#Morso Museo
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Ostern 2024: Morso Museo
Was passt besser nach einem Museumsbesuch, als ein Kaffee im Café? Nicht von ungefähr liegt das Morso Museo im Museumsquartier direkt gegenüber der bunten Fassade des Museums Brandhorst. Offenbar läuft es im Morso in der Nordendstraße so gut, dass man sich gleich zwei weitere Filialen zutraut. Neben dem Morso Museo gibt es noch das Morso Cafe in der Elisabethstraße. Die Einrichtung des Morso…
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Sofonisba Anguissola, Fanciullo morso da un gambero (1554), Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli.
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“Niente è più mostruoso dell’uomo”. Su Antigone, la ragazza che dice NO. Dialogo con un teatrante e una poetessa, tra Sofocle e Thomas Bernhard
Di Antigone si dice quando la ragione ‘di cuore’ supera la ‘ragion di Stato’, spesso in relazione alla ‘disobbedienza civile’. Che parapiglia di segni, che s’incastrano sull’indiscusso e l’indicibile del mito. In una sintesi estrema, che non chiarifica ma abbaglia, Simone Weil scrive: “La legge non scritta alla quale questa giovinetta obbediva, lontanissima dall’avere qualcosa in comune con un qualche diritto o con alcunché di naturale, non era altro che l’amore estremo, assurdo, che ha spinto il Cristo sulla Croce. La Giustizia, compagna delle divinità dell’altro mondo, prescrive questo eccesso d’amore. Nessun diritto potrebbe prescriverlo. Il diritto non ha alcun legame diretto con l’amore”. Condivido questo pensiero con Silvio Castiglioni, teatrante di genio, avvezzo a portare in scena l’atto letterario – da Alessandro Manzoni a Silvio D’Arzo, da Dostoevskij a Mandel’stam, da Nino Pedretti ad Andrea Zanzotto – che mi mostra il suo ultimo progetto. S’intitola Notizie dalla città di Tebe, andrà in scena al Teatro Titano giovedì 11 luglio, ore 21, nella Repubblica di San Marino, ed è esito di un lavoro teatrale condotto con l’aiuto di un poeta, Franca Mancinelli. Che uno Stato ragioni su se stesso a partire da un testo che ne scassa le ‘ragioni’ mi pare magnifico. Se penso a Tebe, vado alla Sfinge e alle Baccanti, ai draghi e agli incesti e ai fratricidi: al luogo che odora di enigma. A un caos aggiogato di norme. Tebe, per altro, ha origine nel ratto di Europa da parte di Zeus: abitare il fato di quel mito ci induce a orientare un destino. D’altronde, nel primo stasimo di Antigone, Sofocle detta, con verbo che fa evolvere il mistero, la statura dell’umano: “Pullula mistero. E nulla più misterioso d’uomo vive”, traduce Ezio Savino; così traduceva Camillo Sbarbaro: “Molte sono le meraviglie ma nulla è più portentoso dell’uomo”. La versione-interpretazione di Hölderlin, del 1804, è un morso in faccia: “Mostruoso è molto. Ma niente/ Più mostruoso dell’uomo”. (d.b.)
Intanto. Cosa c’entra Tebe con San Marino? Tebe è terra di draghi e di sfingi, di profeti malcreduti e di unioni incestuose, della sfida tra contratto politico e amore filiale. Come l’avete incardinata, lassù, perché?
Silvio Castiglioni: Un giorno ci trovavamo nella cosiddetta Cava dei Balestrieri, un luogo simbolico dell’identità sammarinese, ora a ridosso del neonato Museo di Arte Contemporanea che accoglie opere di grandissimo interesse, realizzate proprio a San Marino in un’epoca recente quando la Repubblica attirava e incoraggiava artisti di livello internazionale. In quel luogo è comparsa la figura di Antigone, la prima volta. Occorre sapere che questo progetto è in qualche modo legato al riconoscimento ottenuto dalla Repubblica quale Patrimonio dell’Umanità. E le motivazioni sono scolpite sulla porta d’ingresso a San Marino Città: per la ricchezza e l’originalità del patrimonio immateriale costituito dalle istituzioni democratiche rappresentative e partecipate della Repubblica. Una democrazia antica ed efficiente che ha promosso in anticipo sui tempi alcune significative conquiste. Ed è a questa capacità di emancipazione delle fasce meno favorite della popolazione, di tolleranza, di innovazione (come testimonia quel Museo) che occorre richiamarsi oggi. Uscire dalla mera sopravvivenza e incamminarsi nuovamente sul sentiero delle proposte ardite, del laboratorio di convivenza. Forse Antigone, la disubbidiente, era comparsa per ricordarci tutto questo. Abbiamo cercato anche radici più antiche. Franca mi aveva parlato delle statuette in bronzo rinvenute nell’antico santuario della Tanaccia e mi ci ha portato. Il sito, che oggi si presenta come un dirupo in mezzo al bosco, pare fosse il primo insediamento sul monte Titano, un tempo meta di pellegrinaggi, un luogo di culto attivo almeno 5 secoli avanti Cristo.
Franca Mancinelli: Quando inizi a riflettere su un luogo, e lo fai scavando attraverso gli strati e i depositi culturali che si sono accumulati nel tempo, incontri in qualche modo le sue radici, che sono universali. È così che siamo arrivati da San Marino alla forma e idea di città, e quindi alla polis. E da lì ad Antigone, la tragedia che mette in scena il difficile equilibrio su cui si regge la polis. Una comunità non può fondare le sue leggi sulla trasgressione della legge più antica, che appartiene all’origine stessa dell’umanità, come quella legata al seppellimento dei propri cari. Lavorando ci siamo poi accorti che questo motivo antico, tragico, era capace di fare traspirare conflitti e contraddizioni che il gruppo di partecipanti del laboratorio viveva o portava nella propria storia, come appartenente a una piccola comunità che ha lottato per secoli per mantenere la propria indipendenza, e ha quindi nel suo Dna una lunga catena di tensioni, compromessi, identità difesa. Nel lavoro è poi confluita l’esperienza che Silvio ha portato dall’Antigone di Sofocle di Tiezzi, che si rifaceva alla versione di Hölderlin, adattata da Brecht.
Lui è Silvio Castiglioni nei panni di un controeroe di Nino Pedretti
Flirto con i dati culturali che avete disseminato. La vostra Tebe è letta attraverso una lente ‘germanica’: l’Edipo di Hölderlin e le ‘voci’ di Bernhard. Come mai, come si coagula tutta questa materia?
SC: All’inizio c’è sempre il caso che ci mette lo zampino. Thomas Bernhard è stato uno degli inneschi del lavoro, un punto di partenza. Sono molto affezionato a un suo librino L’imitatore di voci, che a volte utilizzo come materiale nei laboratori. In questo caso ha acceso un grande interesse e alimentato una risposta sorprendente. L’abbiamo usato come modello, come esempio, per mettere a punto un nostro prontuario di cronache di varia umanità. Ognuno ha inventato un caso bizzarro o paradossale della vita, spesso di cronaca nera, trattandolo con la stucchevole prosopopea di un cronista di provincia, come fa magistralmente Bernhard. Ci siamo divertiti molto a pescare a man bassa in tutte le follie e le idiozie e le catastrofi domestiche che abbondano nei comportamenti dell’essere umano di ogni latitudine. Poi è arrivata la figura di Antigone, la ragazza che dice no. L’idea di un conflitto che può lacerare una comunità ha preso le sue sembianze, nel confronto scontro con Creonte. E l’Antigone che io meglio conosco, per averci lavorato con la compagnia Lombardi-Tiezzi, è quella filtrata dalla traduzione in tedesco che ne fece in età romantica il grande poeta Hölderlin, fedele a Sofocle nella sostanza, e però ricca di una singolare potenza poetica, inusuale in una traduzione dal greco classico, lingua che Hölderlin sembra non padroneggiasse molto bene e quindi piena di geniali svarioni. Quando Brecht fece la sua riscrittura da Sofocle interpolando un paio di scene dal sapore contemporaneo – la Germania nazista –, utilizzò proprio la versione di Hölderlin. Abbiamo isolato alcune scene principali di quell’Antigone su cui poi è intervenuta Franca, tagliando e riscrivendo, riportando quella lingua complessa e a tratti arcaica, più vicina alla bocca dei partecipanti del laboratorio – che hanno alcune esperienze di teatro o si sono avvicinati al suo linguaggio per la prima volta. I due spunti, Bernhard e Hölderlin/Brecht, si sono incontrati e poi intrecciati coi contributi testuali dei partecipanti. E qui l’intervento di Franca è stato veramente decisivo nello spogliare e nel fare spazio, per fare emergere la parola nella sua potenziale carica poetica. Incrementando l’integrazione e la collaborazione nel nostro coro, o stormo, come ama chiamarlo Franca.
FM: Il pozzo buio, senza fondo, del mito, e la contemporaneità. Antigone e Bernhard. A unirli è la stessa forma di ricerca e di interrogazione, che trova nel gruppo di persone con cui abbiamo lavorato, il punto di partenza e di unione. Perché questo gruppo, per accordarsi e trovare sintonia, all’inizio del lavoro è diventato un coro. Fare parte di un coro significa riconoscersi all’interno di uno stesso corpo, che obbedisce a uno stesso ritmo e a forze comuni, perché ha saputo creare al proprio interno quello spazio sacro, dove ciascuno può essere quello che è, libero da ogni sguardo e giudizio, e in questo spazio dare voce alle tante vite che gli appartengono, che la vita quotidiana non gli consente di esprimere: può tornare a giocare, con la profonda e seria libertà dell’infanzia. Iniziare a recitare, come ci ricordava Silvio durante questo lavoro, è proprio questo “facciamo che”, questo luogo di “sacra impunità” all’interno del quale ognuno può sentirsi protetto e insieme liberato dai confini che l’identità individuale ci assegna. Recitare è lo stesso di giocare, così in inglese, francese e tedesco: to play, jouer, spielen.
…c’è poi, appunto, questo lavoro sul ‘coro’, sulla dimensione ‘corale’, greco classica, poi perduta – nel teatro moderno, eventualmente, vige il monologo, non il dire insieme – come mai?
SC: Sono ossessionato dalla dimensione del coro. Forse perché ho fatto molti monologhi, o soliloqui, come preferiva chiamarli Leo de Berardinis. D’altra parte come ci ricorda ‘Lello’ Baldini, uno che se ne intendeva, ciascuno di noi non fa altro per tutta la vita, monologhi. Non si fa che parlare allo specchio, a se stessi, a vanvera. Nel mio caso misurarmi col monologo è stata anche una scelta dettata dalla necessità di salvaguardare una certa intimità dell’agire scenico. Non volevo perdere il contatto col mio mondo interiore. E poi una necessità, se volevo esplorare certe direzioni o misurarmi con certi temi, in una dimensione di autoproduzione. Ma se ho la fortuna di incontrare un gruppo di persone all’insegna del teatro, come in questo percorso sanmarinese, il lavoro sul coro si impone come la dimensione o la condizione madre, che genera tutto il resto. Nel coro si sta come nel grande orecchio, in perpetuo ascolto. Il coro è uno scambio fra individui diversi ma di uguale valore, la metafora perfetta della buona politica. I diversi, per storia indole pensiero tendenze sessuali ecc., devono mettersi d’accordo, devono mediare, trovare una soluzione. Il concetto di coro è potente, una comunità parallela, che funziona solo se è solidale, ma non impersonale. Possiamo anche immaginarlo come una rappresentanza degli spettatori sulla scena, un gruppo di cittadini che ha facoltà di intervenire nell’azione o di commentarla in diretta. Ovviamente il mio non vuol essere un discorso storico. In fondo il teatro greco antico non è durato che pochi decenni e poi è scomparso per secoli e secoli. Ma ci ha regalato delle idee formidabili. Come appunto il coro, o come il protagonista, il primo agonista ossia un individuo che esce dal coro e al coro si contrappone, che non obbedisce più all’obbligo della mediazione ma asseconda il suo destino divergente, e percorre una sua traiettoria individuale. Sono idee potenti, capaci di alimentare uno sguardo perforante sulla realtà. E poi quando ci si ritrova insieme per iniziare un lavoro teatrale, un viaggio che potrebbe portare a uno spettacolo, è fondamentale passare dal coro, se non altro per accordare gli strumenti e cercare la sintonia, come ha detto Franca. In questo caso il coro è proprio il protagonista dell’azione principale. Distribuisce e riassorbe in se stesso le diverse parti. Un gruppo di cittadini patisce al suo interno una divisione profonda che può generare un conflitto anche catastrofico. Se saltano i dispositivi di sicurezza coi quali ogni comunità si protegge dalle lacerazioni anche gravi, può accadere il peggio. Occorre esorcizzare questo pericolo. La contrapposizione Antigone / Creonte ‘interpreta’ questa lacerazione. Il coro si sdoppia in due, due partiti, due fazioni, due squadre, due eserciti. Per un po’, almeno. Poi bisogna ricomporre, risanare. E pregare.
Lei è Franca Mancinelli fotografata da Enrico Chiaretti
FM: Uno dei privilegi più grandi che l’esistenza ci riserva è quello di potere essere solo sguardo. La scrittura è un’esperienza dello sguardo, nasce dal corpo, dall’ascolto di ciò che transita in esso, ma è insieme anche la possibilità di scorporarsi, fare spazio e “prendere corpo” altrove, nelle cose e negli altri. Durante questo laboratorio, per ore ho potuto esercitare questo privilegio che mi è stato concesso da Silvio e dal gruppo. Per questo sono colma di riconoscenza, perché sono stata colmata di doni. Uno dei più grandi è forse quello di avere potuto seguire il lento processo che ha portato sedici persone a formare un coro, e poi, dal suo interno, da questo spazio di accoglienza che si è fatto ascolto e risonanza, all’apertura di altre possibilità di vita, di nuove rotte. Ho potuto così assistere a tante nascite. Un tono di voce che non trovava la forza di liberarsi, si dà nitido, un gesto a lungo contratto e imprigionato, si riconosce, scopre di potere esistere. Per ognuna di queste nascite ho esultato internamente e continuo ad esultare, come festeggiando una vittoria contro le prigionie che i nostri Creonte ci impongono e che continuiamo a scontare inconsapevoli.
Il teatro è ancora un atto ‘politico’? Intendo, sa far levitare i luoghi oltre la cronaca, a titillare il mito?
SC: La cronaca, la maniera in cui abitualmente ci si presenta la realtà, è un colossale artificio mediatico in balia di una folle emotività che non ci fa veder nulla, se non quello che desideriamo, o che abbiamo paura di vedere. È indubbio che qualcosa stia accadendo, ma che cosa? Un mio maestro ha detto: il teatro è l’ultimo posto dove andare a nascondersi, poiché in teatro si vede tutto. È concepito apposta, no?, per vedere, per leggere dentro. Se provi a fregarmi me ne accorgo subito, non così nella realtà, pare. Il velo di polvere che ricopre ogni cosa, ogni fatto e misfatto, a volte è così spesso che non si riconosce più nemmeno la sagoma delle cose che stanno sotto. Per questo credo che il teatro sia uno degli ultimi posti dove possa rifugiarsi la politica oggi. In teatro è difficile mentire a se sessi, (come in letteratura, direbbe Brodskij), anzi è quasi impossibile, dunque è un atto profondamente politico…
FM: Sì, è un atto politico, come ogni atto autentico, che nasce da una fede, da un affidamento profondo. Facendo teatro si vive la parola, la si abita, le si ridona un corpo. Ci si affida interamente a questa forma custodita nella lingua. Oggi siamo abituati a parole di superficie, disinnescate dalla loro carica creativa, uniformate alle leggi della comunicazione e del mercato. Parole a cui non si può credere, a cui è necessario non credere, da cui bisogna difendersi, arginandole, creando uno spazio di silenzio. È in questo spazio vuoto, marginale, che accade ancora la poesia, il teatro. Prima di questo laboratorio pensavo che il lettore più attento di un testo fosse il suo traduttore. Più del critico, spesso viziato da lenti intellettuali e speculative, il traduttore è chiamato a calarsi nella materia della lingua, e riportarne in vita strati sommersi. Ora penso che forse, ancora più del traduttore da una lingua all’altra, il lettore più attento possa essere chi traduce dalla pagina al corpo. Lavorare con Silvio mi ha dato la possibilità di assistere a un lavoro che porta a sondare la parola come un terreno su cui gettare le fondamenta del presente, vicino alle faglie da cui affiora, come un’acqua primordiale, il mito.
*In copertina: Charles Jalabert, “Edipo e Antigone lasciano la città di Tebe”, 1842
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I Libri del 2018
Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto. Jorge Louis Borges
1 - R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi
2 - P. Matvejevuc, Breviario Mediterraneo, Garzanti
3 - C. De Hamel, Storia di Dodici Manoscritti, Mondadori
4 - B. Pasternak, Il Dottor Zivago, De Agostini
5 - J. Brotton, La Storia del Mondo in dodici mappe, Feltrinelli
6 - F. Vargas, Il morso della reclusa, Einaudi
7 - C. Bollen, Orient, Bollati Boringhieri
8 - L. Binet, La settima funzione del linguaggio, La Nave di Teseo
9 - S. N. Behrman, Duveen, Il Re degli antiquari, Sellerio
10 - G. Barbujani \ A. Brunelli, Il giro del Mondo in sei milioni di anni, Il Mulino
11 - S. Plath, La campana di vetro, Mondadori
12 - M. Walsh, Un uomo tranquillo, Biblioteca di Repubblica
13 - M. Lowry, Sotto il vulcano, Feltrinelli
14 - M. Haruki, Uomini senza donne, Einaudi
15 - A. Donate, Il Club delle lettere segrete, Feltrinelli
16 - G. Ronza, Aeterna. La macchia nel sangue, Betelgeuse
17 - S, Natoli, La felicità. Saggio di teroia degli affetti, Feltrinelli
18 - Y. Shuichi, L’uomo che voleva uccidermi, Feltrinelli
19 - G. Ieranò, Arcipelago. Isole e Miti del Mar Egeo, Einaudi
20 - S. Bizzotto, Giro del Mondo in una Coppa, Il Saggiatore
21 - P. Carey, Molto lontano da casa, La Nave di Teseo
22 - C. E. Morgan, Lo sport dei re, Einaudi
23 - L. Krazsnahorkai, Melancolia della resitenza, Bompiani
24 - C. Nixey, Nel nome della Croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri
25 - M Malvaldi, Per ridere aggiungere acqua. Piccolo saggio sull’umorismo e il linguaggio, Rizzoli
26 - P. Lemaitre, I colori dell’incendio, Mondadori
27 - M. Forsyth, Breve storia dell’ubriachezza, Il Saggiatore
28 - Y. Haenel, Tieni ferma la tua corona, Neri Pozza
29 - T. Braccini, Lupus In Fabula. Fiabe, leggende e barzellette in Grecia e a Roma, Carocci
30 - G. Antonelli, Il Museo della Lingua Italiana, Mondadori
In un anno pieno di cose da fare, ho letto trenta titoli, 2 in più dell’anno scorso, ma non arrivo ancora alle 10 mila pagine, per un soffio, mi fermo a 9826. Anche quest’anno devo dire che le mie scelte di lettura, compresi i libri che mi hanno donato, sono state in generale soddisfacenti: ho la mia classifica sia sui romanzi, con in testa gli autori francesi, e dei saggi. Quest’anno ho letto anche il primo libro di un’amica, una piacevole sorpresa, e le auguro tante gioie letterarie future. Aspetto, se vorrete, di parlarne con voi.
Noi tutti leggiamo noi stessi e il mondo intorno a noi per intravedere cosa e dove siamo. Leggiamo per capire, o per iniziare a capire. Non possiamo fare a meno di leggere. Leggere, quasi come respirare, è la nostra funzione essenziale.
Alberto Manguel, Una storia della lettura, 2009
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Una donna libera in una società oppressa sarà un mostro
“Una società dominata dagli uomini produce una pornografia di generale acquiescenza femminile. Oppure- quale delizioso tittillamento!- di dominio femminile compensativo ma spurio. Miss Stern con le sue verghe e le sue fruste, la Nostra Signora del Dolore, con la visiera di pelle e gli stivali castranti dai tacchi a spillo, è una vera e propria fantasticheria, una visione distorta del vecchio detto: La mano che fa dondolare la culla domina il mondo. Questa mano munita di frusta fa dondolare la culla in cui il cliente sogna, ma nient’ altro. Miss Stern esercita il suo dominio solo nella camera da letto, lei e la sua presunta vittima hanno stretto un patto di mutua degradazione ed essa, nel suo strano abbigliamento, è mutilata ancora più selvaggiamente dalla violenza erotica da lei stessa perpetrata di quanto non lo sia lui dalla sofferenza alla quale si sottopone, dal momento che la sua sofferenza è, per natura, una vacanza dalla vita, mentre la crudeltà di lei è l’ espressione economica della vita reale, un duro lavoro. Si può descrivere la loro complicità in un romanzo pornografico ma rapportarla all’ ipoteca di lei, alla sua paga da serva e ai conti della lavanderia significa usare la tecnica di propaganda della pornografia per esprimere una visione del mondo che devia dalla nozione che tutto ciò si svolga in un asilo dell’ innocenza turbata. Un asilo? Solo i bambini piccoli nella nostra società non devono lavorare.”
“Il pornografo che coscientemente utilizza la pornografia, l’ effetto presa della pornografia, per esprimere una visione del mondo che trascende questo tipo di innocenza si troverà molto presto immerso nelle acque della politica, poiché si sorprenderà a descrivere le reali condizioni del mondo in termini di incontri sessuali o addirittura scoprirà che la vera natura di questi incontri illumina il mondo stesso.
(....) Sade è un intenditore di queste mutilazioni Egli è uno scrittore radicale e descrive una società e un sistema di relazioni sociali in extremis,quelli degli ultimi anni dell’ ancien régime in Francia. Egli descrive i rapporti sessuali nel contesto di una società oppressa come espressione della tirannia pura, di solito quella degli uomini sulle donne, qualche volta degli uomini sugli uomini, altre volte delle donne sugli uomini o sulla altre donne; l’ unica costante in tutte le mostruose orge sadiane è che la mano munita di frusta è sempre la mano del potere politico reale e la vittima una persona che ha poco o nessun potere o alla quale è stato usurpato. In questo schema maschio sta per tiranno mentre femmina sta per martire, non importa a quale sesso appartengano effettivamente questi maschi e queste femmine. La sua singolarità, come pornografo, è che raramente o mai rende l’ attività sessuale immediatamente attraente. Sade ha la curiosa capacità di rendere sospetto ogni particolare della sessualità, al punto da farci capire che il casto bacio dell’ amante differisce solo di poco dal vampiresco morso d’ amore che cava il sangue e che una carezza disinteressata è solo quantitativamente diversa da una frustata disinteressata.”
“Le eroine di De Sade, quelle che diventano libertine, accettano la dannazione, intendendo con ciò questa sorta di esilio dalla vita umana come un fatto implicito nella vita stessa. Questa è la natura delle libertine. Esse modellano se stesse a immagine dei libertini, benché il libertinaggio sia una condizione a cui tutti i sessi possono aspirare. Così Sade crea un museo di donne-mostri. Fa a pezzi i loro corpi e li rimette insieme nelle forme del suo delirio. Rinnova tutte le antiche ferite, una per una, e le fa sanguinare come se non dovessero più rimarginarsi. Di tanto in tanto abbandona la satira per immaginare un mondo in cui nessuno dovrà più sanguinare.”
“...nel desolato ossario dell’ immaginazione...”
“Portate qui con la forza, le ragazze possono lasciare il padiglione solo con la morte. Quel luogo di terrore e di privilegio è un modello del mondo: non chiediamo di venirci e se lo lasciamo è per sempre. Il nostro ingresso e la nostra uscita sono ugualmente violenti e indesiderati:la scelta non si pone. Ma la nostra permanenza in questa prigione non si basa su termini paritari.”
La donna sadiana. Angela Carter
“Amico mio, non diffondere la razza dei re .Abbiamo già troppi individui inutili sulla terra che si ingrassano con i beni del popolo, lo vessano e lo tiranneggiano col potere di governarlo. Non c'è niente di più inutile al mondo di un re. “
“Esistono due osservazioni essenziali da fare quando si è decisi a commettere un crimine per divertimento: la prima è di dargli tutto lo spazio di cui è suscettibile; la seconda è che sia di tale violenza che non si possa mai correre ai ripari.”
https://www.youtube.com/watch?v=u-74WzKsFzI
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LE MOSTRE E I MUSEI APERTI DAL PRIMO FEBBRAIO A ROMA
Da lunedì primo febbraio potranno riaprire musei e mostre a Roma e nel Lazio. La regione è tornata in zona gialla e quindi, dal lunedì al venerdì ma non nel fine settimana, potranno riaprire tutti i musei, tra i quali saranno: il Museo Casal De Pazzi, il Museo delle Mura, la Villa di Massenzio.
Apriranno inoltre i Fori Imperiali e l’area archeologica del Circo Massimo, il Palazzo delle Esposizioni, Macro e Mattatoio, i Musei Capitolini, il Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco, il Museo Napoleonico, il Museo Pietro Canonica e Villa Borghese, il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, il Museo della Repubblica Romana, i Mercati di Traiano -Museo dei Fori Imperiali, il Museo di Roma e Palazzo Braschi, il Museo dell’Ara Pacis, il Museo di Roma in Trastevere, la Galleria d’Arte Moderna, i Musei di Villa Torlonia, il Museo Civico di Zoologia.
Riaprirà inoltre al pubblico anche il Colosseo, dopo quasi 90 giorni di chiusura, dal lunedì al venerdì con orario 10.30-16.30, mentre non farà altrettanto la Domus Aurea. Per quanto riguarda l’arte contemporanea, dopo tre mesi riaprirà anche il Maxxi
Le mostre a Roma
Museo dell’Ara Pacis: l’inaugurazione della mostra ‘Josef Koudelka. Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza’, unica tappa italiana;
Mercati di Traiano: la mostra ‘Napoleone e il mito di Roma’, dedicata agli scavi promossi da Bonaparte, di cui quest’anno ricorre l’anniversario del bicentenario della morte;
Musei Capitolini, presso Villa Caffarelli, ospiteranno la mostra ‘I marmi Torlonia. Collezionare capolavori’, incentrata sul collezionismo dei marmi antichi, romani e greci, mentre un’altra sarà ‘Il Tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione Roberto Longhi’, con il celebre dipinto ‘Ragazzo morso da un ramarro’.
Per chi fosse interessato ad approfittarne in questo momento per il Maxxi ci sarà un biglietto speciale a 5 euro, prenotabile su maxxi.vivaticket.it, per garantire visite scaglionate per fasce orarie nel rispetto delle norme sulla sicurezza, mentre per il Colosseo, per le aree del Parco, queste saranno visitabili solo ed esclusivamente prenotando il proprio ingresso online.
Prenota adesso una camera in questi fantastici B&B nel centro di Roma:
B&B Roma
B&B Roma Centro
Domus Ester (Piazza Campo De Fiori)
L'Antica Locancada dell'Orso (Piazza Navona)
Locanda Parlamento (Piazza di Spagna)
Relais Parlamento (Piazza del Parlamento)
Locanda di Piazza del Popolo (Piazza del Popolo)
Rome Central Inn (Piazza del Popolo)
Le Petite Biju (Piazza Barberini e Stazione Termini)
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Il borgo di Castel San Pietro Romano sorge arroccato su una collina e guarda dall’alto dei suoi 763 metri di altezza il panorama del Monte Ginestro. Castel San Pietro si trova a meno di 50 chilometri da Roma ed è uno dei paesi più piccoli ma più pittoreschi del Lazio. Il suo centro storico ha giovato di un’importante rivalutazione nel 2017, che ha portato Castel San Pietro ad entrare a far parte dei Borghi più belli d’Italia e ad essere premiato come una delle 100 mete d’Italia. Il nome del villaggio è da attribuire all’apostolo Pietro, che in antichità si ritirò su queste colline, ma l’origine di Castel San Pietro risale al Medioevo: la popolazione dell’antica Praeneste, ora Palestrina, si mosse tra queste alture in cerca di sicurezza e di luoghi più facilmente difendibili dagli attacchi dei nemici. Oggi Castel San Pietro si gode il suo splendore e si presta a piacevoli soggiorni di relax e scoperta, tra stretti vicoli, scorci panoramici e antiche fortezze. Cosa vedere a Castel San Pietro Sul paese di Castel San Pietro domina indisturbata la Rocca dei Colonna, una spettacolare fortezza medievale che sembra fondersi alla perfezione con con l’ambiente circostante. Un vero gioiello architettonico del borgo, voluta dalla famiglia dei Colonna, il cui stemma campeggia ancora sull’arco d’accesso alla Rocca. La sua funzione difensiva è palese, data la sua posizione strategica che domina dal Monte Ginestro una vasta porzione del territorio sottostante: dalle sue mura si possono infatti godere panorami mozzafiato sui Colli Albani e Tuscolani e sui paesaggi della campagna romana fino a Tivoli ed ai Monti Lucretili. Il terreno brullo e carsificato che circonda Rocca Colonna appare a dir poco splendido da lassù, specialmente al tramonto, quando il sole tinge di colori caldi i colli romani . La fortezza ha purtroppo vissuto anni di degrado, passando da essere punto militare strategico a palazzo residenziale fino ad essere infine completamente abbandonata. È stata però magistralmente restaurata nel 2000, ritornando alla sua antica maestosità. Tra gli edifici religiosi più importanti del borgo si annovera invece la chiesa di Santa Maria della Costa, risalente al XVIII secolo sulle antiche rovine di un monastero. Altra chiesa importante è quella dedicata a San Pietro Apostolo, che si affaccia sulla piazza principale del paese, Piazza San Pietro, e sorge anch’essa sui resti di una precedente costruzione romana. Sempre sulla stessa piazza si erge una delle perle di interesse architettonico del borgo di Castel San Pietro, Palazzo Mocci: residenza nobiliare di una delle famiglie più importanti dell’area è oggi sede del Museo Virtuale Terra Nostra ed insieme ad altre zone del paese è stato location di diverse produzioni cinematografiche, tra le quali Pane, Amore e Fantasia di Luigi Comencini del 1953, con Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica e Marisa Merlini. Da non perdere a Castel San Pietro anche le sue Mura Ciclopiche, di origine preromana e databili nel VI sec. a.C, costituite da grandi blocchi di pietra irregolari messi in opera a secco ancora in buona parte ben conservate e visibili. I dintorni di Castel San Pietro non sono meno suggestivi, ed ospitano una natura rigogliosa e numerosi sentieri escursionistici che si addentrano nelle campagne della periferia di Roma. A pochi chilometri dal centro si trova ad esempio la Valle delle Cannucceta, area naturale protetta dichiarata Monumento Naturale della Regione nel 1995, mentre al sud del paese della Rocca dei Colonna sorge Palestrina, una città d’arte dall’irresistibile fascino custode di opere artistiche dall’inestimabile valore. Cosa mangiare a Castel San Pietro Castel San Pietro mostra tutta la bellezza e l’autenticità delle aree limitrofe alla Capitale anche nella sua gastronomia: verace, genuina e assolutamente da non perdere. È impossibile passare da queste zone d’Italia e non assaggiare un piatto di bucatini all’amatriciana o una carbonara preparata secondo la ricetta originale. La cucina tradizionale di Castel San Pietro offre piatti succulenti della cucina romano-montana: si passa dagli gnocchi a coda de sorica per arrivare allo spezzatino, e passando per una squisita pasta e fagioli ci si può tuffare poi su della succulenta carne alla brace. Senza dimenticarsi di dare un morso ad un giglietto di Palestrina, per completare l’itinerario enogastronomico: un celebre biscotto secco, oggi presidio Slow Food, dal sapore caratteristico e dalla singolare forma a giglio, da cui prende il nome. Il presepe vivente di Castel San Pietro Nel poetico quadro di Rocca dei Colonna, prende vita nel periodo natalizio il Presepe Artistico a grandezza naturale. Le rocce carsiche della Rocca accolgono pastori, animali ed una Natività vibrante di fascino. L’ambiente della fortezza e le formazioni naturali che la circondano diventano una location perfetta per mettere in scena un presepe d’eccezione che attira ogni anno decine di visitatori incuriositi dall’incanto dell’opera. Foto di Gianluca Gasbarri https://ift.tt/2S0QKOm https://ift.tt/2ukzBGp Cosa vedere a Castel San Pietro Romano Il borgo di Castel San Pietro Romano sorge arroccato su una collina e guarda dall’alto dei suoi 763 metri di altezza il panorama del Monte Ginestro. Castel San Pietro si trova a meno di 50 chilometri da Roma ed è uno dei paesi più piccoli ma più pittoreschi del Lazio. Il suo centro storico ha giovato di un’importante rivalutazione nel 2017, che ha portato Castel San Pietro ad entrare a far parte dei Borghi più belli d’Italia e ad essere premiato come una delle 100 mete d’Italia. Il nome del villaggio è da attribuire all’apostolo Pietro, che in antichità si ritirò su queste colline, ma l’origine di Castel San Pietro risale al Medioevo: la popolazione dell’antica Praeneste, ora Palestrina, si mosse tra queste alture in cerca di sicurezza e di luoghi più facilmente difendibili dagli attacchi dei nemici. Oggi Castel San Pietro si gode il suo splendore e si presta a piacevoli soggiorni di relax e scoperta, tra stretti vicoli, scorci panoramici e antiche fortezze. Cosa vedere a Castel San Pietro Sul paese di Castel San Pietro domina indisturbata la Rocca dei Colonna, una spettacolare fortezza medievale che sembra fondersi alla perfezione con con l’ambiente circostante. Un vero gioiello architettonico del borgo, voluta dalla famiglia dei Colonna, il cui stemma campeggia ancora sull’arco d’accesso alla Rocca. La sua funzione difensiva è palese, data la sua posizione strategica che domina dal Monte Ginestro una vasta porzione del territorio sottostante: dalle sue mura si possono infatti godere panorami mozzafiato sui Colli Albani e Tuscolani e sui paesaggi della campagna romana fino a Tivoli ed ai Monti Lucretili. Il terreno brullo e carsificato che circonda Rocca Colonna appare a dir poco splendido da lassù, specialmente al tramonto, quando il sole tinge di colori caldi i colli romani . La fortezza ha purtroppo vissuto anni di degrado, passando da essere punto militare strategico a palazzo residenziale fino ad essere infine completamente abbandonata. È stata però magistralmente restaurata nel 2000, ritornando alla sua antica maestosità. Tra gli edifici religiosi più importanti del borgo si annovera invece la chiesa di Santa Maria della Costa, risalente al XVIII secolo sulle antiche rovine di un monastero. Altra chiesa importante è quella dedicata a San Pietro Apostolo, che si affaccia sulla piazza principale del paese, Piazza San Pietro, e sorge anch’essa sui resti di una precedente costruzione romana. Sempre sulla stessa piazza si erge una delle perle di interesse architettonico del borgo di Castel San Pietro, Palazzo Mocci: residenza nobiliare di una delle famiglie più importanti dell’area è oggi sede del Museo Virtuale Terra Nostra ed insieme ad altre zone del paese è stato location di diverse produzioni cinematografiche, tra le quali Pane, Amore e Fantasia di Luigi Comencini del 1953, con Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica e Marisa Merlini. Da non perdere a Castel San Pietro anche le sue Mura Ciclopiche, di origine preromana e databili nel VI sec. a.C, costituite da grandi blocchi di pietra irregolari messi in opera a secco ancora in buona parte ben conservate e visibili. I dintorni di Castel San Pietro non sono meno suggestivi, ed ospitano una natura rigogliosa e numerosi sentieri escursionistici che si addentrano nelle campagne della periferia di Roma. A pochi chilometri dal centro si trova ad esempio la Valle delle Cannucceta, area naturale protetta dichiarata Monumento Naturale della Regione nel 1995, mentre al sud del paese della Rocca dei Colonna sorge Palestrina, una città d’arte dall’irresistibile fascino custode di opere artistiche dall’inestimabile valore. Cosa mangiare a Castel San Pietro Castel San Pietro mostra tutta la bellezza e l’autenticità delle aree limitrofe alla Capitale anche nella sua gastronomia: verace, genuina e assolutamente da non perdere. È impossibile passare da queste zone d’Italia e non assaggiare un piatto di bucatini all’amatriciana o una carbonara preparata secondo la ricetta originale. La cucina tradizionale di Castel San Pietro offre piatti succulenti della cucina romano-montana: si passa dagli gnocchi a coda de sorica per arrivare allo spezzatino, e passando per una squisita pasta e fagioli ci si può tuffare poi su della succulenta carne alla brace. Senza dimenticarsi di dare un morso ad un giglietto di Palestrina, per completare l’itinerario enogastronomico: un celebre biscotto secco, oggi presidio Slow Food, dal sapore caratteristico e dalla singolare forma a giglio, da cui prende il nome. Il presepe vivente di Castel San Pietro Nel poetico quadro di Rocca dei Colonna, prende vita nel periodo natalizio il Presepe Artistico a grandezza naturale. Le rocce carsiche della Rocca accolgono pastori, animali ed una Natività vibrante di fascino. L’ambiente della fortezza e le formazioni naturali che la circondano diventano una location perfetta per mettere in scena un presepe d’eccezione che attira ogni anno decine di visitatori incuriositi dall’incanto dell’opera. Foto di Gianluca Gasbarri https://ift.tt/2S0QKOm Castel San Pietro Romano è un borgo dove fare splendide passeggiate d’estate e dove ammirare il Presepe Vivente nel periodo natalizio.
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A sonorización do obxecto artístico: accións reivindicativas?
Pódese falar da arte sonora como de un xénero de manifestacións estéticas ben definido? Ou os exemplos que se escollan non van máis aló dunha moda? Na Fundació Miró está instalada a mostra Art Sonor?, con ese signo de interrogación que a fai atractiva. E agrupa creacións que van de finais do século XIX ata hoxe. Logo non semella algo tan pasaxeiro. Como se endereita unha pintura, unha escultura ou un debuxo cara o sentido do oído?
Lito Caramés
Art sonor? Fundació Joan Miró
I think we need to question whether or not ‘Sound Art’ constitutes a new art form. The first question, perhaps, is why we think we need a new name for these things which we already have very good names for. Is it because their collection reveals a previously unremarked commonality (Max Neuhaus. Sound Art?, 2000).
A Fundació Miró-Barcelona vén de abrir unha nova proposta artística. Unha proposta non moi habitual, a verdade. Presentar unha exposición temporal na que se pretende mostrar ao público a arte que ten sonoridade non acontece todos os anos; e menos cunha interrogación. Art Sonor? é a mostra estética que organiza a devandita fundación coa axuda da Fundación BBVA. Está comisariada por Arnau Horta, barcelonés, crítico de arte, periodista, profesor e comisario de outras exposicións. Xa ten traballado para o Museo Reina Sofía, para o MACBA, o CCCB, entre outras entidades culturais, e colabora en festivais de música como o Sónar ou o LOOP Barcelona.
A exposición Art Sonor? xunta setenta pezas artísticas, entre pinturas, debuxos, esculturas, gravados e instalacións. 70 obras que pertencen a 36 artistas diferentes, de todos os continentes. Entre os nomes máis coñecidos aparecen Laurie Anderson, Marcel Duchamp, Sonia Delaunay, Josep Beuys, John Cage, Laurie Anderson, Joan Miró, John Baldessari, entre outros. Artistas que andan metidas e implicados na Arte Sonora prefiren –segundo o caso-- chamarlle ássúas composicións por outros nomes: small sounds, sound cooking, por exemplo. No fondo o que propón Arnau Horta na Fundació Miró vén sendo outra ollada á poesía e as súas contornas.
No ano 2000, co gallo da exposición Volume: Bed and Sound que se celebrou no Contemporary Art Center de New York, e na que estaban presentes creacións de máis de sesenta artistas, o músico e artista experimental Max Neuhaus publicou no catálogo desta mostra o seu coñecido artigo titulado Sound Art? no que arremetía contra as entidades que se dedicaban, alá polos anos 80 e 90 a programar exposicións sobre “algo” que dicían que era arte sonora, pero que en realidade non era máis ca unha colección de pezas musicais e cousas semellantes, iso si, ao que se lles aplicaba “un novo nome”: Sometimes these ‘Sound Art’ exhibitions do not make the mistake of including absolutely everything under the sun; nesas mostras métese calquera cousa que exista baixo o sol. Para estudosos como Arnau Horta ese artigo é un verdadeiro manifesto da arte sonora.
Sonorización, cinetismo: reivindicación
El silenci és una negació del soroll, però resulta que el menor soroll, dins el silenci, es torna enorme. El mateix procés em fa buscar el soroll que s’amaga dins el silenci, el moviment a la immobilitat, la vida en lo inanimat, l’infinit en allò finit, formes al vuit i a mi mateix a l’anonimat (Joan Miró).
O artista e profesor Jordi Pericot, ao falar dos obxectivos da Op art, da arte cinética, que nos anos sesenta e setenta tanto practicou, afirma que o que pretendían, el e mais os seus compañeiros, era conseguir formas revolucionarias de crear e, de paso, procurar a transformación da sociedade. Pericot, inconformista, ao regreso de París acaba promovendo o grupo MENTE (Muestra Española de Nuevas Tendencias Estéticas), xunto con artistas e profesionais do nivel de Oriol Bohigas, Ricard Bofill, Ricard Salvat, ou Daniel Giralt-Miracle. Para os artistas cinéticos lograr que unha pintura, un deseño ou unha escultura teña movemento significaba atentar contra as leis naturais, contra as normas sociais. A arte cinética pretendeu superar todos os formatos artísticos, facendo desaparecer de vez as separacións entre pintura e escultura, ou entre ready mades e vídeo. O cinetismo foi un proxecto de síntese artística: unha peza de dúas dimensións (pintura) que simule as tres dimensións, unha escultura móbil, fotografías con movemento, etc. Socialmente a arte cinética buscou a democratización da arte. A arte non pode ser exclusivamente para as elites sociais; a arte ten que estar ao alcance de toda a poboación, debe formar parte da educación que as sociedades brinden a cidadás e cidadáns. Os museos e outras institucións tiñen que ter as súas portas abertas sempre (algo como o que acontece hogano en Gran Bretaña). E aínda o cinetismo, nos seus postulados teóricos, quere chegar máis aló: a arte pasa a integrarse na vida cotiá da cidadanía. Nesta vía de pescuda, a arquitectura cobra unha grande importancia. A poboación pode vivir rodeada de arte; e pode vivir na arte: os edificios como grandes esculturas transitables e con gusto estético. Segundo os cinetistas o espectador é o que remata a obra de arte: ao pórse diante dela, ao moverse, xera a cinética dos elementos que a/o creador produciron. Por iso, ao remate das súas experimentacións, Jordi Pericot –farto de que as creacións cinéticas non muden o mundo-- elabora unha última peza: MerDa, unha sucesión de seis fotografías que reflicten a face do artista nos pasos de pronunciar esa verba.
Outro tanto é xusto dicir de tantas e tantas accións sociais, creativas, nas que o vehículo da protesta é a voz, o so. Poden valer as consignas repetidas en calquera manifestación, é lícito incluír as cantigas de protesta, moitas ben coñecidas e reiteradas. Agora desde Chile vén unha cantiga das mulleres contra os violadores: el violador eres tú. Converterase esa cantiga na proclama internacional do feminismo? ¿Cal acabará sendo a banda sonora de Greta Thunberg e de millóns de persoas que protestan contra o capitalismo depredador e consecuente cambio climático? E que dicir do que aconteceu diante da cadea onde está pechado Brevik, o asasino de 77 mozas e mozos na illa de Utoya? Máis de 40.000 persoas autoconvocáronse polas redes para ir cantar diante da prisión a cantiga de Pete Seeger, My Rainbow Race, que seica a odia. E alí tivo que escoitar a toda aquela xente entoando os versos dunha creación sonora de esperanza: Go tell, go tell all the little children. / Tell all the mothers and fathers too. / Now's our last chance to learn to share / What's been given to me and you.
Desde finais do século XIX houbo e hai, por parte de algúns artistas, a pretensión de superar as barreiras entre as diversas manifestacións artísticas. Por que a música só afecta ao sentido do oído? Por que a pintura ou o debuxo, só han de ser captadas pola vista? É posible que un lenzo emita vibracións e que estas alcancen a sensibilidade dos espectadores?
Servindo as anteriores interrogantes como base, é doado afirmar que moitas obras pictóricas levan berrando séculos? Exemplo: Ragazzo morso da un ramarro, de Caravaggio. Dese lenzo sae, directamente cara quen está a mirar, o berro do rapaz –que dirixe a ollada cara o espectador-- mentres é mordido polo lagarto. Hai, logo, unha intencionalidade de querer transmitir o so? Cando Vermeer pinta Het melkmeisje está sentindo caer o leite? Ou ten a pretensión de que quen observa sinta ese borbullo? Son só dous exemplos de pintura barroca, pero que ben poden ilustrar a superación dos sentidos, as barreiras perceptivas, os obxectivos que se propoñen tantas e tantos artistas. A relación pode ser todo o longa que se queira: Giuditta e Oloferne, de Artemisia Gentileschi envía fóra das dimensións da pintura os gurgullos finais do home, a quen lle fenden a gorxa, ante a súa inminente morte.
Por iso máis preto no tempo, Skrik, do pintor Munch, logra que chegue a quen remata a obras artística (o observador) o desacougo do tremente paseante. ¿A posición das mans que o pintor decide aplicar é para multiplicar a ansiedade do personaxe, ou máis ben serven de altofalante, de multiplicador do berro que lle foxe do fondo do seu ser? Tampouco debe estrañar a relación de Kandinsky coa música, e desta disciplina coa súa pintura. O propio artista, en Do Espiritual na Arte, vén informando de como a música o impele a utilizar determinadas formas (triángulos) e –máis aínda-- certas cores para facer das súas pinturas (planas e rectangulares) verdadeiras partituras musicais. Tal acontece nun fato de pinturas dos anos 10 onde o pintor ruso xa lles pon por título o que podería ser a denominación dunha peza musical: Improvisation 27, por exemplo (haberá unha influencia da música do jazz sobre este revolucionario da arte da primeira parte do século XX?).
Els ulls que escolten, cossos sonors, Els sons secrets del silenci
“O so musical penetra directamente no espírito, Inmediatamente atopa nel unha resonancia porque o home leva a música en si propio” (Goethe). “Todos saben que as cores amarela, laranxa e vermella espertan as ideas de alegría e riqueza” (Delacroix). Estas dúas citas mostran o profundo parentesco que existe entre as artes, en especial entre a música e a pintura (Kandinsky, Do Espiritual na Arte, 1911).
A exposición Art Sonor? que nestas datas de finais de 2019 e comezos do 2020 programa a Fundació Joan Miró Barcelona está estruturada en cinco espazos diferentes, procurando atender a diversos xeitos que os artistas tiveron e teñen de ensamblar as diversas artes, atender a máis dun dos sentidos.
Xa ao comezo desta mostra tan pouco usual, sorprende atopar un lenzo grande de Sonia Delaunay, a artista do orfismo, que ela mesma titulou Chanteurs de flamenco (Gran flamenco), 1915. Os círculos de cores van provocando movementos na tela, como se a artista estivese oíndo e vendo as circunvolucións das voces rachadas de cantaoras e cantaores, e mais os xiros violentos dos bailes que xa daquela engaiolaban aos públicos europeos. O orfismo, esa variante do cubismo deulle (en contrapartida co propio cubismo) moito valor á cor como creador de formas e contidos da peza. Como parodia e xogo cómpre citar a peza de Baldessari, Beethoven’s Trumpet na que se fai referencia á xordeira do xenial músico, así como non deixa de ser unha homenaxe: ao aproximarse á trompeta que sae desa orella esquerda escóitanse pezas do compositor vienés. Este sería un caso claro de escultura sonora.
Cómpre suliñar que esta exposición (Art Sonor?) é bastante máis interactiva do que habitualmente son as que se programan nas entidades culturais de calquera cidade. Para citar algunha das setenta pezas que están esparexidas polas salas da Fundació Miró, chama moito a atención Handphone Table, da artista Laurie Anderson, unha das investigadoras máis recoñecidas dentro do que se pode chamar arte sonora. Trátase dunha mesa de madeira de piñeiro vernizada, normal, con dúas cadeiras, da que por suposto non saen altofalantes nin sons; pero que, ao aproximarse, deixa visibles catro puntos diferenciados (dous a cada extremo) sobre a superficie marrón da madeira. Pois ben, sentándose nunha das cadeiras e pondo os cóbados neses dous puntos, e situando as mans nas orellas (a modo de semicírculos), de contado soa unha música perfectamente perceptible. É dicir, a persoa que visita esa peza vén sendo protagonista da peza artística: os brazos transfórmanse en cables transmisores de sons, e as mans en altofalantes que permiten a chegada dos sons. Para seguir coa experimentación (e interactividade) dos corpos (cossos sonors), é doado meterse dentro da escultura Mannheim Chair, da tamén artista Michaela Meilán. Trátase dunha cadeira colgante na que é preciso sentar para sentir a música e comprobar como o movemento da cadeira acaba acompasado coas melodías que se van sentindo.
Rolf Julius, un dos investigadores da sonoridade nas pezas artísticas, está presente na mostra con seis pezas diferentes. A que leva por título Singing é moi explícita: unha ringleira de altofanates pendurados do teito e organizados en liña van emitindo sons de xeito ininterrompido. Indo á procura de sons chégase á peza de Paul Kos, The Sound of Ice Melting. O que fai o artista con esta performance é instalar no chan unha barra de xeo comercial, situar ao seu redor seis ou máis micrófonos de alta sensibilidade e reproducir os mínimos sons que provoca o desxeo nun altofalante instalado na parede.
Art Sonor? É unha mostra singular. É un espazo para a reflexión, para a autoexperimentación e a interactividade. Moi recomendable.
Lito Caramés
EXPOSICIÓN: Art Sonor?
Fundació Miró
ata o 23 de febreiro de 2020
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Credit: Giovanni Bindellini
Lo hanno chiamato Razana. Era lungo sette metri e pesante una tonnellata, con un cranio alto e massiccio dotato di robuste mascelle armate di enormi denti seghettati, pronti a triturare ossa. Era il temibile coccodrillo giurassico con il morso da T. rex, vissuto 170 milioni di anni fa nella parte meridionale del supercontinente Gondwana, corrispondente all'attuale Madagascar. L'identikit arriva da uno studio pubblicato su Peer J da un gruppo di paleontologi italiani e francesi, guidato da Cristiano Dal Sasso del Museo di Storia Naturale di Milano.
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di Gabriella Incisa di Camerana
L’iniziativa è prodotta da Gabriella Incisa di Camerana con HORSE PAINTING, un evento nato in Tunisia che celebra la vittoria cartaginese a Canne.
Un esempio di collaborazione e di integrazione tra i popoli che il CentreHippiqueMahdia replica martedi 26 febbraio, alla presenza del dottor Lorenzo Fanara, Ambasciatore d’Italia in Tunisia
La tela/coperta
Il Salone dell’Equitazione e dell’Ippica CAVALLI A ROMA ospiterà il prossimo 15 febbraio 2019, giorno dell’inaugurazione, l’evento internazionale HORSE PAINTING, nato e ideato nel 2016 a Mahdia, in Tunisia, per commemorare il comandante e uomo politico cartaginese Annibale Barca, in occasione dei 2.200 anni della vittoria della battaglia di Canne.
Per la prima edizione, fu organizzato un laboratorio di pittura e di costumi con decorazioni realizzate in DIY (acronimo del fai-da-te) per mettere in luce la strategia di Annibale, che rafforzava il suo esercito, eterogeneo e sempre meno numeroso di quello del nemico, con tattiche innovative sorprendenti, grazie anche alla famosa cavalleria numida. Secondo gli esperti, questi pony di Mogods passarono in un tratto semi-paludoso vicino al Col de la Traversette, uno stretto passaggio tra la Francia e Torino, a pochi chilometri a nord del Monviso.
Questi piccoli destrieri “montati senza morso ne’ gualdrappa”, come ci tramanda Tito Livio, sono oggi degli eccellenti mediatori nelle IAA (Interventi Assistiti con l’Animale) come coadiuvanti delle attività convenzionali, in cui l’animale assume il ruolo di intermediario, di catalizzatore tra un operatore ed un fruitore finale con problematiche fisiche, mentali o comportamentali.
Di questa razza ne esistono ormai, nel mondo, meno di duecento unità e un piccolo branco vive ancora nel quartiere di Hiboun a Mahdia, l’antica “Hippon”, dove c’erano le scuderie di Annibale. Minacciati di estinzione, sono stati immortalati in quei preziosi mosaici tuttora conservati nel Museo del Bardo a Tunisi.
Oggi, HORSE PAINTING è un progetto che include storia, cultura, belle arti, bambini, salute e tanta solidarietà. Un’attività interattiva integrata che fa parte della campagna di sensibilizzazione, promossa dal Centro Ippico Mahdia, per l’infanzia, la disabilità e la diversità: un’occasione anche per infrangere pregiudizi e barriere che sono il principale ostacolo per l’integrazione nella comunità. HORSE PAINTING è una divertente ed educativa kermesse congiunta sulle due rive del Mediterraneo, a dimostrazione di come l’arte ed i cavalli, interagendo insieme, possano diventare un efficace mezzo di comunicazione tra le persone nonché una rappresentazione simbolica e diacronica che unisce culture diverse.
La tela-coperta, espressione artistica ideata dall’associazione tunisina Centre Hippique Mahdia, non è invasiva per l’equino, che è abituato ad indossare quella invernale per proteggersi dal freddo o l’estiva, a rete, contro le mosche. Questo «cavallo-cavalletto», mobile e imprevedibile, va ben oltre la semplice funzione di supporto e consente all’artista di entrare in relazione con l’identità specifica di questo eccezionale mediatore emotivo che è il cavallo. In questo caso, il coinvolgimento di un animale, che ha un linguaggio corporeo elaborato, pone l’artista in un’interazione interspecifica che lo porta a sviluppare, contemporaneamente, nuovi modi di esprimersi per condividere un’esperienza, unica nel suo genere. Questo eccezionale mediatore emotivo, assorbendo le nostre vibrazioni, permette di migliorare la connessione con noi-stessi.
La tela-coperta rivela alcune parti del corpo del cavallo che sono accessibili a livello tattile e visivo: il collo potente e sinuoso, la folta criniera, la coda che serve per esprimere le sue emozioni, le membra ma, soprattutto, la testa che è il centro della mimica facciale equina, vale a dire le orecchie mobili, gli occhi grandi, le labbra e le narici morbide.
L’associazione Centre Hippique Mahdia, in collaborazione con l’Associazione A.S.SE.A. ONLUS di Moncalieri, in provincia di Torino, animerà dunque, nello spazio fieristico « Slow Life » di CAVALLI A ROMA dedicato alle attività didattiche e ludiche rivolte ai più piccoli, questo happening equiartistico.
Un laboratorio di pittura che permetterà a tutti di partecipare, grandi, piccini e diversamente abili, nell’ottica di un’integrazione sociale globale e che sarà diretto in loco dalla dottoressa Nicole Rovera, amazzone e coaudiatore IAA dell’Associazione A.S.SE.A. ONLUS. I bambini potranno quindi divertirsi dipingendo, grazie ad una tavolozza di colori atossici, con le proprie mani, direttamente sulle tele-coperte in tessuto di jean, realizzate artigianalmente in Tunisia e indossate dai cavalli, mediatori e catalizzatori empatici d’eccezione.
Clarissa Lionello, insegnante di pittura e disegno, è l’artista che ha aderito a questo progetto e che si esibirà esprimendo la propria arte dal vivo, sperimentando questa novità equi-pittorica.
I tre video tematici che Chavalier.net proporrà poco prima dell’inaugurazione della Fiera cavalli di Roma
Video Dream
Contemporaneamente saranno proiettati in continuo, su grande schermo, dei video tematici realizzati espressamente per questa occasione.
Alessandra Casino, istruttrice di equitazione e cautautrice, ha composto specialmente su richiesta del Centre Hippique Mahdia, la canzone « Every Person », dedicata alla valorizzazione della diversità, portata sullo schermo dal regista Michele Conidi, che ha scelto infatti questo brano come colonna sonora per il suo cortometraggio sul tema sociale del bullismo «Cinque minuti ancora», in concorso al David di Donatello 2019.
Il secondo video è stato realizzato grazie all’artista e ricercatrice Angela Demontis, appassionata di cavalli fin da bambina, autrice del libro « Il Popolo di Bronzo » sugli abiti, armi ed attrezzi delle popolazioni nuragiche della Sardegna dell’età del Bronzo. Il video si avvale della partecipazione del caglieritano Riccardo Mameli, appassionato di rievocazioni storiche medievali, e di Pietro Xander Mameli, che fa parte del gruppo “Compagnia Clugia Maior” per la divulgazione e lo studio delle attività praticate nel Medioevo, con particolare riferimento alla storia locale nonché esperto di Buhurt, lo sport internazionale basato sul full contact di cavalieri che si sfidano in duello con armature ed armi rigorosamente filologiche.
Questo clip è stato interamente girato nel bosco di olivastri secolari del parco San Sisinnio a Villacidro, in provincia di Cagliari, amena località, cantata anche nel sonetto «La Spendula» di Gabriele D’Annunzio, ma il vero protagonista è Lio’i, Leone, un cavallo da sella italiano nato in Sardegna che incarna il medievale cantore di gesta, un aedo a quattro zampe, grazie alla tela-coperta in tessuto di jean che la Janas, alias Angela Demontis, ricopre di disegni premonitori come l’Arazzo di Bayeux, il tessuto che descrive per immagini gli avvenimenti chiave relativi alla conquista normanna dell’Inghilterra.
Il terzo video, infine, si avvale del contributo di un gruppo di appassionati volontari sia locali che italiani residenti nella cittadina di Mahdia, sulla costa tunisina, che hanno dedicato tempo ed energie per realizzare questa storia la cui trama verte sulla trasmissione generazionale dei valori fondamentali che la microcomunità familiare trasferisce ai propri figli, permettendogli di vivere meglio nella società e, tutto sommato, di essere più felici. In tale contesto, il cavallo è visto come un catalizzatore di empatia e di comunicazione non verbale nei bambini. Hanno partecipato anche una quarantina di giovani «artisti in erba», accompagnati dai loro genitori, che si sono prestati piacevolmente a dipingere le tele-coperte poste sui cavalli e a giocare a fare il cinema.
In un tempo fuori dal tempo, lontano dai tumulti del mondo, il sogno infantile si evolve in un universo in cui il cavallo, la natura e la pittura diventano i veri protagonisti della storia dove i sogni dell’infanzia si confrontano con la realtà e, spesso, prendono un’altra dimensione
« Dream- حلم » è una storia di fragilità e vitalità, che deriva dall’umiltà e dal rispetto, non dalla forza bruta, in cui la vecchiaia non è più l’emblema dei limiti dell’uomo di fronte alla natura e al destino ma rappresenta la culla delle risorse e dei valori che la contraddistinguono e ne esprimono la grandezza.
Una visione che ci lascia tutti sognatori …
Questi video saranno inoltre il tema centrale dell’appuntamento « CUORI ALLA RIBALTA » presso l’Istituto Italiano di Cultura a Tunisi, il martedi 26 febbraio, alla presenza del dottor Lorenzo Fanara, Ambasciatore d’Italia in Tunisia. Una proiezione-dibattito a sostegno dell’educazione emozionale dell’infanzia per sensibilizzare sia la società civile che quella politica ed economica locale, perché «Ogni bambino oggi è il cittadino di domani! » come sottolinea Gabriella Incisa di Camerana, presidente dell’associazione Centre Hippique Mahdia.
Il servizio ………
I cavalli di #Annibale alla ribalta. Li porta alla fiera cavalli di Roma (dal 15-17/2), #GabriellaIncisadiCamerana. di Gabriella Incisa di Camerana L'iniziativa è prodotta da Gabriella Incisa di Camerana con HORSE PAINTING, un evento nato in Tunisia che celebra la vittoria cartaginese a Canne.
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Sproni, morsi e staffe
Susanne Probst
Franco Cosimo Panini , Modena 1993, 102 pagine
collana Musei civici di Modena
euro 25,00*
email if you want to buy :[email protected]
collezione del Museo di storia e arte medievale e moderna, Modena
Il morso è l'attrezzo più antico per controllare la cavalcatura. Nel corso dei tempi esso ha modificato la propria struttura adattandola alle circostanze d'impiego, al carattere della cavalcatura e alle mode. Uno stretto rapporto esisteva tra i difetti e il temperamento dell'animale e la forma data al morso. Ciò che oggi può sembrare solo estetica in passato era grande studio di necessità.
La staffa è uno dei finimenti che fanno parte della sella.È un anello, normalmente in metallo, a fondo piatto, che pende al lato della sella alla quale è appeso da una correggia chiamata staffile, e nel quale il cavaliere può infilare ed appoggiare il piede. La staffa è molto utile come punto d'appoggio sia per issarsi sulla cavalcatura, sia per reggersi in equilibrio sulla sella.
Sprone o sperone è un arnese montato su ognuno dei tacchi dello stivale del cavaliere e munito di una punta o di una rotellina acuminata per pungolare i fianchi del cavallo.
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Da Mario Schifano e la pop art in Italia a Caravaggio e i caravaggeschi, dalle fotografie del cineasta Arturo Zavattini e dello scrittore e saggista Roberto Cotroneo alle tele dell’artista tedesco della corte dei Borboni Jacob Philipp Hackert: proseguono per tutta l’estate nei Castelli di Corigliano d’Otranto, Gallipoli, Lecce e Otranto quattro interessanti e importanti mostre di arte e fotografia.
Sino al 24 settembre le sale del Castello Aragonese di Otranto accolgono la mostra Caravaggio e i caravaggeschi nell’Italia meridionale a cura diMaria Cristina Bandera. L’esposizione propone il “Ragazzo morso da un ramarro” di Caravaggio e una selezione di opere dei suoi seguaci meridionali, o attivi nell’Italia del Sud, provenienti dalla collezione della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, che custodisce il lascito di quello che è stato il più importante storico dell’arte italiano ma anche uno straordinario collezionista.
Dopo la presentazione in primavera nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, approda a Otranto Genius Loci, nel teatro dell’arte esordio dello scrittore e saggista Roberto Cotroneo nella sua attività di fotografo, intrapresa negli ultimi anni. Aperta tutti i giorni dalle 10 alle 24 la mostra è organizzata dal Comune di Otranto e da Civita Mostre. Ingresso 12 euro (ridotto 10 e 6 euro). Info 0836210094 – www.mostracaravaggio.it
Sino al 22 ottobre al Castello Carlo V di Lecce prosegue, invece, la mostra Mario Schifano e la pop art in Italia. Promosso da Theutra e Oasimed, in collaborazione con Galleria Accademia di Torino, con il patrocinio del Comune di Lecce e il sostegno di Axa Cultura, il progetto espositivo – a cura di Luca Barsie Lorenzo Madaro – è dedicato a quattro maestri di primo piano della storia dell’arte italiana e internazionale del secondo Novecento: Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Giosetta Fioroni. Il gruppo, denominato poi Scuola di Piazza del Popolo, è riuscito a far transitare nel mondo dell’arte motivi e oggetti provenienti dall’immaginario comune, dalla storia dell’arte e della vita, fornendo un contributo fondamentale all’arte contemporanea. Nei mesi di settembre e ottobre la mostra è aperta tutti i giorni dalle 9 alle 21 (sab/dom e festivi dalle 9.30 alle 21). Ingresso 10 euro (ridotto 7 euro). Info 0832246517 –www.schifanopopart.com
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Sino al 31 ottobre nella sala Tabaccaia del Castello De’ Monti di Corigliano d’Otranto approda “AZ – Arturo Zavattini fotografo. Viaggi e cinema, 1950-1960”. Curata da Francesco Faeta e Giacomo Daniele Fragapane e allestita da Big Sur Lab abbraccia un corpus di fotografie di grande formato, in massima parte inedite, che illustrano l’intensa attività del fotografo e operatore cinematografico, figlio di Cesare e collaboratore di Ernesto De Martino tra il 1950 e il 1960, decennio cruciale della storia del nostro Novecento. Una retrospettiva importante realizzata in collaborazione con Istituto Centrale di Demoetnoantropologia e Museo delle Civiltà di Roma. Aperta tutti i giorni tranne il lunedì dalle 10 alle 12.30 e dalle 16 alle 19.30 e durante gli appuntamenti serali del Castello). Ingresso 4 euro. Info 3331803375 – www.bigsur.it – www.comune.corigliano.le.it.
Sino al 5 novembre la Sala Ennagonale del Castello di Gallipoli, gestito dal 2014 dall’Agenzia di Comunicazione Orione, ospita la mostra “I porti del Re”, nove grandi opere dell’artista tedesco Jacob Philipp Hackert (1737-1807), raffiguranti altrettanti porti pugliesi (Gallipoli, Barletta, Bisceglie, Brindisi, Manfredonia, Monopoli, Otranto, Taranto e Trani) del Regno di Napoli. La mostra, a cura di Luigi Orione Amato e Raffaela Zizzari, è prodotta dal Castello in collaborazione con la Reggia di Caserta e il Comune di Gallipoli. Le opere furono realizzate su commissione di Re Ferdinando IV di Borbone che nella primavera del 1788 incaricò il pittore ufficiale di corte di ritrarre in dipinti e disegni tutti i porti pugliesi. I visitatori, inoltre, approderanno nel “Porto animato” a cura di Openlabcompany e potranno apprezzare la mostra fotografica “Alle porte del mare” a cura dell’associazione Obiettivi. Nel mese di settembre la mostra è aperta dalle 10 alle 21. Ingresso 7 euro (ridotti 6 e 4 euro). Info 0833262775 – www.castellogallipoli.it
Arte e fotografia nei castelli salentini Da Mario Schifano e la pop art in Italia a Caravaggio e i caravaggeschi, dalle fotografie del cineasta Arturo Zavattini e dello scrittore e saggista Roberto Cotroneo alle tele dell'artista tedesco della corte dei Borboni Jacob Philipp Hackert: proseguono per tutta l'estate nei Castelli di Corigliano d'Otranto, Gallipoli, Lecce e Otranto quattro interessanti e importanti mostre di arte e fotografia.
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Quando i ghepardi saettavano lungo la spiaggia di Riccione. “Se diamo il potere all’inappropriato è impensabile l’errore: tutto vive nel miracolo”
Sulla spiaggia albeggiavano arbusti dalle radici tenaci, etimo della lotta arcana tra la terra e il mare; al posto dei turisti, poi, dei corpi offerti, del bivacco della nudità, c’erano le fiere, per lo più ghepardi, giaguari. Bestie, nel bagliore – lì i ghepardi saettavano finché glielo consentiva la corda e l’intelligenza del domatore. La fiera correva ingorda di spazio per decine di metri, tra decine di predatori; il nodo la riportava dalla velocità all’essere, i domatori agivano come se potessero orientare le fasi lunari di un astro, di cui le bestie erano i raggi, il ruggito. Qualche domatore, rivestito di una corazza in cuoio, moriva, consapevole di essere scelto dalla bestia – sperando, per esigenza pitagorica, di rinascere nel corpo di chi ti uccide.
Dall’epoca di Tiberio fino al regno dei Goti, i vasti spazi intorno a Rimini, colonia fondata dai Romani nel 268 a.C., erano usati come luogo di addestramento per le fiere. Le bestie, che approdavano ad Aquileia e a Ravenna, venivano contenute, saziate e raffinate; ad alcune era dipinto il manto con motivi ornamentali o con moniti, altre fuggivano ed erano elette divinità nelle campagne. Dove oggi sorge Riccione, le aziende balneari, gli alberghi, fino a mille e cinquecento anni fa correvano i ghepardi, trottavano i giaguari, giacevano, enigmatici e annoiati, i leoni. L’incongruenza di questa immagine – le bestie feroci sulla spiaggia romagnola – può farci pensare che il benessere risiede nel rischio e nella pena, che la bestialità non è arrogante ma dotata di eleganza. Il Museo del Territorio mostra reperti paleolitici che testimoniano l’antichità dell’insediamento umano a Riccione – alcune figure incise su pietra fanno supporre che in queste zone abitassero delle pantere, dei puma. Secondo una leggenda medioevale, è a un ragazzo che tiene al guinzaglio tre pantere, sorridente, che vengono consegnati i segreti dell’Impero. Se diamo la vita a ciò che è incongruo, il potere all’inappropriato, è impensabile l’errore: tutto vive nel miracolo.
Le bestie addestrate a Riccione, poi, venivano indirizzate all’anfiteatro di Rimini – dove dal II secolo si svolgevano imponenti giochi gladiatori – oppure a Padova, a Fano, a Imola. Queste fiere dovevano essere molte e importanti: a Nizza, nel III secolo, si ipotizzò, per consuetudine al caos, di eleggere a imperatore una tigre ariminensis – di Rimini – uscita indenne da giorni di giochi.
A volte immagino la corsa dei ghepardi sul mare – l’acqua che si polverizza come una promessa di cristallo – e la ragazza che redime il morso in corona. Vicino alle terme di Riccione c’è un enorme edificio, un tirannosauro di cemento, abbandonato. L’erba ha avuto ragione di ogni cosa e stritola la struttura; s’intravede il rettangolo di un campo da tennis, corroso dai cespugli. I cardi hanno una necessità biblica. Costruito negli anni Sessanta, un tempo questo albergo ospitava le celebrità – oggi lo sfida qualche coppia che non ha paura di amarsi nel folto dei ratti. Tra le sue ombre, ogni volta, mi sembra di vedere un giaguaro pronto ad assalirmi – forse è nascosto qui il cuore nero che annienta il tempo e riduce ogni cosa a una copia, a un aforisma segregato nell’eresia. L’ultima ragazza nuda che ho visto – spogliata perfino del nome – aveva una pantera tatuata tra la schiena e la coscia destra.
Davide Brullo
*Il testo, dal titolo “Giaguari a Riccione”, è edito in origine sull’ultimo numero de “Il Bestiario degli Italiani”
*In copertina: Giovanni Stradano, “Torneo con bestie”, 1578
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http://puntidivista12.blogspot.it/2017/06/macaron.html?m=1 Un pasticcino alla fine del nostro lunghissimo soggiorno al Museo del Louvre. Era la prima volta che lo assaggiavo e dopo il primo morso mi sono innamorata #maccarone #paris #france #holidays #lovefamily #goodmorning #photography #happyblogging #like4like #comments (presso Magnago)
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“Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; peraltro, per poter raggiungere una tale condizione, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità” (Jean-Jacques Rousseau) Cos’è la felicità? Un morso ad una mela per spezzare la fame? Bere da un rubinetto di una fontana dell’acqua fresca? Guardare le nuvole dopo il temporale? Sentire le risate di un bambino? Leggere e concludere il finale di un libro? O come diceva Charlie Brown “La felicità è accarezzare un cucciolo caldo caldo, è stare a letto mentre fuori piove, è passeggiare sull’erba a piedi nudi, è il singhiozzo dopo che è passato”? Qualunque sia il metro di giudizio per decretare la felicità l’importante resta “la procura di un piacere”, ciò che crea emozione è la responsabile primaria della nostra felicità. Una volta soddisfatti i bisogni primari la “cura” si sposta verso la ricerca emotiva della gratificazione data da ciò che procura il piacere della felicità stessa per l’appunto. Il nostro corpo poi, è scientificamente provato, ne trae beneficio, le cellule tutte ne godono e la felicità, mista al piacere, cambia in positivo la qualità della vita. Sarà per questo che chi si appassiona all’arte e alla cultura poi apre le porte ad una visione e ad un apprezzamento della vita totalmente differente da chi si accontenta solo di ricercare una mera soddisfazione oggettiva e personale. Cosa scatena nell’uomo la passione per l’arte? Cosa reca in questa visione la felicità che ne ricava? Un quadro con i suoi colori e forme, una scultura con i suoi pieni e vuoti nello spazio, un accordo musicale con i toni e le melodie, si apprestano a suscitare ricordi, vaghi pensieri, piccole gioie di godimento, creazione di mondi sognanti personali e non condivisibili e silenzi che parlano più delle parole stesse. Tutto questo si tramuta in felicità, tutto si impone piano piano nelle cose quotidiane, una cascata che finisce per sommerge il proprio io interiore per finire a scaldare l’animo stesso. Non importa se ci si approccia ad un soggetto figurativo o astratto, ad una immaginifica visione concettuale o sensoriale, quello che scatta e che fa correre il gusto del piacere prima e della felicità poi è indifferente. Un’emozione può nascere dalla visione di un campo di papaveri di Claude Monet, in cui i colori si fermano sulla tela con la velocità esecutiva di chi voleva cogliere l’attimo e regalarlo poi a chi lo guarderà. Un sussulto passionale può innestarsi di fronte alle tele di Mark Rothko con le sue immense campiture di colore che arrivano a far vibrare l’anima, dove riempire uno spazio di una tela significa riempire l’occhio che arriva a suscitare emozioni. La scultura di Costantin Brancusi, ad esempio, ferma lo spazio, accarezza le strutture e solidifica un’idea, un suono che si fa forma e lascia agli occhi il compito di intercedere per far vivere l’opera stessa. Questo è il compito dell’arte, fermare gli istanti per restituire la felicità, l’arte è bella perché in fondo è inutile, forse superflua, ma in fondo unica e il bisogno dell’uomo di esprimersi con i materiali e i colori si trasforma poi in un linguaggio universale dove si abbattono le lingue, le idee e tutte le differenze perché si parla un solo idioma che non tiene conto delle diversità di classe, di razza, di sesso, di religione, l’arte ha un solo scopo: produrre il piacere e recare la felicità. Seduti ad ammirare un’opera d’arte in un museo, in una galleria o in uno spazio espositivo l’occhio si sofferma poi sempre sugli altri sconosciuti visitatori, cosa li ha portati in questi luoghi oggi e a vedere le stesse cose che stiamo osservando noi? Quali le loro emozioni e la felicità? Perché un’opera viene analizzata più di un’altra? Proveranno le nostre stesse sensazioni o sono invece differenti poiché diverse sono le impressioni? Non c’è un metro di giudizio né una realtà emozionale più forte di un’altra, la ricerca della felicità è un incarico che è affidato in maniera disuguale ad ognuno, ma il risultato non cambia: l’arte rende felici, è nostro dovere esserlo, è nostra responsabilità perseverarla e diffonderla, la felicità interiore si riflette poi nella continuità del quotidiano e una persona felice è il miglior biglietto da visita per l’arte, per la vita. Massimiliano Sabbion www.maxiart.it
http://vecchiatoart.blogspot.com/2017/05/la-procura-di-un-piacere-arte-e-felicita.html
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sede: Museo Civico (Sansepolcro); a cura di: M. Cristina Bandera.
La mostra presenta un inedito accostamento tra Caravaggio e Piero della Francesca, che a prima vista potrebbe sembrare azzardato. Eppure, le motivazioni emergono se si guardano i due artisti, tra loro così lontani e diversi, nel segno di Roberto Longhi. Entrambi, infatti, furono studiati e ‘riscoperti’ dallo storico dell’arte già a partire dai suoi anni formativi.
Roberto Longhi (1890-1970) è una delle personalità più affascinanti della storia dell’arte del XX secolo e fondamentali sono stati i suoi studi sul Caravaggio, su Piero della Francesca e sugli artisti operosi in quella che chiama, con un titolo parlante, ‘Officina Ferrarese’. Del Caravaggio Longhi fu ‘scopritore’ moderno, lucido studioso e collezionista, tanto da acquisire per la propria “raccolta” intorno al 1928 il Ragazzo morso da un ramarro. La tela, dipinta verso il 1595, è certamente uno dei più significativi capolavori giovanili di Caravaggio, che con i suoi splendidi dettagli di natura morta e straordinari effetti luministici coglie, quasi come in un’istantanea fotografica, il momento un cui il giovane si ritrae improvvisamente per il morso di un ramarro. Su Piero della Francesca Longhi scrisse nel 1927 una monografia tuttora imprescindibile, anticipata dal lucidissimo saggio del 1914, “Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana”, fondamentale per l’innovativa lettura del pittore di Borgo Santo Sepolcro, visto dallo storico dell’arte non solo nella sua “ascendenza” fiorentina, ma anche, e soprattutto, nella sua “discendenza” veneziana, quello di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini. A ideale apertura della mostra il meraviglioso Polittico della Misericordia, protagonista della recente mostra natalizia di Palazzo Marino a Milano e riportato di recente nel suo assetto originario all’interno del Museo Civico di Sansepolcro. La tavola di Ercole de’ Roberti Ritratto di giovane, che reca nel verso un Ritratto di giovane donna – appartenente a una collezione privata – viene esposta in mostra a testimonianza della “discendenza, per quanto evoluta e ormai incrociata di veneto”, del profilo “nitido” del giovane dai profili di Piero, come ebbe a riconoscere Longhi nel volume Officina ferrarese del 1934. Accanto al Caravaggio, alla tavola di Ercole de’ Roberti, e al polittico di Piero della Francesca, saranno esposti documenti provenienti dall’archivio, dalla biblioteca e dalla fototeca della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi.
“Nel segno di Roberto Longhi. Piero e Caravaggio” è curata da Maria Cristina Bandera, Direttore Scientifico della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, è promossa dal Comune di Sansepolcro ed organizzata da Civita Mostre.
Il catalogo della mostra, edito da Marsilio, comprende saggi di Maria Cristina Bandera e di Mina Gregori e un’antologia di brani di Roberto Longhi sulle opere esposte. Un efficace allestimento, progettato da Corrado Anselmi, valorizzerà la ricchezza delle opere esposte nel contesto del museo.
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Nel segno di Roberto Longhi. Piero della Francesca e Caravaggio sede: Museo Civico (Sansepolcro); a cura di: M. Cristina Bandera. La mostra presenta un inedito accostamento tra Caravaggio e Piero della Francesca, che a prima vista potrebbe sembrare azzardato.
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