annota: “Il testo dei LXX è un testimone prezioso dell’interpretazione giudaica antica”. Ti ringrazio dei quesiti, ti benedico, ti auguro ogni bene e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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cerchiamone una col testo latino a fronte anche se il mio latino fa cagare ma perché non sono capace a leggere e tradurre perché in 5 anni di classico latino e greco si devono fare così una chiavica e perché in 5 anni non ho imparato un cazzo porco dioooo
i should actually read the pharsalia shouldnt i
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[Poesie e prose][Konstantinos Kavafis]
Per la prima volta vengono pubblicate tutte le poesie di Konstantinos Kavafis (comprese le Poesie incompiute, mai edite in italiano) assieme alle sue prose più significative. Un volume – con il testo greco a fronte, corredato di ampi commenti, indici e una sezione iconografica – che permetterà di cogliere i molteplici aspetti di una straordinaria esperienza letteraria. Kavafis non volle mai…
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#Cristiano Luciani#Grecia#Κωνσταντίνος Καβάφης#Konstantinos Kavafis#Konstantinos Petrou Kavafis#letteratura gay#LGBT#LGBTQ#libri gay#poesia#Poesie e prose#poetry#Renata Lavagnini#Testo greco a fronte
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Lettera a Pier Paolo Pasolini
di Oriana Fallaci
[...] Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce.
V’era una dolcezza femminea in te, una gentilezza femminea. Anche la tua voce del resto aveva un che di femmineo, e ciò era strano perché i tuoi lineamenti erano i lineamenti di un uomo: secchi, feroci.
Sì esisteva una nascosta ferocia sui tuoi zigomi forti, sul tuo naso da pugile, sulle tue labbra sottili, una crudeltà clandestina. Ed essa si trasmetteva al tuo corpo piccolo e magro, alla tua andatura maschia, scattante, da belva che salta addosso e morde. Però quando parlavi o sorridevi o muovevi le mani diventavi gentile come una donna, soave come una donna.
Ed io mi sentivo quasi imbarazzata a provare quel misterioso trasporto per te. Pensavo: in fondo è lo stesso che sentirsi attratta da una donna.
Come due donne, non un uomo e una donna, andavamo a comprare pantaloni per Ninetto, giubbotti per Ninetto, e tu parlavi di lui quasi fosse stato tuo figlio: partorito dal tuo ventre, e non seminato dal tuo seme. Quasi tu fossi geloso della maternità che rimproveravi a tua madre, a noi donne. Per Ninetto, in un negozio del Village, ti invaghisti di una camicia che era la copia esatta delle camicie in uso a Sing Sing. Sul taschino sinistro era scritto: "Prigione di Stato. Galeotto numero 3678". La provasti ripetendo: «Deliziosa, gli piacerà».
Poi uscimmo e per strada v’era un corteo a favore della guerra in Vietnam, ricordi? Tipi di mezza età alzavan cartelli su cui era scritto: "Bombardate Hanoi" e ci restasti male. Da una settimana ti affannavi a spiegarmi che il vero momento rivoluzionario non era in Cina né in Russia ma in America.
«Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest e avverti che lì la rivoluzione è fallita: il socialismo ha messo al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxista come me possa scoprire. I rivoluzionari di qui fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in essi la stessa assolutezza di Cristo. M’è venuta un’idea: trasferire in America il mio film su San Paolo».
Della cultura americana assolvevi quasi tutto, ma quanto soffristi la sera in cui due studen-tesse americane ti chiesero chi fosse il tuo poeta preferito, tu rispondesti naturalmente Rimbaud, e le due ignoravano chi fosse Rimbaud. Per questo lasciasti New York così insoddisfatto? [...]
Dicono che tu fossi capace d’essere allegro, chiassoso, e che per questo ti piacesse la compagnia della gioventù: giocare a calcio, ad esempio, coi ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così.
La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situa-zione umana che tu capissi veramente. Se una persona non era infelice, non ti interessava. Ricordo con quale affetto, un giorno, ti chinasti su me e mi stringesti un polso e mormorasti: «Anche tu, quanto a disperazione, non scherzi!» Forse per questo il destino ci fece incontrare di nuovo, anni dopo. Fu a Rio de Janeiro, dov’eri venuto con Maria Callas: in vacanza. [...]
Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di San Francesco. Una volta mi hai parlato anche di Sant’Agostino, del peccato e della salvezza come li vedeva Sant’Agostino.
È stato quando mi hai recitato a me-moria il paragrafo in cui Sant’Agostino racconta di sua madre che si ubriaca. Ed ho compreso in quell’occasione che cercavi il peccato per cercar la salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza.
Però ciò che mi dicesti su Gesù Cristo e su San Francesco, mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di Copacabana, mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita. Non a caso l’ho usato nel mio libro che non hai voluto leggere. L’ho messo in bocca al bambino quando interviene al processo contro la sua mamma: «Non è vero che non credi all’amore, mamma. Ci credi tanto da straziarti perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto. Tu sei fatta d’amore. Ma è sufficiente credere all’amore se non si crede alla vita?»
Anche tu eri fatto d’amore. La tua virtù più spontanea era la generosità. Non sapevi mai dire no. Regalavi a piene mani a chiunque chiedesse: sia che si trattasse di soldi, sia che si trattasse di lavoro, sia che si trattasse di amicizia. A Panagulis, per esempio, regalasti la prefazione ai suoi due libri di poesie. E, verso per verso, col testo greco accanto, volesti controllare perfino se fossero tradotte bene.
Ci ritrovammo per questo, rammenti. Riprendemmo a vederci quando lui fu scarcerato e venne in esilio in Italia. Andavamo spesso a cena, tutti e tre. E mangiare con te era sempre una festa, perché a mangiare con te non ci si annoiava mai. Una sera, in quel ristorante che ti piaceva per le mozzarelle, venne anche Ninetto. Ti chiamava "babbo". E tu lo trattavi proprio come un babbo tratta suo figlio, partorito dal suo ventre e non dal suo seme.
Lasciarti dopo cena, invece, era uno strazio. Perché sapevamo dove andavi, ogni volta. E, ogni volta, era come vederti correre a un appuntamento con la morte. Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: «Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!». Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu. E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre teppisti t’avrebbero schiacciato il cuore. Ti maledicevo. Ma poi l’odio si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: «Che uomo coraggioso!» Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello che ti faceva scrivere in cambio di contumelie, incomprensioni, offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisognava avere un gran fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato dei cristiani che insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi sbranare dai leoni.
Ventiquattr’ore prima che ti sbranassero, venni a Roma con Panagulis. Ci venni decisa a vederti, risponderti a voce su ciò che mi avevi scritto. Era un venerdì. E Panagulis ti telefonò da casa mia, alla terza cifra si inseriva una voce che scandiva: «Attenzione. A causa del sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’Eur il servizio dei numeri che incominciano col 59 è temporaneamente sospeso». L’indomani accadde lo stesso. Ci dispiacque perché credevamo di venire a cena con te, sabato sera, ma ci consolammo pensando che saremmo riusciti a vederti domenica mattina.
Per domenica avevamo dato appuntamento a Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai in piazza Navona: prendiamo un aperitivo e poi andiamo a mangiare. Così verso le dieci ti telefonammo di nuovo. Ma, di nuovo, si inserì quella voce che scandiva: attenzione, a causa del sabotaggio il numero non funziona.
E a piazza Navona andammo senza di te. Era una bella giornata, una giornata piena di sole. Seduti al bar ‘Tre Scalini’ ci mettemmo a parlare di Franco che non muore mai, ed io pensavo: mi sarebbe piaciuto sentir Pier Paolo parlare di Franco che non muore mai. Poi si avvicinò un ragazzo che vendeva l’Unità e disse a Pajetta: «Hanno ammazzato Pasolini».
Lo disse sorridendo, quasi annunciasse la sconfitta di una squadra di calcio. Pajetta non capì. O non volle capire? Alzò una fronte aggrottata, brontolò: «Chi? Hanno ammazzato chi?» E il ragazzo: «Pasolini». E io, assurdamente: «Pasolini chi?» E il ragazzo: «Come chi? Come Pasolini chi? Pasolini Pier Paolo». E Panagulis disse: «Non è vero». E Miriam Mafai disse: «È uno scherzo». Però allo stesso tempo si alzò e corse a telefonare per chiedere se fosse uno scherzo. Tornò quasi subito col viso pallido. «È vero. L’hanno ammazzato davvero».
In mezzo alla piazza un giullare coi pantaloni verdi suonava un piffero lungo. Suonando ballava alzando in modo grottesco le gambe fasciate dai pantaloni verdi, e la gente rideva. «L’hanno ammazzato a Ostia, stanotte», aggiunse Miriam.
Qualcuno rise più forte perché il giullare ora agitava il piffero e cantava una canzone assurda. Cantava: «L’amore è morto, virgola, l’amore è morto, punto! Così io ti piango, virgola, così io ti piango, punto! »
Non andammo a mangiare. Pajetta e la Mafai si allontanarono con la testa china, io e Panagulis ci mettemmo a camminare senza sapere dove. In una strada deserta c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Si entrò seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: «Ma è vero? È vero?» E la padrona del bar chiese: «Vero cosa?» E il giovanotto rispose: «Di Pasolini. Pasolini ammazzato». E la padrona del bar gridò: «Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! Ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!» Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?
Roma, novembre 1975
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English Book Review: "L'India. Testo greco a fronte" by Arrian
English Book Review: “L’India. Testo greco a fronte” by Arrian
Quotes in italian: HERE.
Recensione in italiano: QUI.
Good day everyone, thank you for being once again on Alessandro III di Macedonia- your source on Alexander the Great. Today I review the second of the fundamental readings of the “classics” on Alexander that I still lacked to read and that I am recovering. Today I tell you about:
L’India– testo greco a fronte by Arriano Introductory…
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Che cosa ha ancora da dirci quel godereccio di Plauto, il drammaturgo che amava i pettegolezzi? Guardate l’“Asinaria”: la verve verbale disseziona tutti i nostri vizi
“L’unica differenza tra un santo e un peccatore è che ogni santo ha un passato mentre ogni peccatore ha un futuro”. Oscar Wilde.
*
Il passato è passato, ed è un tempo che non torna più. Però poi accade che subentri la curiosità e quei due spiccioli di studi spesi all’Università di Urbino alla fine degli Anni Novanta, specie quando vedi il traguardo finale, specie quando ti rimangono da superare gli esami di latino. La lingua dei padri non è morta, anzi: dipende dai padri che ti sono capitati, e da che storia ti vogliono raccontare.
*
Il latinorum è un terreno carsico: ti intimorisce ma poi quando lo calpesti, inevitabilmente ti affascina e ti inghiotte. Di quegli anni mi sono rimaste una manciata di voragini e una perla. Lustrata per bene. “Aulularia” – monografico dell’ultimo esame, “Latino 2” – è un testo verticale, da studiare con attenzione perché scioglie la ruga iniziale cheti si piazza sulla fronte. “Aulularia” è l’ascia del montanaro che si abbatte sul tronco. Scende con forza, precisa come una goccia d’acqua che cerca il suo spazio all’interno di una grotta. E sfascia, affastella, miete.
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Evclio Senex: “Ostende huc manus”. Strobilvs Servvs: “Em tibi, ostendi, eccas”. Evclio: “Video. Age ostende etiam tertiam”. (Euclione: “Mostrami le mani”. Servo: “A te. Ecco, te le ho mostrate”. Euclione: “Vedo. Su, mostrami la terza”).
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Nulla è stato inventato e tutto è già stato scritto: “Aulularia” è più o meno “L’avaro” di Molière (1668) e di Carlo Goldoni (1765) ma con ingredienti più veraci, che ti si piantano tra il palato e gli occhi, e creano sinapsi vibranti.
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Un assaggio è un antipasto che richiede il proseguimento del viaggio, anche a distanza di tempo. E se davvero “saper rivivere con piacere il passato è vivere due volte” (Marziale), la proposta del Plautus Festival 2019 ricolma quelle discese verso l’ignoto: qual è l’attualità di un testo scritto oltre 2 mila anni fa? Che effetto può avere oggi la fantasia immaginifica del poeta di Sarsina sugli spettatori di questo secolo? La risposta è racchiusa in un titolo, “Asinaria”, lì dove gli asini ovviamente non sono gli spettatori (forse) ma semplicemente animali inseriti come cardi o qualche spezia preziosa nell’humus teatrale dell’opera, utili per avere un pre-testo e dare un nome accattivante alla storia.
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“Asinaria” è in prima battuta una nota da imparare per non fare figure barbine: il teatro non è nato con William Shakespeare (non è una battuta: è stata davvero la risposta di un ragazzo in occasione di un esame all’Università) ma affonda le sue radici nell’epoca a.C. (avanti Cristo naturalmente, non Alessandro Carli), più o meno 500 anni prima della nascita di Gesù, in Grecia.
E in questa “Asinaria” che ha debuttato in anteprima a Sarsina il 4 agosto (e che ha visto in scena Giorgio Marchesi, Barbara Abbondanza, Lorenzo Branchetti, Michele Di Giacomo, Camillo Grassi, Alessandro Pieri, Gabriela Praticò, Daniele Romuladi e dagli allievi della Bottega del Teatro “Franco Mescolini” Mattia Bartoletti Stella, Sofia Brigliadori, Laura Caminati, Sara Forlivesi, Maria Giovanna Pasini, Irene Zanchini) ci sono personaggi piuttosto attuali, come ad esempio la bella Fregnadora, una escort d’antan che, come chiarisce bene il nome, non lascia dubbi interpretativi: una “cortigiana” fighetta e tirata che fa perdere la testa a un ragazzo, il giovane Argirippo. Il giovincello, stregato dal fascino e dalle grazie dell’avvenente pulzella, vorrebbe tenerla tutta per sé e giacere con lei non una ma mille e mille volte ma non ha i soldi per farlo e così viene aiutato dal padre Demeneto (che probabilmente nella sua vita ha già pagato per scopare) a condizione però che questi gli conceda una notte d’amore con la ragazza. Ma tra i pretendenti della bella figliuola c’è anche Diavolo, che ha promesso di versare a Cleereta, tenutaria del bordello e madre della ragazza contesa, la somma necessaria per ottenere gli stessi duraturi favori…
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“Un coro di meretrices commenta, contrappunta e accompagna le traversie dei personaggi protagonisti, e che allude nei modi e nelle espressioni alla realtà delle case chiuse dell’Italia del Ventennio, cui anche diversi contributi musicali fanno riferimento” scrive nelle note di regia Gigi Palla.
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La mise en scene funziona egregiamente: allestimento minimalista quindi senza barocchismi e sovrastrutture che appesantiscono (o coprono le falle del testo), alcune battute “piccanti” – ed è questa la forza di Plauto – che sanno ancora far abbassare gli occhi agli spettatori. Non è semplice pudore, questo va detto: la vis verbale e la scrittura di Plauto sono una lama tagliente sulle abitudini, sui vizi e sui difetti del genere umano. Un coltello che affetta, ma per il semplice gusto di scatenare una risata. Un godereccio, il sarsinate, lontano e diverso da Terenzio e dalla sua dimensione psicologica dei personaggi: all’autore piace mostrare al pubblico i lati più festosi e goliardici dell’uomo, i piaceri del corpo. Siamo fatti di carne, e quella carne vuole trovare una forma di soddisfazione appagante. Sia che si tratti di mangiare, di bere o dei piaceri del letto, l’obiettivo è sempre quello di riempirsi la pancia.
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Il coro che introduce alla palliata – che in lontananza accenna al tema delle case chiuse del Ventennio – entra a bordo di un carro, accompagnato dalle note della versione live PFM di “Bocca di rosa” di Fabrizio De André (ma senza parole, solo la musica). Interessante la caratterizzazione data ai personaggi, soprattutto dal punto di vista linguistico: romagnolo, toscano, romanesco su tutti, così piacevole e congeniale alla mise en scene quel tocco di fellinismo nella scelta “fisica” delle prostitute, vagamente “busty”. Qualche chilo in più quindi, ma portato con straordinaria leggerezza.
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“La grande comicità generata dalle commedie di Plauto è prodotta da diversi fattori: un’oculata scelta del lessico, un sapiente utilizzo di espressioni e figure tratte dal quotidiano e una fantasiosa ricerca di situazioni che possano generare l’effetto comico. È grazie all’unione di queste trovate che si ha lo straordinario effetto dell’elemento comico che traspare da ogni gesto e da ogni parola dei personaggi. Questa uniforme presenza di comicità risulta più evidente in corrispondenza di situazioni ad alto contenuto comico. Infatti Plauto si serve di alcuni espedienti per ottenere maggior comicità, solitamente equivoci e scambi di persona. L’autore fa uso anche di espressioni buffe e goliardiche che i vari personaggi molto di frequente pronunciano; oppure usa riferimenti a temi consueti, luoghi comuni, anche tratti dalla vita quotidiana, come il pettegolezzo delle donne. La lingua che usa è composita e formata da elementi eterogenei, quali grecismi, neologismi, arcaismi e sermo familiaris. È presente inoltre l’italum acetum, comicità popolare italica fatta di doppi sensi, allusioni e giochi di parole”.
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Demeneto, il papà di Argirippo, ordina ai suoi due servi Leònida e Lìbano di derubare la moglie Artèmona visto che, da buona matrona, tiene per sé tutto il patrimonio familiare, così da concedere una notte d’amore al figlio con la puttanella. I due servi, spacciandosi per gli amministratori della padrona, riescono a portare a termine il furto ai danni di un mercante che doveva venti mine d’argento ad Artèmona per l’acquisto di alcuni asini (da qui il nome della commedia).
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Forse anche Carlo Collodi ha attinto da Plauto: la scena del gatto e la volpe di “Pinocchio” è già ben descritta in “Asinaria” quando i due servi furbi cercano di avere le 20 mine da un apparente servo romagnolo invornito che alla fine non si va menare per il naso. Collodi ha semplicemente reso meno comico il dialogo.
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Attorno al 211 A.C. – anno in cui gli studiosi collocano la palliata – la Chiesa non era ancora presente in Italia e quindi non poteva lanciare gli anatemi moralistici contro la nazione. È stata questa la fortuna delle opere di Tito Maccio Plauto? Probabilmente no. Sarebbe riduttivo anche se una certa libertà di espressione (e quindi di messa in scena) è stata agevolata dalla religione romana dell’epoca, politeista e caratterizzata dalla razionalità più pratica in cui predominavano i principi utilitaristici.
Nel II Secolo a. C. inoltre Roma mise al bando i Baccanali e il culto dionisiaco. Quindi quasi per contrasto – la privazione aumenta la voglia di proibito – poter vedere a teatro (il luogo dove tutto è consentito) quello che sino a ieri era legittimo si è trasformato, assieme alla immensa capacità dell’autore di “leggere” il suo tempo, in una polveriera straordinaria, capace di richiamare un vasto pubblico.
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I piaceri della vita si trovano anche in alcuni testi di Aristofane, autore filtrato dai professori di greco, preoccupati a non dare in pasto ai giovani adolescenti parole zozze che li possano ormonare. “La pace” per esempio si chiude allora con un komos nuziale condito da lazzi salaci, oscenità e piccanti allusioni. Ne “Le rane” si legge questo dialogo. Ancella: “Ma tu stai scherzando! Non ti lascio andare, sai. E poi… (ammiccando) dentro c’è per te una flautista bellissima e due o tre danzatrici”. Xantia (con interesse): “Come hai detto? Danzatrici?”. Ancella: “Tenerine e appena depilate”.
Non è da meno “Le donne al Parlamento” dove le protagoniste decidono di tentare di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio di loro. Le donne, camuffate da uomini, si insinuano nell’assemblea e votano il provvedimento. Una volta al potere, deliberano che tutti i possedimenti e il denaro vengano messi in comune per essere amministrati saggiamente dalle donne. Questo vale anche per i rapporti sessuali: le donne potranno andare a letto e fare figli con chiunque loro vogliano. Tuttavia, siccome questo potrebbe favorire le persone fisicamente belle, si decide anche che ogni uomo, prima di andare con una donna bella, sia tenuto ad andare con quelle brutte, e viceversa. Queste delibere però creano una situazione assurda e paradossale: verso la fine della commedia, un giovane confuso e spaventato si ritrova conteso fra tre ripugnanti megere che litigano per assicurarsi i suoi favori.
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“Asinaria” è la conferma della poetica di Plauto: tempi stretti e battute a fulmicotone, immediate e capaci di scatenare la risata grassa e immediata. Quello che viene detto è quello che l’autore vuole dire. Il tema principale attorno cui ruotano le vicende da lui trattate, il vizio, non è fine a se stesso: è un elemento occasionale volto alla costruzione della scena comica. Plauto è un maestro dei doppi sensi, i giochi di parole, i neologismi, le esagerazioni, le metafore. Ricorre volentieri a dialoghi forsennati e a botta e risposta di insulti. Non vuole lanciare messaggi morali: il suo scopo è di divertire il pubblico, e ci riesce.
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Strano, oggi, parlare di “teatro di parola” quando la drammaturgia contemporanea si sposta sempre più verso le performance. Bizzarro e stridente scrivere di “pubblico numeroso” quando l’azione nuova chiede spettatori contati. Eppure il teatro è esattamente questo: qualcosa per qualcuno. E “Asinaria” lo chiarisce alla perfezione: c’è una storia che si capisce. C’è una trama che è chiara e fruibile a tutti e non a solo a quei pochi eletti che appartengono all’intellighenzia teatrale 4.0, penne da tastiera pronte a scrivere che un micromovimento o un gioco di luci particolare colto solo da chi ha uno sguardo educato ha un effetto evocativo che sottende e rappresenta il chiavistello d’ingresso al mistero oscuro della mente dell’autore.
Cazzate. Vado a teatro e voglio vedere qualcosa, e soprattutto voglio comprendere quello che avviene. Se una storia non arriva in platea è una storia che non merita di essere rappresentata.
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Un raglio cristallino, ieri come oggi. Anzi, forse oggi ancora più acuto e ficcante.
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Sipario.
Alessandro Carli
*In copertina: il nostro critico teatrale promuove, lingua al vento, “la meraviglia del teatro classico”
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WILAR (What I Learnt about Research), Parte Seconda. La magia della matematica.
Non comincerò parlando di cose quotidiane. Preferisco cominciare con una citazione - con un testo che (ahimè) non è mio - con l'intenzione di far intendere, o intuire, qual è lo spirito, l'humus in cui si muove la mente e i desideri di chi fa ricerca, sin dai primi passi. Prima di tutto lo stupore per la linearità e la bellezza platonica del mondo, bellezza che si crede di poter trovare e ricostruire con formule chiare, lineari, potenti e scientificamente evocative.
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Il ricercatore, è un bambino e al tempo stesso un mago, un sacerdote, che va alla ricerca delle tracce dell'armonia di Dio nell'universo. E qual è il primo luogo di armonia, di perfezione ideale e platonica, di correlazione mistica tra gli enti e i concetti che hanno potenze infinite e dimensioni metafisiche? La matematica. L'odiatissima matematica che per il ricercatore puro significa abbandono della contingenza, spinta verso l'ultraterreno, e viaggio nelle braccia metafisiche della logica divina.
Riporto qua la bellissima descrizione (la parte iniziale, prosegue con una dimostrazione che non riporto per ora) della cosidetta formula di Eulero-Lindemann. Quella che è stata chiamata la formula più "bella" della matematica, proprio da quel Feynman che citavo alcuni giorni fa. Ma leggiamo che dice l'autore del pezzo.
La prima volta che ci si imbatte nella formula di Eulero [nota: vedi qui sopra] non si può fare a meno di rimanere "scioccati", oltre che un po’ increduli, di fronte al mistero che la sua semplicità racchiude in così pochi simboli. Numeri che provengono da contesti della matematica completamente diversi incrociano i loro destini in un’uguaglianza che più semplice non si poteva.
Di fronte a quella che dalla maggior parte dei matematici è considerata “La” formula più bella della matematica, l’eminente professore, proprio come il suo allievo, trova una difficoltà insormontabile nel tentare di percepirne fino a fondo il significato, e non può che arrendersi nel constatare una profondità più grande di lui. Come mai le due costanti e e π, provenienti da differenti ambiti della matematica, sono legate tramite il numero immaginario i in un modo così bizzarro? Talvolta capita che gli studenti siano addirittura tentati di “rifiutare” l'esistenza dei numeri immaginari, in quanto lontani dalla realtà e apparentemente artificiosi, eppure mai come in questo caso entità così astratte si rivelano intimamente legate ai più elementari dei numeri naturali: l’uno e lo zero.
Si dice che Gauss, forse il più grande e prolifico matematico di tutti i tempi, un giorno abbia ironicamente commentato che, se ad una persona la formula non appare immediatamente ovvia,questi non potrà mai essere un grande matematico! In effetti la dimostrazione è relativamente semplice per chi abbia un minimo di dimestichezza con i numeri complessi e il calcolo integrale...Anche dopo averla accettata, però, la dimostrazione non darà mai la soddisfazione di svelare completamente il profondo segreto che la formula sembra nascondere in sé.
Richard P. Feynman, fisico americano premio Nobel nel 1965 per i suoi studi sull’elettrodinamica quantistica, fu uno dei primi ad eleggerla “formula più bella di tutti i tempi”, quando all’età di 13 anni la inserì con tale appellativo nel suo quaderno di liceale. E come dargli torto? La prima cosa che si nota è che compaiono, una dopo l'altra, come in rassegna, tutte le entità fondamentali della matematica: la costante di Nepero (e = 2,7182818...), il valore di pi greco (π =
3,14159265...), l’unità immaginaria i (radice quadrata di –1), il numero 1 (elemento neutro per la moltiplicazione) e il numero 0 (elemento neutro per la somma).
Anche dal punto di vista storico, i concetti che vengono evocati spaziano attraverso le epoche e i luoghi che hanno fatto la storia della matematica: si pensi al periodo aureo della geometria greca (costante π), agli influssi della matematica indiana, che introdusse il concetto di zero, al dibattito rinascimentale italiano fra Tartaglia e Cardano relativamente alla risoluzione delle equazioni di terzo grado (unità immaginaria i), per poi passare alla nascita dei logaritmi ai tempi di Nepero (costante e), e infine al numero 1, onnipresente in tutte le culture e in tutti i tempi. Com’è possibile che queste entità fondamentali e apparentemente lontane tra loro possano intrecciarsi elegantemente a formare un tutt’uno di così pregevole armonia? Che cosa ci può essere di più mistico di un numero immaginario che interagisce con costanti reali per produrre il niente. [...]
(da: Flavio Cimolin – La formula di Eulero) Ma proseguiamo.
Parte terza: Abbandoniamo la mistica
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Le Opere di Alberto Borgogno
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Sul suo canale YouTube i video delle sue canzoni e composizioni. Il docente universitario, saggista e scrittore Mantovano raccoglie le sue opere musicali
I suoi lavori possono essere suddivisi in 4 categorie: - brani puramente strumentali, senza parole, di cui ha composto per intero la musica («Sonatina per fisarmonica e trio di fiati», «Gavotta paesana», «Mattinata senese», «Sera fiorentina», «Incanto ligure», «Frammento di pura melodia», «Scherzo», «Barcarola Mantovana», «Divertimento», «Cantabile», «Piccola Sonata», «Notturno»); - brani di cui ha composto sia la musica sia le parole: parole da lui create che non si riallacciano ad alcun testo poetico preesistente («Sei tu opera d’arte», «L’abbigliamento di una ragazza», «A Perinaldo»); - brani di cui ha composto sia la musica sia le parole, ma queste parole sono una dichiarata rielaborazione, o una libera traduzione, o uno sviluppo di celebri testi letterari di grandi autori (es.: «Lezione d’aritmetica secondo Prévert», «Federico García Lorca di fronte al vecchio ramarro», «La bella Dorotea di Charles Baudelaire», «Pablo Neruda al cospetto della Croce del Sud», «Canto di Saffo», «Favola di Esopo», «Il canto delle Sirene di Ulisse»); - brani che ha composto per musicare poesie di vari autori senza intervenire sul testo, anzi seguendo fedelmente il dettato originale, con scrupolo filologico («La leggenda di Teodorico» del Carducci, «Il privilegio di Dante», «Il prode Anselmo», «La Signorina Felicita» di Gozzano, alcune poesie di Trilussa, «Il brindisi di Girella» di Giuseppe Giusti, «I Martir ad Belfior» di Ferruccio Ferretti, i versi dialettali di Anfibio Rana).
Alberto Borgogno nasce a Mantova, nel febbraio del 1945, dove trascorre i primi 19 anni tra le corse in bicicletta fino alla riva del Po, a Borgoforte, le esplorazioni delle rovine dell’antico Forte di Pietole, borgo in cui nacque Virgilio, e i giochi coi coetanei che si spingevano fin dentro al Palazzo Te, nella Sala dei cavalli di Giulio Romano. Ama fin da subito la musica, suona la fisarmonica e gli viene riconosciuto l’ orecchio assoluto; studia con passione la teoria musicale, sotto la guida di alcuni professori del Conservatorio di Mantova. Ma ama molto anche la lingua e le opere degli antichi Greci, e legge a più non posso Omero, i Lirici, i Tragici, Platone, per poi laurearsi in lettere classiche nell’Università di Pavia. Insegna prima al liceo Dante di Firenze e poi Letteratura Greca nell’Università di Siena, per più di quarant’anni. In epoca pandemica smette l’insegnamento e si dedica a pieno tempo alla composizione musicale. Risiede a Firenze, ma si reca spesso a Mantova e a Perinaldo, il paese dell’estremo ponente ligure da cui ha origine la sua famiglia. Ha scritto numerosi articoli sulle riviste specializzate nel campo della filologia classica e ha pubblicato studi e commenti su Menandro, Callimaco, Teocrito, Erodoto, Polibio; ha tradotto le «Argonautiche» di Apollonio Rodio, i «Romanzi Greci» del periodo ellenistico e greco-romano, l’«Edipo Re» di Sofocle, la «Medea» di Euripide, la «Storia Vera» di Luciano. Nel 2019 ha anche pubblicato un suo romanzo, «Amanti beati», tuttora disponibile presso le librerie.
Proprio i mesi di forzata clausura e la pausa dagli impegni accademici lo hanno riportato alla musica e a capire che poteva facilmente coniugare la sua disposizione creativa musicale con le conoscenze letterarie acquisite in una vita da professore di lettere. Ha ripescato i suoi vecchi manoscritti, ha passato molte ore al pianoforte, ha scritto sul pentagramma nuovi pezzi destinati a una esecuzione puramente strumentale. Partendo da poesie celeberrime (di Omero, Saffo, Dante, Neruda, García Lorca, Carducci, ecc.) e abbinando lo sforzo creativo musicale allo sforzo interpretativo, ha ottenuto come risultato musiche fra loro diverse, nello stile e nel tono, perché ciascuna di esse voleva mettersi in sintonia con le immortali parole di poeti diversi, in modo da far comprendere pienamente le intenzioni espressive e le significazioni di questi grandi artisti: cosa che di solito è preclusa al blateramento dei critici di professione. Tutto questo con la collaborazione, per gli arrangiamenti e le esecuzioni, di musicisti eccellenti, capaci di accontentarlo con grande intelligenza e straordinaria precisione.
Infine, ha pubblicato i suoi brani in Youtube: il suo canale contiene soltanto sue creazioni, mai pubblicate in precedenza.
YouTube
https://www.youtube.com/@albertoborgogno
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Quesito Caro Padre Angelo, volevo chiederle: esattamente quando è nata la Chiesa? Il giorno di Pentecoste o prima? Grazie in anticipo per la risposta. Risposta del sacerdote Carissimo, a proposito della fondazione della Chiesa dobbiamo dire tre cose: Gesù Cristo l'ha promessa, Gesù l'ha fondata, Gesù l'ha manifestata. 1. Innanzitutto l'ha promessa quando ha detto a Pietro: “E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (Mt 16,18). La parola Chiesa tra gli evangelisti è usata solo da Matteo e per due volte. La prima nel versetto che ho appena citato, la seconda in Matteo 18,17 quando Gesù dice: “Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”. Nel testo greco, che è l'originale del Vangelo, al posto di comunità si trova la parola “ecclesìa”, Chiesa. Chiesa significa comunità, assemblea, convocazione. 2. Quando Cristo ha fondato la Chiesa? Ecco che cosa dice il concilio Vaticano II nella Lumen gentium, che è la costituzione dogmatica sulla Chiesa: “Il Signore Gesù diede inizio alla sua Chiesa predicando la buona novella, cioè la venuta del regno di Dio da secoli promesso nelle scritture” (LG 5). E: “Questo regno si manifesta chiaramente gli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo” (LG 5). Si potrebbe dire pertanto che ha fondato la Chiesa progressivamente. Prima ancora di renderla visibile attraverso un gruppo di persone l’ha fondata nel cuore di coloro che ascoltavano la sua predicazione. 3. Tra le opere con le quali Cristo ha costituito la Chiesa come comunità dotata di una sua struttura vi è la scelta dei 12 Apostoli con Pietro come loro capo. Ecco che cosa si legge nel Vangelo di Marco: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici - che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro, poi Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè «figli del tuono»; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo, figlio di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, il quale poi lo tradì” (Mc 313-19). Qui la chiesa è visibile per la prima volta con la sua struttura. Li ha costituiti come collegio. Per questo viene detto che la Chiesa è stata gerarchicamente costituita. Visibilmente questo è stato il primo nucleo. 4. Tuttavia non va dimenticato che la Chiesa è nata principalmente dal cuore di Cristo e dalla sua volontà di donarsi totalmente agli uomini. Allora nel sangue e nell'acqua usciti dal costato di Cristo appeso alla croce giustamente i Santi Padri hanno visto la nascita della Chiesa. E hanno commentato così: come dal costato di Adamo che dormiva Dio trasse da una sua costola Eva, così dal costato di Cristo nuovo Adamo "dormiente sulla croce” ha tratto la Chiesa, la sua mistica sposa. 5. In un terzo momento Gesù ha manifestato pubblicamente la Chiesa alla moltitudine degli uomini nel giorno della Pentecoste. Dice il Concilio Vaticano II: “Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra, il giorno di Pentecoste fu inviato lo spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa (LG 4): E nel decreto Ad gentes sulla vocazione missionaria della Chiesa il medesimo Concilio afferma: “Ma fu nel giorno della Pentecoste che lo Spirito Santo si effuse sui discepoli, per rimanere con loro in eterno; la Chiesa apparve ufficialmente di fronte alla moltitudine ed ebbe inizio attraverso la predicazione la diffusione del Vangelo in mezzo ai pagani” (AG 4). 6. Per concludere mi piace ricordare che proprio dalla parola Chiesa, che significa convocazione, appare la natura missionaria della
chiesa inviata da Cristo a tutti i popoli per farli suoi discepoli: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20). Con l'augurio che tu possa essere sempre figlio della chiesa, come si è espressa fieramente Santa Teresa d’Avila sul letto di morte, ti benedico e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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