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lamilanomagazine · 11 months ago
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Milano: MUDEC, apre al pubblico la mostra "Picasso la metamorfosi della figura"
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Milano: MUDEC, apre al pubblico la mostra "Picasso la metamorfosi della figura". Picasso non considerava come 'primitiva' l'arte che lo ispirava, non vedeva un 'prima' e un 'dopo' nell'arte. "Non c'è né passato né futuro nell'arte – sottolineava –. Se un'opera d'arte non può vivere sempre nel presente, non ha significato". Pablo Picasso infatti seppe, più di ogni artista della sua generazione, comprenderle e reinventarle. Con questa mostra il MUDEC Museo delle Culture di Milano propone al pubblico di leggere la ricchissima produzione di Picasso – dalle opere giovanili fino alle più tarde – alla luce del suo grande interesse per le fonti artistiche 'primigenie', per l''arte primitiva', e racconta questa costante rielaborazione intellettuale e l'eredità artistica della sua visione attraverso un progetto espositivo appositamente pensato per essere ospitato nel Museo che racconta le culture del mondo e la loro reciproca e costante influenza. Col ritorno al "primitivismo", intorno al 1925, l'artista trae gli strumenti del linguaggio plastico da esempi africani, ma anche da esempi neolitici e proto-iberici (della Spagna preromana), prende spunto dall'arte oceanica, dall'antica arte egizia e da quella della Grecia classica (vasi a figure nere). Picasso inventa trasposizioni, rimodella figure dai volumi sproporzionati, in una costante metamorfosi delle figure che spesso hanno una forte connotazione erotica, e che governeranno l'evoluzione della sua pittura e della sua scultura, soprattutto nei momenti di crisi personale o sociale. Nasce da questo concept la mostra "Picasso. La metamorfosi della figura", prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e promossa dal Comune di Milano-Cultura, con il patrocinio dell'Ambasciata di Spagna in Italia e il sostegno di Fondazione Deloitte, Institutional Partner della mostra. L'esposizione, curata da Malén Gual, conservatrice onoraria del Museo Picasso di Barcellona, insieme a Ricardo Ostalé, apre al pubblico dal 22 febbraio e porta al MUDEC di Milano oltre quaranta opere del maestro spagnolo, tra dipinti, sculture, insieme a 26 disegni e bozzetti di studi preparatori, del preziosissimo Quaderno n. 7 concesso dalla Fondazione Pablo Ruiz Picasso - Museo Casa Natal di Malaga. Fondamentale per questa mostra, infatti, è l'accompagnamento in questo percorso assolutamente peculiare e inedito di tutti i principali musei spagnoli che possiedono le più importanti collezioni di Picasso in quella che fu sempre la sua patria, la Spagna: in primis la Casa Natal di Malaga, ma anche il Museo Picasso di Barcellona e il Museo Reina Sofia di Madrid, oltre a numerosi collezionisti privati. Insieme all'apporto dell'Administration Picasso - presieduta dalla figlia Paloma Ruiz-Picasso - e degli eredi, che hanno creduto nel progetto espositivo confermando importanti prestiti, la mostra "Picasso. La metamorfosi della figura" chiude dunque idealmente un lungo 2023 di celebrazioni del 50° anniversario della morte del pittore con una mostra che è fortemente e volutamente 'spagnola' nell'identità del progetto, ma 'universale' nel cuore della visione artistica che di Picasso propone al pubblico. Il progetto sarà anche l'occasione per rivedere ospitata al MUDEC, dopo anni, la "Femme nue" appartenente alle collezioni civiche milanesi, meraviglioso dipinto che fu fondamentale preludio al capolavoro picassiano "Les Demoiselles d'Avignon", in dialogo con magnifici dipinti di maschere. In un gioco di specchi e rimandi che dal più remoto passato guarda al contemporaneo, la selezione della produzione del Maestro spagnolo presentata in mostra è in dialogo con un corpus di fonti antiche e reperti archeologici ed etnografici, grazie anche alle ricche collezioni del MUDEC e alla collaborazione delle conservatrici del Museo al progetto. La mostra, dunque, guarda al primitivo per spiegare come l'opera di Picasso abbia affondato le sue radici nel passato, ma guarda anche al presente per fornire una chiave di lettura della evoluzione della pittura contemporanea e delle nuove generazioni di artisti africani che si sono trovati a confrontarsi con il genio spagnolo, e ne hanno assorbito/rifiutato – sicuramente rielaborato - il suo linguaggio e la sua visione. La mostra racconta il processo creativo di Picasso anche attraverso le videoinstallazioni a cura di Storyville raccolte sotto il titolo A Visual Compendium, che accompagnano il visitatore lungo il percorso della mostra. Info su www.mudec.it... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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pangeanews · 5 years ago
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“E allora se i vivi si rassegnano, i morti perdono sempre?”. Paolo Di Stefano ha scritto uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni, “Noi”
È proibito piangere senza imparare, svegliarti la mattina senza sapere che fare avere paura dei tuoi ricordi.
(Pablo Neruda)
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Cosa c’è di conforme, di analogo, tra l’imponente romanzo autobiografico dal tono privato e universale e dalla formula della saga familiare di Paolo Di Stefano, Noi (Bompiani 2020), noto scrittore siciliano di nascita (Avola), con il movimento letterario della seconda metà dell’Ottocento, cioè il Verismo? Non possiamo non intravedere, leggendo i capitoli, la coesione specchiata alla realtà sociale di un tempo difficile, che in questo caso si protrae dal secondo conflitto mondiale fino ai giorni d’oggi. Ma non è questo l’unico aspetto da menzionare come svelamento di una comune verità. Il Verismo si è connotato per delle vicende composte di povertà e di un destino trasfigurato nel linguaggio chiaro e spesso documentabile. I personaggi sono prelevati da un’umile Italia che sembra “staccata” non solo geograficamente dal continente (gli eroi sono inventati, afferma l’autore). Non possiamo non accostare al Verismo anche la ruralità del romanzo di Di Stefano, ma solo in parte, specie nel suo archetipo, perché questa lunga narrazione contiene anche elementi solidi di esistenzialismo afferenti ad una dinastia familiare attraversata, nei decenni, da tre generazioni. Di certo se pensiamo a Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto, non ci si esime dal rintracciare temi rinnovati nella psicologia inquieta dei personaggi, nelle abitudini e nei riti, nella coscienza e nella suggestione, nei turbamenti, nella rabbia, nella tenacia, nella resilienza di nonni, zii, cugini, vicini ecc. Se ovviamente è diversa la cifra stilistica, resta la componente fatalista, cromatica, la rivelazione iniziatica, la naturalezza che attinge ad uno stigma secolare nei tanti soggetti scolpiti dalla memoria del romanziere in una civiltà che il tempo ha svelato in tutti suoi effetti, più collettivi che singoli, a partire dalla guerra, dalla fuga nei luoghi impervi, dall’emigrazione, per concludere con una certa irresolutezza da intendere come carenza nel presente, come sottrazione di beni non solo materiali: in Sicilia, in Svizzera, a Milano ecc. Una voce imperiosa, diremmo pure imperitura, quella di Claudio, fratellino dell’io narrante morto prematuramente durante l’infanzia, distilla la parola poetica in suggerimenti terreni e metafisici, risultando un amorino, un putto straordinariamente pungolante: vivo tra i vivi, nel suo di qua dell’aldilà che contamina la storia di osservazioni, analisi, immaginazioni, ricordi, nutrendo la reciprocità della vita di due famiglie che ne hanno pianto la scomparsa improvvisa a seguito di una leucemia acuta. Paolo Di Stefano non vuole lasciare lacune, dispersioni affettive: intende tramandare qualcosa di prezioso. Ed è già questo un processo creativo per non rimuovere, per non spazzare via alcunché dei suoi personaggi realmente esistiti. Un controcanto singolare lontano dal frastuono dei nostri giorni, dalla civiltà delle immagini, dal pluralismo della notizia lampo. Un blues da riscoprire, che permetta di ricostruire la funzionalità del tempo e una promessa di futuro nel milieu di una letteratura che vive la sua morsure du réel. L’impronta del reale è dunque una cartina di tornasole ineguagliabile che conduce verso la scoperta della verità impersonale.
Il Novecento italiano e i primi due decenni del terzo millennio rispondono ad un panorama formale, linguistico e organico molto frastagliato. La storia è solo la sponda, un argine, non l’impronta tangibile alla quale affidare una metodologia di studio. L’autore opta per il segreto della coscienza che si riversa nel moto delle cose, in un sentimento dominante. La narrazione esplode quando si canalizza nelle impressioni e nelle sollecitazioni, perché non ci sono altri linguaggi che possano somigliarle, che possano sostituirla. Noi è un romanzo liberatorio, energico: Di Stefano diventa il tramite di un tempo mai interrotto, che non passa. La salvazione sta nel rievocare le gesta di uomini e donne sopravvissuti perché custoditi nel comun denominatore degli affetti familiari.
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Ha scritto Carlo Bo in Letteratura come vita (saggio pubblicato sulla rivista “Il Frontespizio” nel 1938): “Noi crediamo alla vita nella stretta misura della letteratura, cioè sotto quell’angolo di luce concesso da un’attenzione decisiva per una spiegazione, per una condizione di reperibilità”.
La fanciullezza, in particolare, coagula il passato e il futuro che si incarnano in una funzione di mitogenesi affondando le radici nella saga familiare. Nel coro a più voci di Paolo Di Stefano, la luce del tempo (“il ragionamento sul tempo”, direbbe l’autore) è attraversata dai luoghi e il suono di un fondamento ideale spazia in ogni ambito, in un viaggio verso la verità contro ogni stagione in via di dissolvimento. La nudità di questa esperienza è insita nella sobrietà del rapporto con le cose, con lo spirito che inizialmente dialoga con la terra. L’evocazione si staglia nell’orizzonte per lo più siciliano, nello spazio di una difesa umana, in un ambiente più amato che radicato, nella vibrazione di un afflato casalingo, senza che sia possibile, tuttavia, trovare l’uscita di sicurezza da un’eclissi dove tutto è instabile meno che la partecipazione al senso di finitudine umana.
“Eppure a diciott’anni nostro padre aveva già vissuto parecchio, e doveva ringraziare (si fa per dire) il pecoraio di Avola, suo padre, il ricottaio don Giovanni di nome e di fatto, don Giovanni detto il Crocifisso”. Un moschettiere, un femminaro (“forsennato fedifrago senza vergogna”), che vedeva donne e pecore, che si vantava di frequentare una marchesa, come racconta il padre dell’io narrante, ad ottantatré anni, nell’appartamento di Lugano, in Svizzera. Parte da qui la saga delle famiglie di Avola, Di Stefano e Confalonieri, di Giovanni e Mariannina da un lato, di Paolino e Carmelina dall’altro. Proseguendo con Giovanni, il figlio con lo stesso nome del padre, e la moglie Dinuzza, per arrivare a Paolo Di Stefano e ai suoi fratelli. Il figlio Giovanni e il padre si fronteggiano, si minacciano, si temono. L’altro nonno, Paolino, che diventerà maresciallo di finanza, si batte al fronte, e durante la guerra i paesani non capiscono chi è amico e chi nemico, chi butta le bombe, da che parte stanno tedeschi, inglesi, americani, canadesi. Con i paracadute degli alleati si costruiscono camicie, gonne e pantaloni dal colore mimetico in un mondo ancora in bianco e nero (come nota Maria, figlia di Paolo Di Stefano mentre viene rievocato l’anno 1943): fasi concitate che costringono le famiglie a rifugiarsi negli insediamenti rupestri scavati nel tufo, sfuggendo così ai bombardamenti e alle rappresaglie.
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Di Stefano ci offre immediatamente una traccia di senso nelle vite e nelle morti senza eroismo. In una lingua tachicardica la dimensione cartesiana è concentrata spesso nella parola “sciarra”, litigio, zuffa, tanto che i morti farebbero visita di notte per indispettire, per ridestare dal sonno i coniugi ancora in vita. Tra le altre figure magistralmente descritte, la rugosa zia ‘Nzula, sorella di Mariannina, alta un metro e quaranta, l’unica capace di controbattere Giovanni il femminaro, affrontandolo di petto per urlargli la “sbriogna”, la vergogna, facendosi sentire da tutta la strada (Di Stefano ama la parola impura, dialettale, insostituibile ricettore di uno stato d’animo, di un gesto impulsivo che è proprio la ripercussione di una pluralità parlata, di un “noi” estratto da uno spartito comunitario).
Giovanni figlio, occupa gran parte dei primi capitoli del romanzo: iscritto all’università, è un giovane telescriventista innamorato, disilluso, che raggiungerà Lodi per dare ripetizioni in un collegio, raccomandato da un prete, che visiterà a più riprese Milano. Un uomo sempre in piedi, “avanti e indietro”. “Non si stanca di muoversi, saltare su un tram, scendere e risalire, camminare ancora, misurare la città in lungo e in largo”. Lavorerà anche come rappresentante di targhe in ottone, in alluminio, di timbri e biglietti da visita e come agente informatore indagando sulle infedeltà coniugali, investigando sui commerci e sulla solvibilità delle aziende.
La vita procede in un percorso che l’emotività dipana nella geografia personale tra le strade di Milano abitate da operai meridionali, tra miniappartamenti con doccia e stufa a legno, con l’aria ombrosa dei siciliani che della smorfia di scherno fanno una caricatura, un “mussiare” che la dice lunga sul bene e sul male, sull’insofferenza. La resistenza delle famiglie ha ragioni che sanciscono una spinta elettiva: la figura umana, per Paolo Di Stefano, vuol dire prima di tutto padronanza della propria condizione in un posto qualunque, ma Avola si cristallizza come il luogo elegiaco di odori e sapori, delle cerimonie e funzioni sacre, come nella domenica di Pasqua con la Madonna portata sulle spalle, coperta di nero, circondata da bandiere e che dietro il manto nasconde una decina di colombe e di quaglie che volano. La Madonna si agita verso il centro della piazza dedicata al Re Umberto e abbraccia il figlio risorto circondato dai sacerdoti, tra fuochi, musiche e trombe.
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A Paolo Di Stefano interessa la civiltà e la sua conservazione. Una conservazione intessuta di circostanze irresolute, in una cornice che riporta al centro, immancabilmente, Avola, la cui dimensione culturale e antropologica rende sconfinata la provincia siciliana prima e dopo la guerra, nella cadenza e nella folgorazione descrittiva. Intenerita effusione ed esistenza vibratile si trasformano in memoria reale e figurata. I luoghi, nel tempo, assumono rilievo antropomorfico nelle scene mai vagheggiate, piuttosto riepilogate con esattezza cronologica. Il microcosmo struggente è suggellato da una sopportazione della “odiosamata” terra che si muove intorno a soggetti e oggetti avviluppanti. Di Stefano riesuma con efficacia la memoria inviolata, ritrovata come risonanza acustica tra parenti e coetanei, nel padre che “non è mai riuscito a misurare la distanza dalla sua famiglia”: un tormento, il suo, oscillante tra il va e vieni. Si avverte il privilegio del possesso delle cose imperfette, di una storia più grande e di una più piccola che si replica nella fedeltà al proprio e all’altrui monito, fino all’incrocio dello sguardo di una ragazza minuta, “chiusa dentro un elegante colletto zebrato, che attraversava lo stradone in compagnia di un’amica e di una cugina”. Il giorno del matrimonio Giovanni indossa un doppiopetto, Dinuzza un tailleur verde e scarpe verdi rialzate dai tacchetti. Tre figli in tre anni e poi un quarto, per quel marito e padre che riprende gli studi universitari dopo dieci ore di lezioni private per guadagnare ciò che serve al mantenimento della famiglia. Sarà docente incaricato nelle scuole medie di Mandello del Lario sul lago di Como e finalmente con la laurea guadagnerà il prestigio presso la parentela, compresa quella acquisita. Successivamente Giovanni Di Stefano si trasferirà a Lugano, in Svizzera. La casa sarà ubicata in un quartiere grigio, “del colore delle periferie”, dove i ragazzini cresceranno lungo le scale delle palazzine. Paolo, a partire dalla metà del libro, diviene egli stesso il raccontatore della saga, ritagliandosi un ruolo esterno correlato al proprio spazio di giovane figlio.
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La madre pensa alla morte, ai morti, a chi non c’è più per disgrazia e a chi rimane e deve mangiare per stare bene. Il figlio Paolo da bambino sognava di fare il vigile: “Avrei voluto fare il vigile per non lasciarmi sorprendere disarmato dalla terza guerra mondiale. Era un tempo in cui i bambini avevano paura delle bombe atomiche e della guerra che sarebbe scoppiata di lì a poco secondo le previsioni del governo federale che aveva disposto appositi finanziamenti per le installazioni militari e i bunker mimetizzati nei verdi e ridenti paesaggi alpini”. Ma le bombe, sarebbero arrivate dal cielo o dalla terra? Continuano i ritorni in Sicilia della famiglia Di Stefano: le case hanno i mattoni sfarinati, si gioca con le biglie o con le trottole, si mangiano il pane caldo sfornato all’alba e le polpette, si bevono bicchieri di ginger, di spuma e chinotto.
Con la crescita dei figli, si fa insistente la voce fuori campo del bambino poeta, Claudio, che da mentore alleggerisce la presa di coscienza degli accadimenti con opinioni secche, senza peli sulla lingua: “Sai quante volte / ho avuto la curiosità, / la curiosità di godermi in silenzio / la terribilità di ogni vostra vita casalinga / dall’angolo più nascosto del tinello, da sotto una poltrona / o da dietro una tenda, dallo spazio minimo / tra il tappetto e il pavimento…”. Perché anche chi è venuto a mancare si annoia, si stanca dei vivi, come i vivi rimpiangono i morti o li dimenticano.
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Il sentimento di Paolo Di Stefano, nel suo intreccio fonico, lievita da una voce che esprime il dolore, la malinconia come un lampo ad intermittenza. Ma la forza del narratore rimane soprattutto nel retroscena della famiglia metabolizzato in ogni aspetto agglutinante, in un ideale che rafforza la stessa biografia togliendone la patina di autoreferenzialità. Ogni apparizione è un’affermazione rinvenibile nei fenomeni italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, e l’io stesso tende ad essere scansato in un umanesimo intriso di buona e cattiva sorte. Di Stefano allude spesso ad una verità inscalfibile dettata dal destino, che costituisce il nucleo omogeneo dell’intero romanzo. I dialoghi appaiono autoritari, seppure slanciati verso un’attenzione all’innocenza, ad una grazia che si scoglie dentro la sofferenza, così come nelle intense relazioni infantili e adolescenziali. Una grazia benefica rigenera la quotidianità dimessa in cui emerge un senso misterico in comunione con la morte. Un passaggio interscambiabile, dove i morti sono indaffarati, hanno un ruolo, un’immagine, i loro oggetti (il pupazzo di gomma Brontolo nominato ripetutamente e forse recuperato in un negozio vintage), gli amori, i dissapori, i dubbi sul passato posteriore, visto di spalle, a bilanciare il “futuro anteriore”.
Il linguaggio è filtrato, tutto sommato, in un’aura di purezza, in una stagione dove le età non contano più nulla. In effetti il vivere è fermentato in una nostalgia per un tempo inarrivabile, o meglio imprendibile, passato e presente, e la condizione più ricorrente è quella di chi si muove in una topografia sentimentale con la sensazione che niente si possa stratificare per sempre nel rimbalzo della memoria. L’innesto dell’affaccendarsi di Claudio, che reagisce come gli altri, sigla la forza ineguagliabile, l’invenzione strardinaria di Noi: un ragazzino deceduto nel 1967 è il legittimo detentore del diritto di parola. Il significato della morte riappare in tutto il suo emblematico segreto, ma il distacco dalla vita è presto colmato. Il canzoniere di Paolo Di Stefano è un modo per appellarsi ad un orizzonte che congiunge due estremi, ad un’associazione di idee in un travaso da un territorio all’altro, ad una metamorfosi che intrattiene simbolicamente il tempo catalogandolo, enumerandolo in una successione scomposta dai lari, Claudio in testa, vera e propria divinità domestica.
L’amore è un nodo al quale legarsi indissolubilmente, per cui ogni malessere ristagnante è spazzato via nel bisbiglio tra pensiero e inventiva. Il pegno di sincerità di Di Stefano conferma un mondo proliferante di fedi e affetti che si situano a metà tra l’immagine impressionista e un’atmosfera di redenzione, perché la felicità la conosciamo senza saperlo. La memoria di chi è cresciuto diventa un sigillo per attingere ad un appagante apprendistato. Si innerva un dialogo frontale con il discernimento di domande assolute, coraggiose, una boccata d’ossigeno nel fragore tra memoria e sogno, con l’attrazione per ciò che si dissolve e il dubbio di un dopo, di un’immortalità possibile. La riflessione biografica è una continua scoperta vocazionale, sacrificale, ma finisce per infondere fiducia nel prossimo.
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Noi è anche un romanzo sulle morti bianche, sullo sfruttamento nel mondo del lavoro. Nel 1959 la SINCAT produceva energia elettrica a vapore della quale se ne serviva l’Enel.  Ancora oggi è un polo petrolchimico siracusano per la raffineria di petrolio e dei suoi derivati e per la produzione energetica. Gli incidenti erano all’ordine del giorno e le misure di sicurezza, per il lavoratore, pressoché assenti. La crisi economica imponeva l’urgenza di un reddito per far fronte alle difficoltà crescenti di una regione che economicamente non cresceva. Se diminuiva la percentuale di disoccupazione al nord, la ricerca di un impiego al sud diventava sempre più infruttuosa, demotivante. Il precariato accompagnò le generazioni ad un futuro senza punti di riferimento nella flessibilità forzata, nello smarrimento di una visione strategica e nell’esaltazione del pragmatismo per far di conto. Il solo aprire e chiudere le valvole e controllare le manovre di pressione poteva essere un esercizio pericoloso. Quando un operaio sbagliò e invece di mandare aria azionò la leva dell’azoto, la morte per asfissia non si poteva evitare. Peppino fu investito da una fiammata e venne ridotto ad una torcia umana. Non si sa come ma riuscì a scamparla, una volta trasferito in elicottero al Niguarda di Milano, accompagnato dai parenti che costituirono un vero e proprio mutuo soccorso.
Quindi il risalto del contro altare, del riscatto sociale, della rivincita, nonostante i conti non tornassero mai tra addizioni e sottrazioni: Fontane Bianche, un arenile di sabbia bianca, con sorgenti di acqua dolce, dove i Di Stefano costruiscono il sogno proibito di una casa sul mare, “inarrivabile per un avolese non professionista”. La natura risplende come in un paradiso terrestre allietato da eucalipti, tamerici, cormorani, sterne, germani reali, martin pescatori, fenicotteri. Una villetta perduta e lontana costa mesi di lavori con zappe, carriole, pennelli, cazzuole, secchi, vernice per risparmiare sui muratori. Paolo Di Stefano scrive con un sismografo interiore sul patimento dell’uomo in un decennio che si evolve, suo malgrado, nella dicotomia di stampo pasoliniano tra progresso e sviluppo, tra necessario e futile, in un meandro oscuro dove i ricordi della gente svaniscono nel giro di pochi anni insieme agli usi, ai costumi, agli utensili e alle auto sportive da esibire davanti alle pizzerie e ai bungalow allineati di fronte alla scogliera. Un pensiero non incandescente si allinea, però, ad un incanto pudico che incombe nella zona più profonda dei componenti della famiglia, riservata con gli altri quanto turbolenta al suo interno.
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Di Stefano appare un antimodernista che guarda le categorie dello spirito tra le presenze mutanti, anonime, svincolate, per una breve stagione, dal perpetuo disinganno. “Liberatosi delle incombenze mattutine, nostro padre ci raggiungeva al mare: molto più volentieri se c’erano i suoi cognati”. Erano i giorni delle risate, delle chiacchierate, dell’allegria, dei giochi con il pallone o con i tamburelli, con gli edifici, le torrette, architettati sulla sabbia. Nonno Giovanni faceva i solitari a casa con le carte, mentre nascevano i primi languori e i primi approcci erotici con le ragazze che il femminaro definiva “carni bianche”, come fossero i suoi animali, “lisciandosi la punta del baffo destro e poi quello sinistro e lasciando cadere ovunque occhiate furtive”. Sono queste le pagine più dotate di trasporto e coinvolgimento emotivo, quasi sussurrate al lettore, confidenzialmente, con una poeticità narrativa intrinseca, che si fonda sul senso espressivo dell’incontro. Non emerge una tensione sociale, ma si eleva un dialogo carezzevole, un input confessionale come parametro d’interpretazione nella dimestichezza tra soggetto e soggetto, in un’affabilità tra giovani e adulti che vortica nell’aria estiva non più urticante, ma riempita di mandorli, ulivi e fichi d’India. Lo scrittore sceglie una soluzione tersa in cui il testo mantiene una misura variabile e permeata da un’intensità breve, tra barlumi di cose viste teneramente: il mondo che cambia è un’incognita, un ideogramma sempre più complesso da decifrare. Il fondamento intimista attraverserà un fraseggio ancora più lieve, nel privilegio del sentimento immerso in un’adempienza autobiografica specie con la morte inaspettata del piccolo Claudio.
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Claudio se ne va proprio mentre Tarcisio Burgnich, il roccioso difensore dell’Inter di Helenio Herrera, sale in alto e colpisce la palla di testa all’ottantatreesimo minuto, decretando la vittoria dei nerazzurri contro il temibile Bologna di Luis Carniglia (“Burgnich segnava / e io volavo via / alle 16.20, / più o meno”). Per il “Corriere della Sera” è stata “un’aspra battaglia sul campo”. Claudio la perderà il 9 aprile del 1967 e il fratello Paolo non risparmia la descrizione più dolorosa dell’intero libro: “All’obitorio dell’Ospedale Civico che aveva un accesso dalla strada, dove oggi c’è l’Università della Svizzera italiana con il suo bel prato, ti abbiamo trovato immobile, disteso, indossavi la stessa tunica bianca che avevamo usato per la prima comunione, con il cappuccio, la corda e il crocifisso di legno, e ricordo il grosso fazzoletto piegato sotto il mento”. La parola leucemia fa paura anche a sentirla e si è manifestata per chissà quale maleficio, per il malocchio, asserisce la madre del piccolo, oltre a dire che “il dolore nessuno lo fa sentire davvero”, né nei libri, né nei film. Di Claudio rimane il suo racconto affilato, le notti, le punture che chiamavano trasfusioni, il dottor Porcello che sosteneva che il sangue andava lavato, il colore della pelle di cera lucente, le macchie aghiformi, Brontolo, la fotografia della cuginetta Carmen, l’amore di una certa Elisa, la Lotus a pedali regalata dal nonno paterno, verde, la stessa macchina di Jim Clark. Il colore dei ricordi erompe dai disegni e dalle parole superlative, in particolare dal colore degli occhi, azzurri, e dei capelli, biondi. Il decorso della saga familiare sfugge alla fredda, cinica razionalità.
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Di Stefano propaga un incantesimo, una specie di ipertempo remoto. Il contenitore sapienziale si indirizza non solo verso il tu, ma verso un immaginifico altrove dilatando l’orizzonte dell’esperienza. La compartecipazione dello scrittore è incastonata nella totalità delle cose, custode di un mistero mercuriale tra spazio e tempo. Il dire si prolunga, sincopato e ritmato in un corto circuito di frasi che restituisce l’implacabile incedere degli anni. La parola sottintende uno sguardo mesto, offre una visionarietà, un’instabilità emotiva nella consistenza del discorso sulla dualità vita/morte protratto da Claudio, che sembra crescere e diventare uomo, nonostante la morte. “Loro non potevano saperlo, ma avevo le orecchie fini e li sentivo, li sentivo da vicino o da lontano, li sentivo”. E ancora: “Stanotte ho sognato la mamma in quei giorni. In quei giorni che nella vita era nata per stancarsi e che stare in ospedale ad aspettare la stancava ancora di più”. Claudio sogna il futuro, il passato, il presente fino a pronunciare un quesito assoluto, a plasmare un calco spiazzante: “E allora se i vivi si rassegnano, / i morti perdono sempre? / Vince chi resta in campo, / come nel gioco della palla prigioniera”. L’interrogativo pressa, si ramifica in una traccia incrinata, in una vulnerabilità recepita dai familiari in un lento smorire: “Strane idee: come si fa a diventare di colpo un angioletto con i superpoteri nelle ali? Strane idee e bella pretesa”. Il morire è un momento in cui ci si accorge di non potersi opporre, in cui nessuno può intervenire, fa capire Claudio. Ma c’è una colpa, un rimorso, un ravvedimento, un discrimine, in questa inevitabile parabola? La trama di Paolo Di Stefano è implacabile dall’asserzione al quesito, nella domanda primordiale sull’esserci, sulla fine prematura, in una crescita di senso e di valore che Noi si porta appresso nelle ultime pagine. La scrittura si trasforma in un esercizio di ascensione verso le contraddizioni tra materia e anima, in un mixage di respiri profondi e immensi silenzi quando verrà meno anche il padre. “Lì, sistemato finalmente in alto, sopra di te, nostro padre ha preso il primo sole della primavera come per farsi trovare preparato per la canicola d’agosto, poi sarebbe arrivato il tepore dell’autunno, il freddo dell’inverno e di nuovo il ritorno confortante del primo sole di primavera”.
La varietà ritmica del romanzo non è mai paga di sé e una malinconia anche irrelata fa parte di un quadro nitido. Paolo Di Stefano trova una pace semplice in una vulgata visionaria. È l’amore l’implicazione che distoglie dal male, che soppesa un sentimento di viscerale dolcezza. Il tema è ripreso con costanza e stupore. “Nostra madre avrebbe trovato la scappatoia in una forma di personale agiografia; e suo marito, sia pure con qualche difetto, sarebbe diventato da quel giorno l’uomo più desiderabile e affettuoso che una donna avesse mai avuto”.
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Il romanzo non è più un modello classico e ricorrente. Dovrebbe essere, oggi più che mai, qualcosa di scevro completamente da un’invenzione. Coinciderebbe allora, come in Noi, con una condizione umana captata dalla testimonianza. Cioè, si può essere romanzieri quando un’esistenza è già di per sé oggetto letterario e quando i fatti, per come si sono svolti, valgono un libro. Basta scoprirne l’evidenza.
“Il ricordo è un modo d’incontrarsi”, diceva Kalhil Gibran: se non ricordiamo non possiamo capire, in una temporalità declinata al passato. La stessa ricordanza leopardiana, illusione o sogno che sia, unisce piacere e dolore in un unico sentimento che per il poeta recanatese fonda il carattere dell’individuo. Il senso di continuità tra passato e presente, o meglio di un passato al presente, suggella l’inestricabile aggancio tra “era” ed “è”.  Il poeta Alfonso Gatto aveva congiunto il filo rosso della sua opera alle pieghe del tempo. Si era addentrato nel regno delle anime, aveva consacrato un dialogo con i morti che ricorda l’eco di Noi, in questo caso sotto forma romanzesca.
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La saga familiare rimanda, per restare in Italia e al Novecento, a Maria Bellonci, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Dacia Maraini, ma non possiamo non pensare, allargando i confini, a John Cheever, Philip Roth, Gerald Durrel, Jonathan Franzen, Isabelle Allende, solo per citare alcuni tra gli scrittori più noti nel panorama internazionale. La mediazione del narratore trasferisce temporaneamente le generazioni familiari nella storia, per cui il particolare viene distribuito lungo l’asse orizzontale di epoche che si avvicendano. La collocazione dei personaggi si realizza tra sequenze che assomigliano a quelle di un film sviluppato lentamente. Il montaggio e la ricomposizione di descrizioni proiettano la visuale d’intorno che fissa i tempi, che crea la sospensione della memoria nella dimensione esterna. Il flash back è una tecnica che permette di entrare e uscire da una datazione all’altra. Paolo Di Stefano muove una formula che richiama il metaracconto, la fantasia premonitoria dei narratori orali, elementi caratteristici appunto della saga familiare. L’autore reperta, non solo ricorda. Accoglie una selezione più che un’interpretazione, una ripresa di ambienti e non solo di stanze private, di luoghi eletti. Questa è la forza e la lucidità di chi si muove in uno spazio di riprese, di descrizioni non camuffate. Di Stefano è un segugio che fa primeggiare spesso l’insignificante oggetto che diventa significativo (Brontolo, la Lotus, il mobile, l’altalena, la pizza, la mozzarella ecc.). E lo stesso Claudio dà l’idea, felice, di qualcuno che ancora c’è, che non è mai scomparso, che si è solo assentato e che continua a far parlare gli altri di sé senza farsi accorgere del suo andare e venire, proprio come quello, remoto, del padre dalla Sicilia al nord dell’Italia, alla Svizzera. Non si tratta di una morte definitiva, ma di un meccanismo di sopravvivenza incasellato in blocchi di scrittura autonomi, poematici, in brandelli di verità rivelate, in un’unità riconducibile a ombre che parlano miracolosamente. Il ricordo procede per ritmi sincopati, con lividezza e lumi incandescenti. Sguardo e cuore si fondono: non più sguardo e compostezza, ma un messaggio che arriva direttamente là dove nulla può essere più taciuto. La creazione poetica ascende verso un camminamento verticale, nell’impresa della congiunzione con un mondo, purtroppo inconoscibile (quello di Claudio).
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La percezione del tempo, nella saga familiare, è come di un prosciugamento. Non esiste una dimensione allargata, protratta, ma invece immobile. Ecco quindi che le immagini del padre e del figlio possono riprodurre il sangue, il corpo, il procedimento gradevole perfino dell’immedesimazione. Il trasferimento di sé proiettato sul padre (e viceversa) si fa elemento consapevole, razionale. Siamo di fronte ad una realtà-pensiero incisiva, raffinata, che risucchia e consente la riproduzione ideale della vita. È questo il realismo più innovativo, qualcosa che è sì impossibile da qualificare, ma che costituisce la mitologia familiare. Il padre acquista via via una connotazione sempre più sentimentale, ma non di un sentimento dolciastro, vanesio. Come da una forza oracolare questa figura si staglia nel dolore ricucito perché sfociato in un dire inderogabile, misurato nel filo tenace che tiene in piedi tutta la storia. “Ho sempre avuta impressa nel cervello la sproporzione tra nostro padre, minuto e fragile, e la solenne maestosità di nonno Giovanni, e ora mi stupisco a constatare che in realtà la differenza era ridotta a un paio di centimetri: in fondo nostro padre vantava da giovane un decoroso metro e sessantadue. E mi sorprendo a fantasticare che forse nessuno, nella memora di sé che ha lasciato agli altri, è quel che era: forse è una fissazione mentale, una fotografia involontariamente ritoccata che non ha nulla a che vedere con la realtà”.
*
Una legge superiore preme sui comuni mortali, si incardina nelle vicende, determina ogni porzione di vita e realtà nel transfert affettivo. Sono punti fermi i sensi di Paolo Di Stefano, sorgenti nella capacità di eludere il male e le lacerazioni. Le tante considerazioni contenute in Noi forgiano una piattaforma, un’elezione a valori primari, nonché, in fondo, un diario dei personaggi. L’inquadratura della saga familiare a largo raggio permette un bilancio della vita dei protagonisti, alcuni tra i tanti, interlocutori che Di Stefano ha coinvolto per smantellare il convincimento di una narrazione propriamente personale. L’io, in effetti, si moltiplica in un vero e proprio repertorio.  La materia stessa è una molteplicità che ruota su sé stessa. Il senso della perdita è uno dei tanti riferimenti, come il senso di ciò che poteva essere e non è stato per pura casualità. Il contro bilanciamento si consolida nel travaso da un’esperienza all’altra, da un particolare al generale. Nella sua centrifuga il romanziere ha messo al centro un acume percettivo privo di intellettualismi e riassuntivo di un’evocazione non ordinata da un soggetto imperante. La letteratura resuscita, non distrugge, non uccide. Noi prosegue senza fine. Di Stefano torna indietro e mette a fuoco per rivivere una seconda volta ciò che è successo, ciò che è andato perduto. La letteratura si muove in un tempo che ci riguarda tutti, perché è un’esperienza che ci abita. È luce e ombra, non oblio. Riempie il grande vuoto dell’esistenza e pertanto decifra l’uomo limpidamente. Paolo Di Stefano reclama in quasi seicento pagine la pienezza paritetica, impareggiabile di nonni, padri, madri, fratelli, zii, cugini: anche per questo ha scritto uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi anni.
Alessandro Moscè
  L'articolo “E allora se i vivi si rassegnano, i morti perdono sempre?”. Paolo Di Stefano ha scritto uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni, “Noi” proviene da Pangea.
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elcorreografico · 8 years ago
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Molina: "Apoyamos la transformación de la justicia que impulsa la Gobernadora"
#Quilmes, #MartinianoMolina: "Apoyamos la transformación de la justicia que impulsa la Gobernadora"
El intendente de Quilmes, Martiniano Molinaparticipó de la apertura del XV Congreso Provincial de Secretarios, Auxiliares Letrados y Funcionarios del Poder Judicial y Ministerio Público, que se realizó este mediodía en el Teatro Municipal (Mitre 721). “Es un orgullo que Quilmes sea sede de este importante evento académico, que reúne a figuras destacadas del ámbito judicial”, aseguró el mandatario…
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cristianesimocattolico · 5 years ago
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Filippine, Chiesa repressa in un paese cattolico
Nelle Filippine, paradossalmente, si profila un caso di persecuzione della Chiesa cattolica in uno dei Paesi più cattolici del mondo. Il presidente Duterte, nella sua campagna anti-droga, ha provocato migliaia di morti. La Chiesa denuncia il crimine e per questo finisce nel mirino. Accuse di "sovversione" per 4 vescovi e 3 sacerdoti.
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di Stefano Magni (29-07-2019)
Nelle Filippine, paradossalmente, si profila un caso di persecuzione della Chiesa cattolica in uno dei Paesi più cattolici del mondo.
La maggioranza dei filippini, infatti, ha votato, per motivi di ordine pubblico, un presidente dichiaratamente anti-clericale e di origine ideologica comunista. Rodrigo Duterte, eletto su un programma “legge e ordine”, di lotta dura al narcotraffico, ha partecipato personalmente a uccisioni extragiudiziali, (come lui stesso ha ammesso) e sta conducendo la campagna contro la droga con gli stessi metodi: uccidendo senza processo migliaia di persone accusate di spaccio. Mentre le autorità giustificano queste esecuzioni come “auto-difesa”, la Chiesa denuncia il crimine. E per questo è finita, per prima, nel mirino delle autorità.
Le dimensioni esatte del massacro, commesso nel nome della lotta alla droga, sono tuttora sconosciute, ma già nell’ordine delle migliaia di vittime. La polizia filippina ammette 6600 morti, tutti dichiarati come casi di legittima difesa. I dubbi iniziano quando si vede che alcuni di questi uccisi non potevano costituire una minaccia per gli agenti. Uno degli ultimi episodi, infatti, riguarda l’uccisione di una bambina di appena tre anni, Myca Ulpina, il 29 giugno scorso, nei pressi della capitale Manila. Secondo la versione ufficiale, il padre, braccato dalla polizia, l’avrebbe usata come scudo umano. Secondo la versione degli oppositori e delle associazioni locali per la difesa dei diritti umani, la bambina è vittima di una più vasta campagna di terrore indiscriminato. Secondo gli attivisti, la polizia sta usando liste nere (“liste di controllo”) per individuare sospetti sulla base di delazioni di informatori, poi fa irruzione nelle abitazioni dei presunti spacciatori e trafficanti e alla fine il sospettato non esce vivo dall’ispezione. Solo negli ultimi sei mesi, i morti sono stati 1600. E i dati della polizia non tengono conto delle uccisioni extragiudiziali ad opera dei vigilantes. Includendole, secondo le stime delle Ong locali, si arriverebbe a contare fino a una cifra compresa fra i 27mila e i 30mila morti. Sulla tragedia delle Filippine, l’Onu ha aperto un’indagine, che verrà presentata al Consiglio per i Diritti Umani fra un anno, nel giugno del 2020.
La Chiesa è in prima linea nel denunciare i crimini. E’ di questa settimana l’iniziativa della diocesi di San Carlos (Negros Occidentale, nelle Filippine centrali) di suonare le campane delle parrocchie, delle missioni e delle case del clero “finché le uccisioni non cesseranno”, come ha annunciato il vescovo Gerardo Alminaza. Nella sua diocesi si contano almeno 74 morti nelle uccisioni extragiudiziali, 7 solo nell’ultima settimana. “Per favore, parlate - chiede mons. Alminaza ai funzionari e agli amministratori pubblici - Non fate che il vostro silenzio si sommi al numero crescente di omicidi. Non lasciare che il tuo silenzio incoraggi i criminali”. E, rivolgendosi a polizia ed esercito: “Mantenete la pace, non create ulteriore violenza! Agite nel rispetto della legge, non oltre”.
L’attivismo della Chiesa è stato prontamente “ripagato” dalle autorità con accuse di sedizione. In un’ultima ondata repressiva sono state messe in stato di accusa 40 sospetti di “incitamento alla sedizione, calunnie online e ostacolo alla giustizia”. Fra i quaranta figurano anche quattro vescovi: Honesto Ongtioco (di Cubao), Pablo Virgilio David (di Kalookan), Teodoro Bacani (di Novaliches) e Socrates Villegas (di Lingayen-Dagupan). E tre sacerdoti: Flaviano Villanueva, Albert Alejo e Robert Reyes. “Si vuole spaventare quegli uomini di Chiesa che criticano il governo e metterli a tacere – ha commentato la Conferenza Episcopale delle Filippine - I nostri fratelli non hanno mai combattuto il governo o Duterte: sono contro le politiche repressive che danneggiano i poveri”. Per monsignor Romulo Valles, presidente della Conferenza Episcopale, le accuse di sedizione “sono incredibili, andiamo oltre il razionale. Si tratta di persone che amano la patria e hanno una coscienza limpida”. Per don Robert Reyes, uno degli accusati, “Si tratta di una mossa patetica per distrarre la popolazione dall'avvento del totalitarismo. Questa decisione potrebbe dare la sveglia agli indecisi e agli indifferenti”.
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objecteiespai · 2 years ago
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#BarcelonaDibuixa
#BarcelonaDibuixa22
Fes una abraçada i guarda-la en una capsa.
Barcelona Dibuixa, el festival del Museu Picasso i l’ICUB , vol celebrar la recuperació de l’espontaneïtat i el contacte físic en les relacions humanes. Amb motiu d'aquest cicle, torna un any més per fer-nos una gran abraçada, com les que ens fèiem abans de la irrupció de la pandèmia en les nostres vides; és a dir, de manera espontània i efusiva, afectuosa. Perquè, en la seva nova edició, aquesta gran festa de l’art i del dibuix convertirà l’abraçada en el seu motiu central: hi haurà ‘abraçades’ als més de 40 tallers per a totes les edats que es duran a terme en museus, escoles, centres cívics i culturals, teatres i altres espais de tots els districtes de la ciutat.
Aquí al centre Cívic Sant Andreu dibuixarem abraçades, posarem la que ens agradi més a dins d'una capsa de mistos gran i un cop la pengem a la paret en sortirà un còmic en tres dimensions amb la nostra i amb totes les abraçades que arribin.
👉Més info de les activitats: https://tuit.cat/il4oW
Museu Picasso Barcelona Dibuixa Museu Picasso de Barcelona Icub Bcncultura BCNCultura.cat Districte de Sant Andreu #MuseuPicasso#bcndibuixa#barcelonadibuixa#activitats#activitatsculturals#centrescivics#centrecivicsbcn
més de quaranta tallers:
youtube
23/10 de 11h-19h
Abraçar-se per abraçar Creació d’una abraçada il·lustrada en forma de corona Trobar-nos, compartir, explorar junts i empoderar-nos a través del color, el dibuix, la creativitat... Et proposem la creació d'un objecte de poder il·lustrat: una corona que primer ompliràs amb els teus propis traços, color i creativitat (abraçar-te), i amb els d’una altra persona després (ser abraçat, abraçar). El primer pas per abraçar els altres és sempre abraçar-se un mateix. www.theinvisiblecircle.com @theinvisiblecircle @adolfoserra barcelona.cat/barcelonadibuixa
més de quaranta tallers:
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Centre Civic Can Felipa CC Convent de Sant Agustí Centre Cívic del Besòs i el Maresme Centre Cultural La Farinera del Clot Centre Cívic Sant Andreu
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L’abraçada es converteix en l’eix central del festival
Recuperar el contacte físic, deixant enrere els temors de la pandèmia, és motiu de celebració. L’abraçada és el gest escollit pel festival Barcelona Dibuixa, organitzat per l’Institut de Cultura de Barcelona i el Museu Picasso, com a símbol del retorn a la normalitat. I és, també, la inspiració dels més de quaranta tallers que es podran seguir durant el cap de setmana del 22 i 23 d’octubre.
El festival passa d’una sola jornada a un dia i mig i fins a trenta-dues entitats participants. I com ja fa uns quants anys, la Xarxa de Centres Cívics de Barcelona torna a sumar-se a la iniciativa que vol apropar la il·lustració com a eina d’expressió artística. Enguany, cinc equipaments de la xarxa proposen cinc tallers que podreu seguir, de manera gratuïta i sense inscripcions, entre les 15:00 i les 19:00 h de dissabte i a partir de les 11:00 h i fins a les 19:00 h de diumenge.
El primer dia del festival, atanseu-vos al CC Can Felipa o al CC Convent Sant Agustí.
La Neus Frigola dirigeix Figures abraçables (CC Can Felipa, 22/10 – 15:00 a 19:00 h), una activitat per explorar l’abraçada amb un grup de cossos escultòrics que, a més a més del contacte físic, també es podran pintar. Així doncs, què passa quan ens abracem? Quines sensacions es desperten?
A Ciutat Vella, l’Asociación Sociocultural Radio Nikosia vol Dibuixar l’abraçada (CC Convent de Sant Agustí, 22/10 – 15:00 a 19:00 h) i crear-ne una cartografia tot donant forma, imatge, línia, textura i color al gest a través d’una silueta que es podrà omplir de colors i emocions.
L’endemà, us esperen al CC del Besòs i el Maresme, al CC La Farinera del Clot i al CC Sant Andreu.
La Cé Marina, a través del taller Dibuixa la teva història (CC del Besòs i el Maresme, 23/10 – 11:00 a 19:00 h), vol analitzar i pintar les vivències viscudes durant la pandèmia, l’adaptació i com es veu el futur a partir d'ara.
L’abraçada abstracta (CC La Farinera del Clot, 23/10 – 11:00 a 19:00 h) és l’activitat proposada per l’Alison Buchanan. Abraçant una altra persona amb un paper entremig, es traçaran les línies de braços, mans i dits. A partir d’aquesta marca, es buscaran dins l’imaginari de cadascú les formes i els colors que els suggereixen.
A Sant Andreu necessiten la vostra aportació per crear un còmic en tres dimensions. Capses d’abraçades (CC Sant Andreu, 23/10 – 11:00 a 19:00 h), la iniciativa d’en Pere Puig, proposa dibuixar una abraçada, posar-la dins d’una capsa de llumins i penjar-la a la paret. Entre totes les abraçades es crearà el còmic coral.
Per a més informació, consulteu el web del Barcelona Dibuixa.
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aurelia4you · 3 years ago
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Aurelia e il suo Entanglement
Sono le 2.30 del mattino suona la sveglia, oramai mi sono quasi abituata a questo orario folle, dato il fuso orario da qualche altra parte del mondo ci sarà qualcun altro a fumare come me, è diventato un piacere, una quasi abitudine, l'aria è veramente fresca, un lungo viale alberato, un percorso in autobus, la luce del sole, il colore del miele caldo, aspiro profondamente la sigaretta, mi rilasso finalmente, mio nonno era abituato a fumare dalle quaranta alle sessanta sigarette, probabilmente un pòc troppe per me. La mia mattina comincia cosi, ogni mattina il solito appuntamento con te, è un quasi piacere, mi vieni in mente te anche se non vorrei, quest'anno sei tu il mio pensiero, il mio chiodo fisso assieme al lavoro che devo fare, seguo un blog di letteratura erotica durante la settimana, mentre il fine settimana lo dedico ad uno dei miei autori preferiti, mi sono iscritta ad un Master su Gabriel Garcia Marquez, Cent'anni di Solitudine, semmai una persona raggiungerà mai quell'età a quelle condizioni, una solitudine interna, malinconica, un ricordo costante, erotico, il piacere dato dai sensi, e tu per sempre cosi, in ogni tiro di fumo ci sei tu, la mia t-shirt, senza reggiseno, i miei shorts, le scarpe da ginnastica ed i calzini a pois rosa, ci sei tu, sei arrivato quest'anno, e cosi ritorno indietro con la mia memoria dove mai avrei potuto incontrarti, uno dei miei soliti lavori saltuari quelli a breve termine, per essere chiari il determinato, mi viene soltanto in mente Vicenza, un centro commerciale fantasmagorico, Centro Commerciale Palladio e il negozio multicolore dove io e le colleghe abbiamo lavorato per circa sei mesi, ognuna di noi con il proprio cartellino, il mio era rosa con la scritta del mio nome in blu, Aurelia, me lo sono tenuto come ricordo, ma io di te non ho nessuna traccia, qualche sospetto ma niente di più, sicuramente una forte allergia acquisita che a distanza di tempo me la porto ancora dietro. Probabilmente sei stato uno di quei clienti, che ha acquistato il regalo per la propria fidanzata, tipo una matita colorata oppure la calamita da mettere sul frigo, faccio fatica ad immaginarti a pensare a te come a un qualcosa di concreto, mi piacerebbe soltanto averti tra le mie braccia, l'odore di zucchero filato, sussurrarti all'orecchio di amarti, che sei sempre rimasto sveglio e niente di più, infilare le mie dita tra i tuoi capelli e sentirne l'odore, accarezzarti dolcemente, ma di te nessun ricordo. Difficilmente riesco a mettere insieme il puzzle, qualcosa mi sfugge sempre, un groviglio di fili un perfetto entanglement, sono di nuovo agitata e nervosa, ti si sente nell'aria, il mio lavoro mi impegna parecchio, non ho tempo per le relazioni umane, ho il cervello sempre attivo da altri pensieri, è impossibile trovare una stabilità cosi da diversi anni, siamo stanche il lavoro c'è sempre, una resistenza e costanza data dalla certezza che prima o poi cederai, mi lascerai, il punto è sempre questo fino a dove ti spingerai. Sei arrivato di nuovo nella mia vita dopo cosi tanto tempo, quello che ti posso dire è che nonostante tutto puoi stare ancora con me, puoi accarezzarmi, sentirmi ancora. Io e le colleghe abbiamo poi lasciato il Centro Commerciale è stata un esperienza di lavoro divertente, tanti clienti, tanta gente, il mio pensiero in ogni caso ritorna a te. Ho ancora la sigaretta in bocca mentre penso a te, la mia giornata continuerà con il mio blog erotico ho diversa corrispondenza elettronica da controllare, ci sono un paio di lettori molto interessanti, quello che devo fare io è leggere i loro racconti e poi pubblicarli, quando mi rimane del tempo seguo anche le telefonate erotiche, ma è un aspetto del blog che preferisco lasciare alle ragazze, ci sono un paio di studentesse di Conservazione dei Beni Culturali che prendono tutte le telefonate, perfettamente organizzate, tra lezioni e blog riescono a fare tutto, si arrotonda cosi a fine mese. Noi ci troviamo al settimo piano di una Palazzina in via Armando Nugnez, è una struttura antica, l'ascensore non funziona sempre, ogni tanto ci capita di rimanere bloccate. Rido mentre penso a questo, apro la porta del Palazzo dove abito e comincio a fare le scale, mi fa bene alle gambe ci vuole un po prima di arrivare in alto, quando arrivo sono un po stanca, apro la porta, vado direttamente in cucina mi preparo le mie due arance, mi accendo ancora una sigaretta e organizzo la mia giornata, decido di dormire ancora un pò. Punto la sveglia alle 7:30 del mattino, in casa siamo in cinque, due studentesse e tre lavoratori, la casa è veramente grande, io ho la stanza singola, una vetrata che da direttamente su una corte interna, un letto matrimoniale, un ampio tavolo dove si trova il mio computer vitale, posso perdere tutto ma non il computer, all'interno di quella scatoletta si trova tutto, il mio lavoro, corrispondenza elettronica, contatti, dati ed info, foto e ricordi, un perfetto bagaglio culturale. lo custodisco con gelosia potrei assicurarlo ma alla sola idea folle ci ripenso. Al mio risveglio ho ancora il cervello attivo, di nuovo te, vado direttamente in bagno e mi faccio una doccia calda, colazione al bar oramai è una tradizione, come arrivo al lavoro trovo Carlotta già attiva è arrivata alle sei del mattino, le telefonate erotiche si organizzano il giorno prima pe il giorno dopo, i nostri clienti si sono affezionati vogliono la sveglia calda, abbiamo la macchinetta del caffè, e le brioche quelle appena sfornate, Carlotta ha una voce suadente, diretta e schietta sa fare bene le telefonate, corsi di dizione, non ci sono errori quando parla, li sento i clienti sono sempre contenti, le telefonate le preferisco brevi, non vorrei mai ritrovarmeli sotto la Palazzina con un mazzo di rose, la saluto con un gran sorriso e le dico: mi raccomando il massimo del risultato con il minimo dello sforzo, a quelle parole scoppia a ridere e continua a stare al telefono con il suo cliente, credo che li cambi ogni giorno, ha un ottima dialettica, li piglia subito, una scioltezza e prontezza impressionanti, le altre ragazze arriveranno più tardi anche loro con i loro appuntamenti, si parla di tutto al telefono, credo che potrei scrivere un libro, abbiamo tutte quante un contratto a breve termine, ci piace il lavoro e ce lo vogliamo tenere quindi ci impegniamo tutte quante, la paga è ottima e abbiamo anche le commissioni, evitiamo gli incontri diretti, anche se qualche volta la curiosità aveva preso piede, abbiamo sempre evitato l'ostacolo, troppi pensieri per la testa, troppi impegni, il moto della giornata è: "when the going gets tough, the tough gets going", l'impegno durante la settimana è notevole tra lezioni all'università e le telefonate, io seguo il blog ed i racconti da pubblicare di norma chiudo alle sei del pomeriggio la mia giornata comincia alle 8.30 no stop. Tanti racconti, molti da cestinare, di norma ricevo ogni giorno dalle cinquanta alle sessanta email, la mia tecnica di selezione è easy, titolo del racconto e il breve curriculum vitae che mi viene allegato, spesso ci sono gli improvvisati, una terza media scarsa, i nostri lettori sono onesti ci dicono sempre quello che pensano, per loro siamo le "Maialine" buttano dentro di tutto, dalle maialate più assurde ad un Marchese di Sade "spento", di norma pubblico quello che è un corretto italiano facendo delle piccole correzioni senza alterarne il significato, ciò che raccontano è un esperienza di vita che io personalmente "detesto" oppure i racconti di fantasia i miei preferiti, tra i miei lettori ce ne uno che ogni settimana mi manda i suoi racconti in modo metodico di norma li pubblico tutti, ottima dialettica e fantasia, di lui abbiamo soltanto la posta elettronica e un nome assurdo "Fagiolino" sono rimasta a bocca aperta quando ho letto il primo racconto, la storia di una studentessa universitaria alle prese con una sorella schizofrenica da curare, l'amico di letto sempre presente e un amore indescrivibile per Pablo Neruda, il racconto è lungo tre fogli A4 circa, viene raccontata la vita rocambolesca di Amelia, il finale opinabile, io direi un finale aperto, lo si lascia immaginare al lettore, questo è soltanto uno dei racconti. Mi sono accorta che ogni settimana il giovedi o il venerdi ricevo "Fagiolino" nella mia posta elettronica, soltanto cara Aurelia, ecco il racconto e poi la firma, è cosi da almeno sei mesi, come dicevo oltre alla posta elettronica seguo anche le telefonate i clienti sono interessanti in modo particolare quello delle quattro del pomeriggio di mercoledi, hanno l'abitudine di segnare un orario e il giorno, spesso vogliono sempre la stessa interlocutrice anche se io non sarei molto d'accordo, il moto è sempre lo stesso il massimo del risultato con il minimo dello sforzo, tanta allegria, e tra le ragazze ci si mette d'accordo per scambiarsi i clienti, in modo che la conversazione rimanga sempre viva, input nuovi e diversi, la monotonia spegne ogni cosa, la routine, questo vale anche nel nostro lavoro. Ritorniamo al nostro cliente quello di mercoledi, quattro del pomeriggio è ormai un mese che mi segue, acquista anche i nostri prodotti online, di norma mi capita sempre di sentirlo, seguo come sempre la regola di passarlo alle altre ragazze. Tutte le nostre conversazioni sono registrate, ci serve anche per capire dove dobbiamo migliorare, niente è a caso, ognuna di noi ha un ottima padronanza della lingua italiana, è un lavoro come un altro, siamo informate su tutto, gossipare al massimo, fashion, politica, cucina, sport, ci sono poi gli argomenti preferiti, per quanto riguarda il cliente del mercoledi, sopranominato "Pisellino" ha una figlia di nove anni si chiama Elizabeth, lui invece ne ha 42 di anni, di lavoro fa il militare, semplice recluta, missioni speciali in Siria, è americano di Houston, ha viaggiato tanto nella sua vita, mamma e papà non ci sono più, era sposato e anche lei non c'è più, un pizzico di malinconia nelle sue parole nella sua voce calda, io lo faccio come lavoro quello di ascoltare gli altri niente di personale, dato il mestiere che fa credo che non abbia molto tempo per le relazioni personali, quindi non c'è niente di meglio del blog erotico letterario la Vispa Teresa, un gruppo affiatato di studentesse universitarie alle prese con le fantasie erotiche dei maschietti. Pisellino è sincero sa quello che vuole e come ottenerlo, è sicuro di sè, dei suoi pensieri, va liscio come l'olio tra il cervello e la bocca non c'è alcun filtro, ti dice quello che pensa, un carro armato, una mitraglia di parole. Le sue telefonate hanno una durata media che va dai trenta ai quarantacinque minuti, mi racconta dei suoi viaggi di come è lui, si parla di sesso e di quello che gli piace fare, sono convinta che non l'abbia fatto a parte con la sua ex ragazza o consorte, un uomo tutto di un pezzo. Sono sconvolta nel sentirlo parlare, per lavoro siamo obbligate ad ascoltare, ma se dovessi dare una definizione logica e pratica di pisellino, lo definirei come uno psicopatico dell'amore, è una linea continua, fedele a senso unico, mi chiedo come fosse la sua ex, Pisellino mi ha inviato le sue foto, palestrato, alto un metro e novanta per ottanta chili di peso, biondissimo, entrambe le braccia tatuate, tra le altre cose sul braccio sinistro troneggia una scritta, YOU, probabilmente intenderà la sua ex, un bel modo per ricordare chi ami, insomma un uomo dalle mille risorse. E' sempre puntuale, infatti fra pochi minuti partirà la telefonata, oramai mi sono preparata con la mia tazza di caffe ed i biscotti al cioccolato, sono seduta alla mia scrivania, di fronte al pc, il mio telefono a forma di muccarela, bianca con le chiazze nere, a volte quando sono al telefono devo stare attenta a non ridere, la visione della mu smorza determinate situazioni, non facciamo mai le video chiamate, evitiamo di farci vedere per vari motivi, a volte ci si sveglia con i brufoli o con le occhiaie fin sotto l'ombelico, ci basta la voce e il caffe. La visuale dell'altro sarebbe troppo anche per noi, passiamo troppo tempo sui libri, il make up da maiale alle sei del mattino sarebbe una mission impossible, oppure quando abbiamo i turni di notte, di norma kebab e una birra, per chiudere in bellezza la Maria è sempre a portata di mano, mentre penso a questo squilla il telefono è proprio lui Pisellino, lo saluto, gli dico: come va? mi risponde ridendo: bene, sono sempre puntuale al mio appuntamento, posso raccontarti la mia vita, quello che sono senza problemi. Sei la mia amica, la mia amante, la ragione della mia vita. Sei quella parte di me che non posso dimenticare, come dire, non mi lasciare, perchè io non ti lascerò mai per nessuna ragione, sei quello che compensa la mia esistenza, quel desiderio di essere rassicurati sempre, sei la mia droga quotidiana, non c'è giorno che io non pensi a te, sempre. Sono sempre io a cedere con dolcezza, gli dico: di sicuro io e te potremmo stare insieme raccontarci tutto, ma piuttosto quello che ti voglio chiedere è questo: come ti piacerebbe farlo, da circa un mese parliamo di quello che facciamo, con chi usciamo quello che mangiamo, i film, musica teatro, piuttosto raccontami delle tue fantasie erotiche, quello che ti piacerebbe fare. E' a questo punto che Pisellino si ritira come un riccio, le sue fantasie sono al limite, non ci sono, credo che sia dovuto al lavoro che fa, oppure al tempo che non c'è, una figlia da sistemare. Lui mi risponde dicendomi: quello che mi piacerebbe è avere te, qui di fianco a me, accarezzarti dolcemente, dirti che ti amo, e che mi basta questo per il momento, quando non sarà più sufficiente te lo farò sapere per tempo. Sono dall'altra parte del telefono, il suono della sua voce, il caldo del suono, mi dicono soltanto che sa quello che vuole, leggendo tra le sue parole, sono come lui mi immagina, alta un metro e settantacinque, magra, capelli biondi, dei lineamenti semplici, senza niente di particolare, una perfetta vichinga, schietta e diretta, niente di complicato a livello mentale, la tipa da pop corn del sabato sera. Cosi mi ha immaginata e cosi mi sono sempre descritta, offrire al cliente sempre quello che vuole, e mai contradirlo le telefonate hanno il loro costo. Continua a raccontarmi di lui, credo che per arrivare ad una dichiarazione sessuale diretta ci vorrà ancora del tempo. La nostra telefonata si conclude dopo mezz'ora circa, mi preparo la mia sigaretta, me la fumo con calma, Aurelia che sono io, sono alta un metro e settanta, ho le braccia da scaricatore di porto, anni di nuoto hanno modellato la mia schiena, potrei spostare un armadio senza nessun problema, mi muovo come un serpente nel mio pensiero, continuo a fumare, tiro le mie conclusioni, pisellino prima o poi morirà in una delle sue missioni è solo una questione di tempo, oppure farà ritorno a casa negli States è un punto di domanda, quello che non riesco ancora a capire è se le nostre telefonate avranno un seguito, diventeranno quasi un abitudine, tiro ancora, io a differenza della vichinga semplice e bionda, ho i capelli castano scuro corti, labbra carnose, adoro il sesso, mi piace fumare, complessa a livello mentale, in questo momento mi farebbe comodo la Maria, un ultimo pensiero lo dedico ancora a lui, non potrebbe mai funzionare, sono testarda e determinata, le telefonate prima o pi si concluderanno, dagli States costa troppo chiamare è una logica semplice, mentre penso a questo rido, la verità è che Pisellino si affezionerà e per uno strano motivo sarò la sua metà on line, speriamo soltanto che la mu smorzi le nostre telefonate.
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marcmaciafarre · 7 years ago
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1923 o 1934?
“History never repeats itself, but the Kaleidoscopic combinations of the pictured present often seem to be constructed out of the broken fragments of antique legends.” Mark Twain, 1874
El 13 de setembre de 1923, després d’una de les celebracions més fervoroses de la Diada  Nacional que es recordaven, el capità general de Catalunya, Miguel Primo de Rivera, pare del fundador de la Falange, José Antonio, feu públic un manifest que, a la pràctica, equivalia a un cop d’estat que inicià la primera dictadura espanyola del segle XX. L’etapa històrica que anomenem la dictadura de Primo de Rivera (1923-1930) s’inicià amb un autèntica conspiració de passadís de palau fruit de les diverses tensions dins de l’exèrcit i la manifesta incapacitat de la classe política espanyola per fer front a les dificultats del moment, a més d’un estat de paranoia mediàtica entre la classe burgesa que veia constantment amenaçats els seus privilegis, encara que això no fos en absolut real. Malgrat un primer moment dubitatiu la dictadura ràpidament mostrà el seu ferotge anticatalanisme i inicià el seu turbulent trajecte amb la dissolució de la Mancomunitat de Catalunya —la primera institució d’autogovern des de 1714— i la persecució dels moviments sindicals hostils al nou règim militar, excepte l’oficialisme del PSOE i la UGT que hi col·laboraren. Davant d’aquesta descripció estic segur que molta gent ha tingut la sensació de deja-vu i ha vist reflectida la seva experiència personal present amb aquest time travel. Vacunats com estem, per ofici, de fer cap mena de presentisme volem deixar clara que la història no és repeteix. Mai. Enlloc. Però sí que val la pena assenyalar que hi ha comportaments polítics que es perpetuen en les institucions degut a les dècades d’ocupació de càrrecs públics per part de les mateixes famílies polítiques. La solució autoritària que planteja avui el govern espanyol té com a precedent no la dictadura del general Franco —totalitària d’extrema dreta, és a dir, feixista— sinó l’experiment d’autoritarisme sincrètic de Primo de Rivera. Com va passar el 1923 avui n’hi ha hagut prou per fer una maniobra de palau per canviar radicalment la naturalesa política de l’estat espanyol. Com en la Restauració absolutista d’Alfons XII i Alfons XIII —aquest darrer repadrí de Felip VI— la societat espanyola de principis del segle XX vivia immersa en un sistema polític caciquil, corrupte i volgudament bipartidista, amb un turnisme postís i pactat d’avant-mà. Hom té la sensació que després de més de 50 anys de la restauració borbònica i 40 de la monarquia constitucional els mals són semblants: corrupció, bipartidisme que no s’acaba de trencar i un poder polític de les elits econòmiques que l’apropen més al caciquisme polític que no a la democràcia representativa convertida en pura formalitat cada 4 anys. Com diu la frase, les dictadures se sap quan i com comencen però mai com s’acaben. La dictadura de Primo de Rivera fou incapaç de consolidar un discurs polític coherent i anà fotocopiant elements del feixisme italià de la mà del seu home pont entre ambdós règims, el lleidatà Eduardo Aunós, ministre de Treball que arribà a implantar el model laboral de Mussolini. Aunós repetiria com a ministre durant el franquisme, aquest cop de Justícia, durant la primera fase clarament influenciada per l’hegemonia feixista a tota Europa. No cal dir gaire més, per tant, de quina mena de personatge estem parlant, probablement un dels més foscos de la història de la Lleida contemporània. Cal pensar que el 1922 Mussolini s’havia fet amb el poder a Itàlia, a l’octubre de 1923 Kemal Atatürk esdevenia el primer president de la República de Turquia, o que al novembre del mateix any Hitler havia protagonitzat el Putsch de Munic. A mesura que s’acostà el final de Primo de Rivera es va arribar a crear una Assemblea Nacional que proposà l’aprovació d’una nova constitució que enterrava definitivament el règim canovista i que hauria inaugurat una etapa marcadament feixistitzada. L’actual règim espanyol, envoltat d’un context europeu i mundial marcat per l’esclafament de les revoltes de la primavera àrab, de l’ascens de forces alternatives a tot l’arc mediterrani que provoquen paor a l’establishment polític, i els cops d’estat —literals o figurats— a Grècia per part de la troika, a una Turquia que ha emprès, definitivament, el camí autoritari dur, i a la Ucraïna mutilada per la Rússia de Putin, han configurat un panorama de crisi de les democràcies liberals europees i del seu entorn geogràficament immediat que no se sap ben bé quina sortida tindrà. En aquest sentit la solució al conflicte entre Catalunya i el govern espanyol marcarà profundament el camí que emprengui Europa, independentment de si és per la dreta o per l’esquerra, ja que el conflicte ara mateix es dirimeix entre més democràcia o menys democràcia. Més parlamentarisme i participació política de masses o involució democràtica i nous retrocessos en l’estat del benestar i els drets civils. No podem deixar de referir-nos breument a l’anomenat Bienni Negre (tardor 1933-primavera 1936) quan el partit del corrupte Alejandro Lerroux, del Partit Radical, governà en coalició amb l’accidentalista i filofeixista Confederación Española de Derechas Autónomas (CEDA). Darrerament historiadors i periodistes alertaven que el president Puigdemont no dugués a terme un altre 6 d’octubre —en referència a la proclamació de l’Estat Català per part del president Companys el 1934— ja que aquest comportà la suspensió de l’autonomia i la detenció del president i el seu govern fins a la victòria del Front d’Esquerres —Frente Popular a la resta de l’estat— en les eleccions del febrer de 1936. Penso que estem davant d’un escenari que combina elements d’ambdues situacions —el setembre de 1923 i l’octubre de 1934—, sempre tenint en compte que només són això, antecedents polítics i històrics d’una situació actual que s’hi pot assemblar o no en funció dels gustos personals de cada un. En primer lloc hem de tenir present que el 1934 va ser la Generalitat qui va prendre la iniciativa de frenar la involució democràtica que s’estava produint a la resta de l’estat mitjançant una acció simbòlica que volia despertar les simpaties de les forces polítiques i sindicals d’Espanya i provocar un aixecament massiu sumat al català i l’asturià que s’estaven donant en aquell moment. Tanmateix la reacció no fou ni la solidaritat i la fraternitat i el govern català es quedà sol i ràpidament fou empresonat. En canvi el 1923 fou la corona qui donà el vist-i-plau al cop d’estat de Primo de Rivera i quan consellers de la Mancomunitat es desplaçaren a Madrid per pactar o gestionar el nou model polític —entre ells el borgenc Pere Mías— tornaren amb la cua entre cames en veure el marcat caràcter autoritari i anticatalanista que prenia la situació. De fet el president de la Mancomunitat, Josep Puig i Cadafalch, marxà a l’exili francès aquell mateix desembre i la institució era totalment desmantellada l’any següent mitjançant el president titella Alfons Sala i Argemí fins a la seva dissolució el 1925. És cert, tanmateix, que aquesta anàlisi funciona dia sí dia no degut a l’existència de diversos elements simbòlics molt potents. La presència del vaixell del Piolín al port de Barcelona, com el 1934 i hagué el vaixell presó Uruguay, o les lamentables —i punibles a la resta d’Europa— declaracions del portaveu del PP, Pablo Casado, amenaçant el president Puigdemont d’acabar com el president Companys, desperten la imatgeria històrica i un univers de simbolisme polític molt potent. En definitiva penso que podem parlar d’un model de cop d’estat i d’involució democràtica alhora, una combinació del setembre de 1923 i de l’octubre de 1934, que s’alimenta d’elements d’ambdues situacions a més de veure en el pòsit repressiu infinit que s’ha heretat dels gairebé quaranta anys de franquisme. Tot i això no hem d’oblidar que estem davant d’una situació històricament nova, amb els paral·lelismes que hem traçat, però nova i que, per tant, cap de nosaltres sap com pot acabar. Desconfieu, en general, d’historiadors i periodistes atrevits i endevins que saben com acabarà el procés, el 155, la República Catalana, o la sacrosanta constitució postfranquista. Cap d’ells no té ni idea de quin final pot tenir la situació actual i, com a molt, podrem esbossar unes conseqüències a curt termini de tot plegat. Res més. Que no és poc.
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micromondi · 8 years ago
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Lezione del 6 aprile 2017
Nella lezione di oggi Roberta Aureli ha presentato agli studenti la sua ricerca La campana di vetro. Trasformazione della «camera di compensazione per sogni e visioni» nelle pratiche artistiche contemporanee, recentemente pubblicata da Bulzoni Editore.
Passando dalla cultura britannica e americana delle parlor domes, le cupole da salotto di epoca vittoriana, alla tradizione napoletana dei presepi e delle statue dei santi sotto campane di vetro, abbiamo visto come tanti artisti - nel corso del Novecento e fino a oggi - si sono appropriati di questo “dispositivo di meraviglia” interpretandone e aggiornandone senso e contenuto, secondo la propria sensibilità e le esigenze comunicative più attuali. L’argomento ampio della lezione ci ha dato modo di legarci a diverse parole-chiave del corso: l’inversione di scala, il giocattolo, la simulazione, la meraviglia, il display, la creazione demiurgica.
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Joseph Cornell, Untitled (Bell Jar Object) (1939 ca.). Smithsonian American Art Museum, Washington DC americanart.si.edu
Punto di partenza del libro e della lezione è Joseph Cornell, autore nei primi anni Trenta di assemblaggi con ritagli e oggetti di recupero sotto piccole glass bells. Abbiamo analizzato dapprima le “teste” sotto vetro di Claude Cahun, Man Ray e Lee Miller e poi, proseguendo lungo analoghe suggestioni surrealiste e surreali, due scatti di David LaChapelle e insolite opere di Bruno Munari, Sergio Dangelo e Lucio Del Pezzo realizzate tra gli anni Quaranta e Sessanta. Lega gli ultimi tre l’accumulazione di cianfrusaglie, “l’anarchia del rigattiere”.
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Bruno Munari, Composizione con giocattoli (1946) Immagine tratta da L’arte del gioco. Da Klee a Boetti (catalogo della mostra, Aosta 2002)
Passando a esperienze artistiche più recenti, abbiamo visto alcuni lavori di Pablo Mesa Capella e Aiba Takanori - piccoli mondi fantastici, tra Lilliput e l’estetica bonsai - di Paula Hayes, Dominic Wilcox e Justine Smith. 
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Pablo Mesa Capella, Gulliver e il bosco in tre dimensioni (2013) pablomesacapella.blogspot.it
Le opere di Sebastiano Mauri, David Casini, Jake & Dinos Chapman, Damien Hirst e Shen Shaomin ci hanno aiutato a comprendere in che modo la campana di vetro, da “camera di compensazione per sogni e visioni”, abbia cominciato a includere le “illogiche abitudini” e le contraddizioni della contemporaneità (la difficoltà ad accettare ‘l’altro’, l’abusivismo edilizio, la mercificazione, le modifiche genetiche ecc.), smorzando l'atmosfera d'incanto degli assemblage cornelliani.
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Sebastiano Mauri, Aliens (2012) www.sebastianomauri.com
Prima di concludere con un epilogo ricco di spunti letterari e cinematografici utili ad aggiornare il significato anche simbolico della campana di vetro (da The Bell Jar di Sylvia Plath all’enorme cupola che intrappola la città di Springfield nel film dei Simpson), abbiamo analizzato The Eighth Day di Eduardo Kac e due lavori interattivi di Lynn Hershman che ‘aprono’ la campana di vetro agli stimoli del mondo e all’interazione col pubblico.
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Eduardo Kac, The Eighth Day (2000-2001) www.ekac.org/8thday.html
“Il collezionista sarà prima di tutto un ordinatore dell'esistente. Come Dio ex nihilo raccoglie nei primi sette giorni della storia del mondo le creature intorno a sé, così può fare l’uomo scegliendo da ciò che esiste gli elementi di una nuova classificazione. Anzi fa di più. Prende su di sé il compito di catalogare le materie, le forme di vita animate e inanimate e, come un nuovo creatore, le riunisce in un modello che ripete, in miniatura, il mondo”
– Adalgisa Lugli, Naturalia e Mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d’Europa (1983)
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retegenova · 6 years ago
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DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO
Svelate le date: un giorno in più di programmazione. Il celebre disegnatore di Tex Stefano Biglia collaborerà alla creazione dell’immagine del festival
Proiezioni, masterclass, appuntamenti con registi, attori e produttori di livello mondiale. Dal 7 al 12 maggio 2019 il Riviera International Film Festival torna a illuminare il Tigullio, portando in scena il meglio del cinema under 35 ancora non distribuito in Italia. Come negli anni passati, il festival avrà casa a Sestri Levante, per poi svilupparsi anche in altre località del Levante ligure. Tra le novità della terza edizione c’è il lancio delle “locandine d’autore”, che ogni anno saranno targate da personalità autorevoli. La firma che collaborerà alla creazione dell’immagine della terza edizione del Riviera International Film Festival è Stefano Biglia, celebre disegnatore di Tex. Il Riviera International Film Festival è realizzato con il sostegno del Comune di Sestri Levante e con Mediaterraneo Servizi.
Forte del gran successo riscontrato nella seconda edizione, con oltre 3000 biglietti venduti per le proiezioni, 800 per le masterclass e con diverse migliaia di persone ad assistere ai vari eventi del festival, il Riviera International Film Festival scalda i motori. «Stiamo lavorando alla terza edizione del festival – racconta da Los Angeles Stefano Gallini-Durante, presidente e fondatore del Riviera International Film Festival – per far crescere ulteriormente una manifestazione che già l’anno scorso ha confermato di avere un solido appeal internazionale. Ospiteremo ancora, dal 7 al 12 maggio, personalità e professionisti del mondo del cinema nazionale e internazionale, che racconteranno i segreti del mestiere in masterclass di primo livello, uniche nel panorama dei festival Italiani. Ci stiamo impegnando per coinvolgere anche università e istituti scolastici: vogliamo che i giovani possano ispirarsi e tornare a sognare, in un momento storico piuttosto cinico, dove l’ispirazione non sempre fa parte della loro formazione».
«Ho ritenuto che in questa terza edizione – spiega Chiara Fiorini, direttrice eventi e allestimenti del RIFF – i tempi fossero maturi per dar vita a un progetto in cui credo molto, con l’obiettivo di coinvolgere ogni anno grandi firme dell’illustrazione, della fotografia, dell’arte e della grafica». La firma scelta per collaborare alla creazione dell’immagine del RIFF2019 è Stefano Biglia, celebre disegnatore di Tex, storico fumetto che ha appena spento settanta candeline. «Il Riviera International Film Festival – aggiunge Stefano Biglia – è una manifestazione che si è subito imposta per due peculiarità: la vocazione internazionale e il focus sui giovani. La locandina che andrò a disegnare giocherà molto su questo, in un ambiente tipico ligure: acceso, vivace e molto legato alla natura».Confermata anche la sezione documentari, focalizzata su ambiente e società. «In un’Italia ancora scossa – prosegue Gallini-Durante – dal nubifragio di inizio novembre, e soprattutto in un Tigullio ferito dalle recenti mareggiate, la nostra sezione dedicata ai documentari sul tema assume un ruolo ancora più centrale. Inquinamento, cambiamenti climatici, migrazioni, discriminazione e diseguaglianza sociale, conflitti armati: il Riviera International Film Festival vuole che le istituzioni di oggi e le generazioni di domani siano maggiormente consapevoli di ciò che il nostro pianeta deve affrontare per rendere migliore la qualità del nostro futuro». Inoltre, il festival avrà una durata di sei giorni, un giorno in più rispetto alle edizioni precedenti. 
A breve saranno svelate altre novità sulla terza edizione del Riviera International Film Festival.
Il Riviera International Film Festival è un festival internazionale del cinema indipendente , dedicato ai registi under 35, che si tiene annualmente a Sestri Levante, con eventi simultanei in diverse località del Levante ligure. Nasce nel 2017, e si propone di portare della Riviera ligure un festival dal format innovativo e della vocazione internazionale, che coniughi la domanda crescere di formazione sulle tecniche cinematografica all’opportunità di dare uno spazio qualificato ai giovani registi. Il RIFF affianca, alle proiezioni di film e documentari, panel, conferenze, incontri, laboratori e masterclass di livello mondiale. Dall’edizione 2018 è presente una sezione dedicata ai documentari sull’ambiente. Nelle prime due edizioni ha visto la partecipazione di personalità del calibro di Matthew Modine, Alessandra Mastronardi, Violante Placido, Marton Csokas, Valentina Lodovini, Ed Solomon, Gianni Quaranta, Cote de Pablo, David Franzoni, Erri De Luca, Gaia Trussardi, Paola Jacobbi, John Campisi e il Premio Nobel Nigel Tapper. 
  Ufficio Stampa Riviera International Film Festival
www.rivierafilm.org
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DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO…
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tmnotizie · 6 years ago
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CATANIA – All’inferno e ritorno! La Happy Car Samb beach soccer vince con una clamorosa rimonta contro i siciliani del Palazzolo (7-6) e approda alla semifinale di oggi nella quale affronterà (alle ore 16.30) il Terracina di Elliott e Carotenuto che ha sconfitto il Pisa. Alla fine del secondo tempo i rossoblù di mister Di Lorenzo erano sotto 0-4, senza aver dato alcun segnale di vita in mezzo al campo e tutto sembrava fosse favorevole alla formazione siciliana.
Dopo aver perso la Coppa Italia (per un’irregolarità regolamentare proprio contro il Palazzolo) e la Supercoppa di Lega contro il Viareggio, ci si attendeva la riscossa dei sambenedettesi, che è giunta nel terzo e ultimo tempo con una rimonta impressionante.
La partita. Dopo soli quaranta secondi Souza, tutto solo in area, insaccava al volo su tiro d’angolo e al sesto minuto Jordan sbagliava un rigore concesso per fallo di mano di Juninho. A un minuto dal termine della prima frazione lo stesso esperto brasiliano firmava il raddoppio con un preciso pallonetto e dopo trenta secondi del secondo tempo si ripeteva con un tap-in sotto misura. La quarta rete dei siciliani arrivava su punizione con Federici e tutto sembrava deciso.
Nel terzo tempo però iniziava la rimonta dei rivieraschi che grazie alle doppiette di Jordan e del Pistolero Franco Palma, oltre a un morbido colpo di testa del capitano Bruno Novo, trovavano il pareggio (i siciliani avevano segnato il quinto gol con Mongelli). Gentilini Josep Jr. portava in vantaggio i suoi con un tap-in di testa, ma una punizione inventata dava a Juninho la punizione del 6-6.
A un minuto dalla fine, però, Jordan piazzava una malefica puntatina sul palo lontano che portava la Happy Car in semifinale. Nel concitato finale veniva annullata la rete del pareggio del Palazzolo, decisione che scatenava proteste e qualche aspra discussione in campo, ma il responso del campo non mutava.
Questa la formazione della Happy Car Samb. Del Mestre, Chiodi, Palma, Pastore, Bruno Novo, Jordan, Gentilini Josep Jr., Di Palma, Addarii, Pablo Perez, Ietri, Di Tullio. All.: Di Lorenzo.
«È stata una partita per cuori forti – ha commentato il presidente Giancarlo Pasqualini – dopo il secondo tempo ero deluso, anche perché vedevo nei volti dei nostri ragazzi ancora il rammarico per l’esito della Supercoppa, ma poi ci siamo sbloccati e adesso spero in un pizzico di fortuna in più per semifinali e finale. Le rimonte fanno per noi, visto cosa successe l’anno scorso nella finale contro il Catania e credo che questa rimonta possa darci coraggio. Credo che Terracina sia alla nostra portata, anche se in una semifinale scudetto può succedere di tutto, ma adesso sono molto fiducioso».
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pangeanews · 6 years ago
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La traccia su Ungaretti agli esami dimostra che lo Stato ritiene inutile la poesia. Ma non potrebbero far scrivere una poesia agli studenti? Figuriamoci, li vogliono carini, coccolosi, servi. Rilancio con Yves Bonnefoy, a tre anni dalla morte
La traccia dell’esame di maturità dimostra l’immaturità ministeriale in fatti poetici. Meglio, dimostra l’idea che lo Stato ha della poesia. Cosa inutile. Necessaria, semmai, per consolidare una vaga idea di patria. La poesia di Giuseppe Ungaretti, Risvegli, infatti, non è stata proposte alle orde maturande per quello che è: il testo di un genio (che semmai ha avuto la disfatta di essere troppo imitato). L’Ungaretti sepolto nella trincea della Prima guerra, piuttosto, è utile e servile alla solita ramanzina su – leggo il testo – “l’orrore della guerra”. Ungaretti serve perché è stato in guerra, è sopravvissuto, ne ha fatto poesia. Stop.
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Piuttosto, per suggerire la comprensione della forza travolgente della poesia, gli studenti avrebbero potuto pensare intorno alla frase, fatale, di Carlo Bo, gettata sul corpo morto del poeta, nel 1970: “Giovani della mia generazione in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, e cioè per la poesia”. Cosa significa morire per il poeta, dare la vita perché il canto continui come eredità umana e non ‘di Stato’? Come può lo Stato istituire la sua prigionia di schemi, di museruole semantiche e statistiche, di interpretazioni storiche a disseccare il cuore del poeta?
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In effetti, perché non dare la possibilità, agli studenti, di competere, coinvolti, sullo stesso piano della poesia, scrivendo una poesia? Certo: l’esame di Stato serve a dimostrare che gli studenti, mentendo, sono bravi cittadini, azzeccati servi, mica creativi, per giunta poeti, devoti alle nuvole e non al profitto, al ‘gesto’ e non al superiore.
*
Per rinfrancarmi dai burocrati statalisti che deviano il poeta nel solco dei piani quinquennali del benessere civico, leggo Yves Bonnefoy. Tra dieci giorni sono tre anni che è morto. La notizia mi arrivò di sera. Bonnefoy era del 1923, la stessa classe di mio nonno. Era nato il 24 giugno. Mio nonno, Michele, italo-francese, non conosceva Bonnefoy ma aveva una infantile adorazione per la Francia – d’altronde, è all’oro della giovinezza che si obbedisce, sempre. Quando Alessandro Gnocchi mi telefona, da il Giornale, il primo luglio, saranno state le nove di sera, afa appollaiata sugli alberi di Romagna, notte cupa come una palude, cercai uno scatto, un ghepardo tra i singulti. All’incipit di quell’articolo assegno ancora una qualche fede. Eccolo: “Il viso da creatura faunesca. I capelli bianchi, annuvolati. Le rughe come trame preistoriche. Gli occhi, così astratti, rivolti verso il mondo a venire. Parlando di Yves Bonnefoy… più che un «coccodrillo» bisognerebbe erigere un unicorno. E partire con la solita ma giustificata polemica: neppure il Premio Nobel, assegnato con criteri politicamente dementi, sono riusciti a dare a questo uomo nato per caso nel 1923, ma che avrebbe potuto sorgere tra i labirinti dell’Orlando furioso o nelle pagine più alte del Signore degli anelli, al più grande poeta vivente, fino a ieri, a uno dei giganti dell’era moderna da oggi. Eppure, per dare dignità a Bonnefoy, è bene partire da Douve”.
*
Dicevo di Douve. Secondo me Movimento e immobilità di Douve, la prima grande raccolta pubblicata da Mercure de France nel 1953, è quella miliare. I rapporti con Ungaretti, se interessano, sono saldati fin dal principio nel saggio introduttivo di Stefano Agosti, per l’edizione Einaudi del libro: “Non sarà illegittimo attribuire alla Jeune Parque di Paul Valéry almeno due filiazioni: la Didone ungarettiana e Douve di Yves Bonnefoy”. C’è poi la gemella ammirazione per la poesia di Shakespeare – da leggere nei Quaranta sonetti di William Shakespeare tradotti dall’uno e dall’altro nella bella edizione Einaudi del 1999. D’altra parte, nel numero di “Po&sie” del 2009 (n.130), Bonnefoy ricama intorno alla sua ammirazione per Ungaretti (Un visage dans des poèmes) raccontando l’incontro accaduto nel 1967, a Londra, sotto gli auspici di Ted Hughes. C’erano, in quel convegno lirico, Octavio Paz e Pablo Neruda, Robert Graves, Anne Sexton e Wystan H. Auden. Ungaretti arrivò con un bastone, al braccio di Allen Ginsberg. “Lo ho guardato con l’attenzione che si può immaginare. Quello era il grande spirito che aveva rifondato la poesia italiana, il poeta bilingue che aveva lasciato un segno indelebile in uno dei momenti decisivi dell’avanguardia francese: un poeta europeo, come me”.
*
Delle poesie di Bonnefoy, soprattutto quelle che portano il sigillo di Douve, non conta capire ma arrendersi, non bisogna spiegare ma lasciarsi slogare, chinarsi al fondo del linguaggio, rimestare quelle parole-pietre, riemergere saturi, di cosa? Non si è ‘capito’ niente, non si è cresciuti in sapienza, non abbiamo accumulato ‘dati’. Eppure, qualcosa ci sazia, quel verbo ci appaga per la durata equinoziale del giorno, oltre le istituzioni transitorie degli umani. (d.b.)
***
Questa pietra spaccata sei dunque tu, questa camera distrutta, Com’è possibile morire?
Ho portato un lume, ho cercato, Ovunque regnava il sangue. E urlavo e piangevo con tutto il mio corpo.
*
Che parola è sorta al mio fianco, Che grido si forma su una bocca assente? A stento odo gridare qui vicino, A stento avverto il soffio che mi chiama.
Eppure quel grido su di me nasce da me, Sono murato nella stravaganza. Quale divina o quale strana voce Consente ad abitare il mio silenzio?
*
Una voce
Quale dimora vuoi erigere per me? Quale atra scrittura quando viene il fuoco?
Ho indietreggiato a lungo davanti ai tuoi segni, Tu mi hai cacciata da ogni consistenza.
Ma ecco la notte incessante mi tutela, Con oscuri cavalli ti fuggo.
*
Taci poiché anche noi siamo della notte Le più informi radici gravitanti, E materia lavata che ritorna alle antiche Idee sonanti ove il fuoco s’è spento, E viso sprofondato d’una cieca presenza Con ogni fuoco sfrattata ancella dalla stanza, E parola vissuta ma infinitamente morta Quando alfine la luce s’è fatta vento e notte.
Yves Bonnefoy
*le poesie sono tratte da: Yves Bonnefoy, “Movimento e immobilità di Douve”, Einaudi 1969, traduzione di Diana Grange Fiori
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from pangea.news http://bit.ly/31JJQzR
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quotidianolanotte · 7 years ago
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Mostra personale dell'artista Giovanna Benzi:"Non solo nuvole"
Mostra personale dell’artista Giovanna Benzi:”Non solo nuvole”
  Dopo la mostra monumentale del maestro Ugo Nespolo, un altro importante evento impreziosisce gli immacolati saloni del Palazzo Clerici a Cuggiono, in esposizione circa quaranta tele che ci introducono alla complessità espressiva della pittrice Giovanna Benzi, con la sua personale dal titolo “Non solo nuvole”. Pablo Picasso diceva “Anche una rosa se ben dipinta può essere rivoluzionaria”.  E io…
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aurelia4you · 3 years ago
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Il nome di un Dio sconosciuto
Sento ancora le gambe è un buon segno, le braccia però sono ancora indolenzite, le muovo a mala pena, riesco a trascinarmi, quello di cui ho bisogno è una sigaretta, sono tesa, la testa mi fa male, il fumo riesce a calmarmi, di solito è Jimmy a rifornirmi di roba buona, il cinese ha sempre della maria di qualità, lo trovo in un angolo di strada, c'è lui con i suoi corrieri, li chiamo cosi, ragazzini che a mala pena conoscono l'alfabeto, ma riescono a fiutare se hai un anima oppure no, l'età è quella in cui io andavo a scuola a imparare a leggere a scrivere, un angolo di mondo a Madrid, tra un paio di ore devo essere in aula, sono le ultime lezioni prima della pausa estiva, devo essere concentrata, Letteratura Medievale, la lezione durerà all'incirca tre ore, prima di andare a lezione devo passare dal macellaio e ritirare la carne, mi sono rimasti pochi pezzi di carne in frigo. Pablo è l'unico macellaio del quartiere che mi procura il fegato fresco, una leggera anemia, caratterizza il mio sistema genetico, anemia che riesco a tenere sotto controllo, una sana alimentazione, attività fisica, le sigarette e il fumo sono il mio peccato, per il resto le analisi del sangue ed i loro valori sono nella norma. Ogni due anni i controlli sono necessari sul mio corpo sono rimaste indelebili le tracce delle infezioni, nel mio sangue è ancora tutto latente, la malaria, la febbre gialla, la tubercolosi, la febbre alta, i lunghi viaggi, l'acqua ferma le zanzare, la Bolivia, il mio sistema immunitario è andato oltre i quaranta, la resistenza è notevole, la febbre sempre alta mi ha piegata, riusciamo a stare in piedi, dedizione assoluta al lavoro, non sprechiamo mai del tempo, la concentrazione nel mio lavoro è fondamentale, la scioltezza di pensiero, nella mia mente si sovrappongono le immagini, associazione di immagini e pensieri. Gli alcaloidi servono, stabilizzano il mio sistema, lo regolano, si ragiona meglio, dove possibile dosi massicce di alcaloidi, la mancanza di tale sostanza è estremamente pericolosa, le immagini cominciano ad essere sfuocate, le immagini e i pensieri sbagliati cominciano a sovrapporsi, si rischia di impazzire, il sangue comincia a pulsare, la mancanza d'aria, si respira a fatica, l'astinenza è dannosa, ci serve per continuare il nostro lavoro, si lavora in modo costante, senza preoccupazioni, i pensieri dannosi scompaiono e il buon umore si fa strada, cariche di energia, il buon umore diventa stabile, cosi riusciamo ad andare avanti, per quanto riguarda la mia ricerca qui a Madrid mancano ancora due anni per concludere, dopodicchè potrò finalmente fare ritorno al mio vecchio lavoro, quello di traduzione di testi antichi. Un testo è ancora rimasto in sospeso, risale al XIII sec. una storia leggendaria narra la vita di un sacerdote, del suo rapporto con Dio, si dice che durante le notti, il suo corpo si disolvesse, si racconta che vagasse per notti intere alla ricerca di colui per dargli pace, una follia in sospeso, una devozione assoluta, un lavoro costante, Dio è colui che vede i miei pensieri, esiste il libero arbitrio la mia scelta nel seguirlo oppure no, il sacrificio per Allah, il sacerdote ha vissuto cosi fino a raggiungere i sessant’anni, si dice che una notte si fosse impiccato, non si conoscono le motivazioni, si è soltanto trovato il suo corpo inerme, avvolto in un sudario bianco, attorno al collo i segni dell'impiccagione, il colore bluastro dei segni della corda, i traditori, i criminali muoiono cosi, sono corrosi nell'anima, sono rimasta a questo punto, capire le motivazioni dell'impiccagione, il sudario bianco attorno al corpo, e la scelta della morte, quando lavoro cosi, gli alcaloidi sono necessari, perdo giorni, settimane intere a capire i vari testi, sono arrivata ad un punto che devo riflettere attentamente sul motivo di una scelta di questo genere, l'essere vecchi ci rende consapevoli dell'importanza della vita, del suo significato, il significato infinito di Dio e della sua infinita Misericordia. Attorno a questo pensiero, mi rendo conto che manca poco alla lezione e devo anche ritirare la carne, ma a questo punto preferisco farlo domani, Pablo non se ne accorgerà, della mia dimenticanza. Tra meno di un ora sarò in classe, il tempo di farmi una doccia, mi preparo il fegato crudo rimasto, il sapore del sangue in bocca, mastico la carne il sapore è ferroso, l'anemia diventa un problema quando non tenuta sotto controllo. Decido di farmi la doccia, l'acqua calda mi scende lungo il corpo, mentre mi faccio la doccia penso a lui, quel lui reale, fisico, una costante nel mio pensiero, è rientrato dopo un lungo viaggio in Africa, uno scavo durato quasi tre anni, durante questo periodo i contatti erano quasi inesistenti, l'ultimo un mese fa. Lo scavo riguarda un antica tribù di nomadi, le tracce lasciate, sono stati recuperati parte dei loro corpi, la struttura ossea impressionante, corpi perfettamente proporzionati, la parte superiore del cranio ampio senza difetti o imperfezioni. Ci vorrà del tempo prima di poter classificare quello che è stato trovato, penso ancora a lui, al suo lavoro, lo vedrò questa sera, mi manca vederlo. Mentre penso a questo sono quasi pronta, gli alcaloidi, riescono a regolare il mio umore, mi ci vorranno almeno venti minuti per raggiungere la facoltà di lettere, i miei soliti vestiti, i miei pantaloni di jeans, meglio vaqueros, la mia t-shirt una taglia in piu, comoda come sempre, capelli corti, rossetto rosso, mascara, la freschezza della doccia mi risveglia, il lavoro che faccio richiede concentrazione, sono arrivata in facoltà, mi aspettano fuori dalla porta, siamo in sette a seguire questo corso, sono puntuale come sempre, entriamo tutti quanti, il docente è una giovanissima studentessa che ha appena concluso i suoi studi, le sue spiegazioni sono perfette, senza errori o dimenticanze, concludiamo la lezione. Io sono pronta per rientrare a casa, questa sera lo rivedrò dopo diverso tempo, il mio lui, Sigurd è piu giovane di me, almeno dieci anni in meno, la sua resistenza al nostro rapporto è incredibile, entrambi lavoriamo in modo costante, dedichiamo anima e corpo a quello che facciamo, l'ho conosciuto una sera per caso, ero al supermercato facevo la spesa, ci vado sempre quando è in chiusura, non ci trovo quasi mai nessuno, mi fermo davanti al reparto della carne, lui è di fianco a me, mentre mi accingo a prendere la carne anche lui fa lo stesso mi sorride e mi dice: anche lei questa sera cucinerà piccante, lo guardo in faccia e non capisco, mi dice: con il macinato si riesce a fare un ottimo piatto messicano piccante, scoppio a ridere, gli rispondo in realtà avrei fatto delle semplici polpette, si presenta, piacere sono Sigurd, la sua stretta di mano è calda, Aurelia, piacere. Continuiamo entrambi a fare la spesa, parliamo del piu e del meno, mi chiede come mai a quest'ora, io gli rispondo è l'unico momento libero che ho con il lavoro che faccio, sono quasi le undici di sera, che lavoro fai Aurelia? la ricercatrice, e adesso seguo un corso di Letteratura Medievale, il tempo che mi resta per me è relativamente poco, a quel punto Sigurd sorride e mi dice io sono un archeologo e non ho mai tempo per fare niente. Entrambi ci avviciniamo alle casse per pagare, Sigurd, mi sorride e mi dice: ti va di venire a mangiare da me, ti preparo quel piatto messicano, carne macinata piccante, insalata, e un ottima bottiglia di vino bianco. A quelle parole gli rispondo immediatamente di si, sono elettrizzata all'idea di mangiare da lui, mi ha fatto un ottima impressione, mentre raggiungiamo casa sua parliamo del piu e del meno, vive in un quartiere splendido di Madrid, le strade alberate, il pavimento a losanghe, arriviamo di fronte al Palazzo dove vive, è antico, il portone d'ingresso è ampio, entriamo c'è un ascensore in ferro battuto ampio e largo, ci porta al settimo piano, il Palazzo è spettacolare, man mano che saliamo vedo scorrere sotto i miei occhi l'ampia scalinata le colonne in ordine dorico, la semplicità è disarmante, come arriviamo al settimo piano, si apre di fronte a me un lungo corridoio, ci saranno almeno otto ingressi, aspetto che sia lui ad uscire, mi apre la porta dell'ascensore e andiamo verso il suo appartamento, la porta d'ingresso è ampia, entriamo. La sala d'ingresso presenta un corridoio che poi si apre su un salotto, una vetrata che da direttamente su una corte interna, libri ovunque, una biblioteca che copre entrambe le pareti laterali, un tavolo in legno dove si trovano mappe, cartine geografiche, planimetrie di scavi, appunti ovunque, un lavoro intenso e costante, mozziconi di sigarette sparsi qua e la, mi giro e gli dico: dedichi gran parte del tuo tempo al lavoro, Sigurd mi risponde: mi piace il mio lavoro e ci dedico anima e corpo, è la ragione della mia vita, mentre mi dice questo appoggia le borse della spesa, si toglie la giacca, le sue braccia sono completamente tatuate, tattoo tribali, un simbolo che non riesco a riconoscere copre il braccio destro, ha la forma di una libellula, ma non è proprio cosi, mi guarda e mi dice: hai fame? io gli dico di si, sono rilassata, quella sera è andata cosi, sono rimasta a mangiare da Sigurd, quella doppia metà, quell'altro di se, che credi di non trovare mai, abbiamo fatto sesso, al mattino mi sono svegliata tra le sue braccia, il suo respiro tra le mie orecchie, da quella sera siamo rimasti insieme. La lezione è stata interessante, sono finalmente a casa, mi preparo la sigaretta, fumo intensamente, l'odore da mandorle bruciate inonda la stanza, oltre al tabacco c'è un tipo di fumo fatto con delle spezie particolari, provengono dalla Cina, si dice che il diavolo si fermasse per un istante, l'odore, il ricordo, si dice che potesse piangere, il fumo mi fa bene, riesco a ragionare meglio, per questa sera, sarà lui a venire da me, mi racconterà del suo scavo e dei progressi che lui e il suo gruppo hanno raggiunto. Quello che io invece voglio dirgli è qualcosa di molto semplice, le mie dita sfiorano il mio ombelico, sono incinta, avere una parte di lui dentro di me, essendo sotto stress non ho fatto caso al mio ciclo, di norma è regolare, capita delle volte che abbia dei ritardi, ma sono brevi, non me ne sono accorta, l'ultima volta che ci siamo visti un mese fa. L'ho scoperto durante una visita, un controllo che eseguo ogni anno, le pulsazioni del mio cuore, mi capita di soffrire di tachicardia, al controllo i battiti cardiaci sono risultati essere in due, quando me l'ha detto è rimasto a bocca aperta, Aurelia, sei incinta, la mia reazione è stata immediata, cosa non è possibile, mentre lo dicevo, Javier rideva, te e Sigurd state insieme, smetti di fumare, o per lo meno fuma un po di meno, hai tutti i valori regolari. Mi sono alzata e l'ho salutato, ringraziandolo della sua pazienza. Quella mattina sono rientrata a casa, le gambe che mi tremavano, incinta di Sigurd, alle parole stiamo insieme, entrambi abbiamo un ottimo lavoro, la parola insieme non l'ho mai contemplata, o per lo meno non fino ad ora e non cosi al punto di avere un figlio. Prima del suo arrivo devo fare un po di cose e soprattutto preparare la cena, c'è un negozio di Indiani molto interessante non molto lontano, posso fare un salto e prendere un paio di cose, del curry, carote, patate, carne macinata, cipolle e del riso, lo yogurt bianco lo prendo di solito in un negozio greco, adoro la verdura, i sapori forti, il tutto con una bottiglia di vino bianco. Decido di farmi una doccia calda, all'interno del mio corpo ci sono due battiti cardiaci, il mio e il suo, apro il rubinetto della doccia calda, sento l'acqua scorrere lungo il mio corpo, mi lavo soltanto con una saponetta, il profumo è intenso e caldo, finisco di farmi la doccia, indosso un paio di jeans e una t-shirt, i capelli sono ancora umidi li lascio asciugare. Non manca tanto al suo  arrivo, vado in cucina e comincio a preparare la cena, faccio cuocere il riso lentamente, prima lo passo in padella con dell'olio poi ci verso dell'acqua bollente e ci metto sopra il coperchio cosi per almeno trenta minuti. Le verdure le taglio ed anche quelle le passo nell'acqua bollente venti minuti, la carne la lascio per ultima, taglio delle cipolle le faccio soffriggere, ci verso sopra la carne con del curry, il profumo è molto intenso, lo lascio cuocere per quindici minuti, la carne è fresca, il profumo è molto buono. Preparo la tavola, è quasi tutto pronto, in mezzo al tavolo ci metto dei fiori bianchi e delle margherite, l'odore dei fiori mi ricorda la mia infanzia, sono contenta di rivederlo, dirgli che avrà un figlio, suo figlio. Accendo la radio, la frequenza che adoro è radio ottanta, ad una certa ora della sera passano sempre della buona musica. Sento salire le scale, nel Palazzo dove vivo le scale scricchiolano, si sentono i passi, la pavimentazione è in legno, sono felice di sapere che è qui, apro la porta e me lo ritrovo di fronte a me, gli vado incontro, ha ancora le valigie in mano, lo abbraccio, sento il suo calore, le sue braccia attorno al mio corpo, so di amarlo, mentre lo abbraccio, gli sussurro all'orecchio di essere incinta e di amarlo, rimaniamo entrambi fuori dalla porta sulle scale, Sigurd mi stringe forte, mi solleva in braccio e mi porta in casa, mi bacia dolcemente, chiude la porta dietro di se. Si toglie la t-shirt, resta a petto nudo, mi solleva in aria, Ti amo, è cosi Aurelia, le lacrime mi scendono lungo il viso, lo sento tremare, mi bacia intensamente, mi toglie i vestiti resto nuda di fronte a lui, mi accarezza, mi solleva di nuovo e mi porta in camera da letto, il calore del suo corpo è intenso, è sopra di me, le sue mani su di me, resta nudo sopra di me, posso sentire la sua erezione, mi divarica le gambe, la penetrazione è intensa, lo sento dentro di me, si muove cosi su di me, mi accarezza i seni, li morde, l'intensita della penetrazione, il suo liquido è caldo, il suo orgasmo è sempre intenso, continua cosi, viene dentro di me, il suo cazzo è ancora duro, sono io a venire, mi sente ansimare. Le sue mani sono in mezzo alle mie gambe bagnate, le accarezza, il suo sperma è sul mio corpo, me lo passa sul ventre e mi accarezza dolcemente, bacia il mio ventre piu volte, le sue labbra su di me, ancora una volta e per sempre sarai l'amore mio, rimaniamo cosi, uno accanto all'altro, continua ad accarezzare il mio ventre, mi bacia, quello che mi dice rimarrà per sempre nella mia memoria come sigillo di un amore eterno, il giorno in cui io e te abbiamo concepito, Dio lo ha unito a noi per sempre, sacro come la vita e la morte, la nostra vita continua per sempre. Un unica vita, fatta di me e te, per sempre cosi sarai mia Aurelia. Nessuno tocchi quello che Dio ha unito in una sacra alleanza. Sigurd, crede in un Dio, nella sua infinita Misericordia, ha sempre amato Dio per la sua infinita Pietà, quella parte di lui che vede ancora Dio come un essere umano. Un sigillo infinito tra me e lui, il giorno in cui è nata nostra figlia Sigurd era li a tenerla tra le sue braccia, le lacrime che rigavano il suo viso, un unico Dio per lui e sua figlia, Eugenia, il suo unico grande amore per sempre e per tutta la vita. Nella mia memoria rimarranno cosi per sempre, noi tre per l'eternità.  
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retegenova · 6 years ago
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DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO
Svelate le date: un giorno in più di programmazione. Il celebre disegnatore di Tex Stefano Biglia collaborerà alla creazione dell’immagine del festival
Proiezioni, masterclass, appuntamenti con registi, attori e produttori di livello mondiale. Dal 7 al 12 maggio 2019 il Riviera International Film Festival torna a illuminare il Tigullio, portando in scena il meglio del cinema under 35 ancora non distribuito in Italia. Come negli anni passati, il festival avrà casa a Sestri Levante, per poi svilupparsi anche in altre località del Levante ligure. Tra le novità della terza edizione c’è il lancio delle “locandine d’autore”, che ogni anno saranno targate da personalità autorevoli. La firma che collaborerà alla creazione dell’immagine della terza edizione del Riviera International Film Festival è Stefano Biglia, celebre disegnatore di Tex.
Forte del gran successo riscontrato nella seconda edizione, con oltre 3000 biglietti venduti per le proiezioni, 800 per le masterclass e con diverse migliaia di persone ad assistere ai vari eventi del festival, il Riviera International Film Festival scalda i motori. «Stiamo lavorando alla terza edizione del festival – racconta da Los Angeles Stefano Gallini-Durante, presidente e fondatore del Riviera International Film Festival – per far crescere ulteriormente una manifestazione che già l’anno scorso ha confermato di avere un solido appeal internazionale. Ospiteremo ancora, dal 7 al 12 maggio, personalità e professionisti del mondo del cinema nazionale e internazionale, che racconteranno i segreti del mestiere in masterclass di primo livello, uniche nel panorama dei festival Italiani. Ci stiamo impegnando per coinvolgere anche università e istituti scolastici: vogliamo che i giovani possano ispirarsi e tornare a sognare, in un momento storico piuttosto cinico, dove l’ispirazione non sempre fa parte della loro formazione».
«Ho ritenuto che in questa terza edizione – spiega Chiara Fiorini, direttrice eventi e allestimenti del RIFF – i tempi fossero maturi per dar vita a un progetto in cui credo molto, con l’obiettivo di coinvolgere ogni anno grandi firme dell’illustrazione, della fotografia, dell’arte e della grafica». La firma scelta per collaborare alla creazione dell’immagine del RIFF2019 è Stefano Biglia, celebre disegnatore di Tex, storico fumetto che ha appena spento settanta candeline. «Il Riviera International Film Festival – aggiunge Stefano Biglia – è una manifestazione che si è subito imposta per due peculiarità: la vocazione internazionale e il focus sui giovani. La locandina che andrò a disegnare giocherà molto su questo, in un ambiente tipico ligure: acceso, vivace e molto legato alla natura».Confermata anche la sezione documentari, focalizzata su ambiente e società. «In un’Italia ancora scossa – prosegue Gallini-Durante – dal nubifragio di inizio novembre, e soprattutto in un Tigullio ferito dalle recenti mareggiate, la nostra sezione dedicata ai documentari sul tema assume un ruolo ancora più centrale. Inquinamento, cambiamenti climatici, migrazioni, discriminazione e diseguaglianza sociale, conflitti armati: il Riviera International Film Festival vuole che le istituzioni di oggi e le generazioni di domani siano maggiormente consapevoli di ciò che il nostro pianeta deve affrontare per rendere migliore la qualità del nostro futuro». Inoltre, il festival avrà una durata di sei giorni, un giorno in più rispetto alle edizioni precedenti. 
A breve saranno svelate altre novità sulla terza edizione del Riviera International Film Festival.
Il Riviera International Film Festival è un festival internazionale del cinema indipendente , dedicato ai registi under 35, che si tiene annualmente a Sestri Levante, con eventi simultanei in diverse località del Levante ligure. Nasce nel 2017, e si propone di portare della Riviera ligure un festival dal format innovativo e della vocazione internazionale, che coniughi la domanda crescere di formazione sulle tecniche cinematografica all’opportunità di dare uno spazio qualificato ai giovani registi. Il RIFF affianca, alle proiezioni di film e documentari, panel, conferenze, incontri, laboratori e masterclass di livello mondiale. Dall’edizione 2018 è presente una sezione dedicata ai documentari sull’ambiente. Nelle prime due edizioni ha visto la partecipazione di personalità del calibro di Matthew Modine, Alessandra Mastronardi, Violante Placido, Marton Csokas, Valentina Lodovini, Ed Solomon, Gianni Quaranta, Cote de Pablo, David Franzoni, Erri De Luca, Gaia Trussardi, Paola Jacobbi, John Campisi e il Premio Nobel Nigel Tapper. 
  Ufficio Stampa Riviera International Film Festival
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DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO…
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retegenova · 6 years ago
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DAL 7 AL 12 MAGGIO 2019 IL RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL TORNA A ILLUMINARE IL TIGULLIO
Svelate le date: un giorno in più di programmazione. Il celebre disegnatore di Tex Stefano Biglia collaborerà alla creazione dell’immagine del festival
Proiezioni, masterclass, appuntamenti con registi, attori e produttori di livello mondiale. Dal 7 al 12 maggio 2019 il Riviera International Film Festival torna a illuminare il Tigullio, portando in scena il meglio del cinema under 35 ancora non distribuito in Italia. Come negli anni passati, il festival avrà casa a Sestri Levante, per poi svilupparsi anche in altre località del Levante ligure. Tra le novità della terza edizione c’è il lancio delle “locandine d’autore”, che ogni anno saranno targate da personalità autorevoli. La firma che collaborerà alla creazione dell’immagine della terza edizione del Riviera International Film Festival è Stefano Biglia, celebre disegnatore di Tex.
Forte del gran successo riscontrato nella seconda edizione, con oltre 3000 biglietti venduti per le proiezioni, 800 per le masterclass e con diverse migliaia di persone ad assistere ai vari eventi del festival, il Riviera International Film Festival scalda i motori. «Stiamo lavorando alla terza edizione del festival – racconta da Los Angeles Stefano Gallini-Durante, presidente e fondatore del Riviera International Film Festival – per far crescere ulteriormente una manifestazione che già l’anno scorso ha confermato di avere un solido appeal internazionale. Ospiteremo ancora, dal 7 al 12 maggio, personalità e professionisti del mondo del cinema nazionale e internazionale, che racconteranno i segreti del mestiere in masterclass di primo livello, uniche nel panorama dei festival Italiani. Ci stiamo impegnando per coinvolgere anche università e istituti scolastici: vogliamo che i giovani possano ispirarsi e tornare a sognare, in un momento storico piuttosto cinico, dove l’ispirazione non sempre fa parte della loro formazione».
«Ho ritenuto che in questa terza edizione – spiega Chiara Fiorini, direttrice eventi e allestimenti del RIFF – i tempi fossero maturi per dar vita a un progetto in cui credo molto, con l’obiettivo di coinvolgere ogni anno grandi firme dell’illustrazione, della fotografia, dell’arte e della grafica». La firma scelta per collaborare alla creazione dell’immagine del RIFF2019 è Stefano Biglia, celebre disegnatore di Tex, storico fumetto che ha appena spento settanta candeline. «Il Riviera International Film Festival – aggiunge Stefano Biglia – è una manifestazione che si è subito imposta per due peculiarità: la vocazione internazionale e il focus sui giovani. La locandina che andrò a disegnare giocherà molto su questo, in un ambiente tipico ligure: acceso, vivace e molto legato alla natura».Confermata anche la sezione documentari, focalizzata su ambiente e società. «In un’Italia ancora scossa – prosegue Gallini-Durante – dal nubifragio di inizio novembre, e soprattutto in un Tigullio ferito dalle recenti mareggiate, la nostra sezione dedicata ai documentari sul tema assume un ruolo ancora più centrale. Inquinamento, cambiamenti climatici, migrazioni, discriminazione e diseguaglianza sociale, conflitti armati: il Riviera International Film Festival vuole che le istituzioni di oggi e le generazioni di domani siano maggiormente consapevoli di ciò che il nostro pianeta deve affrontare per rendere migliore la qualità del nostro futuro». Inoltre, il festival avrà una durata di sei giorni, un giorno in più rispetto alle edizioni precedenti. 
A breve saranno svelate altre novità sulla terza edizione del Riviera International Film Festival.
Il Riviera International Film Festival è un festival internazionale del cinema indipendente , dedicato ai registi under 35, che si tiene annualmente a Sestri Levante, con eventi simultanei in diverse località del Levante ligure. Nasce nel 2017, e si propone di portare della Riviera ligure un festival dal format innovativo e della vocazione internazionale, che coniughi la domanda crescere di formazione sulle tecniche cinematografica all’opportunità di dare uno spazio qualificato ai giovani registi. Il RIFF affianca, alle proiezioni di film e documentari, panel, conferenze, incontri, laboratori e masterclass di livello mondiale. Dall’edizione 2018 è presente una sezione dedicata ai documentari sull’ambiente. Nelle prime due edizioni ha visto la partecipazione di personalità del calibro di Matthew Modine, Alessandra Mastronardi, Violante Placido, Marton Csokas, Valentina Lodovini, Ed Solomon, Gianni Quaranta, Cote de Pablo, David Franzoni, Erri De Luca, Gaia Trussardi, Paola Jacobbi, John Campisi e il Premio Nobel Nigel Tapper. 
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