#Letteratura Olandese
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Recensione: "Noi, umani" di Frank Westerman
Buongiorno a tutti sono Elena e vi ringrazio di essere su Life Is Like A Wave Who Rises and Falls! Dopo un lungo periodo fatto di poche letture e ancora meno recensioni pubblicate, spero piano piano di riuscire a pubblicare le recensioni dei libri letti perché è una consuetudine che voglio mantenere nonostante gli impegni lavorativi. Ecco che allora vi parlo di: Noi, umani di Frank…
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girlonthelasttrain · 7 months ago
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there's this publishing house in Italy (Iperborea) that specializes in translating novels from Scandinavia and northern Europe, including from the Netherlands. Italian however doesn't really have a word for the dutch language other than 'olandese', which doesn't truly encompass the whole area where dutch is spoken and clearly refers to Holland (even if Italian does have an accurate term for the country of the Netherlands, ie 'Paesi Bassi'), so this publishing house uses the phrase 'letteratura nederlandese' which is such a charming rendering of 'nederlandse literatuur' (ie 'dutch literature') to me
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cerentari · 2 months ago
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Passato di Jan-Jacob Slauerhoff 
Nato a Leeuwarden in Frisia nel 1898, poeta e narratore, è uno dei grandi classici della letteratura olandese del Novecento. Studia medicina e viaggia come medico di bordo, navigando fra l’Europa e le Indie olandesi, la Cina, il Giappone, il Sudamerica e il Sudafrica. Spesso etichettato come maudit, “ribelle, provocatorio”, “poeta della disillusione”, lo definisce Nooteboom, sottolineandone…
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carmenvicinanza · 1 year ago
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Germaine Krull
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Spero di aver contribuito a far conoscere la fotografia come l’arte del nostro secolo.
Germaine Krull, tra le più importanti fotografe del ventesimo secolo, è stata pioniera della fotografia d’avanguardia e del fotogiornalismo moderno.
Ha trattato, con stile documentaristico e dal suo punto di vista di donna, politica e disuguaglianze sociali. Ha sperimentato una varietà di tecniche tra cui la doppia esposizione, il fotomontaggio e lo scatto da angolazioni estreme.
Nata il 20 novembre 1897 a Poznan, nell’attuale Polonia da una famiglia tedesca, ha viaggiato per l’Europa fin dalla più tenera età a causa del lavoro del padre, ingegnere itinerante e libero pensatore.
Cresciuta in un ambiente estremamente libero, anticonformista e politicamente attivo, si è diplomata in fotografia a Monaco, dove aveva aperto uno studio come ritrattista e fatto parte del fermento intellettuale, artistico e politico della città.
A vent’anni aveva aderito al Partito Comunista Tedesco, imprigionata. è stata costretta a fuggire prima in Austria e poi in Russia.
Il suo studio era diventato il luogo di incontro di militanti anarchici, comunisti russi e socialdemocratici.
Nel novembre 1918 ha preso parte al raduno di massa sul Theresienwiese per chiedere la fine della guerra, il punto di partenza della Rivoluzione di novembre e l’avvento dello Stato Libero di Baviera. L’anno seguente ha preso parte alla Repubblica Bavarese dei Consigli e nel 1921 partecipato al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista a Mosca, da dove è stata espulsa come controrivoluzionaria per le sue posizioni radicali.
Dopo queste esperienze si è allontanata dall’attivismo politico per dedicarsi esclusivamente alla fotografia, parte integrante della sua vita e potente forma di espressione.
Nel 1922 si è trasferita a Berlino dove ha preso a frequentare gli ambienti dadaisti ed espressionisti.
L’ambiente culturale della capitale tedesca e gli stimoli delle avanguardie hanno modellato la sua fotografia in modo irreversibile e contribuito a plasmare il suo stile fotografico, aprendolo a suggestioni provenienti dal teatro, dal cinema, dalla letteratura e da altri media.
Tra i vari soggetti, ha realizzato una serie di ritratti di nudi poi catalogati come “satire di pornografia lesbica”, immagini sovversive attraverso le quali ha sfidato le esperienze visive convenzionali.
Servendosi dell’immaginario pornografico ha sovvertito la purezza dello stile pittorialista e, giocando con le rappresentazioni di genere, ha mostrato donne che guardano altre donne, sostituendo “una collaborazione attiva, allo sguardo maschile convenzionale che controlla un nudo docile“.
L’amore lesbico è stata anche un’esperienza personale che ha riportato nella sua autobiografia.
Dopo aver sposato il documentarista olandese Joris Ivens, tra i fondatori del collettivo di artisti d’avanguardia Filmliga si era trasferita con lui a Amsterdam. Un matrimonio di convenienza grazie al quale avrebbe ottenuto un passaporto olandese e una condizione di “rispettabilità” senza dover rinunciare alla sua autonomia e alla sua carriera. Insieme hanno realizzato diversi cortometraggi.
Gli stimoli provenienti dai circoli intellettuali olandesi, dove si confrontavano i teorici del cinema russo, olandese, tedesco, la portarono a sviluppare le sue grandi opere di montaggio e la serie di fotografie industriali iniziata in Olanda e poi proseguita in Francia che è alla base della sua opera più famosa, Métal.  Una raccolta di 64 foto in bianco e nero di ponti e strutture industriali di Rotterdam, Amsterdam, Marsiglia e della Torre Eiffel di Parigi, una metafora del mondo moderno letta attraverso l’estetica della Nuova Visione e trasformata in materia d’arte.
Ancora oggi è considerato uno dei più importanti libri fotografici della storia. 
Nella seconda metà degli anni venti del secolo scorso, si è spostata in una Parigi intrisa dell’avanguardia più stimolante.
Ha lavorato come fotografa di moda per grandi stilisti come Paul Poiret, Lucien Lelong e Sonia Delaunay, pubblicando un gran numero di fotografie in riviste femminili, tra cui il supplemento di Frankfurter Zeitung, Für die Frau. Nell’ambiente artistico parigino ha conosciuto e ritratto personaggi come André Malraux, Colette, Jean Cocteau, André Gide.
Nel 1928 era considerata una delle fotografe più importanti e richieste, capace di muoversi con destrezza dalla fotografia più impegnata ai nudi. 
Il riconoscimento ottenuto da Métal nell’ambiente delle avanguardie artistiche le aveva procurato numerosi incarichi da parte della nuova rivista VU, il primo grande settimanale illustrato francese che poneva la fotografia al centro del suo progetto editoriale.
In seguito all’occupazione nazista della Francia ha aderito al Fronte per la Liberazione e diretto per due anni il Servizio fotografico della Francia Libera.
Nel 1945 è stata inviata come corrispondente in Indocina. Successivamente è stata in Brasile, passando dalla Martinica e dalla Guyana, per poi raggiungere il Congo francese. Una vita costantemente in viaggio e alla ricerca di nuove esperienze. È stata corrispondente in Indocina e poi a Bangkok dove per vent’anni è stata proprietaria del celebre Hotel Oriental.
Negli anni Sessanta si è ritirata a vivere coi rifugiati tibetani nel Nord dell’India, sposandone la causa. Lì ha realizzato il libro Tibetans in India.
È tornata definitivamente in Europa nel 1983, per trascorrere gli ultimi anni accanto alla sorella Berthe.
È morta a Wetzlar in Germania il 31 luglio 1985.
Il suo archivio è depositato a Essen, al Museo Folkwang.
Curiosa e instancabile, ha avuto mille vite, ha spaziato dall’impegno politico ai ritratti delle celebrità, dalla fotografia di guerra alle foto della gente comune, passando per la fotografia di moda, l’archeologia industriale, i nudi e molto altro ancora.
Il suo lavoro, che ha attraversato quasi un secolo, ha espresso tutta la forza e il coraggio di una donna che non ha mai seguito le regole e si è sempre lasciata guidare solo dall’istinto e dall’obiettivo della sua macchina fotografica.
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personal-reporter · 1 year ago
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Pablo Neruda, un Nobel dal Cile
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Il poeta che raccontò il Sudamerica del Novecento… Pablo Neruda, pseudonimo di Neftali Ricardo Reyes Basoalto,  nacque il 12 luglio 1904 a Parral (Cile), una cittadina non lontana dalla capitale Santiago. Il padre di Pablo, rimasto vedovo,  nel 1906 si trasferì a Temuco, dove si risposò con Trinidad Candia. Ben presto Neruda cominciò a mostrare un forte interesse per la letteratura, grazie  all'incoraggiamento della poetessa Gabriela Mistral, futuro Premio Nobel, che fu la sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo lavoro ufficiale come scrittore fu l'articolo Entusiasmo y perseverancia, pubblicato sul giornale locale La Manana, ma fu nel 1920 che per le sue pubblicazioni iniziò ad utilizzare lo pseudonimo di Pablo Neruda, che in seguito gli fu riconosciuto anche a livello legale. Neruda nel 1923, a 19 anni, diede alle stampe il suo primo libro Crepuscolario e l'anno successivo ebbe un notevole successo con Venti poesie d'amore e una canzone disperata. A partire dal 1925 diresse la rivista Caballo de bastos, intraprese la carriera diplomatica a partire dal 1927 e fu nominato prima console a Rangoon, poi a Colombo, sull’isola di Ceylon. Nel 1930  Neruda sposò una olandese a Batavia e nel 1933 divenne console a Buenos Aires, dove conobbe Federico Garcia Lorca, poi a Madrid strinse amicizia con Rafael Alberti. Allo scoppio della Guerra Civile nel 1936 il poeta parteggiò per la Repubblica e fu  destituito dall'incarico consolare e si trasferì a Parigi, con il ruolo di console per l'emigrazione dei profughi cileni repubblicani. Nel 1940 Neruda fu nominato console per il Messico, dove incontrò Matilde Urrutia, per la quale scrisse I versi del capitano, fu eletto senatore nel 1945 e s’ iscrisse al partito comunista. Il poeta nel 1949,  dopo un periodo di clandestinità, per sottrarsi al governo anticomunista di Gabriel González Videla  fuggì dal Cile e viaggia tra l’Unione Sovietica, la Polonia e  l’Ungheria. Tra il 1951 e il 1952 Neruda visse in Italia, a Capri, e tra il 1955 e il 1960 viaggiò in Europa, Asia, America Latina. Pablo Neruda ricevette il Premio Nobel per la Letteratura nel 1971, il 23 settembre 1973 morì a Santiago. Read the full article
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libroazzurro · 2 years ago
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È PIÙ SACRO VEDERE CHE CREDERE - IL PENSIERO ABISSALE DELLA REALTÀ
Spinoza pensò: “lo splendore mi fa sentire come una di quelle meretrici tristi, sfortunate, troppo intelligenti, che, quando parlano, in una frase chiudono tutte le cose avvenute e quelle che avverranno. E questo è ovvio, perché la realtà è perfetta, è anzi la perfezione, e il suo pensiero è abissale. Tutto ciò non è un affare da poco”.
Nell’immagine, “Benedictus de Spinoza”, ritratto ad olio del filosofo olandese Baruch Spinoza eseguito da Franz Wulfhagen di Brema, nel 1664 (foto nel pubblico dominio, tramite Wikimedia Commons
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Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
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.https://www.libroazzurro.it/index.php/note/e-piu-sacro-vedere-che-credere/526
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leggendolibri · 4 years ago
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"Anime Baltiche", Jan Brokken - Questioni di foto di gruppo...
Ho aspettato parecchio a scrivere questa recensione su “Anime Baltiche”, prima perché ne dovevamo parlare al gruppo di lettura a Torino, poi perché mi sono resa conto di non essermi affatto affezionata a questo lavoro. Non fraintendetemi, non è un brutto libro, è solo la raccolta che fa un po’ a cazzotti. Siamo di fronte ad un gruppo di biografie di vite che si svolgono dalla seconda metà…
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pangeanews · 4 years ago
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Voglio succhiare tutto il midollo della vita. Poi mi metterò a scrivere. Il caso Stendhal e gli esordi precoci di Enrico Brizzi e Paolo Giordano
1. I dati, l’esempio. Anche se sono passati due secoli da allora, il mio personaggio è Stendhal. Nato nel 1783, scrive il primo libro, una guida turistica a Roma Napoli Firenze nel 1817 a 34 anni. Fino allora Stendhal aveva servito nell’armata di Napoleone. In seguito a 39 anni pubblica un trattato sull’amore, decisamente inservibile oggi. Venendo alle cose serie, c’è il suo primo romanzo pubblicato a 44 anni, Armance, storia di amore romantico abortito dall’impotenza. Il secondo romanzo è una bomba e lo pubblica di getto a 47 anni: è La certosa di Parma. In sintesi, Stendhal si lancia da solo. Nessuno lo sponsorizza. Il pubblico dei romanzi è praticamente solo femminile. Un uomo che scrivesse romanzi era un caso misterioso all’epoca. Anche questo spiega il relativo ritardo di Stendhal.
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2. Le considerazioni di Stendhal sul suo ritardo sono pressoché infinite e per non annoiare il lettore lo rimando ai due malloppi Ricordi di egotismo e alla più ammiccante e artistica Vita di Henry Brulard. In sostanza Stendhal fa del suo ritardo una scusa e una pretesa a scrivere per i posteri. In effetti andò così: lo lessero a ondate generazionali mentre i suoi contemporanei gli preferivano altri.
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3. Le considerazioni di un lettore di Stendhal sul ritardo si sprecano. A voi scegliere. Vorrei fare un elogio retorico del ritardo letterario ma a rovescio, denigrando i talenti precoci che spesso sono stati un business che oggi esibito palesemente per quello che è: affare di estetica, carineria, presa sul pubblico giovane (o allupato).
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4. Elogio tramite Stendhal il ritardo creativo ma non perché sia uno di quelli che dice che il passato era meglio, solo perché anch’io ero più giovane. Ma perché la propria gioventù non può essere annoverata né tra i progressi né tra i regressi dell’umanità. Qui sta il punto…
*
Paragrafi senza numero.
Ecco il cuore del dramma di Stendhal e di un suo lettore a caso: nella sua gioventù lo riempirono di passato (culto degli autori classici ed illuministi) che in realtà erano già fuori moda passata la Rivoluzione francese, quando lui era sui banchi dell’accademia napoleonica.
Sicché mentre i  programmatori-precettori di Stendhal gli parlavano di La Fontaine, di Rousseau e di D’Holbach in realtà rimpiangevano la loro gioventù.
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L’unica cosa che posso e so fare, come lettore di Stendhal e avvocato del ritardo, è fare con voi dei calcoli combinatori su quello che l’intensa programmazione subita ha lasciato a Stendhal:
*un vastissimo amore per la letteratura (questo era inteso, d’accordo);
*l’esercizio potente della memoria, quindi in filigrana torna tutto nella sua pagina e voi ritrovate Tacito mentre nella Certosa parla del suo rivale, lo sugar daddy Conte Mosca;
*la conoscenza ragionata di molte cose, per cui un tramonto non è mai un tramonto ma l’ora dell’avemaria, dei pronostici e delle flebili speranze;
*l’ansia per la vita.
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A dirla in un altro modo, a Stendhal l’accademia napoleonica e l’esercito prendono tutti i suoi vent’anni dandogli in cambio un sacco di libri. Ma la cosa non è poi così terribile, dal punto di vista di uno stendhaliano, perché nel far ciò hanno fatto di Stedhal proprio lo Stendhal che conosciamo.
*
E a vederla un po’ cinicamente (o per mero calcolo statistico) non si potrebbe fare altro nella vita che leggere libri, scrivere libri, o leggere e scrivere qualcosa su altri libri. Da stendhaliani di ferro, difensori del ritardo, si dovrebbe fare una delle tre cose (non importa di cosa trattino i libri e se uno lo fa da allievo o insegnante) e, nel tempo libero, dare sfogo ai suoi bisogni, a quella che Stendhal chiama con eufemismo l’energia.
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Ritardo a parte, direi che non ci si dovrebbe preoccupare di null’altro, che di poesia, umanità ed energia. Siamo al punto: avendo meno di trentacinque anni ed essendo i bisogni primari assolutamente impellenti (nella lunghissima postadolescenza che ci attanaglia tutti), forse è meglio che si cerchi prima di soddisfare i bisogni e poi fare poesia.
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Anzi, poiché negli anni di cui sopra uno ha digerito moltissima letteratura di eccellente qualità, ci si può anche permettere di fare poesia proprio partendo dal soddisfacimento dei bisogni o fare letteratura per soddisfare la propria energia e tutte le combinazioni che scaturiscono dal mettere insieme i molti libri letti, i non ancora trent’anni e l’universo mondo che ci circonda.
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Alla fine, come vedete, invece di un petalo di critica d’arte ci sta rovinando addosso una frana di macigni: per colpa dei ritardi il futuro è terribilmente incerto e per questo è il più bello di tutti i futuri, perché è tanto meno presente e possibile. La qual cosa sa di libertà, più di ogni altro costringimento.
Andrea Bianchi
***
Secondo Andrea, di giovane generazione, nella vita è bene aver soddisfatto (o aver lottato per) certi bisogni primari ed esistenziali prima di fare poesia, ovvero letteratura. E non ha torto. Dunque, sapendo che i talenti precoci non sempre reggono il peso di dover mantenere le promesse, merita la massima attenzione l’arte che emerge nella maturità, preformata e scolpita. Ma nella mia gioventù, l’esordio clamoroso di un Enrico Brizzi non ancora ventenne offrì una spinta e una visione che si allargavano verso una prospettiva evidente, che aveva i suoi contorni, era leggibile e poteva ben essere ascritta a un progetto. Era il 1994 e Jack Frusciante è uscito dal gruppo fu un’esperienza travalicante, sicura nella sua innovatività, che poneva una serie di premesse allettanti. I personal computer non erano ancora in tutte le case, la Rete praticamente non esisteva, tutto manteneva una dimensione decifrabile, dunque proiettabile, secondo un’inclinazione simile a quella degli antichi che amavano incastonare le loro storie nel cielo. L’ambiente bolognese, oltretutto, dava una spinta caratteristica e alternativa; lo stesso Brizzi si concedeva piccole guasconate, come inventarsi di essere nato a Nizza e di essere studente di Fisica. Eravamo nel Novecento, e all’esplosione del suo best-seller generazionale seguirono le dinamiche che conosciamo, dove le suggestioni mantenevano un percorso di curiosità, di ricerca, di possibilità.
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Poi, una quindicina d’anni dopo, arriva l’esordio del ventiseienne Paolo Giordano – con l’esplosione di oltre un milione di copie vendute – in un’epoca in cui comincia a dominare la Rete, col trionfo dei blog e della partecipazione diffusa e iper-narrativa, ancora indenne dai social ma già pronta a una ricezione molto diversa. Qui, il mondo giovanile narrato ne La solitudine dei numeri primi è il prodotto di una borghesia agiata che intende consolidare le proprie istanze e i propri codici, soffocando ciò che può nascere dagli spiriti più sensibili. L’omologazione è fatta per stritolare, e le linee delle vie da seguire vengono fortificate come confini. Così, il nuovo fenomeno letterario viene subito catturato nelle maglie del sistema: dopo il premio Campiello Opera Prima e il premio Fiesole Narrativa Under 40, al romanzo viene assegnato subito il Premio Strega 2008, il massimo trampolino, urgente e necessario, per tutte le operazioni programmatiche che si andavano formando.
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Secondo Wikipedia, il titolo del romanzo viene scelto da Antonio Franchini di Mondadori, mentre la copertina riporta un’immagine di grande suggestione – l’autoscatto di una ventenne olandese che ritrae l’espressione di un viso quasi incompiuto – ritenuta uno dei fattori dell’enorme successo del romanzo. L’altro fattore, com’è intuibile, è l’innocente avvenenza del giovane autore, un vero dottorando in Fisica (mentre Enrico Brizzi ne millantava lo studio); ma con questo non si vuole sminuire il valore dell’opera, che qui non è in discorso.
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Proprio a quell’epoca, nell’allora sito-blog di Giulio Mozzi, l’intervento senza filtri di una scrittrice che anni dopo sarebbe stata finalista a un Premio Strega iniziava così: «Ormai per essere pubblicati bisogna passare un casting. Sei interessante? Sai parlare in pubblico? Sei un attore/attrice? Sei strano/a? Trasgredisci, porti le giarrettiere, sei sexy? Hai la faccia giusta, incuriosisci, puoi andare in tv, hai i denti a posto? Manca poco al Grande Fratello degli scrittori, in questo spaventoso vuoto pneumatico della progettualità editoriale. Da tempo non si leggono i libri ma si guardano le facce degli scrittori, li si chiama, nelle riunioni editoriali o nelle cene fra addetti, per cognome: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. Siamo figurine dei calciatori. E poiché non tutti vendiamo le cifre che agli editori fanno comodo, siamo spesso calciatori di serie B. Quello non lo voglio perché c’ha troppa storia (cioè ha segnato poco, un’intera stagione in panchina), quella la tengo come fiore all’occhiello anche se mi va sempre in fuori gioco. Ovviamente nell’editoria (italiana) non ci sono in gioco le cifre del calcio, ma hai voglia a star lì a scrivere davvero, a lavorare tutti i giorni, a non fare la velina della letteratura: hai perso. C’è una schiera di bellocci, furbastri e manovratori che ti passa avanti».
*
Non c’è molto da aggiungere per inquadrare i nostri meccanismi editoriali, oggi diventati ancora più necessari e brutali. All’epoca non c’erano i social network, a trainare erano ancora la televisione e i giornali; ora, con la dittatura consolidata dei social, che scandisce la vita di una spaventosa quantità di persone, la necessità di certi meccanismi si è fatta ancor più granitica. Nel giro di alcuni anni Paolo Giordano viene cooptato nel sistema dei media e viene fatto funzionare a pieno regime, come componente “aggiornato” del gruppo dominante, che deve replicare sé stesso e ha trovato un perfetto esemplare per la successione. C’è il sospetto che l’autentica potenzialità artistica dell’uomo, il suo vero progetto individuale siano stati condizionati per farli confluire in un disegno generale: produrre narrativa per il mercato e articoli sul Corriere della Sera e sui rotocalchi, con presenze televisive insistite e coordinate, per offrire un format complessivo di appeal e credibilità. Una strategia per costruire una figura autorevole giovane e attraente, dunque attendibile, uno studioso integro che possa toccare anche argomenti sensibili legati alla scienza: come dimostra la pubblicazione del libretto di 80 pagine per Einaudi – proposto come “saggio riflessivo di scrittore” che è anche un fisico – sul fenomeno della pandemia, un instant book confezionato di corsa nelle prime due settimane di emergenza da “coronavirus”, senza che nessuno potesse averne un’esperienza vera; un’operazione dettata dalla sola urgenza di mercato, per sfruttare al massimo il bacino dei lettori finché si era in tempo, che ha portato Paolo Giordano al secondo record: oltre a essere il più giovane scrittore ad aver vinto uno Strega, è anche il più veloce ad aver prodotto un libro sulla pandemia del 2020, bruciando sul tempo chiunque altro.
*
Qui si vede la potenza dell’industria editoriale che conta, quando avvista i profitti a portata di mano. A differenza di Enrico Brizzi, che ha seguito una sua strada, Paolo Giordano sembra esser stato “trombonizzato” da un pezzo di classe dirigente cultural-editoriale che prima o poi dovrà passare il testimone, e vuole forgiare le generazioni successive a propria immagine. «Le riflessioni di Giordano da una parte assomigliano a quelle di tutti, e al contempo se ne diversificano», si legge in un articolo che illustra Nel contagio, il volumetto einaudiano sponsorizzato dal Corsera. E grazie al ca**o, direbbe causticamente qualcuno, visto che ogni individuo può essere simile ma non identico. Ma qui si rischia di entrare nel sincretismo della scienza nazional-popolare, i cui interpreti è bene che vengano formati nelle sedi opportune.
Paolo Ferrucci 
*In copertina: Stefano Accorsi è Alex in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, film del 1996 di Enza Negroni
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maledetta-sfortuna · 8 years ago
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Quando al tuo incontentabile e sapientissimo professore di letteratura piace molto la tua idea per la tesina di fine anno, e tu ti esalti come una bambina e ti aggrappi alle sue parole (forse un pochino troppo ?) come a uno scoglio di salvezza e felicità. (E mi ci aggrapperò per il resto della mia carriera universitaria come monito del fatto che non faccio cagare di natura e ho anche delle buone buonissime idee eheh)
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levysoft · 5 years ago
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Meglio chiarirlo subito: in campo religioso non ho una posizione specifica da sostenere. Non sono credente. E non sono un ateo convinto. Per dieci anni sono stato uno dei redattori di “Scientific American”. In quel periodo, abbiamo evidenziato con diligenza le falsità dei proponenti della teoria del “disegno intelligente”, che sostenevano di vedere la mano di Dio nell’origine delle strutture biologiche complesse come l’occhio umano o il flagello dei batteri. ...
Meglio chiarirlo subito: in campo religioso non ho una posizione specifica da sostenere. Non sono credente. E non sono un ateo convinto.
Per dieci anni sono stato uno dei redattori di “Scientific American”. In quel periodo, abbiamo evidenziato con diligenza le falsità dei proponenti della teoria del “disegno intelligente”, che sostenevano di vedere la mano di Dio nell’origine delle strutture biologiche complesse come l’occhio umano o il flagello dei batteri. Ma nel 2008 ho lasciato il giornalismo per la letteratura. Ho scritto romanzi che parlano di Albert Einstein, della teoria dei quanti e dei misteri del cosmo. E nei miei libri continuano a spuntare idee che hanno a che fare con Dio.
È giusto, comunque, che gli scienziati facciano almeno un tentativo di rispondere alle domande sui fini dell’universo. La maggior parte degli scienziati parte dall’assunto che scienza e religione siano campi del tutto separati – o, per usare l’espressione del biologo evoluzionista Stephen Jay Gould, “magisteri non sovrapponibili”. Man mano che investigano sui caratteri più fondamentali della natura, però, i fisici stanno affrontando questioni che da tempo erano territorio dei filosofi e dei teologi: l’universo è infinito ed eterno? Perché sembra seguire leggi matematiche, e sono inevitabili queste leggi? E ancora, e forse è la domanda più importante, perché esiste l’universo? Perché c’è qualcosa invece del nulla?
Il filosofo medievale Tommaso d’Aquino pose questo genere di domande nel XIII secolo nella sua Summa Theologica, dove presentò diversi argomenti a sostegno dell’esistenza di Dio. Osservò che tutti gli oggetti esistenti al mondo possono passare dallo stato di potenzialità allo stato di attualità – un cubetto di ghiaccio può fondere, un bambino può crescere – ma la causa del cambiamento deve essere qualcosa di ulteriore rispetto a quell’oggetto (l’aria calda fa fondere il cubetto di ghiaccio, il cibo nutre il bambino). La storia dell’universo può così essere vista come un’infinita catena di cambiamenti ma, sostiene l’Aquinate, ci dev’essere un ente trascendente che ha dato inizio alla catena, un’entità in sé immutabile che abbia già tutte le qualità che gli oggetti del mondo possono arrivare a possedere. E, ancora, questo ente deve essere eterno; essendo radice di tutte le cause, nulla può averlo causato. E a differenza di tutti gli oggetti del mondo, l’ente trascendente è necessario: deve esistere.
L’Aquinate identificò questo ente con Dio. Il suo ragionamento finì per esser detto “argomento cosmologico”, e fu oggetto delle elaborazioni di molti filosofi. Nel XVIII secolo, il filosofo tedesco Gottfried Leibniz definì Dio come “un essere necessario che ha in se stesso la ragione della sua esistenza”. È interessante notare che Leibniz è stato anche un matematico e un fisico, e inventò il calcolo differenziale e integrale più o meno in contemporanea con Newton. (Lo svilupparono in modo indipendente.) Tanto Leibniz che Newton si consideravano dei filosofi naturali, e passavano liberamente dalla scienza alla teologia e viceversa.
Nel XX secolo, la maggior parte degli scienziati aveva ormai smesso di escogitare prove dell’esistenza di Dio, ma il collegamento tra fisica e fede non si era del tutto interrotto. Einstein, che spesso parlava di religione, non credeva in un Dio personale che influenza la storia o il comportamento umano, ma non per questo era ateo. Preferiva definirsi agnostico, anche se a volte inclinava verso il panteismo del filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza, che nel XVII secolo proclamò che Dio è identico alla natura.
A sua volta, Einstein paragonava la razza umana a un bambino piccolo in una biblioteca piena di libri scritti in lingue che non gli sono familiari: “Il bambino nota che c’è un piano definito nella disposizione dei libri, un ordine misterioso che non comprende ma che sospetta soltanto, vagamente. Questo, mi pare, è l’atteggiamento della mente umana, anche la più grande e la più coltivata, rispetto a Dio. Vediamo un universo meravigliosamente disposto, che obbedisce a delle leggi, ma queste leggi le comprendiamo solo in modo vago.”
Spesso, quando parlava di fisica Einstein nominava Dio. Nel 1919, dopo che alcuni scienziati britannici ebbero confermato la teoria della relatività generale osservando l’incurvarsi della luce delle stelle intorno al Sole, gli venne chiesto come avrebbe reagito se i ricercatori non avessero trovato quelle prove a sostegno. “Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio”, disse Einstein. “La teoria è corretta.” Il suo atteggiamento era una strana mistura di umiltà e arroganza. È evidente il senso di timore reverenziale con cui guarda alle leggi della fisica e la sua gratitudine per il fatto che siano decifrabili per via matematica. (“L’eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità”, ha detto. “Il fatto che sia comprensibile è un miracolo.”)
Ma negli anni venti e trenta del Novecento oppose una strenua resistenza alla teoria allora emergente della meccanica quantistica perché urtava contro la sua ferma convinzione che l’universo fosse deterministico, cioè che le azioni fisiche abbiano sempre un effetto prevedibile. Famosa è rimasta la frase con cui criticò l’indeterminazione prevista dalla teoria quantistica: “Dio non gioca a dadi” con l’universo. (Si dice che Niels Bohr, il padre della meccanica quantistica, abbia ribattuto “Einstein, smettila di dire a Dio cosa deve o non deve fare.”)
Anche se oggi la teoria quantistica sta a fondamento della fisica delle particelle, molti scienziati continuano a condividere il disagio di Einstein per le sue implicazioni. La teoria ha svelato aspetti della natura che sembrano soprannaturali: l’atto di osservare una cosa può a quanto pare alterarne la realtà e l’entanglement quantistico – deriso da Einstein come una “spettrale azione a distanza” – può intrecciare insieme parti distanti dello spazio-tempo. Le leggi della natura pongono stretti limiti a ciò che possiamo apprendere sull’universo. Non possiamo, per esempio, sbirciare dentro i buchi neri, né vedere qualcosa che si trovi al di là della distanza che la luce ha traversato a partire dal big bang.
C’è posto in questo universo per il Dio causativo di Tommaso d’Aquino e di Leibniz? O magari per il Dio, più diffuso, di Spinoza? Il compianto fisico delle particelle Victor Stenger ha affrontato la questione nel libro del 2007 Dio. Un'ipotesi sbagliata. Perché la scienza non crede in dio [Orme, Roma 2011]. Stenger respinge rapidamente la nozione teista di un Dio che risponda alle preghiere e guarisca i bambini ammalati, perché ormai questo genere di interventi divini sarebbero stati osservati dagli scienziati. Dopo di che porta anche argomenti, meno convincenti, contro l’esistenza di un Dio intesto in senso deista, che avrebbe creato l’universo e le sue leggi per poi fare un passo indietro e guardarlo evolvere.
Stenger sostiene che molte leggi della natura (come quella della conservazione dell’energia) conseguono in modo inevitabile dalle simmetrie dell’universo osservate (per esempio, l’inesistenza di punti o direzioni privilegiate nello spazio). “Non c’è ragione per cui le leggi dell’universo non possano esser venute dall’interno dell’universo stesso”, scrive. Spiegare la creazione dell’universo, però, è più complicato. I cosmologi non sanno neppure se l’universo abbia avuto un inizio; potrebbe invece aver avuto un eterno passato prima del big bang, indefinitamente esteso all’indietro nel tempo. Alcuni modelli cosmologici propongono che l’universo abbia attraversato una serie incessante di cicli di espansione e contrazione. E alcune versioni della teoria dell’inflazione postulano un eterno processo in cui nuovi universi si diramano di continuo da uno “sfondo inflazionistico” in rapida espansione.
Altri cosmologi sostengono invece che l’inflazione deve pur essere iniziata da qualche parte, e che il suo punto di partenza potrebbe essere stato essenzialmente il nulla. Come ci insegna la teoria quantistica, persino lo spazio vuoto ha una sua energia, e il nulla è instabile. Nello spazio vuoto possono accadere cose improbabili d’ogni genere, e una di esse potrebbe essere stata un’improvvisa caduta a un livello più basso dell’energia del vuoto, che avrebbe potuto innescare l’espansione inflazionaria.
Per Stenger, questa possibilità teorica è una prova del fatto che Dio non è necessario per la creazione. “L’ordine naturale delle cose è che c’è qualcosa e non il nulla”, scrive. “Un universo vuoto richiede l’intervento soprannaturale, un universo pieno no.” Ma questa conclusione sembra un po’ affrettata. Gli scienziati non comprendono ancora appieno il mondo dei quanti, e al momento le loro ipotesi sui primi momenti della creazione non sono molto più che delle ipotesi. Abbiamo bisogno di scoprire e capire le leggi fondamentali della fisica prima di poter dire che sono inevitabili. E abbiamo bisogno di esplorare l’universo e la sua storia in modo un po’ più completo prima di poterci pronunciare in modo così definitivo sulle sue origini.
Giusto per amor di discussione, comunque, assumiamo che questa ipotesi della Creazione Quantistica sia corretta. Supponiamo che l’universo in cui viviamo abbia generato le sue stesse leggi e sia venuto in essere da sé. Non ricorda molto da vicino ciò che diceva Leibniz di Dio (“un essere necessario che ha in se stesso la ragione della sua esistenza”)? E somiglia anche al panteismo di Spinoza, la sua proposizione per cui l’universo nel suo insieme coincide con Dio. Invece di provare che Dio non esiste, forse la scienza ci darà una definizione più ampia della divinità.
Cerchiamo però di evitare di fare passi più lunghi delle gambe. Per far avanzare la ricerca di senso dell’umanità intera, dovremmo dare la priorità al finanziamento di telescopi avanzati e altri strumenti scientifici che possano fornire i necessari dati ai ricercatori che studiano la fisica fondamentale. E forse questi sforzi condurranno a qualche progresso anche nel campo della teologia. Il ruolo centrale dell’osservatore nella teoria quantistica è davvero curioso. È possibile che la razza umana abbia, dopotutto, un suo ruolo cosmico? È possibile che l’universo sia fiorito in un numero indicibile di realtà, contenenti ciascuna miliardi di galassie e vasti oceani di vuoto fra l’una e l’altra, solo per produrre qua e là qualche comunità di osservatori? Lo scopo ultimo dell’universo sarebbe dunque osservare il suo proprio splendore?
Forse. Dovremo aspettare e vedere.
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lunatikgoeswild-blog · 6 years ago
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TIME ZONES... XXXIII EDIZIONE...ANTEPRIMA COL BOTTO... TERRY RILEY... PADRE DEL MINIMALISMO AMERICANO... A SEGUIRE LEE RANALDO, GARETH SAGER (FONDATORE DEI POP GROUP), BABY DEE, JOZEF VAN WISSEM (PALMA D0R0 A CANNES 2013) E ALTRI
Time Zones 2018 XXXIII edizione - anticipazioni ed anteprime
Probabilmente la XXXIII edizione di Time Zones sarà l’ultima che avrà Bari come sede centrale del festival. I problemi economici dell’Amministrazione comunale hanno quasi totalmente sguarnito i contributi alle manifestazioni storiche della città. Per uno scherzo del destino invece questa XXXIII edizione sarà una delle più importanti degli ultimi anni.  Alla luce di politiche poco incoraggianti per chi vuol continuare a produrre cultura e proposte di qualità vanno messe a punto strategie più efficaci. Diventa importante per Time Zones essere all’interno di una rete stabile di collaborazioni a partire da una comunità d’intenti, ma anche per la realizzazione di produzioni condivise. Oltre gli già sperimentati percorsi comuni con il centro di Cultura Teatrale DIAGHILEV, ed il contenitore di arte e musica EXperimenta , si aprono due nuove importanti  collaborazioni con la Mostra del Cinema di Taranto e con il VIVA FESTIVAL . Sul piano delle attività parallele si consoliderà MUSICOFILIA la rete dove in questi anni si è fatto proficuo ed interessante il lavoro con le scuole l’Università ed i Conservatori.
Le anticipazioni:  
Accanto alle ormai storiche sezioni dedicate all’elettronica ed alla letteratura torna dopo il 2011
PIANO ZONES.  Questo capitolo che indaga tra pianisti/compositori di ogni genere si apre con una straordinaria anteprima il 26 luglio a Bari presso il chiostro di Santa Chiara, con uno dei più grandi musicisti viventi: il grandissimo TERRY RILEY in compagnia di suo figlio Gyan  Riley.
Vero artefice con Glass e Reich del minimalismo americano, uno dei movimenti più rivoluzionari e liberatori del ventesimo secolo, Riley ha lasciato una traccia indelebile nella storia della musica. Capolavori come IN C o come RAIBOW IN CURVED AIR,ma anche cose più recenti come CHILDREN OF GAZA  rappresentano in assoluto una nuova sintassi musicale  come molti hanno sostenuto “Musica come nessun’altra sulla terra”. Terry Riley è stato il minimalista che più di altri ha rappresentato l'anima mistico/spirituale, inserendo - in un contesto che sta a metà tra l’accademia, la musica popolare occidentale e la musica classica indiana - parte del linguaggio pop-rock e parte della controcultura tipica della west coast americana della seconda metà degli anni 60 (pacifismo, movimento hippie, fascinazione per l'Oriente e per l'India in particolare). Storico l’attacco di BABA O’ RILEY che gli WHO hanno messo come intro al loro famosissimo omonimo brano. Un evento straordinario, un’occasione unica condivisa con la città di Napoli per le sole due date italiane di quella che si annuncia come l’ultima apparizione europea del grande maestro che ha ormai superato gli ottanta.
Quindi anche quest’anno grazie alla illuminata disponibilità della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bari e del soprintendente Luigi La Rocca una parte importante di Time Zones con la sigla “Ad Museum” troverà ospitalità all’interno del complesso architettonico di Santa Chiara, ma anche in altri importanti Beni Architettonici del nostro territorio come il Museo Ridola di Matera ed il Palazzo De Mari di Acquaviva. Dopo l’anteprima con Riley anche il secondo appuntamento di TZ 18 sarà ospitato nel Chiostro di S.Chiara, per quello che si configura, anch’esso come l’anteprima,come un  appuntamento di straordinaria importanza, poiché il 15 settembre sarà la volta di LEE RANALDO lo storico fondatore  con Turston Moore  dei Sonic Youth ,un altro pezzo imprescindibile della musica non solo americana  degli ultimi trenta anni. Ranaldo, che poi il giorno dopo (il 16) sarà a Matera nello splendido cortile del Museo Ridola, rappresenta Il respiro più contaminato ed innovativo che il rock ha saputo dare dopo la sbornia degli anni 60,70 ed 80. Magnetico e poliedrico tessitore di suoni e parole ha saputo misurarsi con l’avanguardia (Glenn Branca, Rhys Chatham) ma anche con la letteratura: con la poesia e con il racconto. Il 22 settembre si ritornerà a Santa Chiara per il ritorno in Puglia del liutista olandese JOZEF VAN WISSEM Palma d’oro a Cannes nel 2013 per Only Lovers left alive (Solo gli amanti sopravvivono) del regista statunitense Jim Jarmush.
Dopo Riley PIANO ZONES proseguirà con  la partecipazione di ben 10  pianisti che si susseguiranno fino al 10 novembre da GARETH SAGHER, storico fondatore del Pop Group e dei Rip Rig & Panic, al guru newyorchese allievo anch’esso di La Monte Young CHARLEMAGNE PALESTINE passando per alcune grandi signore del pianoforte come BABY DEE la pianista di Antony and The Johnson e la romana ALESSANDRA CELLETTI di cui è appena uscito Sacred Honey un prezioso album interamente dedicato al grande compositore armeno Gorge Ivanovitch Gurdjeff ed al suo allievo Thomas.de Hartman
Il programma completo sarà annunciato in conferenza stampa a fine luglio.
Dal 5 luglio in vendita i biglietti per il concerto di Terry Riley nei circuiti abituali.
Dal 1 settembre in vendita abbonamenti e biglietti per tutta la XXXIII edizione di Time Zones
informazioni e prenotazioni : [email protected]
www.timezones.it
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rideretremando · 4 years ago
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Ricordo la prima volta che ho letto un racconto di #AliceMunro. Non sono mai stato un'adolescente della Huron County alla fine degli anni '40, ma quella ragazza ero io. Ricordo quando lessi "Seminario sulla gioventù" di #AldoBusi. Sono eterosessuale, ma tra quelle pagine ero #Barbino dall'inizio alla fine e lo sarò per sempre. Così come una cara amica con cui all'epoca ragionavo senza pace di #CormacMacCarhy mi assicurava di essere stata #JohnGrady per tutto "Cavalli selvaggi" e di esserlo anche mentre mi parlava. Ci trovammo d'accordo, dopo aver letto "Amatissima", sul fatto di essere entrambi #Sethe e #Denver.
La letteratura ha questa forza immutata. Riuscire a far crollare le differenze di nazionalità, di genere, di orientamento sessuale, addirittura di specie e di regno, certe volte. È una forza sempre rivoluzionaria e trasformativa. Non è una questione di contenuti, ma della prossimità, dell'intimità che si riesce a creare, attraverso un testo, tra tu che leggi e la storia.
Non cadete nell'inganno di correre dietro alla carrozza ideologica di chi pensa (a volte questo pensiero diventa una professione e una carriera) che solo i bianchi possano leggere i bianchi, solo i neri i neri, solo i maschi i maschi, solo le lesbiche le lesbiche, solo i gay i gay. Naturalmente vale anche per le traduzioni. Ho letto con molto interesse quanto hanno scritto in questi giorni amiche traduttrici come Martina Testa, Federica Aceto, Ilide Carmignani, Tiziana Lo Porto e altre e altri. Faccio l'esempio di Martina. So che (oltre il genere) molte cose la separano da #CormacMcarthy, eppure la sua traduzione di "Non è un paese per vecchi" è ineguagliabile. In quanto maschio di origini contadine e sottoproletarie nato in un luogo considerato svantaggiato da alcuni (il sud del paese) non ho mai pensato che la mia traduttrice olandese, in quanto donna e geograficamente privilegiata, non fosse in grado di "entrare" nelle storie che racconto.
Non puoi combattere il nemico usando le sue stesse armi e il suo stesso linguaggio, altrimenti sei già lui.
Nicola Lagioia
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afantini · 4 years ago
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Le Perle di Mechelen
Le Perle di Mechelen
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Alessandro Fantini
Le perle di Mechelen
Saggi su cinema, musica, pittura e letteratura
Disponibile in ebook sulla vetrina Lulu dell’autore: http://www.lulu.com/shop/alessandro-fantini/le-perle-di-mechelen/ebook/product-21320058.html
Mechelen era il nome della taverna dai sei camini che occupava il pianoterra della casa di Delft in cui il pittore olandese Vermeer trascorse la sua…
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giancarlonicoli · 4 years ago
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25 lug 2020 19:03
“SE DOBBIAMO CHIAMARE ASSESSORA UNA DONNA, IL MIO DENTISTA UOMO DEVO CHIAMARLO DENTISTO?” - LEGGERE E CONSERVARE L’INTERVISTA ALLO SCRITTORE GIUSEPPE CULICCHIA CHE FA A PEZZI IL POLITICAMENTE CORRETTO E I SUOI APOSTOLI: “DA UN LATO SI RIVENDICANO LE DIFFERENZE DELLE MINORANZE, DALL'ALTRO VIENI ATTACCATO SE DICI CHE LE DIFFERENZE ESISTONO. GLI SLOGAN PREVALGANO SUL TENTATIVO DI CAPIRE E NON VEDO NELLA SINISTRA LO STESSO IMPEGNO PER DIFENDERE I DIRITTI CIVILI ANCHE NEL PROMUOVERE I DIRITTI DEL LAVORO…”
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Maurizio Caverzan per “la Verità”
L'ultimo libro di Giuseppe Culicchia, E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli), è un saggio talmente lucido e godibile che andrebbe letto nelle scuole, corso di educazione civica, oppure adottato nelle facoltà di Scienze politiche e Scienze della comunicazione. Cinquantacinque anni, torinese, autore di Tutti giù per terra, da cui è stato tratto l'omonimo film con Valerio Mastandrea, da libraio Culicchia è diventato scrittore, saggista, traduttore dall'inglese e dal francese. La sua satira demolisce uno a uno i luoghi comuni dello storytelling da salotto, non necessariamente televisivo.
Cominciamo da lei, Culicchia: genitori?
«Mio padre, nato a Marsala, arrivò ventenne a Torino nel 1946. Essendosi innamorato della fidanzata di un suo amico, volle allontanarsi da quella storia. Mia madre era un'operaia tessile piemontese, figlia di un'operaia tessile. Si conobbero a metà degli anni Cinquanta e si sposarono».
Infanzia dura?
«Ero il figlio del barbiere meridionale. Diciamo che ho sperimentato sulla mia pelle una forma di razzismo senza peli sulla lingua. Ma ho avuto la possibilità di gustare gli agnolotti e il cous cous».
È vero che ha fatto il libraio prima di diventare scrittore?
«Per dieci anni. Ho scritto Tutti giù per terra nel 1994, ma fino al '97 ho continuato a stare in libreria. Non ero sicuro di riuscire a mantenermi con le parole».
Era partito piuttosto bene.
«Sì, ma avrei potuto gestire meglio la situazione. A 28 anni ero già felice di aver pubblicato il mio primo libro. Non avevo un agente e non ce l'ho tuttora».
Formazione?
«Sono stato ventenne nel 1985, l'epoca dei paninari. Doveva ancora arrivare la prima ondata migratoria di nordafricani. Torino era molto diversa, c'era stata la marcia del 40.000 e si avvertivano i primi effetti della crisi».
Amici, politica?
«Frequentavo gli ambienti punk e i tifosi del Toro. Ascoltavo i Clash, i Sex pistols, creste verdi o rosso ciliegia».
Che cosa le ha ispirato questo libro?
«Ero in vacanza in Baviera nel 2005 e iniziavano a infastidirmi certi vocaboli che leggevo sui giornali. Le riforme del lavoro che in realtà erano controriforme. Le bombe intelligenti e le vittime civili chiamate danni collaterali. In alcune università americane fu bandito Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».
Che lei aveva tradotto.
«La censura di Twain scattata per l'uso della parola "negro" era una follia. Twain era un abolizionista, si era arruolato nell'esercito sudista, disertando dopo due settimane. Mi tornò alla mente la profezia di George Orwell sulla neolingua».
Da allora, anni di raccolta di storpiature linguistiche e doppiopesismi?
«Adesso il tema è molto sentito. Quando Feltrinelli ha deciso di pubblicare il dizionario non erano accaduti fatti che l'hanno reso ancora più attuale».
Che cos' è l'ipocrisia?
«C'entra con il mestiere di attore, con la recita che inizia dopo che ci siamo guardati allo specchio e andiamo in ufficio. Per di più ora, ciò che un tempo si diceva al bar diventa di dominio pubblico tramite i social, che trovo molto antisocial. La signora che ha postato un vecchio scatto alle Maldive la incontriamo sotto casa; per cercare lavoro miglioriamo il curriculum. Tutti vogliamo mostrarci meglio di ciò che siamo».
È una maschera che riguarda anche il pensiero?
«Ci si uniforma alle mode e ci si astiene da esprimere il proprio per non essere criticati».
L'omologazione è frutto di superficialità o del potere del pensiero unico?
«Il condizionamento è forte. Qualche anno fa nel quartiere Aurora di Torino alcuni cittadini pakistani si organizzarono in ronde per fronteggiare lo spaccio degli africani. Se fossero stati italiani, avremmo letto titoli sbrigativi. Invece, siccome erano pakistani si scriveva: poveracci, non possono avere gli spacciatori sotto casa. Un caro amico che vive in piazza Vittorio a Roma, modello d'integrazione, mi ha raccontato che poco alla volta la convivenza si è complicata e ora c'è un comitato antidegrado: "Mia moglie, appena vede qualcosa che non va, chiama la polizia: sarà mica diventata improvvisamente fascista?". Ecco, mi sembra che gli slogan prevalgano sul tentativo di capire».
Di fronte a certi argomenti scatta il riflesso condizionato.
«Un gigantesco cane di Pavlov. Se Dolce e Gabbana, di sicuro non due omofobi, si dichiarano contrari all'utero in affitto cadono sotto la pubblica esecrazione. Chi non si allinea è fascista. Lo sarà anche Marco Rizzo, uno degli ultimi orgogliosi comunisti, per aver detto che la maternità surrogata è mercificazione del corpo della donna?».
Il personaggio meno ipocrita e quello più ipocrita di oggi.
«Il più ipocrita è sicuramente il premier olandese Mark Rutte che dice peste e corna dell'Italia e condona le tasse ai grandi marchi della new economy. Uno che non si è mai preoccupato di essere politicamente corretto è Sinisa Mihajlovic. Ha riscosso unanime solidarietà quando si è saputo che aveva la leucemia, ma appena ha detto che in Emilia Romagna avrebbe appoggiato la candidata di Matteo Salvini è stato sommerso di critiche».
Un altro capolavoro è stata l'idea di Michela Murgia di sostituire patria con matria?
«E pazienza se esisteva già madrepatria. A volte l'ideologia ci fa coprire di ridicolo. Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?».
Per l'omicidio delle donne si parla di femminicidio perché è un fenomeno diffuso?
«Il trattamento linguistico specifico non è una questione di quantità. A questo punto adottiamolo per tutte le minoranze: migranticidio, gaycidio, lgbtqicidio, diversamentabilicidio. Nelle intestazioni delle lettere tipo cari/e compagni/e c'è chi comincia a usare l'asterisco car* compagn*. Ma un conto è leggerlo, un altro pronunciarlo».
Per il sesso valgono mille sfumature.
«Una docente inglese ha raccontato sul Guardian di esser stata rimproverata da una sua apparente studentessa perché le si è rivolta con il pronome femminile "she", mentre, siccome ha una personalità multipla, avrebbe dovuto usare il plurale, "them". Alla fine ha dovuto scusarsi e spiegare che non voleva mancarle di rispetto. Ormai si cammina sulle uova... Ma c'è una cosa che mi preme dire».
Prego.
«Non vedo nella sinistra lo stesso impegno per difendere i diritti civili anche nel promuovere i diritti del lavoro. Oggi, per un figlio che si è laureato si spera in uno stage da 400 euro al mese, 3 euro all'ora. Poi ci lamentiamo se i migliori se ne vanno all'estero. Su questi temi la sinistra è scomparsa. Anzi, sei contestato se ricordi che la legge che ha introdotto il precariato l'ha fatta il primo governo Prodi. L'Italia ha compromesso il futuro delle giovani generazioni, che cosa ne sarà tra vent' anni? In Germania lo Stato rimborsa alle famiglie tutto quello che hanno speso per la formazione dei giovani perché la loro istruzione riguarda il futuro del Paese».
Perché se si promuovono tutti, la scuola non deve lasciare indietro nessuno e i genitori 1 e 2 spianano la strada ai ragazzi aumenta il disagio adolescenziale?
«Forse sarebbe stato meglio pensarci prima di abolire il voto di condotta. Quando s' inizia ad andare a scuola si entra in un'istituzione pubblica e si compie il primo passo da cittadino. La messa in discussione del principio di autorità ha portato alla deriva attuale dell'uno vale uno. Ma qui ci vorrebbe un altro libro».
È davvero convinto che quando Martina Navratilova si dichiarò omosessuale c'era più tolleranza di oggi?
«Fu molto coraggiosa a esporsi, ma aveva vinto nove volte Wimbledon ed era una figura di riferimento. A confronto con l'ossessione attuale per la correttezza gli anni Settanta erano più liberi. C'era un giornale come Il Male che faceva vignette con il Papa in piscina. La satira era accettata. Di recente quando la Navratilova ha detto che le tenniste transgender sono avvantaggiate rispetto alle donne, una cosa scontata, è stata espulsa dalle associazioni Lgbt».
Con la cancel culture siamo oltre il politicamente corretto: cosa pensa del manifesto dei 150 intellettuali di Harper' s Magazine?
«Penso che ci voleva una presa di posizione così in America. E forse non solo lì. Cosa significa che chi non è di colore non può scrivere un romanzo sul razzismo? Se è esistito, di sicuro Omero non ha partecipato alla guerra di Troia. Isaac Asimov era un robot anche lui? Se la letteratura fosse solamente scrivere di sé sarebbe davvero triste, non tutti gli scrittori hanno la vita di Ernest Hemingway. Però Halle Berry non ha potuto interpretare il ruolo di un trans perché non appartiene a quella minoranza. E all'ultima Festa del cinema di Roma Martin Scorsese è stato accolto dalle proteste delle femministe perché nei suoi film non ci sono donne protagoniste. Trovo intollerabile l'intolleranza di chi si professa tollerante».
Nel suo libro nota che dire «ho anche amici gay» vuol dire essere omofobi: è indispensabile il ddl Zan per tutelare le persone omosessuali?
«Di sicuro l'Italia, Paese mediterraneo, cattolico e legato a una certa idea di famiglia, non è tra i più tolleranti nei loro confronti. Non conosco il decreto nel dettaglio, ma una legge non può risolvere la questione alla radice perché chi si esprime in modo irrispettoso, certo non cambia modo di pensare perché sanzionato».
La parola chiave del nuovo conformismo è inclusività?
«Il paradosso sta nel fatto che da un lato si rivendicano le differenze delle minoranze, dall'altro, se dici che le differenze esistono vieni attaccato perché dobbiamo essere tutti uguali».
Com' è stata accolta dagli editori l'idea di questo dizionario?
«Senza problemi. Non hanno eccepito su nulla, ma si sono augurati che i lettori fossero dotati di autoironia. È un libro divertente, ma non accomodante. Credo che alcuni possano essere in disaccordo, ma anche che il confronto sia un'occasione di arricchimento. Vale aldilà del mio libro».
Non sarà troppo ottimista?
«Forse sì, il mio è un auspicio».
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pangeanews · 6 years ago
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23 aprile: il giorno in cui nasce (e muore) William Shakespeare. Gita al cospetto del (brutto) monumento funebre del Bardo nella chiesa di Stratford-upon-Avon
Il 23 aprile William Shakespeare nasce, il 23 aprile William Shakespeare muore. Quel giorno è l’apice della letteratura in lingua inglese e, in fondo, della letteratura occidentale moderna. Secondo Harold Bloom, infatti, William Shakespeare è il dio del canone occidentale: Dante è alla sua destra e Cervantes alla sua sinistra.
*
Shakespeare, voglio dire, al netto delle sue influenze italiane – interessanti ma irrilevanti riguardo agli esiti – è ‘cosa nostra’. I nostri poeti si sono spremuti e sperimentati in Shakespeare. Esempi. L’Otello secondo Salvatore Quasimodo; Amleto secondo Eugenio Montale – traduttore, invero, così così –; Riccardo II secondo Mario Luzi – traduttore d’eccellenza –; Riccardo III secondo Patrizia Valduga; i sonetti secondo Ungaretti. Fossi un editore, affiderei, dramma per dramma, l’intero corpus shakespeariano ai poeti di oggi. Che meraviglia.
*
Henry Wallis, “Gerard Johnson scolpisce il busto di William Shakespeare”, 1857
Il 23 aprile gli inglesi fanno una gita a Stratford-upon-Avon, presso la Holy Trinity Church. La chiesa, edificata nel 1210, ricostruita nel tardo XV secolo in gotico sassone, contiene il sepolcro del Bardo che nella chiesa, ricordano con lauto godimento turistico – e hanno ragione – è stato battezzato il 26 aprile del 1564 e vi fu sepolto il 25 aprile del 1616. Il monumento che tutela le sacre spoglie – con avviso sopra il sepolcro: “sia dannato chi osa derubare queste ossa” – è stato creato prima del 1623 da Gerard Johnson, scultore di schiatta olandese – il papà era venuto da Amsterdam al servizio di elisabettiani e di giacobiani, esperto in arte funeraria – di cui si ricorda poco altro che questa creazione, che, secondo l’aforisma vipera di John Dover Wilson, raffigura, tanto è brutta, “un macellaio di maiali soddisfatto di sé”. Tuttavia, la sua commissione fu così importante per la patria che Henry Wallis, pittore preraffaellita, la eternò in un quadro grazioso quanto oleografico, Gerard Johnson carving Shakespeare’s funerary monument.
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Sono affascinanti, come sempre, questi cunei d’ombra, il climax dell’enigma. Di William Shakespeare sappiamo quasi nulla, potrebbe essere il vicino di casa; si dubita perfino dei ritratti che gli hanno fatto; il busto funebre è quello di un borghese qualsiasi, ingrassato grazie a una attività commerciale di blando successo. Avesse avuto un Michelangelo: piuttosto, a onorare il Bardo dopo morto è un oscuro mestierante di ascendenze olandesi. Quasi che umiltà e insignificanza detergessero il genio, conservandolo. Shakespeare, l’uomo che ha tradotto il cosmo nel palmo di una mano, che ha svuotato i cieli degli dèi, che ha fatto della follia un fatto e dello smarrimento un carisma, che ha saputo scrivere il cuore dell’uomo e il centro del cosmo, inventando sentimenti prima implausibili, è davvero quel tipo biecamente bolso, con baffetti all’insù e pizzetto facile, calvizie incipiente, non fosse per i ciuffi ai lati della pelata? Pare più un notaio, quello, che il poeta più alto del mondo occidentale.
*
Intorno al monumento funebre di Shakespeare ha scritto un pensiero, sul Times Literary Supplement, in questi giorni di festa, Gregory Doran, regista, appunto, esperto nel menù shakespeariano e direttore artistico della Royal Shakespeare Company. Il pezzo s’intitola An altar in the name of… e specula intorno al fatal monumento e alle vetrate, precedenti, che lo circondano. Le vetrate alle spalle del monumento shakespeariano raffigurano – e questo un poco fa tremare la ragionevolezza teologica di Doran – l’episodio, narrato nel primo libro dei Re, in cui il profeta Elia, sul Carmelo, sbaraglia i sacerdoti di Baal, dimostra che il vero dio è Lui, e ne sgozza 450 (“Elia disse loro: «Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!». Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò”, 1 Re 18, 40). Una interpretazione programmaticamente metaforica direbbe: come Elia, Shakespeare ha sbaragliato la concorrenza, ha sbaragliato i competitori. Doran offre, invece, una spiegazione intrisa di humor inglese. La citazione biblica “Con le pietre eresse un altare al Signore” (1 Re 18, 32), incisa sulla vetrata, viene sfalsata dal monumento funebre di Shakespeare, tanto che “ad ogni pellegrino letterato che si avvicina, il messaggio in evidenza è diverso, è questo: ‘Con le pietre eresse un altare a… William Shakespeare”. Briosa conclusione: “Si tratta di sovversione alle autorità ecclesiastiche? Oppure è una barzelletta postuma, intesa a stuzzicare i vescovi, consapevoli dell’incipiente successo, in termini di visitatori e di denari, della Holy Trinity Church?”. Diciamo che Shakespeare è il dio della letteratura, e non spingiamoci oltre. Tanti auguri. (d.b.)
L'articolo 23 aprile: il giorno in cui nasce (e muore) William Shakespeare. Gita al cospetto del (brutto) monumento funebre del Bardo nella chiesa di Stratford-upon-Avon proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2IXHG95
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gabrielwolfus · 5 years ago
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Oggi per la mia rubrica librosa settimanale vi parlerò di un romanzo molto speciale. Si tratta di “Shogun”: scritto da James Clavell nel 1975 è rimasto per anni nella classifica dei bestsellers a livello mondiale arrivando solo nel 1990 a vendere 15 milioni di copie. Il successo che dura tutt’ora di questo romanzo è dovuto ad un semplice fattore: è un capolavoro. Prima di proseguire nell’analisi del romanzo ci tengo a fare una precisazione. Capolavoro è un termine piuttosto abusato che, a monte dell’origine semantica medioevale, indica un’opera che non perde nulla della sua bellezza e carisma e fascino nonostante il passaggio degli anni indipendentemente del contesto culturale in cui viene goduta. Questo è particolarmente vero in letteratura se si pensa alle opere di Shakespeare che vengono rappresentate tanto nel tradizionale teatro Kabuki giapponese che prese a modello per le commedie americane ( come nel film con Channing Tatum tratto da “La Dodicesima Notte” ) e questo splendido romanzo non fa assolutamente eccezione. La storia si svolge nel XVII secolo in Giappone durante la lotta per lo Shogunato, da cui il titolo, ed inizia quando una nave olandese naufraga sulle sue coste e l’equipaggio viene preso prigioniero. Il protagonista è un inglese, John Blackthorne il pilota della nave, che si ritrova immerso in una cultura del tutto differente dalla sua di cui a poco a poco impara ad apprezzare il rigore e la raffinatezza. Clavell è un vero maestro nel dipingere un affresco grandioso dai tratti epici, ma non mancano persino i momenti esilaranti dovuti al confronto delle culture occidentale ed orientale, donandoci una storia indimenticabile fitta di personaggi che restano nel cuore e nella mente grazie anche ad una minuziosa ma mai pedante descrizione degli ambienti, delle tradizioni e dello stile di vita giapponese dell’epoca. Non manca anche un’appassionata e stupenda storia d’amore fra il protagonista ed una donna samurai forte, coraggiosa, bellissima e tormentata. È un libro intenso, da assaporare lentamente e poi rileggere, e poi rileggere e poi rileggere ancora perché ad ogni nuova lettura si scoprono sorprese e sfumature che sfuggono alle prime #shogun https://www.instagram.com/p/CAC5lzTH9Dx/?igshid=17hzmvwxxb9s2
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