#Silvio Castiglioni
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decordreamscom · 1 year ago
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Less than 5 minutes from the Trevi Fountain and a few steps from the Mausoleum of Augustus and the Spanish Steps, the newest Bulgari Hotel opened on June 9, in Piazza Augusto Imperatore, in the center of Rome. It is the ninth unit of the renowned jewelry and accessories brand's hotel chain and the second in the "Eternal City", as the Italian capital is known (and which also houses the brand's headquarters). The building, signed by the architect Vittorio Ballio Morpurgo, was built between 1936 and 1938 and inaugurated in 1950, represents an important example of rationalist architecture. The work on the new hotel is signed by ACPV ARCHITECTS by Antonio Citterio Patricia Viel, one of the most renowned architecture firms in Italy, responsible for the interior design projects for the entire Bulgari hotel chain.   "Our objective was to recreate the beauty and sophistication, as well as the elegance and refined craft techniques of the Emperor Augustus. architect Patricia Viel, CEO of ACPV ARCHITECTS. The result is proven in the harmony between the aesthetic rigor of the materials - such as natural stone from the Roman Empire - and the essential architectural style of the building through the use of textures.   Four chromatic palettes were chosen to decorate the suites: white, yellow, red and green. In the bathrooms, marble and quartzite in different colors, many of which were selected from around the world, such as yellow marble from Iran, red "red jasper" marble from Sudan, green quartzite and white quartzite Taj Mahal from Brazil.   The same tones are repeated in the choice of fabrics and accessories and furniture, all supplied by Italian companies: sofas and beds by B&B Italia and Maxalto, silk carpets by Altai, marble tables by Mangiarotti, by Agapecasa, and lighting pieces by Flos and FontanaArte. For the first time, the iconic Arco Flos lamp, by Achille Castiglioni, from 1962, had its original base in Carrara marble altered, being replaced by the same natural stones used to finish the bathrooms, all with the blessing of the designer's foundation. The hotel has 114 rooms plus a suite measuring 300 m², including a kitchen, and overlooking the Mausoleum of Augustus. A wide range of services are also available to guests, including a 1,500 square meter spa that evokes the atmosphere of ancient Roman baths, with marble columns, stained glass and a 20 meter indoor swimming pool, with mosaics inspired by the famous Baths of Caracalla. , the second largest public bath complex in ancient Rome.   The new Bulgari also offers a reading room and library equipped with a collection of precious volumes of art, design, history and Roman architecture that will be open not only to guests but also to the general public, by appointment. "We want the hotel to become a focus of innovation, a laboratory of creativity, an atelier for new services and projects", says Silvio Ursini, executive vice-president of Bulgari and head of the Hotels and Resorts division. “Here we interpret the territory, exalt the local culture and celebrate the Italian and Roman art of living, in what is the eternal city".   On the fifth floor, a spectacular terrace houses the Niko Romito restaurant and the Bulgari Bar. The first has a menu that exalts contemporary Italian cuisine, created exclusively by the star chef for the Bulgari Hotels & Resorts chain. An elegant and luxurious environment with mahogany walls and an exclusive private room (for more than 12 people), entirely decorated in silk tapestry. The bar, meanwhile, is characterized by a large black marble counter decorated with iconic Murano glass elements that reflect light. On the ground floor there is the first "Bulgari Dolci" boutique-confectionery shop, which offers an exclusive selection of chocolates and traditional Italian sweets, always prepared by the multi-starred Italian chef Niko Romito.    
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personal-reporter · 1 year ago
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Varese Archeofilm 2023
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La vera storia dei pirati, una serata dedicata ai dinosauri e le ricerche dei cacciatori di tsunami, sono alcune delle proposte selezionate da Marco Castiglioni per la sesta edizione di Varese Archeofilm che nella serata finale di sabato 9 settembre, insieme alle premiazioni, ospiterà le proiezioni fuori concorso sulle storie delle missioni dei fratelli Angelo e Alfredo Castiglioni, etnologi e archeologi a cui è intitolato il museo sito nel parco di Villa Toeplitz. Quest’anno il festival internazionale del cinema di archeologia, arte, ambiente ed etnologia condotto da Giulia Pruneti, non si terrà ai Giardini Estensi come in precedenza ma alla Sala Montanari di via dei Bersaglieri, con apertura fissata per mercoledì 6. Mercoledì 6 settembre ci sarà La vera storia dei pirati (Francia, Stéphane Bégoin) su come una ricerca del un team di archeologi rivela chi erano veramente questi avventurieri senza paura e questi padroni del mare, oltre a un icontro/intervista con Katia Visconti, professore associato, presidente del CdS in Storia e storie del mondo contemporaneo dell’Università degli Studi dell’Insubria. Con L’anello di Grace (Italia, Dario Prosperini) si racconta di come nel 1902,  quando la famiglia Vannozzi decise di ampliare la propria casa colonica a Monteleone di Spoleto, venne alla luce il carro d’oro, una biga etrusca unica al mondo su cui era raffigurato il ciclo completo della vita dell’eroe omerico Achille. Ma poco dopo il reperto sparì misteriosamente e riapparve nel 1903 in una teca del Metropolitan Museum di New York. Giovedì 7 settembre in Al tempo dei dinosauri (Francia-Giappone, Pascal Cuissot in collaborazione con Yusuke Matsufune e Kazuki Ueda) il pubblico imparerà, in un viaggio attraverso il pianeta, a conoscere comportamenti e caratteristiche precedentemente inaspettati con un documentario coinvolgente e spettacolare. Ci sarò un incontro/intervista con Silvio C. Renesto, professore di paleontologia dell’Università degli Studi dell’Insubria, editore associato della Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia e membro del comitato scientifico transnazionale Unesco per il sito del Monte San Giorgio e in Jurassic Cash” (Francia, Xavier Lefebvre) si darà uno sguardo al nuovo pericoloso business dei fossili di dinosauro. Venerdì 8 settembre in Mamody, l’ultimo scavatore di baobab” (Francia, Cyrille Cornu) si racconterà come,  nel sud-ovest del Madagascar, gli abitanti del piccolo villaggio di Ampotaka hanno trovato una soluzione unica per immagazzinare l’acqua e Water is life (Turchia, Anıl Gök). È su quelle persone che portano acqua, l’ancora di salvezza, ai pesci che cercano di sopravvivere in un lago prosciugato della Turchia, oltre a un incontro/intervista con Camilla Galli, climatologa del Centro Geofisico Prealpino di Varese In Tsunami, una minaccia globale (Francia, Pascal Guérin) utilizzando tecnologie all’avanguardia, video amatoriali, Cgi e ricostruzioni dei disastri del passato, l’équipe scientifica di “cacciatori di tsunami” cerca di ricostruire scenari spettacolari, e allo stesso tempo minacciosi, di un prossimo futuro. Sabato 9 settembre Dall’acqua all’acqua (Italia, Angelo e Alfredo Castiglioni) sarà la cronaca della missione del 1977 effettuata dai fratelli Castiglioni attraverso il deserto del Sahara per aprire una nuova pista di 2.500 chilometri da Gao (Mali) a N’guigmi (Niger) per congiungere il fiume Niger con il lago Ciad, allora ancora in buona parte inesplorata tra comunità Tuareg isolate, giacimenti fossiliferi, numerosi graffiti preistorici e una carovana morta di sete. Da non perdere è l’incontro/intervista con Luigi Balbo, esploratore e fotografo, Barbara Cermesoni, archeologa e conservatrice museale ai Musei Civici di Varese, e Serena Massa, archeologa, docente dell’Università Cattolica, responsabile degli scavi archeologici di Adulis in Eritrea. Infine Dall’Egitto faraonico all’Africa di oggi  (Italia, Alfredo e Angelo Castiglioni) spiega di come nei templi, nelle tombe e nelle mastabe degli antichi Egizi si trovano numerose testimonianze che rappresentano la quotidianità di questa civiltà del passato. La documentazione realizzata dai fratelli Castiglioni in oltre trent’anni di ha permesso di mettere a confronto le raffigurazioni dei monumenti faraonici con momenti di vita di alcune popolazioni africane rimasti immutate nel tempo, che sono di notevole valore didattico e scientifico. Read the full article
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pangeanews · 5 years ago
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Bisogna raccontare Andrea Zanzotto per capire chi siamo stati, cosa dobbiamo proteggere. Sul “Filò” di Silvio Castiglioni
Il testo più longevo. Forse il più bello o forse no, poco importa: non si allontaniamo dal vero se pensiamo che sia quello più sentito, più sincero. Perché Filò di Silvio Castiglioni è profondo come una radice: ha debuttato nel 2000 a Guado del Po, sulla via Francigena, e in questi anni ha camminato costantemente e con parsimonia quasi contadina. Nonostante non sia lungo la traiettoria ideale dello storico percorso che unisce Roma a Canterbury, il Mulino di Amleto di Rimini, sabato scorso, ha chiesto all’attore (e lo ha ottenuto) uno scartamento laterale: la città di Federico Fellini, comunque, è pur sempre un crocevia di storia (Ariminum, più di duemila anni fa), di viabilità (dall’Arco d’Augusto si snoda la via Flaminia che termina in Piazza del Popolo; a nord invece la Romea e la Popilia, a Ovest – circa – la via Emilia) e di tradizioni rurali.
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Filò contiene buona parte della vita di Silvio Castiglioni: quella di uomo e quella artistica. Quella di mensch veneto, conficcato come una stella alpina – rara e bellissima – nel terriccio padano. E quella di attore: la Grande Commedia dell’Arte e i Maestri del Novecento, Bread and Puppet di Peter Schumann e Odin Teatret di Eugenio Barba per esempio ma anche Sandro Lombardi e Federico Tiezzi.
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“Far filò”. Si faceva ‘sti tenpi andàti quando le donne contadine e montanare, in inverno, si riunivano nelle stalle per filare, quindi fare maglie e sciarpe, oppure rammendare pantaloni e calze. Chiacchiere e pissi pissi a volume medio, che tanto lì non ci sono orecchie che le scòlta, storie lunghe per tenersi compagnia e aspettare – insieme – il ritorno della bella stagione.
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L’humus fertile delle tradizioni, la necessità ancestrale e profonda di raccontare una pagina del passato, il divertimento che nasce quando si recupera, filologicamente, fotografie che ti hanno descritto o solamente sussurrato. Anche questo è (o forse solo questo è) teatro.
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Silvio Castiglioni si traveste da Don Chisciotte e accompagna gli spettatori nel veneto legnoso: una maschera – quella dello Zanni della Commedia dell’Arte – per mettere subito in chiaro le cose: si traversa un dialetto per arrivare dentro a una stalla di fieno, calore, memorie del sottosuolo, voci di lontani parenti.
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Il testo di partenza, quello di Andrea Zanzotto, in realtà è un pretesto. Un pre-testo: partire dall’autore per raccontare se stessi. Nell’estate del ’76 il poeta inizia a collaborare al Casanova di Federico Fellini. Nello stesso anno viene pubblicata l’opera Filò dalle edizioni Ruzzante di Venezia che comprende la lettera di Fellini, dove dichiara le sue aspettative, i versi per il film Casanova, quelli sul dialetto e una lunga nota. Scrive Zanzotto: “Sono grato a Fellini di avermi spinto gentilmente ammiccando e quasi segnando silenzio con un dito sulle labbra, a questa breve ma per me non trascurabile discesa per scorciatoie assai precipiti, molte volte intraviste, mai praticate in precedenza proprio qui e così: con un occhio a tante deesse, dalla Testa, a Rèitia (la principale divinità, femminile, venetica, ndr), a Venezia, alla Gigantessa bambola: tutte riducibili ad una sola realtà, pur nell’immensa lontananza delle loro icone, dei loro significati, dei loro tempi”.
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Silvio, in Filò, fa un nodo ai suoi amori regionali: il Veneto, e la Romagna (è stato Direttore artistico del Festival di Santarcangelo per diversi edizioni), e la Lombardia. In questo triangolo scaleno si muove, cammina. Vive. Non solo sul palco.
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Si parte dal Veneto più rùstego, l’anticamera. L’accesso alla stanza dei bottoni. In quella accanto, Paolo e Paola Castiglioni preparano un risotto con il tastasàl, la carne di maiale (non la salsiccia, proprio la carne di maiale) con l‘aglio, il vino bianco, il pepe, il sale e il rosmarino. Cibo per le orecchie e cibo per il naso. Manicaretti per il cuore e manicaretti per la bocca. Cucina fusion, ma tradizionale. Come tradizionale – nel senso più nobile del termine – è questo assolo lucido di Silvio: un po’ Paolo Rumiz (tanti i luoghi che tocca con le parole, e non solo la triade Veneto-Romagna-Lombardia) un po’ Cervantes, un po’ Ruzzante certamente, ma altrettanto capace di una scrittura autonoma e personalizzata.
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Non ingannino le maschere indossate da Castiglioni: il viaggio è autentico. Veneto, Milano, Siviglia, Buenos Aires, Friuli. Sulla rotta degli emigrati italiani che andavano a cercare fortuna fuori. Si va di liscio, di tango, di ricordi, di odori. E la storia raccontata, resa ancora più credibile dall’utilizzo del dialetto veneto, diventa una nave.
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Dialetto come baluardo – come ultimo avamposto – di biodiversità. Non ieri che era la lingua madre bensì oggi: salvaguardiamolo quindi con parsimonia e calore sembra dire Silvio Castiglioni. Alcune cose vivono nell’idioma di un luogo e sono intraducibili.
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Un cantastorie che porta in scena, accompagnato dalla fisarmonica di Beppe Chirico-Sancio Panza, il racconto della storia dell’Italia post bellica. Trent’anni “veri” che oscillano tra memoria e invenzioni, tra bocconi amari – i sogni che si hanno da piccoli raramente si realizzano – e stelle cadenti che indicano la via: l’oca che non vuole essere ammazzata, l’asino che uccide, il vecchio leone di un circo dimenticato, il maiale che viene sacrificato per sfamare la famiglia.
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Filò funziona. Eccome se funziona: il microcosmo apparente si innalza a Storia. E a teatro, soprattutto a teatro, profuma di vero. Come il risotto col tastasàl che a fine spettacolo gli spettatori assaggiano.
Alessandro Carli
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culturame · 8 years ago
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Laboratori e workshop al Teatro Ca' Foscari: le proposte di aprile 2017
Laboratori e workshop al Teatro Ca’ Foscari: le proposte di aprile 2017
Il Teatro Ca’ Foscari propone a giovani attori e studenti di Università, Accademie e Conservatori, la partecipazione a laboratori e workshop nel mese di aprile 2017 Tutte le attività si svolgono presso il Teatro Ca’ Foscari La deadline per le iscrizioni è fissata al 15 marzo 2017 La candidatura, completa di un curriculum aggiornato, dovrà essere inviata all’[email protected] La…
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lageografiadellenuvole · 3 years ago
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Vibrare insieme a una fune. IL FUNAMBOLO Grande traversata sul filo da Palazzo Bentivoglio alla Torre Civica Gualtieri in occasione della sesta edizione di "Viaggio a Gualtieri" si prepara per un evento straordinario, di quelli che rimangono scritti indelebilmente nei ricordi di tutto un paese. Andrea Loreni, il funambolo italiano in assoluto più celebre, compirà la traversata sul filo di Piazza Bentivoglio, dal Salone dei Giganti sino all’orologio della Torre Civica: 100 metri di cammino nell’aria, fino a 20 metri di altezza. Andata e ritorno a segnare una via dove nessuno avrebbe mai pensato ce ne potesse essere una. Il funambolo, il suo bilanciere, il cavo di acciaio teso sull’abisso a creare un sottile suolo ad altezze vertiginose, sono il simbolo del comune cammino umano. Un azzardo straordinario. Un atto di bellezza pura ed estrema, capace di valorizzare la monumentale meraviglia di Piazza Bentivoglio. Ad accompagnare l’impresa di Andrea Loreni, l’attore e regista Silvio Castiglioni leggerà brani tratti dal romanzo All’insegna del Buon Corsiero di Silvio D’Arzo, dedicato alla misteriosa figura di un funambolo nell’Emilia del ‘700. Ogni traversata per Andrea Loreni, unico funambolo italiano specializzato in traversate a grandi altezze, è una scelta, la scelta di portare la propria energia a vibrare insieme all’energia di un luogo, di un contesto, naturale o urbano. È un momento di estrema sospensione e nello stesso tempo di massimo radicamento nel “qui e ora”. La traversata non rappresenta solo il punto di arrivo di un percorso, fatto di un grande sforzo fisico e mentale, è anche un potente mezzo di consapevolezza, in cui Andrea è entrato ed entra ogni volta in dialogo con istinti irrazionali e paure primigenie. Camminare sul cavo teso attraverso il vuoto crea l’occasione di incontrare le parti più profonde di sé e di stare con quello che “accade” nel momento: l’insorgere della paura e l’accoglienza della paura, l’acquietarsi del pensiero e la concentrazione sull’attimo presente, lo stare nel corpo con il cavo e sul cavo, il rischio della caduta e il contatto con l’assoluto. #andrealoreni #segnievidenti #dodicilettere #marketingterritoriale (presso Gualtieri) https://www.instagram.com/p/CT95vOKIecE/?utm_medium=tumblr
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ansaemiliaromagna · 3 years ago
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Cultura: Festival mulini storici E-R approda a San Marino
Il 28 agosto Silvio Castiglioni ne 'L'uomo è un animale feroce' https://ift.tt/3gtlsM4
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wolfliving · 6 years ago
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*Giant Milanese mushroom structures.
Growing a building like a mushroom CRA-Carlo Ratti Associati, together with global energy company Eni, has developed an architectural structure made of mushrooms, installed in the center of Milan for Design Week 2019. Grown from soil over the past six weeks – and to be returned to the soil at the end of the month in a fully circular manner – the project is composed of a series of arches, made from a record 1-kilometer-long mycelium. April 9th, 2019 – FOR IMMEDIATE RELEASE Hi-res images and more information are available upon request. Please write to [email protected] CRA-Carlo Ratti Associati, in partnership with global energy company Eni, has developed an architectural structure made of mushrooms, to be unveiled today at Milan Design Week 2019. The installation, called “The Circular Garden,” was grown from soil over the past six weeks – and will be returned to the soil at the end of the month. It is composed of a series of arches, adding up to a record 1-kilometer-long mycelium, and experiments with sustainable structures that can grow organically and then return to nature in a fully circular way. The project will be showcased during Milan’s Fuorisalone at Brera’s Orto Botanico, the city’s botanical garden. The installation, part of the INTERNI Human Spaces exhibition, will be open to the public from April 9th to 19th 2019. The Circular Garden pushes the boundaries of using mycelium – the fibrous root of mushrooms – in design. In recent years, mycelium has been employed for sustainable packaging and small brick-like objects. The Circular Garden engages with mycelium at the architectural scale – with a series of 60 4-meter-high arches made of mycelium scattered around the Orto Botanico, for a total of 1 kilometer of mushroom. In order to create self-supporting mycelium structures on such a scale, the project takes inspiration from the great Catalan architect Antoni Gaudí. It was he, while designing the Sagrada Familia in Barcelona, who resurrected the “inverted catenary” method pioneered in the 18th-century by polymath Giovanni Poleni. According to this method, the best way to create pure compression structures is to find their form using suspended catenaries and then invert them. The same applies to the Circular Garden, where the catenaries compose a series of four architectural “open rooms” scattered throughout the garden. The mycelium was grown in the two months preceding the opening of the Circular Garden with the help of leading experts in the field of mycology – particularly the Dutch Krown.Bio lab. Spores were injected into organic material to start the growth process. In a similarly organic manner, all the mycelium will be shredded at the end of Milan Design Week and go back to the soil, in a circular way. The cycle is similar to what has happened since ancient times in small town or city gardens, through the production of food and the composting of organic waste. “Nature is a much smarter architect than us,” says Carlo Ratti, founding partner of CRA and director of the MIT Senseable City Lab: “As we continue our collective quest for a more responsive ‘living’ architecture, we will increasingly blur the boundaries between the worlds of the natural and the artificial. What if tomorrow we might be able to program matter to ‘grow a house’ like a plant? Milan’s amazing botanical garden, in the center of the city, seemed the ideal place for such an experiment”. “There’s a whimsical short story written by Italian writer Italo Calvino in the 1960s that tells of the wonder of the urbanite Marcovaldo when he suddenly discovers some mushrooms growing in the middle of the city. During our first visits at the Botanical Garden in Milan, we felt a similar amazement,” comments Saverio Panata, project manager at CRA: “We discovered how many varieties of mushrooms were naturally growing in the garden. After that encounter, we thought that mushrooms, with their adaptability and speed of growth, could become our perfect building material.” Many pavilions designed for temporary exhibitions and fairs – such as for Milan Design Week – end up generating large amounts of waste. The Circular Garden project will be reused in a circular fashion – mushrooms, ropes and wood chips will go back to the soil and small metal elements will be recycled. “Life is more important than architecture,” Oscar Niemeyer famously said, a dictum that is at the center of this year’s theme at the INTERNI Human Spaces exhibition. “It is certainly about human life – but it is also increasingly about the life of our planet, intended in a holistic way,” adds Ratti. CREDITS The Circular Garden A project by CRA-Carlo Ratti Associati for Eni Part of “INTERNI Human Spaces” exhibition Artistic Consultancy: Italo Rota CRA Team: Carlo Ratti, Giovanni de Niederhausern, Saverio Panata (project manager), Luca Giacolini, Alessandro Tassinari, Nicola Scaramuzza CRA Make Team: Alessandro Peretti Griva, Carlo Turati, Corrado Castiglioni, Luca Cianfriglia Renderings by CRA graphic team: Gary di Silvio, Gianluca Zimbardi Mycologist consultants: Krown.bio
Photo credits: Marco Beck Peccoz Video credits: Edithink
Where: Milan’s Orto Botanico, Milan, Italy When: April 8th- April 19th, 2019 (h.10:00-22:00)
ABOUT CRA-CARLO RATTI ASSOCIATI CRA-Carlo Ratti Associati is an international design and innovation office, based in Turin, Italy, with branches in New York and London. Drawing on Carlo Ratti’s research at the Massachusetts Institute of Technology, the office is currently involved in many projects across the globe. Embracing every scale of intervention – from furniture to urban planning – the work of the practice focuses on innovation in the built environment. Among recent projects there are the master plan for Milan’s Science, Knowledge and Innovation Park (MIND-Milano Innovation District); a 280-meter tall green skyscraper in Singapore co-designed with BIG; the redesign of the Agnelli Foundation HQ in Turin; the requalification of the Patrick Henry military village for IBA Heidelberg in Germany; the Pankhasari retreat in India’s Darjeeling; and the concept for a human-powered "Navigating Gym" in Paris. CRA is the only design firm whose works have been featured twice in TIME Magazine’s Best Inventions of the Year list respectively with the Digital Water Pavilion in 2007 and the Copenhagen Wheel in 2014. In the last years, the office has also been involved in the launch of start-ups, including Makr Shakr, a company producing the world’s first robotic bar system, and Superpedestrian, the producer of the Copenhagen Wheel. www.carloratti.com
ABOUT ENI Eni is an integrated energy company with around 33,000 employees in 71 countries globally. It operates in the oil and natural gas exploration, development and extraction industries in 46 countries; trades in the oil, natural gas, LNG and electricity sectors in 30 countries; and sells fuels and lubricants in 32 countries. It also produces crude oil and semi-finished products to be used in the production of fuels, biofuels, lubricants and chemicals that are then distributed through either the wholesale or retail markets, through various refineries and chemical plants. The company is contributing to the energy transition to a low-carbon future, by promoting the development of energy produced from renewable sources. It is doing so by using new and increasingly efficient clean technologies and by applying the principles of the circular economy to all aspects of its activity. Having completed the transformation of its own business model, which is now more straightforward and faster, with a more efficient value chain, Eni has consolidated its own organic growth across all of its businesses by capitalizing on three main strengths, namely integration, efficiency and use of technology. Technology in particular plays a strategic role in all sectors, helping to achieve global recognition for Eni’s operational excellence, promoting the decarbonization of all of the company’s operations and developing industrial efficiency through the circular economy model. Investing in technology and knowledge has enabled Eni to achieve one of the fastest times to market in its sector, as well as one of the lowest break-even points. From upstream operations to renewables, downstream operations to natural gas, the circular economy to asset management, Eni has managed to differentiate, strengthen and integrate each of its businesses thanks to an operating model that systematizes all of its operations.  Integrity when it comes to business management, support for the development of the countries in which we operate, operational excellence in managing the group’s various activities, innovation in the search for competitive solutions and renewable energies, the inclusion of individuals and the promotion of professionalism and expertise, and the taking into account of both financial and non-financial aspects when it comes to business processes and decisions are our drivers to create sustainable value. Eni is working to build a future in which everyone has access to efficient and sustainable energy resources. The Company bases its work on passion and innovation, on its unique strengths and skills, and on the value it places on people whose diversity is considered a resource for all.
ABOUT ENI GAS E LUCE Eni gas e luce, a wholly owned subsidiary of Eni SpA, is a provider of gas, lighting and energy solutions for the retail and business markets. The Company operates in four European countries and has 1,600 employees. With 8 million customers in Italy, it is the leading supplier of natural gas to households, apartment blocks and small businesses, and the second largest supplier of electricity in the free market. Eni gas e luce also has a network of Energy Stores in Italy, with 150 points of sale offering personalized consulting. Since the end of 2016, Eni gas e luce has been present on the energy solution market in partnership with leading companies in their relevant markets, offering a range of energy efficient products and home services beyond gas and energy supply.
ABOUT INTERNI HUMAN SPACES INTERNI, The Magazine of Interiors and Contemporary Design, has been fortunate enough to share the fantastic, adventurous history of the Italian furniture and interior design industries for more than 60 years, closely following the growth that design has been able to express thanks to the work of brilliant cultural figures, architects and designers and brave, intuitive entrepreneurs. INTERNI has, in effect, grown with design, which has spread and infected all of daily life. The magazine has assumed, over time, an increasingly decisive commitment to communicate the culture of design at an international level, promoting new creative alliances between designers, companies, representatives of culture and project operators in the broadest sense, and has developed, under the direction of Gilda Bojardi, a network of parallel publications that have transformed the monthly magazine from niche to mass media. INTERNI continues to be an attentive and up-to-date observatory of the design world and a forerunner of trends in the fields of design and architecture. From the first half of the nineties, the magazine became part of the Mondadori Editore Group, the most important Italian publishing group. The activity of INTERNI also includes the conception and coordination of events and exhibitions, organized in order to facilitate encounters between those who design and those who produce. The themes of experimentation and ephemeral production led, in an effort to broaden the culture of design to the general public, to the events organized in the late 1990s on the occasion of Milano’s FuoriSalone. This famous urban phenomenon that animates the city of Milan during Milan Design Week was born thanks to the initiatives of INTERNI in 1990; the magazine today coordinates the communication of about five hundred events. After the launch of the INTERNI publications in China (2015), the magazine plans to extend the international editions elsewhere.
“HUMAN SPACES” is the title of the much-anticipated exhibition-event conceived INTERNI with the support of the City of Milan, which will take place during the FuoriSalone, from 8 to 19 April, in the courtyards of the University of Milan, at the Orto Botanico di Brera with ENI and at the Audi City Lab at the Arco della Pace. The Mondadori Group magazine, edited by Gilda Bojardi, asked leading protagonist of Italian design, as well as international designers and architects to address the issue of “Human Spaces”, in collaboration with companies, multinationals, start-ups and institutions. The result is an extraordinary collection of installations and design islands, micro-architecture and macro-objects, all site-specific, that interpret the places, landscapes contexts and, by extension, media and objects that place at the center of their vision the wellbeing of people. Consequently, the human being and human needs are back at the center of creative thought for a new quality of life, in harmony with the environment.
CRA-Carlo Ratti Associati® | The Circular Garden press release | April 2019 | [email protected]
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moopiocom · 6 years ago
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puntoelineamagazine · 5 years ago
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La colonna infame e i burocrati del male
Foto di scena: Storia della colonna infame- Silvio Castiglioni © Valentina Bianchi
Dal saggio Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, sulle responsabilità del potere in rapporto alle credenze collettive, la riproposizione di un capolavoro di ricerca teatrale del 2012 firmato da Silvio Castiglioni
Saggio tratto in gran parte dalle notizie presenti in De peste Mediolani quae fuit anno…
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tmnotizie · 6 years ago
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MACERATA – “Dialetto e Ricostruzione. Ritrovare le radici per ricomporre le comunità” è il titolo del convegno sul dialetto, patrocinato dal Comune di Macerata, che si terrà venerdì 5 ottobre, alle ore 17.30, nella sala Castiglioni della Biblioteca “Mozzi-Borgetti” di Macerata, un momento di approfondimento che  fungerà da prefazione alla rassegna teatrale che si terrà al Cine Teatro Don Bosco di Macerata dal 6 ottobre al primo dicembre e di riflessione, proposto dalla Compagnia Calabresi e presentata da tanti nomi eccellenti dell’ambito dialettale della provincia maceratese.
“Vogliamo replicare il successo della rassegna dedicata a Dante Cecchi al Don Bosco due anni fa – dichiara Quinto Romagnoli – e pensiamo di annunciarla con questo convegno molto interessante che servirà anche da introduzione alla rassegna Gran Galà del dialetto, programmata per ottobre e novembre; un omaggio ai dialetti della Marca e a Silvio Spaccesi. Il convegno dedicato al dialetto, è di spessore, con eminenti oratori che illustreranno le peculiarità dell’idioma dialettale e la ricchezza del suo lessico; ma non solo, si addentreranno pure in alcune approfondite riflessioni sul ruolo di questa lingua riferita alle comunità; sabato 6 debutterà la rassegna”.
Introdurrà e condurrà il convegno Agostino Regnicoli dell’Università di Macerata; dopo gli interventi di Quinto Romagnoli e di Pierfrancesco Giannangeli, sull’opera e l’impegno civile di Dante Cecchi, sarà la volta di Ennio Donati, studioso di tradizioni popolari che parlerà sul tema “Curiosità del nostro dialetto, per non dimenticare”. A seguire l’intervento di Marina Pucciarelli, studiosa di dialettologia, dal titolo “Il dialetto tra glocalizzazione e identità comunitaria” mentre le conclusioni del convegno saranno a cura di Diego Poli, docente Unimc, con l’intervento “Ricostruire o costruire il dialetto?”.
A rendere più armonico e musicale il convegno ci penserà il giovanissimo organettista Elia Salvucci. Il giorno seguente, sabato 6 ottobre, prima opera in rassegna per il Gran Galà del dialetto organizzato dalla Compagnia Calabresi di Macerata, con la compagnia “Teatro Club Amedeo Gubinelli” di San Severino Marche che porterà in scena la commedia “Patre pe’ procura” per la regia di Alberto Pellegrino, con inizio alle ore 21.15. Una serata dedicata alla Croce Rossa Italiana.
Info: Biglietteria dei Teatri 0733/233508 o 230735.
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casalecchioteatri20 · 7 years ago
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Siete ancora in tempo a venire. Stasera 15 marzo alle 21 Knock out #concertoper Jack London con Fabrizio Bosso alla tromba Luciano Biondini alla fisarmonica Silvio Castiglioni alla voce con L'orchestra regionale dell'Emilia Romagna (presso Teatro Comunale Laura Betti)
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pangeanews · 5 years ago
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“Niente è più mostruoso dell’uomo”. Su Antigone, la ragazza che dice NO. Dialogo con un teatrante e una poetessa, tra Sofocle e Thomas Bernhard
Di Antigone si dice quando la ragione ‘di cuore’ supera la ‘ragion di Stato’, spesso in relazione alla ‘disobbedienza civile’. Che parapiglia di segni, che s’incastrano sull’indiscusso e l’indicibile del mito. In una sintesi estrema, che non chiarifica ma abbaglia, Simone Weil scrive: “La legge non scritta alla quale questa giovinetta obbediva, lontanissima dall’avere qualcosa in comune con un qualche diritto o con alcunché di naturale, non era altro che l’amore estremo, assurdo, che ha spinto il Cristo sulla Croce. La Giustizia, compagna delle divinità dell’altro mondo, prescrive questo eccesso d’amore. Nessun diritto potrebbe prescriverlo. Il diritto non ha alcun legame diretto con l’amore”. Condivido questo pensiero con Silvio Castiglioni, teatrante di genio, avvezzo a portare in scena l’atto letterario – da Alessandro Manzoni a Silvio D’Arzo, da Dostoevskij a Mandel��stam, da Nino Pedretti ad Andrea Zanzotto – che mi mostra il suo ultimo progetto. S’intitola Notizie dalla città di Tebe, andrà in scena al Teatro Titano giovedì 11 luglio, ore 21, nella Repubblica di San Marino, ed è esito di un lavoro teatrale condotto con l’aiuto di un poeta, Franca Mancinelli. Che uno Stato ragioni su se stesso a partire da un testo che ne scassa le ‘ragioni’ mi pare magnifico. Se penso a Tebe, vado alla Sfinge e alle Baccanti, ai draghi e agli incesti e ai fratricidi: al luogo che odora di enigma. A un caos aggiogato di norme. Tebe, per altro, ha origine nel ratto di Europa da parte di Zeus: abitare il fato di quel mito ci induce a orientare un destino. D’altronde, nel primo stasimo di Antigone, Sofocle detta, con verbo che fa evolvere il mistero, la statura dell’umano: “Pullula mistero. E nulla più misterioso d’uomo vive”, traduce Ezio Savino; così traduceva Camillo Sbarbaro: “Molte sono le meraviglie ma nulla è più portentoso dell’uomo”. La versione-interpretazione di Hölderlin, del 1804, è un morso in faccia: “Mostruoso è molto. Ma niente/ Più mostruoso dell’uomo”. (d.b.)
Intanto. Cosa c’entra Tebe con San Marino? Tebe è terra di draghi e di sfingi, di profeti malcreduti e di unioni incestuose, della sfida tra contratto politico e amore filiale. Come l’avete incardinata, lassù, perché?
Silvio Castiglioni: Un giorno ci trovavamo nella cosiddetta Cava dei Balestrieri, un luogo simbolico dell’identità sammarinese, ora a ridosso del neonato Museo di Arte Contemporanea che accoglie opere di grandissimo interesse, realizzate proprio a San Marino in un’epoca recente quando la Repubblica attirava e incoraggiava artisti di livello internazionale. In quel luogo è comparsa la figura di Antigone, la prima volta. Occorre sapere che questo progetto è in qualche modo legato al riconoscimento ottenuto dalla Repubblica quale Patrimonio dell’Umanità. E le motivazioni sono scolpite sulla porta d’ingresso a San Marino Città: per la ricchezza e l’originalità del patrimonio immateriale costituito dalle istituzioni democratiche rappresentative e partecipate della Repubblica. Una democrazia antica ed efficiente che ha promosso in anticipo sui tempi alcune significative conquiste. Ed è a questa capacità di emancipazione delle fasce meno favorite della popolazione, di tolleranza, di innovazione (come testimonia quel Museo) che occorre richiamarsi oggi. Uscire dalla mera sopravvivenza e incamminarsi nuovamente sul sentiero delle proposte ardite, del laboratorio di convivenza. Forse Antigone, la disubbidiente, era comparsa per ricordarci tutto questo. Abbiamo cercato anche radici più antiche. Franca mi aveva parlato delle statuette in bronzo rinvenute nell’antico santuario della Tanaccia e mi ci ha portato. Il sito, che oggi si presenta come un dirupo in mezzo al bosco, pare fosse il primo insediamento sul monte Titano, un tempo meta di pellegrinaggi, un luogo di culto attivo almeno 5 secoli avanti Cristo.
Franca Mancinelli: Quando inizi a riflettere su un luogo, e lo fai scavando attraverso gli strati e i depositi culturali che si sono accumulati nel tempo, incontri in qualche modo le sue radici, che sono universali. È così che siamo arrivati da San Marino alla forma e idea di città, e quindi alla polis. E da lì ad Antigone, la tragedia che mette in scena il difficile equilibrio su cui si regge la polis. Una comunità non può fondare le sue leggi sulla trasgressione della legge più antica, che appartiene all’origine stessa dell’umanità, come quella legata al seppellimento dei propri cari. Lavorando ci siamo poi accorti che questo motivo antico, tragico, era capace di fare traspirare conflitti e contraddizioni che il gruppo di partecipanti del laboratorio viveva o portava nella propria storia, come appartenente a una piccola comunità che ha lottato per secoli per mantenere la propria indipendenza, e ha quindi nel suo Dna una lunga catena di tensioni, compromessi, identità difesa. Nel lavoro è poi confluita l’esperienza che Silvio ha portato dall’Antigone di Sofocle di Tiezzi, che si rifaceva alla versione di Hölderlin, adattata da Brecht.
Lui è Silvio Castiglioni nei panni di un controeroe di Nino Pedretti
Flirto con i dati culturali che avete disseminato. La vostra Tebe è letta attraverso una lente ‘germanica’: l’Edipo di Hölderlin e le ‘voci’ di Bernhard. Come mai, come si coagula tutta questa materia?
SC: All’inizio c’è sempre il caso che ci mette lo zampino. Thomas Bernhard è stato uno degli inneschi del lavoro, un punto di partenza. Sono molto affezionato a un suo librino L’imitatore di voci, che a volte utilizzo come materiale nei laboratori. In questo caso ha acceso un grande interesse e alimentato una risposta sorprendente. L’abbiamo usato come modello, come esempio, per mettere a punto un nostro prontuario di cronache di varia umanità. Ognuno ha inventato un caso bizzarro o paradossale della vita, spesso di cronaca nera, trattandolo con la stucchevole prosopopea di un cronista di provincia, come fa magistralmente Bernhard. Ci siamo divertiti molto a pescare a man bassa in tutte le follie e le idiozie e le catastrofi domestiche che abbondano nei comportamenti dell’essere umano di ogni latitudine.  Poi è arrivata la figura di Antigone, la ragazza che dice no. L’idea di un conflitto che può lacerare una comunità ha preso le sue sembianze, nel confronto scontro con Creonte. E l’Antigone che io meglio conosco, per averci lavorato con la compagnia Lombardi-Tiezzi, è quella filtrata dalla traduzione in tedesco che ne fece in età romantica il grande poeta Hölderlin, fedele a Sofocle nella sostanza, e però ricca di una singolare potenza poetica, inusuale in una traduzione dal greco classico, lingua che Hölderlin sembra non padroneggiasse molto bene e quindi piena di geniali svarioni. Quando Brecht fece la sua riscrittura da Sofocle interpolando un paio di scene dal sapore contemporaneo – la Germania nazista –, utilizzò proprio la versione di Hölderlin. Abbiamo isolato alcune scene principali di quell’Antigone su cui poi è intervenuta Franca, tagliando e riscrivendo, riportando quella lingua complessa e a tratti arcaica, più vicina alla bocca dei partecipanti del laboratorio – che hanno alcune esperienze di teatro o si sono avvicinati al suo linguaggio per la prima volta. I due spunti, Bernhard e Hölderlin/Brecht, si sono incontrati e poi intrecciati coi contributi testuali dei partecipanti. E qui l’intervento di Franca è stato veramente decisivo nello spogliare e nel fare spazio, per fare emergere la parola nella sua potenziale carica poetica. Incrementando l’integrazione e la collaborazione nel nostro coro, o stormo, come ama chiamarlo Franca.
FM: Il pozzo buio, senza fondo, del mito, e la contemporaneità. Antigone e Bernhard. A unirli è la stessa forma di ricerca e di interrogazione, che trova nel gruppo di persone con cui abbiamo lavorato, il punto di partenza e di unione. Perché questo gruppo, per accordarsi e trovare sintonia, all’inizio del lavoro è diventato un coro. Fare parte di un coro significa riconoscersi all’interno di uno stesso corpo, che obbedisce a uno stesso ritmo e a forze comuni, perché ha saputo creare al proprio interno quello spazio sacro, dove ciascuno può essere quello che è, libero da ogni sguardo e giudizio, e in questo spazio dare voce alle tante vite che gli appartengono, che la vita quotidiana non gli consente di esprimere: può tornare a giocare, con la profonda e seria libertà dell’infanzia. Iniziare a recitare, come ci ricordava Silvio durante questo lavoro, è proprio questo “facciamo che”, questo luogo di “sacra impunità” all’interno del quale ognuno può sentirsi protetto e insieme liberato dai confini che l’identità individuale ci assegna. Recitare è lo stesso di giocare, così in inglese, francese e tedesco: to play, jouer, spielen.
…c’è poi, appunto, questo lavoro sul ‘coro’, sulla dimensione ‘corale’, greco classica, poi perduta – nel teatro moderno, eventualmente, vige il monologo, non il dire insieme – come mai?
SC: Sono ossessionato dalla dimensione del coro. Forse perché ho fatto molti monologhi, o soliloqui, come preferiva chiamarli Leo de Berardinis. D’altra parte come ci ricorda ‘Lello’ Baldini, uno che se ne intendeva, ciascuno di noi non fa altro per tutta la vita, monologhi. Non si fa che parlare allo specchio, a se stessi, a vanvera. Nel mio caso misurarmi col monologo è stata anche una scelta dettata dalla necessità di salvaguardare una certa intimità dell’agire scenico. Non volevo perdere il contatto col mio mondo interiore. E poi una necessità, se volevo esplorare certe direzioni o misurarmi con certi temi, in una dimensione di autoproduzione. Ma se ho la fortuna di incontrare un gruppo di persone all’insegna del teatro, come in questo percorso sanmarinese, il lavoro sul coro si impone come la dimensione o la condizione madre, che genera tutto il resto. Nel coro si sta come nel grande orecchio, in perpetuo ascolto. Il coro è uno scambio fra individui diversi ma di uguale valore, la metafora perfetta della buona politica. I diversi, per storia indole pensiero tendenze sessuali ecc., devono mettersi d’accordo, devono mediare, trovare una soluzione. Il concetto di coro è potente, una comunità parallela, che funziona solo se è solidale, ma non impersonale. Possiamo anche immaginarlo come una rappresentanza degli spettatori sulla scena, un gruppo di cittadini che ha facoltà di intervenire nell’azione o di commentarla in diretta. Ovviamente il mio non vuol essere un discorso storico. In fondo il teatro greco antico non è durato che pochi decenni e poi è scomparso per secoli e secoli. Ma ci ha regalato delle idee formidabili. Come appunto il coro, o come il protagonista, il primo agonista ossia un individuo che esce dal coro e al coro si contrappone, che non obbedisce più all’obbligo della mediazione ma asseconda il suo destino divergente, e percorre una sua traiettoria individuale. Sono idee potenti, capaci di alimentare uno sguardo perforante sulla realtà. E poi quando ci si ritrova insieme per iniziare un lavoro teatrale, un viaggio che potrebbe portare a uno spettacolo, è fondamentale passare dal coro, se non altro per accordare gli strumenti e cercare la sintonia, come ha detto Franca. In questo caso il coro è proprio il protagonista dell’azione principale. Distribuisce e riassorbe in se stesso le diverse parti. Un gruppo di cittadini patisce al suo interno una divisione profonda che può generare un conflitto anche catastrofico. Se saltano i dispositivi di sicurezza coi quali ogni comunità si protegge dalle lacerazioni anche gravi, può accadere il peggio. Occorre esorcizzare questo pericolo. La contrapposizione Antigone / Creonte ‘interpreta’ questa lacerazione. Il coro si sdoppia in due, due partiti, due fazioni, due squadre, due eserciti. Per un po’, almeno. Poi bisogna ricomporre, risanare. E pregare.
Lei è Franca Mancinelli fotografata da Enrico Chiaretti
FM: Uno dei privilegi più grandi che l’esistenza ci riserva è quello di potere essere solo sguardo. La scrittura è un’esperienza dello sguardo, nasce dal corpo, dall’ascolto di ciò che transita in esso, ma è insieme anche la possibilità di scorporarsi, fare spazio e “prendere corpo” altrove, nelle cose e negli altri. Durante questo laboratorio, per ore ho potuto esercitare questo privilegio che mi è stato concesso da Silvio e dal gruppo. Per questo sono colma di riconoscenza, perché sono stata colmata di doni. Uno dei più grandi è forse quello di avere potuto seguire il lento processo che ha portato sedici persone a formare un coro, e poi, dal suo interno, da questo spazio di accoglienza che si è fatto ascolto e risonanza, all’apertura di altre possibilità di vita, di nuove rotte. Ho potuto così assistere a tante nascite. Un tono di voce che non trovava la forza di liberarsi, si dà nitido, un gesto a lungo contratto e imprigionato, si riconosce, scopre di potere esistere. Per ognuna di queste nascite ho esultato internamente e continuo ad esultare, come festeggiando una vittoria contro le prigionie che i nostri Creonte ci impongono e che continuiamo a scontare inconsapevoli.
Il teatro è ancora un atto ‘politico’? Intendo, sa far levitare i luoghi oltre la cronaca, a titillare il mito?
SC: La cronaca, la maniera in cui abitualmente ci si presenta la realtà, è un colossale artificio mediatico in balia di una folle emotività che non ci fa veder nulla, se non quello che desideriamo, o che abbiamo paura di vedere. È indubbio che qualcosa stia accadendo, ma che cosa? Un mio maestro ha detto: il teatro è l’ultimo posto dove andare a nascondersi, poiché in teatro si vede tutto. È concepito apposta, no?, per vedere, per leggere dentro. Se provi a fregarmi me ne accorgo subito, non così nella realtà, pare. Il velo di polvere che ricopre ogni cosa, ogni fatto e misfatto, a volte è così spesso che non si riconosce più nemmeno la sagoma delle cose che stanno sotto. Per questo credo che il teatro sia uno degli ultimi posti dove possa rifugiarsi la politica oggi. In teatro è difficile mentire a se sessi, (come in letteratura, direbbe Brodskij), anzi è quasi impossibile, dunque è un atto profondamente politico…
FM: Sì, è un atto politico, come ogni atto autentico, che nasce da una fede, da un affidamento profondo. Facendo teatro si vive la parola, la si abita, le si ridona un corpo. Ci si affida interamente a questa forma custodita nella lingua. Oggi siamo abituati a parole di superficie, disinnescate dalla loro carica creativa, uniformate alle leggi della comunicazione e del mercato. Parole a cui non si può credere, a cui è necessario non credere, da cui bisogna difendersi, arginandole, creando uno spazio di silenzio. È in questo spazio vuoto, marginale, che accade ancora la poesia, il teatro. Prima di questo laboratorio pensavo che il lettore più attento di un testo fosse il suo traduttore. Più del critico, spesso viziato da lenti intellettuali e speculative, il traduttore è chiamato a calarsi nella materia della lingua, e riportarne in vita strati sommersi. Ora penso che forse, ancora più del traduttore da una lingua all’altra, il lettore più attento possa essere chi traduce dalla pagina al corpo. Lavorare con Silvio mi ha dato la possibilità di assistere a un lavoro che porta a sondare la parola come un terreno su cui gettare le fondamenta del presente, vicino alle faglie da cui affiora, come un’acqua primordiale, il mito.
*In copertina: Charles Jalabert, “Edipo e Antigone lasciano la città di Tebe”, 1842
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walkingfra · 11 years ago
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L'energia può essere sospesa in un'immobilità in moto: questo è lo sats, essere pronti all'azione…Nell'istante che precede l'azione, quando tutta la forza necessaria è già pronta a liberarsi nello spazio, ma come sospesa e tenuta ancora in pugno, l'attore sperimenta la sua energia sotto forma di sats, preparazione dinamica. Il sats è il momento in cui l'azione viene pensata-agita dall'intero organismo che reagisce con tensioni anche nell'immobilità. E' il punto in cui si è decisi a fare.
Eugenio Barba, La canoa di carta. *Nel workshop #Teatro Elementare
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pangeanews · 5 years ago
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Antonio Moresco, Silvio Castiglioni e Takeshi Kitano. Uno spettacolo teatrale rompe i confini tra la vita & la morte, riempie la notte di meraviglia
Il suo talento è questo. Inavvertito. Inattuale. Perfino, una corona nel nitore.
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Fa così, dico. Entra in scena. Tutti sappiamo cosa accade, il rito è risolto dal mercato: abbiamo pagato un biglietto, siamo su una seggiola, in un luogo che si chiama teatro, la cui etimologia, imparo, riguarda il guardare, certo, ma soprattutto il meravigliarsi – un guardare che comporta il meraviglioso; il teatro è il luogo del meraviglioso, di ciò che va ammirato, è cosa prossima al tempio, all’ostensione sospesa di un’ostia. Tutti sappiamo di essere a teatro. Poi arriva un uomo in scena. È lui. Ma non sai mai se è lui. Né cosa è lì a fare. Ha – sempre – una apparenza anonima, apparizione anomala, pare sul palco per caso, potrebbe essere uno che ha sbagliato strada – ops, dov’è la platea? Forse è un tecnico. Forse è il marito di una di quelle che deve salire in scena, colto da apprensione.
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Quasi sbadatamente, dall’abisso di un purissimo pudore, Silvio Castiglioni, poi, si siede e comincia a parlare. Eccolo, l’incanto. Un uomo che narra. All’improvviso il palcoscenico – quella specie di astioso altare – si disintegra: Silvio è proprio vicino a te, sulla seggiola di fronte, ti racconta una storia che forse sai anche tu, non vuole irrompere nel tuo sapere, nella tua memoria. Non offende – ti affronta. Entra. Come acqua. D’altronde, le storie si raccontano attorno al fuoco, ma le parole sono acqua. Narrare è un travaso da un recipiente all’altro. Lento. Si sente il fruscio di velo dell’acqua.
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Questa povertà – non saprei come dirla in altro modo – rompe lo schema retorico: pensando che tutto, in quella storia, sia attuale e disponibile, ti rendi conto che soltanto lui, il narratore – che è sempiterno, ma il caso, incardinato in cronologia, ha chiamato Silvio Castiglioni – è disposto a raccontare quella storia, la sa raccontare.
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Silvio Castiglioni, per questo, è straordinario nel dare voce ai grandi narratori. In formule teatrali diverse, Castiglioni ha raccontato Alessandro Manzoni (la Storia della colonna infame, uno dei suoi lavori più alti) e Osip Mandel’stam, Silvio D’Arzo e i Karamazov di Dostoevskij, Andrea Zanzotto e Raffaello Baldini, Pietro Ghizzardi, Nino Pedretti, Jack London. Lo ascolto da tempo, conosco il suo desolato amore per la letteratura, ho imparato che Castiglioni sta più comodo tra gli autori minimi, tra le storie che nascondono il miracolo sotto la tovaglia, in sala da pranzo (i lavori su Pedretti, D’Arzo, Ghizzardi sono miliari). Castiglioni, come i grandi attori, intendo, si ‘fa fuori’, è un mezzo, uno strumento, un flauto per le parole dei grandi narratori. Per questo, dopo lo spettacolo, è stravolto: non sa più chi è. Con tenerezza quotidiana, fa il lavoro del contadino e dello sciamano.
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L’ultimo spettacolo di Silvio Castiglioni – l’ho visto allo ‘Snaporaz’ di Cattolica – è tratto da La lucina, uno dei libri più belli di Antonio Moresco. Ci lavora da tanto, come si ipotizza una sedia dal legno crudo. D’altronde, ogni messa in scena ha geologia e genealogia. Prima è stata una mera lettura preparatoria, poi c’è stata la revisione teatrale del testo – lavoro decisivo: la commutazione dell’opera piamente narrativa in ‘oggetto’ teatrale, in sceneggiatura – poi le piccole strategie. La prima è mirabile: mentre Silvio racconta, Georgia Galanti, in un angolo della scena, sotto telecamera che riproduce il suo lavoro su uno schermo, disegna, nel suo modo strampalato, straordinario, infantile. Così, ascolti Silvio e guardi i disegni di Georgia, una didascalia all’onirico. Infine, c’è la musica, in scena. I musicisti – pianoforte, violino, flauto – non creano soltanto un ‘diversivo’ – per altro, efficace – sono anche loro lì che ascoltano la storia, in attenta tensione.
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La storia riguarda un uomo e un bambino che si è ucciso. Nel dire di Castiglioni non c’è cupezza né rassegnazione, al contrario, è un tunnel nel candido, nel bianco. Così dice la dida: “Un uomo si è ritirato a vivere in solitudine, lontano da tutto, in una casa di pietra in mezzo al bosco. Ogni notte, però, un mistero turba il suo isolamento: sempre alla stessa ora, il buio del bosco è perforato da una lucina che si accende dall’altra parte della valle. Che cosa sarà? L’abitante di un altro paese deserto? Un lampione dimenticato che si accende per qualche contatto elettrico? Un ufo?”. Alla fine dello spettacolo, Antonio Moresco ha parlato con Silvio Castiglioni, sul palco, sembra sempre fuori luogo. Ha parlato della vita e della morte, del suo ultimo romanzo, Canto di D’Arco, soprattutto della Repubblica Nomade, il progetto di vaste camminate, a forte valore simbolico, che è iniziato nel 2011 con una marcia da Milano a Napoli-Scampia e si è coagulato in opera nel 2014. Vincere i limiti del corpo e dunque quelli della mente, ha detto Moresco.
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L’uomo e il bambino, la vita e la morte, lo sfiatare dei confini tra vita & morte, tra esistere & uccidersi. Fin da subito, sarà per certi estremismi di delicatezza, per la musica, mi vengono in mente le atmosfere di Sonatine, il film di Takeshi Kitano del 1993, retto dalle armonie di Joe Hisaishi. In ogni caso, è tutto molto bello, terso, giusto – dopo lo spettacolo la notte non ci inghiotte, è piena di corpi, grassa di morti, alcuni sono perfino felici, alcuni stanno raccolti, ginocchia negli occhi, sul comodino di fianco al letto. (d.b.)
*In copertina: Silvio Castiglioni dallo spettacolo “Casa Ghizzardi” (photo Paolo Castiglioni)
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pangeanews · 5 years ago
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La letteratura è un fagiano arrosto che torna, magicamente, a volare. Incontro con Luca Doninelli. Ovvero: gli scrittori non hanno più il coraggio di affrontare l’enigma
Il finale è al ristorante greco, scelto per caso, probabilmente perché è di fronte al museo dove è custodita la Pietà del Bellini – come riposa quel Cristo dal corpo omerico, d’Achille, con la pelle scandalosa come uno scudo? “Il problema, oggi, è che non diamo spazio ai morti, non c’è più spazio per i morti”, mi dice, Silvio Castiglioni, il grande attore, il grande interprete dei poeti. Cita quel libro bellissimo di W.G. Sebald, Le Alpi nel mare. Poi Antonio Moresco, di cui ha messo in scena La lucina. Tra qualche giorno torna a fare Filò, il poemetto micidiale di Adrea Zanzotto, redatto lì per lì, evocato da una richiesta di Federico Fellini.
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Leggo dalla sua ‘scheda’. “Cos’è filò? Ci si riuniva nella stalla, durante l’inverno, e si passava la sera a chiacchierare, chi era morto, chi era nato, chi si sposava, si facevano scherzi, c’era da mangiare e da bere. Una volta nelle campagne venete questo era far filò. E Andrea Zanzotto? Grandissimo. Ha scritto una poesia in lingua veneta che si chiama proprio Filò. Una dichiarazione d’amore per la lingua materna. Un ringraziamento ai nonni che l’hanno custodita e tramandata; e alle mamme che la reinventano per i loro bimbi. È potente, ti scava dentro. È in veneto, ma non è affatto un problema. La ascolti e t’incanta. La capirebbero anche in Lituania. È iniziato tutto da lì”.
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“Il problema della vita è che non c’è più spazio per i morti”, mi dice. Sulla tovaglietta su cui mangiamo baluginano i nomi di Zeus, Ares, Atena… Parliamo di Euripide. Poco prima Luca Doninelli ha parlato della Lucia dei Promessi sposi – si illumina e si lancia quando parla di Manzoni – come dell’ingresso di una dea, “Manzoni la descrive con gli attributi che si danno ad Atena”. “Il problema è che un tempo il mondo era popolato primariamente dai morti, poi c’erano i vivi…”, torna Silvio. Mi pare che tutto il trauma del tempo presente sia proprio qui: in questo eterno, frustrato, vacuo, vampiro presente. I morti radicano il passato e gettano nel futuro – il presente è un atto di liturgia, una venerazione al vuoto infuocato, alla pupilla di diamante dei morti. Si scrive, proprio, per reclamare i morti, per dire ‘evviva!’. Senza i morti, siamo morti viventi.
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Luca Doninelli arriva con il treno in ritardo – riparte. Resiste, affaccendato nell’inafferrabile. Dico che se Dostoevskij ti cambia la vita, Tolstoj ti getta nella vita. Lui ci spiega – a Rimini, sala di Palazzo Buonadrata audacemente fitta, che generosità anacronistica, meravigliosa – perché Tolstoj ha bisogno di quattro pagine per raccontare di un calesse che esce dal portone. La vita, la vita, la vita…
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Con Castiglioni torniamo su Alessandro Manzoni – Doninelli ci ha lasciato il virus manzoniano addosso, la pestilenza. Manzoni dice il male come nessuno, è memorabile, scorge il vuoto dietro i gesti umani, la crudeltà del tempo. Con I promessi sposi fonda il romanzo italiano (perfino europeo, direi), con la “Colonna infame” lo affonda. Passa dalla fiction al docufilm, dal genio narrativo alla devastazione di tutte le regole narrative. Eppure, siamo ancora tutti lì, assorti ad ascoltare quella storia di tortura, del male fatto per caso, della lieve delazione, della lieta, banale incomprensione: “La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi…”.
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Doninelli dà una delle sue folgoranti definizioni di cosa sia la letteratura. Me la appunto. “Facciamo che andate a cacciare un fagiano. Lo beccate. Lo mettete nel sacco, poi, a casa, lo spennate, gli togliete le viscere, lo allestite per essere mangiato. Poi lo infilate, ben predisposto, nel forno. Alcune erbe insaporiscono la carne. Ci sono anche delle patate, intorno al fagiano, che vanno ad arrostirsi. Poi togliete il fagiano dal forno, pronto alla degustazione. Beh, in quel momento è come se per magia, scuotendo le mani, quel fagiano arrosto riprendesse vita, viscere, penne, ali, e volasse via dalla teglia… ecco, questa è la letteratura”.
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Luca Doninelli sa spiegare la letteratura come pochi – ne parla come s’impasta la pizza, come si aggiusta, con il coltello, un legno a dargli dignità di sedia. Quest’anno ha vinto lo Strega Ragazze e Ragazzi – che è meglio dello Strega adulti – con Tre casi per l’investigatore Wickson Alieni. Il suo primo libro è stato Pinocchio, il figlio, da piccolo, dice, gli ha dato diversi spunti narrativi. Nell’intervista istituzionale dello Strega ha consigliato al suo lettore “di essere più pazzo che può”.
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Secondo me – e anche secondo lui – il romanzo più bello di Doninelli è Le cose semplici. Per quello che dice – e per come, che è poi la letteratura. Il libro è uscito nel 2015 e secondo me in pochi lo hanno capito. Poco importa. Segno due frasi che mi piacciono.
“Questa è la somiglianza con Dio. Quando chiediamo l’impossibile, noi somigliamo a Dio. E l’umanità in effetti ha fatto questo, fin dalla sua comparsa sulla Terra: chi attraverso l’arte e la poesia, chi attraverso sogni e conquiste, chi cercando strane avventure. La stranezza dell’uomo sta nelle sue richieste fuori misura”.
“Chantal è stato il grande stupore della mia vita. Si è opposta allo sfacelo accettandolo”.
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La terza frase che amo è questa. “Leggendo la letteratura di tutte le civiltà e di tutte le epoche non è difficile capire che il grande enigma è sempre lo stesso: che cos’è l’uomo? Se lo domandarono rozzi guerrieri, navigatori imprudenti, allevatori di somari, drammaturghi amareggiati dal mediocre corso della storia, filosofi di genio, re sanguinari, raffinati intellettuali, apologeti di regimi odiosi, difensori della giustizia (ma anche difensori dell’ingiustizia), poeti ciechi, poeti teologi, poeti disincantati, poeti di corte interessati solo alla lode del protettore di turno, teatranti visionari, preti di campagna, sindacalisti comunisti, implacabili fannulloni, esimi studiosi delle strutture e delle devianze sociali, medici, chirurghi, progettisti di città ideali, padri che guardavano con perplessità i loro figli, avventuriere, profughe ebree, sante e santi, massoni. Tutto questo fino a un certo punto della storia. Da quel momento in avanti, quasi più niente: decenni e decenni di letteratura senza che quella stessa domanda faccia più capolino tra le pagine”.
*
Prima di incontrare Doninelli, faccio una gita in libreria. Tanti nomi, tanti marchi, tanti bravi scrittori, bravi editori, brava gente. Sento la claustrofobia. Copertine luccicanti, bandelle che promuovono l’ennesimo genio. Certo, è un problema mio. Poco dopo, Doninelli accennerà a un poeta ‘laureato’ che discettava delle proprie sorti progressive, della propria carriera lirica, “mi diceva: il primo libro sarà un successo, il secondo la conferma, il terzo la consacrazione”. Invece, ci vogliono i fallimenti. Ci vuole la ribellione. L’incendio. Non può esserci alcun programma, ma una devozione minuscola, a dita che gemmano fiamme. Magari destinare il proprio amore ai morti. Magari scrivere una poesia, seppellirla a terra. Gesti che abbiano il canone dell’assurdo – ma non questo. (d.b.)
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pangeanews · 5 years ago
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Santarcangelo Festival 2019: dalle “sirene” alla “bombastica” Pamela Anderson, passando per una performance sulle badanti ucraine. Oggi il teatro attraversa una cupa crisi di idee…
Merman Blix ha lasciato il segno. Nell’acqua. A due anni di distanza dalla performance del “sirenetto” Santarcangelo Festival torna a strizzare l’occhio (e i costumi) all’elemento liquido per antonomasia, qui ancora una volta “tavola materica investigativa” di una rappresentazione. “Dragon, rest your head on the seabed”, performance firmata dagli spagnoli Pablo Esbert Lilienfeld e Federico Vladimir Strate Pezdirc e portata in scena – o meglio, in piscina – il 5 e il 6 luglio al Multieventi di San Marino è la moltiplicazione (con tanto altro) dell’assolo di Blix, ed unisce l’arte della danza all’attività sportiva (forse più la seconda della prima).
Al di là della potenziale e inutile discussione sulla natura dello spettacolo – è teatro quindi “teatron” nell’accezione di “luogo dello sguardo” oppure, sic e sempliciter, disciplina sportiva? – “Dragon, rest your head on the seabed” è un mosaico di sei nuotatrici che vengono frantumate in sei “pezzi” e che solamente nell’acqua ritrovano l’unità scomposta. Ad un incipit penalizzato da una lentezza narrativa e da un palcoscenico che tende a disperdere la tensione – la piscina da 50 metri annacqua il pathos – segue, negli ultimi 25 minuti, un’accelerazione più visiva che semantica: le sei nuotatrici si ricompattano e ritmo di tunz tunz e ridanno vita al “Dragon” acquatico, una creatura in sospeso tra un “Nessie” di Lochness 4.0 e un omaggio alle fantasie oniriche del Sol Levante. Più sport che teatro, probabilmente, anche se non mancano i momenti d’impatto teatrale: il rumore del microfono sbattuto sull’acqua, l’utilizzo delle torce “waterproof” che illuminano e disegnano strade subacquee, gli arazzi delle gocce che schizzano in alto quando le gambe impattano sulla superficie. C’è un aspetto più squisitamente estetico, quella dell’alternatività. Se la buona norma apparente della scena richiede attori e attrici filiformi, freak o con fisici da lottatori di Sumo, la sensualità tonica delle sei nuotatrici forgiate in vasca diventa un messaggio di straordinaria bellezza, o di moderna frizione: si può essere attori anche unendo l’esercizio mentale a quello fisico senza necessariamente doversi agghindare con colori improbabili o con vestiti che odorano di muffa.
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Hanno messo quello che mancava, quello che oggi serve per capire: il suono. Ronin, solido gruppo musicale rock italiano attivo sulle scene da 20 anni, ha racconto e vinto la sfida, quella di creare un tessuto di note di accompagnamento al film muto “The Unknown” (1924) diretto da Tod Browning. Ed il risultato è stato piacevolmente sorprendente: arpeggiamenti incisivi e adiacenti ai dialoghi della pellicola. Peccato solo che la programmazione gratuita in piazza Ganganelli si limiti alla proiezione di alcuni film e non a qualche spettacolo di teatro vero, come è accaduto in passato: basterebbe anche un lavoro a sera per “far assaggiare” a un pubblico clementino – che per crescere numericamente si deve rinnovare – quello che viene proposto negli spazi chiusi del Festival. Eppure la piazza, in passato, ha ospitato, tra gli altri, anche Ascanio Celestini, Davide Enia, Pippo Delbono e Silvio Castiglioni. Come dimenticare il suo monologo del 2013 – quando al Festival si vedeva ancora il teatro di parola – dedicato Nino Pedretti, “L’uomo è un animale feroce”? Un lavoro che ha saputo contagiare il numeroso pubblico presente e interpretato con grinta e qualche imprò gradevole (a inizio spettacolo uno spettatore ha chiesto “voceee” e Silvio Castiglioni ha recitato per qualche secondo con un tono burrascoso e quasi urlato, tra le risate della platea).
Due pubblici quindi, quello del Festival e quello di chi sceglie la piazza per fare un giro con il cane o per degustare un gelato. Un peccato perché due gocce d’acqua, come insegna Tonino Guerra (che era di casa a Santarcangelo), potrebbe fare una goccia più grande.
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Gli spettacoli cosiddetti “belli” (e “Italia-Brasile 3 a 2” di Davide Enia ospitato in piazza Ganganelli – e quindi per tutti – in occasione del Festival 2003 è davvero un sublime viaggio nel Belpaese pallonaro) in realtà “non hanno tempo”. Perché, nella memoria collettiva dello Stivale, “il Mondiale” è sempre e ancora quella di Spagna, 1982, l’epopea di un’Italia che lasciava gli Anni ’70 per entrare nel nuovo decennio. Ci sono motivi sociologici, dietro, più tondi e pesanti di una sfera di cuoio. Lo spettacolo muove da un breve riepilogo dei fatti accaduti quell’anno: da Vasco Rossi a Sanremo all’omicidio La Torre, dal prezzo della benzina all’avvento del colore nella tv di casa. Proprio attorno ad un nuovo, e bellissimo, Sony Black Triniton quello storico 5 luglio 1982 si raccoglie la famiglia del protagonista: ognuno con i propri riti, con le proprie scaramanzie, con i propri gesti: il padre (vestiti mai lavati, per tutte le partite della squadra nazionale), la madre (accarezzava quasi tutto il tempo la testa di piccolo Enia), le nazionali dello zio, il caffè “che quando l’Italia ha segnato il suo primo gol ai mondiali in Spagna c’era chi stava bevendo un caffè”. La scaramanzia, i numeri del lotto (1-48-90) lì dove l’1 è l’Italia, il 48 “morto che parla” (Paolo Rossi) e 90 la paura, la grande paura. Il grande Brasile. Eder, Junior, Socrates, Falcao. E qui l’omaggio: Enia cambia nome e imitando Carmelo Bene, snocciola la definizione, Falcao “Il più grande giocatore al mondo… senza mondo” (lì dove il secondo “mondo” è il pallone). Si ride, ma con la mente, e con il cuore pieno, che quando la divagazione tocca le corde del cuore, le parole si fanno sasso, lama, martello e polveriera: Garrincha, il giocatore del Brasile Anni ’50 azzoppato da una malattia che gli aveva regalato una gamba più corta dell’altra, 6 cm 6, mica uno sputo, prova te a vivere e giocare a calcio con una gamba lunga e una corta. Il passerotto Garrincha morto, dimenticato e povero, mezzo alcolizzato nel 1983, che ha avuto giusto il tempo di vedere la partita, e piangere. O l’eroica fine della squadra del Dinamo Kiev, sterminata dai nazisti nel 1942: Tusevich, mica Dino Zoff e i suoi 40 anni, che viene fucilato. Un uomo avrebbe chiuso gli occhi. Lui – ed Enia – no: l’istinto è l’istinto, e non lo puoi fermare, e Tusevich si tuffa, e para il proiettile con il cuore. E lì dall’oltretomba, il sorriso, compiaciuto e denso di tabacco, del grande Gianni Brera…
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Quando in piazza a Santarcangelo si protestava. Pare ieri, ma sono già trascorsi 14 anni da quel meraviglioso rigurgito di anni Settanta. Piazza Ganganelli, un lunedì sera dell’anno di grazia 2005, era davvero gremita. La gente del teatro era incazzata nera per i tagli che ha subito il FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo. Dal 1985, ossia da quando è stato istituito, il Fondo non solo non era stato incrementato seguendo gli aumenti del costo della vita ma anche solo rimanendo costante, senza tagli, aveva perduto il 20 anni il 51% del suo valore.  Ancora più preoccupante era un altro aspetto: pur restando costante l’ammontare dell’economia del Fondo, il numero delle compagnie sovvenzionate era passato da 300 a 200. In parole povere, e per ragioni più o meno clientelari, si estendeva a dismisura l’area dei purètt, dei poveracci, costretti a spartirsi le briciole.
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Da sempre il teatro crea una “simulazione fisica di uno stato mentale”, come afferma Derrick de Kerkhove. In Italia il punto di partenza fu quella lontanissima Ivrea 1967 quando fu promosso – da personaggi di un certo spessore, tipo Carmelo Bene, Franco Quadri, Leo De Berardinis, Luca Ronconi e altri ancora – il “Convegno del Nuovo Teatro”, che sancì, di fatto, l’avvio di un’era di sperimentazioni. Nel “Manifesto” pubblicato nel novembre del 1966 sulla rivista “Sipario” si affermava che ci si deve “servire del teatro per insinuare dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, per mettere in moto qualche pensiero”.
La situazione geopolitica e artistica però era molto differente da quella di oggi. In un teatro attuale che al 90% è morto, che è fatto di routine e abitudine e un certo snobismo (specie nella Provincia di Rimini, dove gli attori non vanno mai a vedere gli spettacoli dei colleghi), accanirsi a portare in luce i difetti (che senza dubbio esistono) dei pochi, pochissimi spettacoli “vivi” ancora in circolazione, di quegli spettacoli e di quegli artisti che hanno davvero qualcosa da dire e non salgono sul palco per moda, per noi, per benessere familiare (spesso i genitori foraggiano i figli) o per sentirsi fighi, significa appiattire il proprio sguardo e quello del pubblico.
Oggi il teatro attraversa una profonda crisi di idee. Una crisi dilagante. Nel teatro, e dentro il teatro. A parole, tutti sottoscriverebbero il principio che debba essere finanziato chi osa innovare. Ma quando il teatro di innovazione (o, come mi ha detto, bene, Mariangela Gualteri del Teatro Valdoca, “il teatro contemporaneo”) diventa una categoria burocratica e massonica in cui far rientrare ogni sorta di realtà non altrimenti catalogabile, le distinzioni si complicano enormemente. Persino il concetto di “gruppi giovani” è ambiguo e piuttosto precario: tutti si sentono teenager, nonostante qualche capello bianco. Oggi chiudono le fabbriche e i lavoratori vengono mandati a casa. Non c’è nulla di così profondamente drammatico se una compagnia abbassa le saracinesche: se saprà rimboccarsi le maniche e trovare finanziamenti in maniera autonoma, allora potrà proseguire nel personale percorso drammaturgico. Altrimenti si faccia altro: i mestieri sono tanti e infiniti, e uno buono lo si troverà di certo. Questa volta non si butti via il bambino con l’acqua sporca e con la sua culla: si tagli il cordone ombelicale che lega l’infante capriccioso alla mamma-cassa, e si inizi a camminare con le proprie gambe. Il teatro non è un obbligo. È, tutt’al più, una necessità.
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Nei giorni post mobilitazione, il Collettivo Aurora ha scritto una bella lettera. Tra le tante affermazioni contenute (e pienamente condivisibili), due meritano spazio. La prima è di carattere economico, la seconda di natura squisitamente artistica.
Il Collettivo, nella sua missiva, ha fatto due conti. “Su 803 mila euro di entrate previste per il 2005, 530 mila provengono da contributi pubblici; 141 mila dall’attività associativa; 132 mila da sponsor e simili. Queste le cifre ufficiali. Ci si chiede: Santarcangelo dei Teatri è un’associazione non lucrativa o una società? (…) Malgrado i tagli della Finanziaria, il Comune di Santarcangelo ha beneficiato di una discreta maggiorazione di fondi: +20 mila euro”.
Condivisibile financo la singola virgola le parole sugli spettacoli. “Lasciamo da parte i giudizi artistici: anche quelli benevoli, che d’altronde sembrano concentrarsi quasi esclusivamente nel gazzettino che gli organizzatori stessi fanno scrivere agli studenti del DAMS in cambio di appetitosi crediti formativi”.
Il Collettivo poi ha raccontato la giornata di mobilitazione. In punta di penna. “Giornata di mobilitazione nazionale: nientemeno. Scomodati istituto comizionale e Majakovskij. Che sinistra non riuscirebbe a commuoversi? Gran mossa: così i panni sporchi di casa Festival finiscono nella cesta degli orrori nazionali. Il buon Paolino (Rossi), convinto da cachet e dalle nobili intenzioni, se l’è bevuta come i santarcangiolesi e tutti gli altri. Riassumendo e rilanciando: rastrellamento aggressivo di fondi, disinteresse verso i partner, trasparenza zero, cariche, ruoli, impieghi blindati per consuetudine nepotistica e clientelare, arbitrarietà totale, impunità sulle scelte gestionali, buchi di bilancio. Anche questo è il festival”.
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Calviniano ma non calvinista, sociologicamente contemporaneo, ibrido nella sua forma scenica, “Lighter than Woman” di Kristina Norman non è assolutamente uno spettacolo teatrale ma una “performance-documentario” sul mondo delle badanti ucraine che vivono a Bologna e a Santarcangelo. “Calviniano”, questo lavoro, lo è soprattutto nell’ouverture: l’artista di Tallinn difatti dona al pubblico, accaldato e stipato nella saletta della Collegiata come pulcini nelle gabbie, la propria teoria sulla gravità e sulla pesantezza (chiaro e cristallino il riferimento a “Le lezioni americane” di Italo Calvino), mettendo a specchio Samantha Cristoforetti e le donne dell’est che lavorano in Italia. Storie di sofferenza, di potenziali abusi, di mancanza di diritti, di nostalgia – nell’accezione di nostos greco –, di lavori di fatica fisica e di difficoltà nel farsi accettare. I numeri snocciolati con un sorriso da Kristina raccontano di un fenomeno che ha la forma dell’iceberg: 2 milioni di donne pagate, la metà in nero, quindi un “sommerso chiuso nelle case delle persone anziane, senza garanzie e senza welfare.
Se poeticamente l’operazione si può dire indovinata (l’argomento comunque, va detto, è di facile presa sul pubblico), più di qualche dubbio si instilla sulla durata (novanta minuti) e sulla messa in scena, che alterna frammenti di comicità a passaggi che smorzano la tensione. Si chiamano le badanti dell’ex Unione Sovietica, rimarca l’attrice, “così le donne italiane possono dedicarsi pienamente alla vita professionale”. Come se fossero prive di sentimenti, come se un potpourri di cliché possa dare più veridicità al lavoro, crocifiggendo i sentimenti di chi ha un parente non più autosufficiente.
Gli aghi del pietismo si conficcano nelle guance di chi è in sala e ascolta le memorie delle badanti. Così la voce e il viso di una donna a cui sono state fatte proposte indecenti, così una signora in su con l’età che sogna di ritornare a casa, così una ragazza che ha perduto un figlio in grembo, così un gruppo di ucraine che si ritrova alla Montagnola di Bologna la domenica pomeriggio e che fatica a parlare italiano dopo lustri e lustri di vita nello Stivale. Così chi ricrea un’ambientazione primordiale della propria infanzia, una composizione floreale realizzata per ingentilire un luogo.
Non ingannino i tanti applausi che hanno salutato la chiusura dello spettacolo: non dicono assolutamente nulla. Sono solo, piuttosto, un “chiedere scusa” alle accuse lanciate dalla Norman verso chi era presente, o un rito aggregativo di partecipazione, come se dietro al biglietto fosse scritto, in una scrittura che si rivela solo agli spettatori, che è un gesto che si deve compiere sempre quando il buio torna in sala e decreta la chiusa della mise en scene.
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La bombastica Pamela Anderson? La gattosa Hally Berry? La gattina orientale Céline Tran? La lista delle bellezze feminine che negli anni Novanta hanno fatto battere il cuore a milioni di teenager è infinita e cambia da persona a persona. Marco D’Agostin – in scena al Lavatoio con “First love” – è poeticamente “anarchico” e decisamente controcorrente: per lui la prima infatuazione ha un nome, Stefania, e un cognome, Belmondo. È alla campionessa sportiva dello sci di fondo che ha deciso di dedicare i suoi 40 minuti di monologo, un assolo fatto di parole e di danza che, in scena, si traduce in una spoglia telecronaca della medaglia d’oro conquistata nella 15 km a tecnica libera ai XIXesimi Giochi Olimpici Invernali di Salt Lake City nel 2002. La “restituzione” delle emozioni provate dall’attore “Premio UBU 2018 come miglior performer under 35” alla Belmondo è poco altro: ottima davvero la sua voce, questo va sottolineato, specie quando sale e si fa concitata, ma complessivamente lo spettacolo – eccezion fatta per una bella chiusura con Marco che si siede ai margini del fondale mentre scende la neve e una luna si fa grande e luminosa – non brilla per incisività.
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Anticipato da una lunga didascalia in cui vengono rimarcati i problemi di censura incontrati dagli attori nei loro lavori precedenti, con “Domínio Público” – portato per la prima volta fuori dal Brasile – Elisabete Finger, Maikon K, Renata Carvalho e Wagner Schwartz focalizzano la propria indagine drammaturgica su “La Gioconda” di Leonardo da Vinci: dal furto “firmato” da Vincenzo Peruggia (che sottrasse la tela al museo del Louvre nel 1911) alla modella (o al modello) ritratto nel quadro – Lisa Gherardini o Gian Giacomo Caprotti detto “Salaì”? – alla postura delle mani, passando per la mancanza di gioielli e un po’ di gossip (pare che Leonardo se li fosse portati a letto), lo spettacolo a quattro voci si riduce a una lezione di storia dell’arte. Certo, importante, ma nulla di più. Sarebbe curioso avere l’opinione di Vittorio Sgarbi…
Alessandro Carli
*In copertina: immagine tratta dallo spettacolo “Dragon, rest your head on the seabed” (photo Enrique Escorza); nel servizio immagini dal progetto di Marco D’Agostin e di Kristina Norman
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