#RIFLESSIONI SULLA TRASMISSIONE DEL SAPERE
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RIFLESSIONI SULLA TRASMISSIONE DEL SAPERE
RIFLESSIONI SULLA TRASMISSIONE DEL SAPERE
di Giuseppe Aiello “Leggi!” è stata la prima parola rivelata al Profeta, e dunque a tutti noi, da Allah. Un imperativo del verbo “karae”. La parola “karae” ha il significato di “raccogliere il sangue benedetto nel grembo materno e poi espellerlo”, (un significato simile in Baqara 228). Successivamente la parola cominciò ad essere usata con il significato di “accumulare qualcosa, distribuirlo,…
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“La scuola ha bisogno di maggiore considerazione e di essere liberata da una burocrazia asfissiante. Invece la scuola viene sempre dopo…”. Dialogo con Andrea Franzoso
Una donna in preda alle doglie, mentre torna a casa, viene uccisa da una pattuglia di nazisti. Si contorce dal dolore, chiama a sé il figlio Franco, poi muore. La potente e tragica immagine con cui si apre Viva la Costituzione di Andrea Franzoso (appena uscito per De Agostini, con prefazione di Gian Antonio Stella e postfazione di Salvatore Settis) lascia spiazzati. Perché non ti immagini che ci sia una brutalità più feroce e spietata di uccidere una donna che sta per mettere al mondo un bambino. Eppure è successo.
Franco Leoni Lautizi che, all’epoca, aveva cinque anni e mezzo, è uno dei pochi sopravvissuti all’eccidio di Monte Sole, conosciuto come la strage di Marzabotto. Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 furono massacrati 216 bambini, in tutto 770 persone. Che cosa ci insegna questa pagina di storia? Andrea Franzoso, dopo #disobbediente! Essere onesti è la vera rivoluzione (sempre edito da De Agostini), si immerge in una ricerca a tappe a partire dalle ferite più tremende della nostra storia. Ne esce un libro per ragazzi, a più voci, tra riflessioni di esperti e testimoni, che esplora le parole-chiave della nostra Carta Costituzionale, ovvero Memoria, Democrazia, Repubblica, Costituzione, Lavoro, Diritti, Solidarietà, Uguaglianza, Minoranze, Confessioni religiose, Cultura, Paesaggio, Straniero, Pace, Tricolore, Libertà, Famiglia, Scuola, Salute e Resistenza. Detto così potrebbe sembrare un film già visto. Ma il pregio del libro sono proprio le testimonianze messe a contrappunto con la spiegazione dei temi caldi della Costituzione, storie decisamente forti, illuminanti, a volte poco conosciute e certamente da conoscere.
Lo scopo dell’opera è senz’altro dare dignità all’Educazione Civica, da sempre materia ancillare, dimenticata (non da tutti) nel suo polveroso angolino. Allora lo chiedo direttamente all’autore: perché ci siamo dimenticati per strada l’Educazione Civica?
“Ricordo ancora il libro di Educazione Civica, che avevo alle medie, sul finire degli anni Ottanta: copertina beige, foto in bianco e nero, nient’altro che un bigino di diritto costituzionale. Una noia mortale, non solo per noi ragazzi, ma persino per la povera professoressa che doveva ritagliare qua e là qualche ora. L’obiettivo che mi sono posto con questo libro è spiegare la Costituzione attraverso la narrazione: personaggi, storie vere, testimonianze. L’educazione civica non può essere intesa come una mera trasmissione di nozioni, da mente a mente, ma deve coinvolgere i sentimenti, le emozioni. Si deve lavorare di empatia, più che di teoria. In un’ipotetica riforma della scuola, metterei ai primi posti il teatro, dalla primaria alle superiori. Così l’educazione civica la potremmo non solo insegnare, ma inscenare. Pensi al valore di far recitare ai ragazzi l’Antigone di Sofocle”.
Ma l’Educazione Civica è così importante (della serie predicare bene e razzolare male)?
“Che sia importante lo sappiamo tutti. Lo dicono persino coloro che, nei fatti, razzolano male. È importante come si insegna l’Educazione Civica. E anche chi la insegna, per il valore che ha l’esempio. I ragazzi ci mettono un istante a “pesare” un insegnante, ad accorgersi dell’ipocrisia e dell’incoerenza, quando ci sono”.
Non sono troppo forti alcune delle immagini che presenti nel libro per un pubblico così giovane?
“Ai ragazzi si può raccontare una storia forte con delicatezza. Sapranno coglierne il messaggio più profondo”.
È ciò che avviene, per esempio, con la storia che apre il capitolo Pace. Il protagonista, Vito Alfieri Fontana, era un fabbricante di armi proprietario della Tecnovar di Bari, azienda specializzata nella costruzione di mine antiuomo. A inizio anni Novanta, una semplice domanda posta a bruciapelo dal figlio Ludovico di otto anni lo mette in crisi e lui decide di cambiare vita: chiude la fabbrica e indossa i panni dello sminatore per conto della ong Intersos. E, per i successivi vent’anni, si occupa di sminare campi di morte in Bosnia. Un altro esempio di un personaggio che cerca di disinnescare le mine antiuomo è don Gino Rigoldi, dal 1971 cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria, una delle voci che danno corpo al volume. “I miei ragazzi hanno bisogno di un adulto che li ascolti senza giudicarli. Si conoscono così poco, non hanno stima di sé, e non riescono a immaginarsi il futuro. Per un adolescente è importante avere dei riscontri positivi, sapere di valere agli occhi di un altro, di essere amato… Il più delle volte, invece, trovano adulti – compresi i familiari – che li insultano: “Fai schifo”. E si convincono che è così”. Nel capitolo sulla “Scuola” c’è una testimonianza importante, quella dei Maestri di strada che, a Ponticelli, periferia orientale di Napoli, quotidianamente sfidano il destino di giovani senza scampo. Come già aveva fatto con #disobbediente, Andrea Franzoso, con la semplicità di un discorso rivolto ai ragazzi, interroga la nostra coscienza. Nel libro Il disobbediente, nato come libro per adulti ma trasformato in un libro per ragazzi dai 9 ai 14 anni, Andrea Franzoso metteva nudo la sua vita, da ragazzino esile e preso di mira dai bulli a uomo che ha deciso di denunciare un capo che rubava, subendo tutte le conseguenze del caso: l’isolamento da parte dei colleghi, la perdita di un posto di lavoro… Insomma: la domanda resta sempre la stessa. A che cosa sono disposta a rinunciare per l’onestà? E, poi, a che cosa mi serve avere un’educazione civica?
“A imparare a stare al mondo, a convivere con gli altri. E a passare dall’essere “sudditi” a “sovrani”, come insegnava don Lorenzo Milani. Non serve avere dei diritti se poi non sappiamo farli valere. O, peggio, se non sappiamo neppure di averli. E dobbiamo conoscere anche i nostri doveri, per costruire relazioni sane con gli altri. I doveri rappresentano la nostra responsabilità nei confronti del prossimo, della collettività, di chi verrà dopo di noi, dell’ambiente, e anche di noi stessi. Il senso civico è il sentimento di appartenenza a una comunità, che ci permette di passare dall’egoismo e dal tornaconto personale alla solidarietà, al Bene Comune”.
A parte i famigerati banchi con (e senza) rotelle, che cosa servirebbe davvero alla scuola italiana?
“Maggiore considerazione. Invece la scuola viene sempre “dopo”: persino dopo le discoteche aperte a Ferragosto. La scuola ha bisogno di essere liberata da una burocrazia asfissiante. Ha bisogno di risorse, di investimenti: sia nelle infrastrutture – gli edifici scolastici, spesso indecorosi, dovrebbero essere trasformati in luoghi belli, luminosi, circondati dal verde – sia nel personale. A fare gli insegnanti, dovrebbero essere scelti i migliori. Purtroppo, sindacati e governi, negli anni, si sono preoccupati più dei posti di lavoro nella scuola che del bene dei ragazzi che vanno a scuola. Sarebbe bello se i laureati più capaci scegliessero di fare gli insegnanti invece che i manager in una multinazionale. Ma bisogna creare le condizioni perché ciò avvenga. A maestri e professori dovrebbe essere riconosciuto il loro valore, anche dal punto di vista economico: non possono guadagnare meno di un impiegato o di un operaio specializzato. E chi non merita, chi non sa insegnare, va allontanato. Tuttavia, nonostante le scarse risorse e i mille problemi che conosciamo, durante i miei incontri nelle scuole, mi stupisco di trovare sempre così tanti insegnanti bravi e appassionati, che hanno a cuore il futuro dei nostri ragazzi”.
Linda Terziroli
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Waiting for #La manutenzione dei teatri
DENTRO E FUORI
“la cornice è dentro o fuori il quadro?” cosi Derrida rilanciava domande che interrogano, tra le altre cose, anche lo statuto, ovvero le possibilità, di un luogo. Cosi, la questione del rapporto tra teatro e comunità crea e abita un luogo complesso da disegnare, un luogo di soglia, di attraversamento tra “dentro e fuori”, limine che si moltiplica e declina in molteplici e plurali diramazioni. La questione occupa un luogo che contempla contemporaneamente in sé il senso di chiusura e di apertura, di confine o apertura, di barriera o luogo di accesso. Essere dentro e essere fuori il Teatro? E’ una interrogazione che diventa luogo del nostro agire e di una progettualità che vuole – e deve - creare nuove architetture con gli artisti e le loro ‘antenne’, portatori di un pensiero critico, al centro di una relazione con i cittadini e le città; creare comunità intermittenti in maniera permanente per connettere sempre di più il lavoro degli artisti, le visioni e i linguaggi della scena contemporanea ai cittadini, fuoriuscire (anche) dai teatri per ricreare nuove centralità. Essere sulla soglia e essere, diventare, piazza. Una architettura di relazioni e un movimento necessario; essere vicini agli artisti per essere portati lontano e (ri) avvicinare i cittadini, trasformare le barriere in soglie. Essere soglia, limite, confine che apre e che non rinserra i ranghi. ..i grandi conduttori di teatri sanno che il teatro incomincia fuori, intorno, dietro il teatro… scriveva Strehler a Paolo Grassi. Costruire teatro anche intorno e fuori del teatro.
Elena Di Gioia
BREVI RIFLESSIONI PER PROBABILI ARGOMENTI
0Ripensando a Giano
Giano (latino: Ianus) è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle divinità più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica. Solitamente è raffigurato con due volti, poiché il dio può guardare il futuro e il passato ma anche perché, essendo il dio della porta, può guardare sia all'interno sia all'esterno.
1
Inizio, forse
All’interno del sistema teatrale nazionale, nei prossimi anni i piccoli teatri di provincia possono svolgere un compito ancora più importante, forse anche strategico. Possono portare in dote un patrimonio unico che i grandi teatri non riescono forse più a produrre. Mi riferisco in particolare alla qualità dei tempi e degli spazi, accoglienza e cura da dedicare alla ricerca e alla creazione, alla crescita e alla formazione degli artisti e del pubblico; qualità di relazione che, forse, i grandi teatri non si possono più permettere, travolti come sono dalla maggioranza delle questioni quantitative che devono affrontare tutti i giorni, sotto la lente del consenso. La prima riflessione che vorrei porre all’attenzione del nostro incontro è un interrogativo: che cosa vuol dire avere tempo, prendersi un tempo adeguato, necessario, da dedicare alle relazioni con gli artisti e il pubblico, oltre il consumo degli spettacoli? Un compito che dovrebbero svolgere tutti i teatri, grandi e piccoli, per generalizzare, oppure solo alcuni, perché maggiormente impegnati su questi tratti evidenti, distintivi, della produzione culturale del teatro e delle arti sceniche contemporanee?
2
Nature e culture dei teatri
Per la loro stessa natura, i piccoli teatri di provincia non possono svolgere un ruolo centrale, bensì periferico. Ed è proprio questo il tratto distintivo del loro destino: lavorare sulle periferie culturali e sociali, con la consapevolezza che i teatri possono esercitare un ruolo essenziale, straordinario, per le comunità di riferimento e la prossimità delle relazioni. Gli sguardi rivolti verso l’alto, i lunghi respiri, gli orizzonti da immaginare, dentro la dimensione del proprio tempo, sono solo alcuni degli ingredienti per comprendere le potenzialità delle proprie azioni ed evitare di ripiegarsi sui sentieri del provincialismo che trasforma, confonde, il rischio culturale in consenso immediato.
3
Teatri di confine
I piccoli teatri della provincia italiana possono essere pensati come luoghi e progetti di confine per favorire, senza dazi doganali, il transito incessante delle persone, la circolarità delle idee, il passaggio delle esperienze. Passaggi e passaggi, andata e ritorno, per accudire i nomadi del cuore e i cacciatori di vento che non riescono a trovare posto altrove, nelle grandi città, nei grandi teatri, e cercano rifugio, asilo, nei piccoli spazi e nelle piccole comunità che sono diventati “grandi pensieri” che guardano il mondo, oltre i confini, fieri delle proprie nature, consapevoli che nel tempo sono riusciti a trasformare i limiti in risorse produttive.
4
Scuola elementare del teatro, della danza e delle arti performative
I piccoli teatri della provincia italiana potrebbero svolgere anche la funzione di Scuola elementare delle arti sceniche contemporanee. Teatri per lo studio propedeutico delle materie obbligatorie e facoltative; apprendistato, formazione e lavoro. Teatri che insieme alla programmazione di spettacoli e incontri, assumono anche la funzione, la responsabilità, di scuola pubblica del teatro per l’informazione, la formazione e la trasmissione del sapere: per raccontare e custodire le storie e le culture dei teatri; per rinnovare le forme e i contenuti della didattica delle arti contemporanee. Perché le geometrie e i sentimenti dei luoghi e dei teatri, le misure dei tempi e degli spazi delle comunità, la prossimità delle relazioni, gli consentono, alla grande, di giocare anche questo ruolo vitale per alimentare i canali e i circuiti del sistema del teatro nazionale.
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Vie maestre e strade secondarie
Oltre i confini e le categorie, mi piace considerare i piccoli teatri di provincia come spazi consapevolmente e volutamente indecisi e non omologabili per sperimentare con intelligenza e leggerezza alcuni sguardi d’autore, dei prototipi o dei multipli, costruiti nella prossimità delle relazioni fra artisti, artigiani del pensiero, operatori, cittadini e spettatori. Si potrebbe anche dire, forse, un teatro libero da vincoli per comprendere l’esistenza e la consistenza di differenti generi e linguaggi, passando dalla tradizione all’avanguardia, dal classico al moderno, dalla prosa alla ricerca, dal teatro d’autore al comico. Teatri di unione e di congiunzione per riflettere e agire sui differenti percorsi artistici e organizzativi che si possono realizzare, mettere in pratica, con la consapevolezza che ogni teatro costituisce un’esperienza unica e indivisibile, un tratto essenziale di un paesaggio culturale e artistico molto più vasto e importante. Dove a volte le economie e le idee si confondono e non è sempre facile inventarsi delle buone soluzioni. Dove ogni anno è necessario ripensare alle scelte fatte senza cedere alla sola lusinga di accontentare il pubblico con criteri di analisi e giudizio che sono sempre più prossimi alle semplificazioni televisive. Che non mi preoccupano più di tanto se assumono il significato di mediazione e posizionamento dei ruoli per arrivare alla meta, sani e salvi: costruire un teatro di qualità, necessario, con la complicità di un comunità che cresce e cambia, assieme.
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Canto alla durata
Aldilà delle misure e degli ordini di grandezza, i piccoli teatri possono svolgere davvero una funzione importante per sviluppare le pratiche di ambienti vitali dei sistemi regionali e nazionali, nelle relazioni fra ricerca, formazione, produzione e circuitazione delle opere. Di norma lo possono fare replicando gli esempi compiuti, presi a prestito da altri, dai grandi, oppure arrampicandosi lungo i sentieri più impervi, senza dimenticare le grandi vie di comunicazione e di trasporto, e le uscite d’emergenza, obbligatorie. Quello che conta, a mio avviso, è il “canto alla durata”. Immaginare un piccolo teatro di provincia come un “laboratorio del contemporaneo”, aperto tutto l’anno, che si propone come un reticolo di desideri per la comunità, cittadini e spettatori; una politica culturale e una cultura del teatro che si nutrono delle feconde relazioni fra Amministrazioni comunali e Associazioni culturali, pubblico e privato; dialoghi profondi e continuativi fra artisti e operatori. Insieme per non perdersi. Insieme per prova a volte anche la forza di perdersi. Insieme per non sbagliare sapendo che a volte si può sbagliare per imparare.
7
Personale
Ci sono tre parole che hanno sempre fatto parte della mia attività di piccolo teatrante di provincia: confine, limite, margine. Tre parole che, tradotte in un unico sentimento di appartenenza, mi hanno sempre motivato, convinto, a lavorare e vivere nei luoghi e nei teatri di provincia. In questa cultura della provincia, è nato il progetto di L’arboreto - Teatro Dimora di Mondaino, e dallo scorso anno il progetto del Teatro Sociale Novafeltria.
Fabio Biondi
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