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#Così non essere legati ad un contesto
multiverseofseries · 6 months
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Fabbricante di lacrime: un film che dire brutto è poco.
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Cinici, darkettoni, detrattori del romanticismo e chi di voi un minimo s’intende di cinema, state lontani dal Fabbricante di lacrime, l’adattamento del best seller di Erin Doom su Netflix dal 4 aprile, perché probabilmente lo giudicherete ridicolo. Romanticoni e fanatici di fanfiction: lo troverete poetico ed emozionante. Non posso fare un diretto paragone con il libro originale perché, ça va sans dire, non lo ho letto (ma grazie al cielo esiste internet). Tuttavia, rintracciando la storia editoriale, non posso non citare l'assoluto successo ottenuto: Fabbricante di lacrime (edito da Salani) nel 2022 ha venduto mezzo milione di copie, imponendosi come il romanzo più venduto in Italia (!). Un Traguardo clamoroso, se si pensa che l'autrice, Erin Doom (nome d'arte e viso avvolto nel mistero, almeno fino al 2023, quando si è rivelata), si sia inizialmente auto-pubblicata, prima di venir "scoperta" da Salani. Il grande successo di Fabbricante di lacrime, secondo ciò che ho potuto rintracciare in rete, proviene dal passa parola, capace di viaggiare velocissimo su TikTok (e dove altrimenti?) tra i giovanissimi. Detto questo, e visti i numeri, ecco subito l'aggancio cinematografico: perché non farne un film? Detto fatto, ecco arrivare su Netflix l'adattamento diretto da Alessandro Genovesi e scritto insieme ad Eleonora Fiorini.
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Fabbricante di lacrime: Caterina Ferioli durante una scena del film
Un adattamento che si lega al filone anglosassone del classico young-adult-drama-gotico-romantico però rivisto in chiave italiana (con un altro però: l'epoca di Twilight è sfortunatamente lontana). Un bel cortocircuito, in quanto la cornice di Fabbricante di lacrime è appunto quella tipica del Nord America (così viene immaginata da Erin Doom) con tanto di High School e nomi anglofoni. Se la letteratura non ha confini (perché è l'immaginazione a non averne), la forma filmica, invece, si scontra inevitabilmente con alcuni pre-concetti legati alla realtà (e al budget…). Soggetto, copione, regia, interpreti. In questo senso Fabbricante di lacrime finisce per scricchiolare notevolmente sotto una costante enfatizzazione della scena, delle performance e della storia, risultando eccessivamente iperbolico anche rispetto al contesto teen/young di cui fa lecitamente parte.
Fabbricante di lacrime, la trama: l'amore tra Nica e Rigel
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Fabbricante di lacrime: Simone Baldassari (Rigel) in una scena del film
Ora, la trama: Fabbricante di lacrime ha per protagonista Nica (come la nica flavilla, farfallina arancione delle foreste pluviali), che fin da piccola è cresciuta nell'orfanotrofio Grave. In queste antiche mura, rigide, fredde, austere, Nica si è lasciata andare all'empatia (ama gli animali), nonostante le venga ripetuto quanto siano le regole le uniche cose importanti della vita. Dall'altra parte, all'interno del Grave, aleggia la leggenda del Fabbricante di Lacrime. Chi è? Una misterioso individuo che pare aver modellato la paura, avvicinandola ai sentimenti umani. Quella che sembra una favola, però, influenza tanto Nica quanto le altre ragazze dell'orfanotrofio. Almeno fin quando Nica viene adottata ad un passo della maggiore età( un miracolo della burocrazia).
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Fabbricante di lacrime: una scena del film
Non sarà la sola, perché la famiglia che la ospita sceglie anche Rigel (come la stella beta della costellazione di Orione, non come il papà svitato di Venusia in Goldrake), tenebroso e fascinoso ragazzo (cliché a più non posso!) con cui Nica pare non aver nulla in comune. Figuriamoci una possibile convivenza famigliare. Però poi i loro sentimenti contrapposti finiranno per scontrarsi e, generando una tempesta (sì, c'è anche la solita scena sotto la pioggia), capiranno di essere parte integrante di un disegno passionale e rivelatorio.
Uno young adult eccessivamente caricato
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Fabbricante di lacrime: Caterina Ferioli in una scena del film
Ma a chi parla, Fabbricante di lacrime? Un dettaglio non da poco: senza dubbio si rivolge a chi ben conosce il romanzo di Erin Doom, tramutando in carne ed ossa l'amore travagliato tra Nica e Rigel (un amore derivativo, e lastricato dagli stessi cliché). Quindi, un panorama ben idealizzato dalla produzione, e chiaramente conscio del materiale originale. Ma se (teoricamente) c'è una comunicazione con i fan del libro, dall'altra parte l'intero approccio filmico risulta ben poco fluido oltre che approssimato, costruendo un climax mai davvero tormentato, e anzi frutto di una continua sottolineatura: dialoghi forzati, scambi esagerati (quasi da aforismi).Per tutta la durata del film si susseguono citazioni esilaranti (o struggenti, a seconda del punto di vista) dalla fonte letteraria come “Il suo fascino velenoso era infestante”, “Io e lui eterni e inscindibili. Lui stella io cielo”, “Noi siamo rotti, siamo scheggiati. Certe cose non si possono riparare”, “È vero, ma forse ci siamo spaccati in mille pezzi solo per incastrarci meglio”.
Una ridondanza tanto nell'estetica quanto nelle interpretazioni di Caterina Ferioli, indecisa tra canalizzare Kristen Stewart o Kaya Scodelario, e in particolare di Simone Baldasseroni, lui perennemente costipato, caricano eccessivamente ogni parola del copione, lontani dalla fluidità che richiederebbe una messa in scena filmica risultando involontariamente ridicoli ma visto il materiale a disposizione difficile non esserlo. ridondante è anche il costante e incessante accompagnamento musicale, sia originale che non, che ammicca senza mai essere veramente ammalgamata all'interno della storia (si va da George Ezra ad Olivia Rodrigo e Billie Eilish, senza una naturale continuità).
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Fabbricante di lacrime: Simone Baldassari, Caterina Ferioli in un'immagine
Più in generale, sia nel tono che nell'umore questo adattamento sembra essere la diretta traduzione delle pagine del romanzo, senza la sacrosanta re-interpretazione frutto del miglior adattamento possibile. Non faccio paragoni con le pagine di Erin Doom, tuttavia il discorso su Fabbricante di lacrime si può allargare ad un altro paragone: le piattaforme streaming, per i titoli originali, non sfidano quasi più il grande schermo, ma si affiancano alle produzioni del piccolo schermo, offrendo al pubblico lo stesso modus operandi tipico della televisione generalista: prodotto, prodotto, prodotto. E Fabbricante di lacrime ne è un altro lampante (e poco riuscito) esempio.
In conclusione Fabbricante di lacrime è un adattamento che cerca di ricalcare il grande successo del romanzo, finendo però a sfiorare i toni meno riusciti del teen-movie dagli umori gotici e tormentati. Dialoghi esagerati e svolte approssimative poco aiutano, così come la performance altalenante del cast. In questo senso, il film è un ulteriore esempio di quanto alcune produzione streaming puntino a competere con la tv generalista più che con il grande schermo.
Perché ci piace 👍🏻
Cosa non va 👎🏻
Chiaramente troppo ambizioso.
Risulta estremamente sconnesso.
La regia, mai incisiva.
I dialoghi, incredibilmente, ridicoli, enfatizzati e calcati da un cast non del tutto convincente.
P.S: rivoglio indietro i miei 105 minuti di vita persi a guardare questa treshata.
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abigaillefay · 19 days
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Guida completa al World Building: dall’ideazione alla realizzazione
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Chi scrive fantasy e sci-fi avrà sicuramente sentito parlare di World Bulding, ma per i neofiti è meglio partire dalle basi: cos'è il World Building?
È l’arte di creare mondi immaginari dettagliati e coerenti all’interno di una storia. Non si tratta soltanto di costruire delle ambientazioni, ma di dare vita a un vero e proprio universo: culture, sistemi politici, geografia, religioni, tecnologia e molto altro. Questo processo permette di arricchire la narrazione e di coinvolgere maggiormente il lettore, immergendolo in un mondo unico e vibrante. Che si stia scrivendo un fantasy epico, un romanzo di fantascienza o anche una storia ambientata nel nostro mondo, il world building è uno strumento essenziale per dare profondità e credibilità alla narrazione.
Perché è importante lavorare ad un World Building? Il world building è cruciale perché offre coerenza alla scrittura, fungendo da fondamenta solide su cui costruire l’intera storia. Senza una base ben strutturata, la narrazione rischierebbe di crollare sotto il peso delle incongruenze narrative. Grazie a una pianificazione accurata, non sarà necessario fermarsi continuamente per fare ricerche durante la scrittura, risparmiando tempo e mantenendo il ritmo creativo. Senza un solido world building, si rischia di compromettere l’intera narrazione e di bloccare il processo creativo.
Per quali generi serve un World Building? Siamo abituati a pensare che il world building sia una prerogativa del fantasy e della fantascienza; in realtà è utile per qualsiasi genere! Anche in un romanzo storico o in un giallo ambientato in una città reale è fondamentale costruire un mondo che sia credibile e ben dettagliato. Il world building aiuta a immergere il lettore nella storia, indipendentemente dal genere narrativo. Perciò è bene non limitarsi a pensare al world building solo quando si sta creando mondi fantastici: è uno strumento potente che può arricchire qualsiasi tipo di narrazione.
Fantasy vs Sci-Fi: differenze di approccio al World Building Il world building nei generi fantasy e sci-fi richiede approcci diversi a causa delle loro nature e origini differenti. Nel fantasy consiglio di adottare un processo di "trasmutazione", cioè la trasformazione/trasmutazione di elementi reali in qualcosa di nuovo e fantastico, adattandoli al contesto. Ad esempio, una città medievale potrebbe essere trasformata in una capitale magica con elementi legati al reale, mescolati a elementi tipici del mondo che si sta creando. Questo tipo di approccio consente una grande libertà creativa, ma richiede coerenza interna per mantenere l’immersione del lettore. Nel sci-fi invece il world building si deve basare su una solida conoscenza scientifica. Consiglio di partire dalle attuali conoscenze di astrofisica, biologia e altre discipline, immaginando evoluzioni plausibili, ma che siano realistiche (meglio evitare di violare le leggi della fisica, perché potrebbero compromettere la credibilità del racconto). Ad esempio, se si sta creando un sistema stellare, bisogna tener conto delle leggi dell'astrofisica, rendendo le ambientazioni non solo affascinanti, ma anche credibili. Questo approccio richiede un equilibrio tra immaginazione e realismo, per mantenere il mondo plausibile anche se ambientato in un futuro lontano o in un angolo remoto dell’universo.
Da dove cominciare? Iniziare con il world building può sembrare scoraggiante, ma il segreto è partire con una scaletta. Annotare tutte le informazioni che si pensa serviranno durante la stesura del tuo libro. Questo include elementi come geografia, storia, cultura, tecnologia, razze (elemento rilevante sia per il fantasy che per il sci-fi), sistemi energetici, sistemi magici e così via. Prendere ispirazione da libri già pubblicati è un ottimo modo per capire come impostare il mondo creato. Importante è non lasciarti intimidire dalla complessità del processo.
L'importanza della ricerca nel World Building La ricerca è fondamentale per un world building efficace, sia che si stia lavorando su un fantasy, sia su una storia di fantascienza. Non bisogna esitare a farsi domande, anche su aspetti apparentemente banali: come si vestono i personaggi? Cosa mangiano? Com’era la vita quotidiana nel periodo storico o nell'ambientazione che è stata scelta come ispirazione? La ricerca aiuta a creare un mondo credibile e ricco di dettagli. È possibile scoprire di aver raccolto più informazioni del necessario, ma è meglio avere troppi dettagli che troppo pochi. Un mondo ben costruito è il risultato di una ricerca approfondita e accurata, capace di dare vita a un universo narrativo convincente e immersivo.
In conclusione il world building è una parte essenziale della scrittura che, se affrontata con cura e attenzione, può trasformare una buona storia in un’esperienza indimenticabile per il lettore.
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scenariopubblico · 7 months
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L’ULTIMA VETTA
“Sali” “Ce la puoi fare” “Non pensare, agisci” “Ancora un ultimo sforzo”.
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White Out di Piergiorgio Milano ph. Andrea Macchia
Herve Bermasse è un alpinista italiano, ultimo discendente di una dinastia di “montanari” professionisti. Ha fatto della montagna la sua vita, dopo essersene perdutamente innamorato a seguito della sua prima scalata da professionista nel Cervino nel 2000. Ottomila metri sono stati la sfida che nel 2017 ha tentato, accompagnato dal tedesco David Gottler: la scalata impossibile dello Shisha Pangma in Tibet. Partiti insieme dalla valle del monte nelle prime ore del mattino, i due sono riusciti ad arrivare a tre metri dalla vetta, per poi scendere in circa tredici ore, compiendo un record fino a quel momento impensabile. Bermasse e Gottler hanno scritto una nuova pagina di storia dell’alpinismo che, nonostante tutto, ha un sapore leggermente amaro a causa di quei pochi passi che li hanno separati dalla vetta.
«Ci siamo detti “fermiamoci qui”. A ogni passo il manto nevoso su cui procedevamo era tutto uno scricchiolio. Rumori profondi di assestamento. Pochi passi che indicano vita o morte, a seconda della decisione. Parrebbe inutile sottolinearlo per molti, ma noi vogliamo dirlo, ci siamo fermati a 2 o 3 metri dalla vetta per poter tornare giù, per vivere». (La Stampa, 2017)
È un realismo conscio quello dell’alpinista. Consapevole dei possibili rischi, ha scelto di sopravvivere.
«Quando sei a casa e ti alleni per realizzare un sogno è molto facile. È quando il sogno ti si presenta alto più di duemila metri sopra di te e parti per realizzarlo con 25 metri di corda e poco materiale che pensi sia irrealizzabile».
«E così ammetto di aver avuto paura di non essere in grado di realizzare il sogno. Sovrastato dalla grande montagna mi sentivo piccolo, piccolo. Poi il primo passo, quindi un altro, la testa si svuota dai pensieri pesanti e inizi a salire. Ma finita la parete, quando siamo arrivati sul plateau finale che porta alle gobbe e alla cresta di vetta e sprofondavamo fino al ginocchio, le nostre chance erano pochissime. E i dubbi sono tornati. Eravamo soli su tutta la montagna che si presentava in modo differente, cambiata per il terremoto di tre anni fa. E da allora non è stata più salita».
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Foto tratta dall'intervista a cura di Planet Mountain su scarpa.com
La ricerca della vetta può diventare una vera e propria dipendenza, un pensiero fisso che porta ad assumersi rischi spesso non calcolabili a causa, ad esempio, delle condizioni meteo facilmente mutabili. Così, l’alpinista rischia la vita per qualcosa di apparentemente inutile, ma lo fa perché altrimenti non avrebbe senso vivere. Certamente prendere una decisione sbagliata in quel contesto (come avviene in similitudine anche nella vita) potrebbe innescare una serie di eventi nefasti, un “effetto farfalla” capace di portare nei casi più estremi anche alla morte.
Pensiamo a Battista Bonali, ritenuto da molti l’alpinista italiano più celebre degli anni Ottanta e Novanta. Nel 1993 perse la vita sulla parete nord dell’Huascaràn, a duecento metri dalla vetta, travolto da una scarica di ghiaccio e rocce, mentre insieme all’amico Giandomenico Ducoli cercava di ripercorrere la via Casarotto. Ai due è stato dedicato un rifugio, in omaggio alle imprese da loro compiute, che è divenuto per gli alpinisti simbolo di coraggio e amicizia.
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Rifugio Torsoleto Battistino Bonali e Giandomenico Ducoli foto di G.Cemmi
I due alpinisti erano legati da una fortissima amicizia nutrita da profondi sentimenti di rispetto ed empatia coltivati anche grazie alla condivisione di esperienze – come possiamo immaginare – estremamente forti. In situazioni d’emergenza la paura della morte rende completamente nudi. Forse è anche questo aspetto di sfida che appassiona chi pratica l’alpinismo. Guardare in faccia la morte e sbeffeggiarla, rimanendo consapevoli che ogni momento potrebbe essere l’ultimo anche soltanto per un piccolo passo errato.
Con queste parole viene ricordato Bonali:
«Grazie montagna per avermi dato lezioni di vita, perché faticando ho appreso a gustare il riposo, perché sudando ho imparato ad apprezzare un sorso d’acqua fresca, perché stanco mi sono fermato e ho potuto ammirare la meraviglia di un fiore, la libertà di un volo d’uccello, respirare il profumo della semplicità, perché solo immerso nel tuo silenzio, mi sono visto allo specchio e spaventato ho ammesso il mio bisogno di verità e amore, perché soffrendo ho assaporato la gioia della vetta percependo che le cose vere, quelle che portano alla felicità, si ottengono solo con la fatica. E chi non sa soffrire, mai potrà capire». O. Forno, Battistino Bonali: grazie montagna, Cuneo, Mountain Promotion, 2003.
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White Out di Piergiorgio Milano ph. Andrea Macchia
Nello spettacolo White Out affiora questo concetto di forte amicizia. Soprattutto all’inizio quando un alpinista-performer trascina ostinatamente con sé anche i corpi dei due amici ormai defunti, nonostante le sue evidenti difficoltà. La presa di cura dell’altro non esiste solo nell’amicizia ma può essere un tratto distintivo generale di una persona. Secondo l’antropologa Margaret Mead la nascita della civiltà è ravvisabile in quel momento in cui i membri di una comunità iniziano a prendersi cura l’uno dell’altro.
Mingma Gelje, il più giovane ad aver scalato il K2 in inverno, ne è una dimostrazione. Aveva iniziato a scalare le montagne per passione, per poi diventare uno scalatore professionista oltre che una guida alpina. Il suo nome ormai, nel mondo dell’alpinismo in particolare, viene molto ricordato per le sue varie imprese di soccorso.
Ma più che per i suoi soccorsi “all’ordine del giorno” vi è stato un salvataggio in particolare che ha richiamato anche l’attenzione del New York Times.
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La vicenda, avvenuta un anno fa, riguarda il salvataggio di un uomo che si trovava nella “Zona della morte” sull’Everest. L’impresa venne definita un “miracolo” persino dai funzionari del Dipartimento del Turismo, perché è quasi impossibile essere salvati in quella zona. Gelje, nonostante non conoscesse quell’uomo, è stato disposto a trasportarlo sulle sue spalle per più di sei ore, caricandosi – tra peso effettivo del corpo, vestiti e attrezzatura dell’uomo – più di cento chili. Alternandosi ogni tre ore con un suo compagno, insieme non lo lasciarono indietro. Non lo lasciarono morire. Erano quasi giunti alla vetta, ma sono tornati giù per aiutare. Se ci soffermiamo a pensarci non è per niente scontato. E infatti, come ha dichiarato è stata l’impresa più difficile mai compiuta.
Purtroppo, la montagna non è un gioco e per fortuna nella maggior parte dei casi fra gli alpinisti vi è molta coesione. Ma è un attimo, un passo sbagliato, un cambiamento climatico, una perdita di equilibrio... ed ecco che
 “Sali”
“Ce la puoi fare”
“Non pensare, agisci”
“Ancora un ultimo sforzo”
Si trasformano in..
“Non sono riuscito a salvarlo”.
Dopo la visione dello spettacolo White out di Piergiorgio Milano ci siamo trovati a riflettere su quali pensieri potessero passare per la mente di un uomo disperso nell’immensità di un monte innevato. Solo, infreddolito, tremante e privo di ogni speranza di sopravvivere. Chiunque avrebbe pensato di arrendersi e abbracciare la morte. La verità però, pensiamo, sia che nei momenti più bui l’essere umano si tramuti e anche se ormai disilluso rispetto alla vita, cerchi disperatamente di aggrapparsene assaporando ogni istante come fosse l’ultimo, e così forse riesce a sopravvivere.
Di: Donato Gabriele Cassone Laura Raneri
Questo articolo fa parte della rubrica:
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vorticimagazine · 11 months
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Storie di ragazze che non volevano essere belle
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Scegliamo di parlarvi di una guerra invisibile. Si tratta di una guerra interiore, umana, con il proprio corpo. Due psichiatri da sempre attenti all’aspetto umano della psichiatria e della medicina, Ugo Zamburru e Angela Spalatro, hanno analizzato i disturbi del comportamento alimentare, raccontati attraverso le testimonianze di giovani donne che ne sono uscite. Si tratta di un'analisi accurata.
Storie di ragazze che non volevano essere belle (Edizioni Gruppo Abele), questo è il titolo del libro, focalizzato sui disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (chiamati inizialmente DCA, “disturbi dei comportamenti alimentari”, sigla che poi è rimasta), che sono malattie psichiatriche complesse, caratterizzate da pensieri patologici e ossessivi legati all’immagine corporea e al cibo.
Questi pensieri alterano in modo significativo e disfunzionale il comportamento alimentare delle persone, mettendo a rischio la loro salute e, se non trattati, possono essere fatali. In Italia soffrono di disturbi alimentari circa 3 milioni di persone e il numero dei nuovi casi ogni anno si aggira attorno ai 30.000 soggetti. Tali numeri sono in tutta evidenza impressionanti. “Per noi occorre sostituire ai numeri, che sono freddi, le storie delle persone. E lo facciamo per una ragione precisa: i disturbi alimentari hanno il loro nodo nella complicata gestione delle emozioni, e le storie delle persone altro non sono che la casa delle loro emozioni” Queste sono le parole degli psichiatri Ugo Zamburru e Angela Spalatro, nell'introduzione del libro. Il saggio esplora in profondità la vita delle persone, attraverso dodici testimonianze, vere e drammatiche, di donne che hanno vinto la loro battaglia contro i disturbi dell’alimentazione. Il punto di vista è interno – le ragazze che raccontano sé stesse e le loro storie – ma anche esterno, con il commento di due psichiatri che da sempre hanno fatto propria l’eredità di Franco Basaglia: la relazione di cura non è solo l’incontro di due biologie, ma di due universi, sfaccettati e diversificati. Bisogna incontrare le persone che i sintomi nascondono: solo così si può instaurare una relazione che sia pienamente trasformativa. Il libro "Storie di ragazze che non volevano essere belle" è strutturato in tre parti Nella prima parte, “Percorsi di ricerca di senso: le storie” le testimonianze raccolte e commentate da Ugo Zamburru e Angela Spalatro trascinano il lettore nella vita delle ragazze e del loro contesto sociale e familiare. Solo incontrando una persona e la sua storia si può aprire uno squarcio di consapevolezza: “Abbiamo anche la speranza di coinvolgervi perché nessun problema può essere delegato unicamente agli specialisti”. La seconda parte, “Piccolo sguardo sui disturbi”, racchiude un breve compendio sugli aspetti chiave utili a comprendere il fenomeno dei DCA e il ruolo di scuola, famiglie e società nella loro prevenzione. L’ultima parte, intitolata “A chi rivolgersi”, è invece una raccolta di risorse utili per orientarsi su cosa fare in caso di disturbi dell’alimentazione: dove andare, quali professionisti contattare e a quali associazioni e realtà chiedere aiuto. Storie di ragazze che non volevano essere belle è un libro che illumina, fa chiarezza e fornisce strumenti per capire una piccola, piccola parte dell'immenso caleidoscopio che è la persona. La scheda completa di Google Libri: infografica completa, book & e-book shop... Gli autori
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Angela Spalatro è psichiatra e PhD in Neuroscienze. Lavora in ambito comunitario, dove oggi sperimenta in prima persona la ricerca intesa come reciprocità nella relazione con le persone portatrici di sofferenza psichica.
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Ugo Zamburru è psichiatra e già presidente di Arci Torino. Inventore e animatore per oltre dieci anni del Caffè Basaglia di Torino. Per Edizioni Gruppo Abele ha scritto, ancora insieme ad Angela Spalatro, Piccolo manuale di sopravvivenza in psichiatria (2021). Licenza di copertina: da 51581 da PixabayLinks di approfondimento: Accedi alla rubrica Libri Consigliati di Vortici Magazine Read the full article
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oynesomhavet · 1 year
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𝐃𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐞𝐬𝐭𝐫𝐚𝐧𝐞𝐚.
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❛                                                        WRITING CHALLENGE                                                     Marzo                                                                                                                            ❜
Day 1. — Scrivi e racconta la tua personalità come se stessi parlando da un punto di vista esterno, quindi in terza persona. — from sticky note Non s'era mai conformata all'idea stessa d'essere come gli altri, a partire da primi passi compiuti si capiva. Erianthe, suo padre amava quel nome gli era rimasto impresso dal viaggio fatto con la moglie, aveva adorato i templi, la cultura annessa e da quando l'aveva sentito s'era innamorato di quel suono esotico, che poi non era mai riuscito a replicarlo come dovuto. Era strana lei fra le vie di Bergen con un nome che non aveva nulla a che fare con quei suoni, non c'erano nomi legati a divinità ne nomi comuni, che poi di comune non avesse neppure l'animo quello si sarebbe scoperto poi. Era silenziosa come ben poche cose, da neonata, anche in questo contesto totalmente fuori dal comune, non la si sentiva piangere lei, no, ogni tanto sua madre doveva controllarla per accertarsi fosse viva ed anche quando piangeva aveva quel suo strano modo di piangere, spalancando la bocca in una smorfia, gli occhi pieni di gocce, lucidi di affronto, ma nessun suono così esasperante riusciva ad uscire da quella bocca. Era proprio nel suo mondo. Un mondo che riuscì a trascinarsi dietro lungo il suo cammino, aveva strane voglie lei per essere una bambina, non chiedeva ne pretendeva mai nulla, giocava con le pinze per il bucato e l'erba, non voleva bambole, chiedeva di andare a vedere i falchi delle montagne. Ogni tanto diceva: "papà andiamo a tuffi" oppure "mamma io cucina io cucina". Ma che fosse esageratamente estranea a tutte le norme questo col tempo divenne quasi una certezza, conformarsi proprio non era per lei, era come un universo a parte, fatto di una consistenza diversa, fatto di un mondo tutto suo, sconfinato ed infinito.
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lamilanomagazine · 1 year
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Il Governo pone la fiducia alla Camera sul decreto P.A
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Il Governo pone la fiducia alla Camera sul decreto P.A Il governo pone la fiducia alla Camera, tra le proteste dell'opposizione ma soprattutto dei magistrati contabili, sul decreto P.a. che contiene la stretta sui controlli della Corte dei Conti sulle spese del Pnrr e la proroga dello scudo erariale. La linea dell'esecutivo, ribadita dalla premier, resta comunque quella di non arretrare: nessun bavaglio - puntualizza - ma norme che erano già state messe in pista da governi precedenti. I giudici, però, ribadiscono nettamente la propria contrarietà dopo un'assemblea straordinaria convocata, su richiesta della base, proprio in concomitanza con l'approdo in Aula del provvedimento. "Non sono in gioco le funzioni della magistratura contabile ma la tutela dei cittadini", è l'allarme lanciato dalla Corte. "La conferma dello scudo erariale - mettono nero su bianco in una nota i magistrati - in assenza del contesto di emergenza pandemica nel quale è nato, impedisce di perseguire i responsabili e di recuperare le risorse distratte, facendo sì che il danno resti a carico della collettività. Al contempo, l'abolizione di controlli in itinere, su attività specificamente volte al rilancio dell'economia, significa indebolire i presidi di legalità, regolarità e correttezza dell'azione amministrativa". Con la fiducia su questo testo - protestano intanto dall'opposizione - si mette un doppio bavaglio: ai giudici e al Parlamento. Il governo, in ogni caso, tira dritto e mette la fiducia sul provvedimento. Nel corso della mattinata di ieri,5 giugno 2023, previste le dichiarazioni di voto in diretta tv a partire dalle ore 12.30. Nel mentre il centrosinistra prepara battaglia e proverà a farsi sentire anche con gli interventi e gli ordini del giorno che si preannunciano numerosi tanto che non è escluso che si possa arrivare a una seduta fiume. "E' un governo - accusa il leader di M5s Giuseppe Conte - in ritardo sull'attuazione del Pnrr, abbiamo una rata da riscuotere da Bruxelles e non la stiamo riscuotendo. E come pensano di risolvere il problema? Eliminano il controllo della Corte dei conti, che non è concepito per ritardare ma semplicemente per vigilare. Non sopportano i controlli". "Da mesi - attacca la capogruppo Dem alla Camera Chiara Braga - chiediamo chiarezza sul Pnrr, ad oggi abbiamo invece solo una governance centralizzata e paralizzata che ha fatto accumulare inutili ritardi e l'annuncio di un voto di fiducia per cancellare il ruolo di controllo della Corte dei Conti. Non c'è governo più insofferente al controllo di quello di destra". "La norma che ha messo il bavaglio alla Corte dei Conti rispetto ai controlli sul Pnrr è incostituzionale, il governo Meloni così segue il modello Orban", accusa il co-portavoce nazionale di Europa Verde Angelo Bonelli. Non mancano, però, anche i distinguo nell'opposizione con il Terzo Polo che puntualizza che non voterà la fiducia ma fa sapere di condividere la necessità di velocizzare i processi operativi legati al Pnrr: "velocizzare non esclude i controlli - dice la capogruppo in Senato Raffaella Paita - si può essere efficienti e controllare allo stesso tempo". Al più tardi mercoledì mattina, dovrebbe dunque arrivare il via libera finale della Camera al testo che poi deve passare al Senato per un esame che, nonostante i tempi per la conversione non siano strettissimi, si annuncia pressoché blindato.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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bergamorisvegliata · 2 years
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LA GIORNATA DEL BEN-ESSERE OLISTICO
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Una festa olistica? Chi l'avrebbe mai detto? Abituati alle "classiche" feste estive, anche il mondo ai più sconosciuto della medicina alternativa (o meta medicina) come i massaggi ayurvedici, i trattamenti olistici e le varie "branchie" di queste categorie sanitarie, si stanno ritagliando un loro spazio, per dei ritrovi rivolti principalmente a chi ancora crede e auspica in un futuro e in una società migliore, non basata sul profitto (chè pure nel campo sanitario non mancano i "raggiri" legalizzati) ma su un rapporto di empatia e di fiducia tra operatore e paziente.
Nello specifico, come si è svolta la giornata di domenica 19 febbraio? All'ingresso e camminando tra i vari stand, una sorta di percorso "numerico" ha facilitato la ricerca dei vari punti di trattamento, costituendo così dei validi trattamenti per gli interessati alle varie fonti di medicina alternativa.
Non sono mancate alcune novità, in effetti anche sconosciute o comunque non del tutto "esplorate" anche da alcuni di questi operatori, come la "tecnica Kobido", ovvero una tecnica di cura-massaggio-trattamento sul viso, per il collo e per il decolletè adatta sia a uomini che a donne; oppure la cromo-puntura di Giorgio Barbieri, esperto di "Qi Gong";
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Non sono mancati i momenti di assoluto relax per i trattamenti al suono delle campane tibetane o dei bagni di gong del Maestro Claudio Mangili.
Le amiche Nevy e Lori hanno (peraltro amiche dell'admin di questo blog) hanno proposto i loro trattamenti di riflessologia facciale.
Il vostro admin si è sottosto ben volentieri al massaggio shiatsu della bravissima Laura
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così come non potevano mancare le letture delle carte-tarocchi, e via via la giornata è trascorsa all'interno di un contesto di festa diversa dalle solite.
Ma in particolare, qual'è l'obiettivo e a chi sono rivolte tali iniziative?
Dalle parole di Silvana, l'organizzatrice, "Lo scopo è quello di far conoscere il mondo olistico, non come alternativa alla medicina tradizionale, ma in parallelo con essa senza abbandonare del tutto quella -appunto- conosciuta generalmente.
L'esempio è quello dell'agopuntura ancora praticata negli ospedali, la quale risale alla causa della malattia e non ne cura gli effetti.
Inoltre, come esseri spirituali, non poniamo l'aspetto economico al centro del nostro agire, bensì quello conoscitivo che ci porta a illustrare i benefici delle nostre attività, e legate al secondo aspetto l'obiettivo è anche quello di riunire gli operatori olistici del nostro territorio e far conoscere sempre di più questo mondo.
Peraltro -è sempre Silvana che illustra il suo progetto- è stato creato il gruppo:
Equo Scambi Etici Bergamo ❤️
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anche per supportare degli scambi e degli aiuti reciproci, e non solo legati all'olistico"
Ringraziando Silvana per la sua disponibilità, ricordiamo che ad Azzano San Paolo è stata organizzata la terza giornata dedicata all' "arte olistica",
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la seconda era stata fatta a Villa d'Almè, e la prima in realtà fu un primo progetto "chiuso" all'interno di questo fantastico mondo, per il quale domenica 19 febbraio è stato presentato anche un libro altrettanto fantastico, e del quale questo blog se ne occuperà brevemente e a breve, ovvero il libro di una delle prime conoscenze di "bergamorisvelgliata", ed eccolo:
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a presto e ancora grazie a Silvana e a tutto il suo staff.
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corallorosso · 4 years
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Non è vero che i poveri sono poveri perché hanno preso decisioni sbagliate (...) Se siete ancora poveri a 35 anni è perché lo meritate. Questa, almeno, è l’opinione di Jack Ma, fondatore di Alibaba (colosso cinese dell’e-commerce, ndr) e tra gli uomini più ricchi al mondo. Eppure, scrostata la narrativa dell’uomo che si è fatto da sé e da zero (tanto cara ai fermi sostenitori dell’esistenza di una meritocrazia perfetta), i dati parlano chiaro: l’ascensore sociale è piuttosto rallentato e nascere nella culla sbagliata, il più delle volte, ti condanna a morire in una tomba umile. La povertà è un fenomeno collettivo che sempre più spesso viene collocato solo sull’asse del merito e che può portare le persone ad auto-colpevolizzarsi per la propria condizione economica. Ancora troppo poco sono considerati gli aspetti psicologici e i pregiudizi sociali legati a chi nasce – e spesso rimane a vita- in un contesto sociale svantaggiato. L’effetto di questa distorsione visiva del fenomeno può essere problematico per la società e minare alla base le istituzioni democratiche. I poveri, dunque, sono poveri perché hanno preso decisioni sbagliate? (...) Chi ha meno parte in salita e non solo sul piano delle condizioni materiali. I poveri sono meno intraprendenti, percepiscono scarsa fiducia nelle proprie capacità, scarso interesse, passività e soffrono di maggiori problemi psicologici. E non perché abbiano sbagliato qualcosa nella vita, ma perché la vita per loro è semplicemente molto diversa da chi ha di più. (...) Essere poveri significa vivere con costante preoccupazione, dover prediligere la pianificazione a breve termine e non poter godere appieno delle gioie e delle soddisfazioni della vita. Nascere povero, secondo i ricercatori, significa dover pagare una tassa mentale quotidiana, che rende più difficile qualsiasi scelta e azione della propria esistenza e condanna gli individui a competere in un mondo dove i propri pari hanno il solo merito di essere dei privilegiati. Un mondo dove la disuguaglianza è del tutto accettata e nascosta nelle insidiose pieghe della psiche umana accresce il senso di inadeguatezza e, per molti, è un duro colpo all’autostima. E no, non basta mettercela tutta. (...) Una normalizzazione che drammaticamente si registra anche tra i banchi di scuola, già alle elementari. Crescere poveri espone a maggiori rischi per i bambini in fase di sviluppo psicologico, con altissimi costi per l’individuo e la società in generale. A 3 anni un bambino nato in un contesto di scarsità può accumulare un gap di sviluppo cognitivo fino a 12 mesi rispetto ad un coetaneo benestante. A 4 anni comincia ad avere coscienza della propria condizione sociale e a 6 inizia a identificare i ricchi come “più competenti”, autoconvincendosi delle proprie capacità anche in relazione allo status della propria famiglia, dimostrando così di avere assorbito gli stereotipi della società in cui vive. (...) Chi nasce povero, il più delle volte, ci resta. Chi nasce ricco o super ricco molto raramente incontra le stesse difficoltà. (...) Come diceva Zadie Smith in Swing Time, per rispondere infine alla domanda che apre questa riflessione, probabilmente la gente non è povera perché ha preso decisioni sbagliate ma prende decisioni sbagliate perché è povera. Non porre rimedio al fenomeno è una decisione politica quotidiana. Va anche detto questo. Di Alessandro Sahebi
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ilgattonero · 3 years
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Brevi recensioni di film (perché mi piace recensire cose)
Questa recensione la intitolerei "La mia polemica su come vengono rappresentati i personaggi LGBT+ e su come si parla del sesso nei film per giovani adulti"
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Trama (senza spoiler): Stella è un’adolescente impacciata, cinica, piena di immaginazione e tormentata. Si convince che i suoi anni vadano contati come quelli dei cani: uno ne vale sette, e ora che sta per compiere sedici anni, in realtà, è una centenaria. Per questa ragione, Stella crede che le rimanga poco tempo da vivere e decide di stilare una lista di tutte le cose che vuole fare prima di morire.
Dove guardarlo: Prime video
Curiosità: Primo film italiano degli Amazon studios.
Trigger warning: attacchi di panico, morte (sono solo brevi scene, è un film molto leggero in generale, però in alcuni punti potrebbe provocare ansia alle persone sensibili a questi temi)
Recensione (gli spoiler sono segnalati):
Gli scambi di battute sono brillanti, è un film molto fresco e piacevole dal punto di vista della scrittura. Si nota il tocco degli Amazon studios che ci tengono particolarmente ad inserire personaggi di varie etnie e orientamenti sessuali. Complimenti alle persone che si sono occupate dei costumi.
Veniamo al tasto dolente. (Attenzione spoiler)
L'idea degli anni da cane è originale, i primi minuti del film mi hanno fatta ben sperare, poi però è saltata fuori la lista di cose da fare prima di morire. In questa lista fra le tante cose da fare c'è "fare sesso". Ora, non dico che non avrebbe dovuto esserci, ma da lì in poi tutto il film verte su quell'obiettivo. Ricordo che la protagonista ha quindici anni e deve compierne sedici. Posso capire che ci sia una forte pressione sociale (e una certa curiosità) nei confronti del sesso, però trovo dannoso e alquanto superficiale concentrarsi quasi esclusivamente su quel punto. Sdoganare i tabù legati al sesso non significa unicamente parlarne esplicitamente e riconoscere che anche le persone giovani desiderano e fanno sesso fin da adolescenti, sdoganare i tabù legati al sesso significa anche riconoscere la pressione sociale a cui gli adolescenti e gli adulti vengono sottoposti durante tutta la vita: bisogna fare sesso, bisogna farlo entro una certa età, deve essere piacevole, deve essere qualcosa che vuoi fare, ecc. In questo contesto, con una ragazza convinta di non sopravvivere ai suoi sedici anni, abbiamo mostrato che l'unica cosa che conta nella vita è fare sesso. È l'unico obiettivo rilevante ed importante. Per di più la narrazione del tema è molto superficiale. Mi aspettavo di più dagli Amazon Studios.
Ah, e sono stanca del personaggio dell'amico gay. Sono stufa stufa stufa. Un personaggio è gay? È sicuramente maschio. È sicuramente il migliore amico della protagonista. È sempre sessualmente o romanticamente molto attivo. È sempre un personaggio molto allegro e spensierato. Si veste sempre con qualcosa di rosa o viola o una gonna. Basta. Voglio il personaggio gay triste e malinconico, che non è il migliore amico di qualcuno, che non è spumeggiante e sicuro di sé, senza un ego smisurato, senza relazioni continue a destra e a manca.
P.s. la battuta che mi ha fatto cascare le braccia che faceva più o meno così: "come mai il ricamo? Sai, perché sei un maschio...". Perché aggiungere il resto? Perché sottolineare che è inusuale che un ragazzo sappia ricamare? Era sufficiente la domanda. Mi aspetto molto dagli Amazon studios, mi aspetto che non cadano su queste leggerezze e che introducano nuovi modelli di personaggi. Non i soliti modelli copiati con lo stampino. Non bisogna mai dimenticare che i film hanno un impatto forte sulla cultura e sulle persone.
(fine spoiler)
Sembra che io abbia demolito il film, ma consiglio di guardarlo.
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vlltlttrr · 3 years
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Il gigante sepolto
Di alcuni libri rimane la trama, di altri qualche scena particolarmente suggestiva, altri ancora lasciano un’idea. Il gigante sepolto per me ricade nella terza categoria, non perché la trama sia dimenticabile, o perché non vi siano scene memorabili, al contrario le ho trovate inaspettate e affascinanti, ma le riflessioni che Ishiguro suscita con questo libro per me vanno ben oltre.
Il romanzo è ambientato in un’Inghilterra medievale al limite tra il fantasy e il romanzo cavalleresco, è infatti morto da pochi anni il leggendario Re Artù e i Sassoni e i Britanni vivono ancora seguendo le leggi da lui promulgate. Vi è però una strana nebbia, o almeno così la chiamano i protagonisti, che offusca i ricordi, sia lontani che recenti.
La nebbia è la vera protagonista, infatti, se è vero che la storia parla del viaggio di due anziani contadini, Axl e Beatrice, verso il villaggio del figlio, è innegabile che anche per loro la nebbia abbia un ruolo centrale, e si può dire che in un certo senso facciano di tutto per combatterla, nonostante l’assenza di vere armi a loro disposizione.
L’autore ha scelto una linea narrativa semplice, la simbologia e le metafore non sono particolarmente oscure, il che lascia molto spazio per riflettere continuando a seguire la storia. Sebbene si parli di memoria questa narrazione è incentrata sul concetto di responsabilità: se un torto non viene ricordato né da chi lo ha perpetrato né da chi lo ha subito è davvero possibile fingere che non sia mai avvenuto? I due anziani protagonisti si pongono questa domanda dal punto di vista prima di una coppia e poi di una famiglia, ma ad un certo punto del loro viaggio incontreranno altri personaggi legati alla nebbia, Wistan, il guerriero sassone, Edwin, ragazzino di un villaggio vicino, e Galvano, il cavaliere della Tavola Rotonda, nipote di Re Artù, e con essi arriveranno nuove riflessioni sulla responsabilità di interi popoli nei confronti di altri. Il fatto, che per quanto ovvio possa sembrare è tutt’altro che banale, è proprio che le conseguenze di un evento permangono anche quando esso è sbiadito nella nebbia del tempo. A livello individuale possono rimanere emozioni nei confronti di qualcuno o qualcosa, sensazioni magari difficili da spiegare ma che plasmano la personalità e la costruzione di rapporti, è però a livello di grandi numeri che la memoria diventa necessaria. Non si può parlare di pace se un popolo è soggiogato ad un altro, che sia per legge o per prassi.
A quasi due mesi dalla lettura sono sempre più affascinata da come questa idea, cancellare i ricordi per mostrare tutto quello che resta, incastonata in uno scenario fantastico che la isola da uno specifico contesto politico, divenga universale. Un libro tutto sommato leggero, in poco più di 300 pagine, offre insegnamenti di inestimabile valore che possono essere trasposti a molteplici ambiti della vita, senza voler per questo dare un giudizio morale.
Non è in questa vita che può essere espresso un giudizio sulle nostre azioni, e l’autore si guarda bene dal farlo, e semmai mostra un prototipo del viaggio interiore che ciascuno deve compiere per comprendere il proprio destino, ma anche il proprio passato.
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grossogattoteatro · 3 years
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ATTACCA IL PADRONE DOVE VUOLE L'ASINO
Con la ferma volontà di essere contro le istituzionalizzazioni, anche a costo di una costante impopolarità, iniziamo puntigliando sui termini: il teatro è teatro, non è politica. Più in generale l'arte è arte, l'intrattenimento è intrattenimento, la politica è politica. Una precisazione lapalissiana, che a mio parere rasenterebbe il ridicolo, se non si vivesse in un periodo storico in cui il pensiero logico perde mordente e lascia spazio al sogno irrazionale. Non serve spiegare che politica non è sinonimo di teatro, né viceversa, per quanto la realtà sembrerebbe suggerire l'opposto nel secondo caso. Dagli Academy Awards a molti concorsi nazionali e locali di teatro e di scrittura teatrale, i requisiti politici, tuttavia, sembrano sopravanzare quelli artistici. Il rischio a breve termine è il disinteresse del pubblico, il rischio a lungo termine è quello di combattere una guerra armati di una sogliola scongelata.
Fermiamoci a questo, per ora: se i requisiti politici sono istituzionalizzati, sono regola, in che misura possiamo considerare affidabili e sinceri gli artisti che, nella comprensibile fame di fama o almeno di un premiuccio economico o pseudoeconomico (l'offerta di una o due repliche retribuite o a sbigliettamento) metteranno insieme uno spettacolo finalizzato ad aderire ai principi stabiliti dalla corte dei miracoli del momento?
Inoltre la rapidità con cui gli argomenti di tendenza cambiano è disarmante (così come la nomenclatura considerata non offensiva), determinando la caduta rapida di validità in favore di altre esclusività, includendo nell'esclusione ciò che solo poco tempo prima era escluso dall'inclusione (non me ne vogliano gli amanti di K. Valentin per la citazione; il riferimento è al femminismo e ai suoi contrasti con nuovi temi non sempre in armonia, incampo artistico ma, ahinoi, anche accademico). La spinta a dare luce solo a specifici temi porta ineluttabilmente ad un radicalismo di idee, e i radicalismi alla limitazione della libertà di parola e di pensiero.
A scanso di scandali e di equivoci vari, preciso che chi scrive qui ha fondato dieci anni fa una compagnia che alla propria base ha stabilito principi etici, in primis legati all'ecologia (lotta agli sprechi, utilizzo di materiali riciclati, riusati e recuperati per attrezzistica, costumi e scenografie), poi alla fruibilità su larga scala dei propri prodotti artistici, non destinati esclusivamente alle elite intellettuali ed economiche (sia nel linguaggio che nel prezzo dei biglietti) e con intenti sociali e culturali avulsi da qualsiasi quadro politico o partitico.
Ciò detto, uno sguardo al macrofenomeno Academy, gli “Oscar”: applausi al miglior film, miglior regia (femmina e asiatica, urrà) per un film che parla di senzatetto. Lacrime, sguardi commossi e commessi alla causa, un film fatto per convinzione e non per gli incassi, così parrebbe dall'impegnato sguardo severo dei diretti interessati. Intanto, nella realtà, una polemica sotterrranea ha sporcato l'immagine propagandata negli intenti: un folto numero di senzatetto abitualmente stanziati nelle adiacenze della sontuosa sede sono stati forzatamente spostati “ad altre destinazioni”, come accenna un articolo del Rolling Stones, per non recare disturbo ai nobili umanisti ospiti del premio. Come dire, la teoria e la pratica debbono essere fortemente separate.
Il dubbio che l'istituzionalizzazione della sensibilità umanitaria pone riguarda la spontaneità e la sincerità dei pasionari che di questa propaganda (come altro chiamare un fenomeno diffuso e spinto dalle istituzioni, governi e sovragoverni?) si fanno ardenti profeti. C'è un tornaconto economico e pubblicitario che fa da motore a questa vibrante protesta, c'è un contesto di elevata borghesia che sostiene determinate istanze considerate di moda. C'è un defiléè di dame in abiti che saranno indossati una sola volta, uno sfarzo sfacciato che le Versailles dell'arte e dell'intrattenimento continuano a considerare irrinunciabili, auto lussuose ad alto consumo di carburante, che pur essendo comprensibilmente funzionali allo scopo economico di quella che è e non può non essere un'industria, cozzano in uno stonato contrasto con le presunte lotte da loro stessi pubblicizzate. La stampa, per lo più, non le vede per ottusa miopia, o finge di non vederle per smaccata piaggeria.
Parlare dell'Academy è ora un pretesto sull'attualità più evidente, ma lo stesso vale per fenomeni di minore impatto e risonanza. Dalla televisione ai grandi teatri che anche nela nostra Europa e in 'Italia nello specifico hanno abbracciato la stessa politica.
Il che ci porta all'altro dubbio. Può mai essere accettabile che la politica detti agli artisti l'elenco delle tematiche da trattare? Così è, ci pare. Eppure, gli esempi del passato dovrebbero portarci ad un “NO!” gridato e inorridito, ad una rivolta totale contro chi pretende che i propri artisti di corte si inchinino alla moda politica, a dare il proprio piaggio sostegno al vincitore del momento. Se nelle tristi storie dittatoriali di tutto il mondo abbiamo imparato qualcosa, noi giullari di strada, noi satireggianti liberi artisti, è che se il governo ci dice che una forma d'arte è degenerata, immorale, sbagliata, noi dobbiamo alzarci e lottare per la nostra libertà di espressione. La fama, la fame, fanno sì che questa nobile utopia, l'anarchia creativa dell'artista debba cedere e concedere al regnante vincitore il proprio tributo, scavare nei meandri della propria capacità sofistica per artefare il concetto richiesto, rigettare ogni altra istanza e attaccare l'asino dove vuole il padrone. Ma allora non siamo più artisti, siamo pubblicitari, creativi al servizio di un diktat commerciale ispirato non già a nobili muse, ma al vitello d'oro.
Prostitute della meno nobile specie, verrebbe da dire, perché un'onesta puttana vende ciò che ha chiamando le cose col proprio nome, l'artista servo è un'ipocrita che finge di non vedere i contrasti, o un utile imbecille che non ne comprende le sfumature.
I grandi nomi noti per non mordere la mano che li nutre e i numerosi artisti meno conosciuti per diventare né più né meno come quelli grandi, il teatro un tempo si divideva in istituzionale e alternativo, l'avanguardia ribelle che oggi è prona quanto quella di corte per timore di essere una (nobilissima) voce di uno che grida nel deserto. Salvo poi, entrambi, lagnare la mancata risposta del pubblico, ritenuto presto da costoro un bue che continua a pascere il prato anziché godere del fieno di plastica gentilmente offerto da chi pensa di domarlo. Abbiamo dimenticato che il nostro vero committente è il pubblico? Abbiamo dimenticato che è con adulti senzienti che parliamo, e non con bambini dell'asilo da indottrinare? L'autocompiacimento intellettuale spinge molti, troppi, a credere in una narcisistica superiorità morale e culturale, a disprezzare chiunque non si accodi al gregge addomesticato, a censurare con una cancellazione mediatica tutto ciò che non sostenga e incoraggi la dettata pratica creativa.
Abbiamo nostalgia del teatro e del cinema, noi. Ne abbiamo già da prima della pandemia. Di quelli veri, sentiti, provati, vicini a noi.
Perché quando con un atto legislativo, un bando che imbrigli le idee, un concorso che apra con particolare riferimento ad alcuni ritenuti esclusi, si finisce per escludere altri. Non sarebbe più giusto che l'arte fosse giudicata in contesto artistico e senza discriminazione politica? Non sarebbe naturale valutare le idee anziché la capacità di ognuno di aderirvi?
Passerà anche questa moda e purtroppo molti di questi artisti funamboli delle lotte in favore dei poteri pubblici o privati saranno dimenticati. Peccato, perché i posteri non potranno sentenziare.
Nota: l'articolo del Rolling Stone a cui si fa riferimento è firmato da K. Austin Collins, nell'edizione USA, con data 26 aprile 2021
si rimanda anche a tutte le voci che si sono levate per la libertà di espressione, non ultimo il comico Andrew Doyle, e infine alla decisione presa dal Russel Group teso a garantire la libertà di parola a tutti nelle università britanniche.
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academybdsm · 4 years
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Lesson 21 👑
"SPANKING"
Lo spanking (sculacciata), noto anche come spankophilia, è un gioco erotico che consiste nello sculacciare il partner allo scopo di provocare l'eccitazione sessuale di entrambe o anche di una sola delle due parti in causa.
Lo spanking è di norma considerato una delle discipline tipicamente appartenenti al BDSM (sadomasochistiche in particolare) ma non tutti i praticanti la interpretano in tal modo; per alcuni infatti tale pratica può essere considerata gratificante anche all'interno di una relazione sessuale tradizionale o addirittura al di fuori di ogni contesto di coppia, come pratica del tutto a sé stante.
La pratica della sculacciata erotica è comunemente combinata con altre forme di preliminari sessuali, quali ad esempio il sesso orale; ma può anche esser associata al bondage, al fine d'aumentar l'eccitazione ed il senso di sottomissione.
Le forme più "avanzate" di spanking, come lo swiching, paddling, belting, bastonatura, flagellazione e birching comportano invece della mano l'uso d'un attrezzo apposito.
Quando è nato lo spanking?
È da quando l'uomo ha cominciato a dipingere e raccontare, che si trovano rappresentazioni dello spanking, dagli etruschi fino ai romani.
Lo stesso Marchese de Sade, mentre era rinchiuso nel carcere della Bastiglia a fine '700, ha dedicato pagine e pagine a questa pratica, nel celebre e cruentissimo "Le 120 giornate di Sodoma", includendola nella narrazione delle passioni. Ma è solo dall'epoca vittoriana in poi che si comincia a parlare di English Vice, di vizio inglese: la flagellazione kinky del deretano, con mani, canne o fruste era una pratica molto diffusa e richiesta dai gentiluomini inglesi, soprattutto tra quelli che avevano frequentato le boarding school, in cui le punizioni corporali erano la normalità (sono state bandite solo meno di 20 anni fa).
Perché piace essere sculacciati?
Per prima cosa c'è il piacere fisico: obiettivo, tangibile, certo. Ricevere sculacciate mentre si fa sesso è piacevole. Il gesto fa affluire una buona quantità di sangue alla parte percossa, e questo aumenta automaticamente l'eccitamento, e poi permette di mettere in scena, molto blandamente e in modo immediato, un gioco di ruolo kinky ben preciso, dove chi riceve si abbandona al comando di chi sferza i colpi. E se una persona ha fantasie di questo tipo, sicuramente lo spanking è il primo gradino per metterle in atto.
Le sculacciate sono uno dei desideri sessuali femminili più comuni. Parlando di sculacciata però, quello che è altrettanto comune è la domanda che molte donne si pongono, circa il rapporto che c’è tra la sculacciata e il mondo sadomaso. E allora, le sculacciate sono una pratica che connota i rapporti di dominazione e sottomissione oppure possono entrare anche in un rapporto vanilla? E ancora, se amo essere sculacciata sono masochista? Tralasciando le tecniche per sculacciare, gli appositi accessori e tutto quanto attiene a livello per così dire teorico, sul tema dello spanking, sfatiamo un mito: la sculacciata non è l’anticamera del sadomaso. Di certo, dietro la voglia di essere sculacciate, si nascondono molti aspetti comunemente legati al BDSM come per esempio il desiderio di essere punite, la voglia di sentirsi sottomesse, l’eccitazione che scaturisce da una pratica legata al dolore, questo però, non significa essere una donna che ama essere sculacciata, alla stregua di una slave. L’atto dello sculacciare è carico di valenze che vanno anche oltre il BDSM, la sculacciata, data senza l’intenzione di provocare dolore, è un gesto giocoso, complice, legato ad una sensualità vivace e briosa, attendere una sculacciata sul sedere con le mutandine calate alle caviglie, è un eccitante situazione che permette di interpretare il ruolo di bambine indisciplinate, ricevere una sonora sculacciata fa immediatamente capire che piega prenderà la situazione. Anche quando non ci si limita a pacche giocose sul sedere, e ci si abbandona al piacere di sculacciate capaci di arrossare i glutei e provocare un dolore più o meno intenso, non possiamo dire di essere pienamente nel sadomaso. Non è solo il rapporto che lega il dolore al piacere a connotare le pratiche BDSM e per dichiararsi slave o temere di essere masochiste ci vuole ben altro che la voglia di un culetto in fiamme.
La sculacciata allora, in qualsiasi sfumatura si intenda, non è la pericolosa anticamera del sadomaso, ma un atto molto sensuale pieno di valenze e significati, capace di arricchire, anche solo in modo brioso, la sensualità.
Il consiglio? Abbandonatevi al piacere di essere sculacciate senza troppi timori e soprattutto senza troppe domande, e se per alcune donne, proprio la sculacciata o il desiderio di essa, ha permesso di scoprire e dare realizzazione ad altre voglie, questo non significa certo che diventerete tutte slave sadomaso 👑
(Tratto dal web)
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“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre fin qui sperimentate”. Così, letteralmente, Winston Churchill fissava un principio fondamentale di supremazia storica del regime democratico nel discorso rivolto alla Camera dei comuni alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1947. A questa concezione relativistica della democrazia come “male minore” si richiamano un po’ tutte le analisi e le teorie moderne, di scienza politica o persino di filosofia, ispirate alla metodologia del “realismo”: da Machiavelli a Sartori, passando per Weber e Schumpeter, si cerca di capire cosa effettivamente sia la democrazia, come funzionino concretamente i suoi processi e i suoi attori, inevitabilmente controllati e influenzati da élite e gruppi di potere in competizione fra loro.
Ma persino ai tempi della sua fondazione concettuale e pratica, “democrazia” era una parola ambigua. In quanto forma “virtuosa” di governo era chiamata piuttosto politia, qualcosa che si avvicina molto al sistema di democrazia liberale fondata sul patto costituzionale e sul principio di rappresentanza. Quando ci si voleva riferire alla forma “deviata” di democrazia, la si definiva invece olocrazia, il governo delle masse senza distinzione alcuna, secondo gli schemi più vieti del populismo.
Prima ancora di Aristotele, Platone aveva fermato un criterio inderogabile per molti altri pensatori e teorici dei sistemi di governo: la politica è un affare troppo serio e complicato perché possa essere lasciato alla cura della gente comune; il potere politico deve essere gestito dai “sapienti”, da coloro che “sanno” e hanno le necessarie competenze. Questo modo di vedere le cose è chiamato comunemente “sofocrazia” o “noocrazia” (governo dei sapienti o dei capaci) e ha ispirato numerose scuole di pensiero politico in epoca moderna. Secondo Platone, una moltitudine non è mai in grado di amministrare uno Stato, a meno che non ci si trovi  in un contesto di estrema corruzione.
Per molto tempo a seguire, e ancora oggi, il modello della Repubblica di Platone, basato sul governo degli “esperti”, è stato considerato l’antitesi del modello democratico. Popper contrappone il “totalitarismo” platonico, prototipo dell’assolutismo moderno, all’idea di “società aperta”, fondata sui principi di libertà e pluralismo e praticata nella democrazia ateniese all’età di Pericle. In fondo, questa antinomia anticipa e radica il contrasto dei nostri giorni fra democrazia e tecnocrazia.
Ci sono poi le correnti dell’elitismo vecchio e nuovo: si tratta di variegate correnti di pensiero tutte nettamente contrarie alla democrazia parlamentare, e che concordano sulla tesi che il governo di una società debba essere retto da una classe “scelta” e necessariamente ristretta di individui.
Nel concetto moderno di democrazia confluiscono in sintesi due accezioni rilevanti della sua stessa storia: un’accezione “procedurale” (il rispetto delle regole del gioco) e l’altra “sostanziale” (la garanzia dei diritti di libertà e uguaglianza). Nella scienza politica contemporanea si guarda ormai a questa sintesi come al concentrato delle caratteristiche delle “qualità” democratiche ovvero delle caratteristiche che devono avere le democrazie “di buona qualità”, esprimibili in altrettante categorie osservative almeno in parte empiricamente controllabili.
Dovremmo chiederci a questo punto se esistono alternative praticabili e migliori rispetto alla democrazia rappresentativa. Secondo Norberto Bobbio, la risposta era negativa. La recente tesi “epistocratica” lanciata nel libro Contro la democrazia (LUISS University Press 2018) da Jason Brennan, filosofo della Georgetown University, non sembra affatto mettere in discussione il modello della democrazia rappresentativa quanto piuttosto le modalità del suo funzionamento: il problema e la crisi della democrazia non sono legati al principio della rappresentanza ma piuttosto alla indiscriminata estensione dei diritti di voto, attivo e passivo, promossa dal suffragio universale, che consente a una massa di elettori che non si interessano o non sanno nulla di politica di conferire il potere di legiferare e governare a una minoranza di eletti per lo più incompetenti e corrotti.
Brennan sostiene che vi siano almeno due versioni di populismo, una positiva (dare voce e risorse ai più deboli) e una negativa, quando tendiamo a considerare come populisti quei movimenti e individui che si ribellano contro i politici corrotti o incompetenti. Ma così facendo diamo loro più credito di quanto non meritino, perché tralasciamo il fatto che i loro elettori sono poco informati e molto inconsapevoli. Una ricerca dell’ANES – American National Election Studies – ha rivelato che gli elettori americani sanno a mala pena chi è il presidente in carica, non hanno nemmeno un’idea vaga di quale sia la percentuale di disoccupazione nel paese, né di quanto spenda il governo all’anno: un terzo di questa popolazione pensa che il versetto degli Atti degli Apostoli “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, reso celebre da Marx, faccia parte della Costituzione degli Stati Uniti. La stessa percentuale non sa citare i tre poteri dello Stato, e non conosce nemmeno il nome dei propri rappresentanti a Washington.
Come funzionerebbe l’epistocrazia
Brennan tiene a sottolineare che gli elettori disinformati e privi di cultura politica non siano affatto stupidi: semplicemente sono disinteressati agli affari politici e di governo e sanno di poter persistere in questo atteggiamento di rifiuto e ignoranza, o indulgere a convinzioni politiche false e irrazionali senza che tutto ciò si ripercuota sul loro diritto di voto. Ma secondo il nostro autore, per essere ammessi a scegliere con il voto se confermare o mandare a casa questo o quel rappresentante in Parlamento o in Comune, l’uno o l’altro candidato alla Presidenza, occorrerebbe dimostrare di sapere almeno chi abbia ricoperto ruoli elettivi di potere nel precedente mandato, quali fossero i mezzi reali a sua disposizione, quali le possibili opzioni politiche e di governo, a quali risultati avrebbero portato scelte diverse. Ed è questa, in sostanza, la proposta contenuta nel suo modello di epistocrazia.
Come lo stesso Brennan riconosce, montagne di prove dimostrano che la democrazia generalmente opera meglio di una dittatura o di un’oligarchia. Ma egli sostiene che queste non sono le sole possibili alternative alla democrazia. C’è anche l’”epistocrazia” – il “governo di coloro che conoscono”. L’elettorato potrebbe prendere decisioni migliori se fosse limitato per renderlo più consapevole e meno prevenuto. Per la maggior parte delle persone, le idee come quella di epistocrazia suonano come difesa del governo di una piccola élite, che potrebbe facilmente abusare dei suoi poteri. Ma Brennan presenta una varietà di strategie che potrebbero migliorare la qualità dell’elettorato, come limitare il diritto di voto a coloro che sono in grado di passare un test elementare di conoscenza politica. A quelli dotati di maggiori conoscenze potrebbero invece essere concessi voti supplementari (idea già di John Stuart Mill nel XIX secolo). Se il risultato di questo elettorato più esperto è disrappresentativo (ad esempio, relativamente a specie, genere, età o ricchezza), ai voti dei membri più informati di questi gruppi “sottorappresentati” potrebbe essere dato un peso maggiore. In alternativa, potremmo rendere l’elettorato potenzialmente più esperto e più rappresentativo di quanto lo sia ora, persino ricorrendo una specie di “lotteria per il diritto di voto”, cioè estraendo a sorte gli elettori legittimati a esprimere le scelte politiche.
I precedenti dei minorenni e degli immigrati
Tali idee possono sembrare, e in un certo senso sono, molto radicali. Ma per molti aspetti, si tratta solo di modeste estensioni dello status quo. Sostiene Brennan che escludiamo già oltre il 20% della nostra popolazione dal diritto di voto, perché pensiamo che siano ignoranti e hanno scarsa capacità di giudizio: chiamiamo quelle persone “minorenni”, e non sentiamo alcun senso di colpa per la loro esclusione sistematica dai circuiti del potere politico. La cosa colpisce la maggior parte di noi in termini di semplice buon senso. L’idea di lasciare che alcuni di loro votino se possono dimostrare che sono più informati di un adulto medio è considerata radicale e pericolosa. Non consentiamo che gli immigrati legali ottengano il diritto di voto a meno che non superino un test di educazione civica che la maggior parte dei nativi americani probabilmente fallirebbero. Parecchi Stati escludono inoltre dal diritto di voto molti dei malati mentali e dei condannati. Sta bene escludere i diciasettenni dal voto, ma perché non anche un diciannovenne o un quarantenne, la cui la comprensione dei problemi è scarsa o peggiore di quella di un minorenne medio? Se possiamo escludere gli immigrati ignoranti, perché non possiamo farlo per gli autoctoni ignoranti?
Chi deve comandare – e come deve essere designato chi comanda – è la domanda che si pose Platone, e in fondo si pone anche Brennan sulla scia di una lunghissima tradizione di teoria politica. Con risposte sempre storicamente mutevoli. I filosofi ovvero i sapienti, era stata la risposta di Platone, alla quale è in qualche modo riconducibile la proposta di “epistocrazia” avanzata da Brennan, anche se la “sapienza” da lui invocata è una conoscenza basica di cultura politica che non ha la pretesa di accostarsi al modello platonico di “sofocrazia”. Altri hanno dato risposte diverse: devono comandare i sacerdoti, i militari, i tecnici, i “migliori” del popolo. Per altri, invece, è bene che comandi una persona sola: un re di stirpe divina, un tiranno o un principe armato.  Altre risposte indicano invece il popolo per volontà della nazione, questa o quella classe, questa o quella razza. Ma la domanda di Platone – commenta Popper – “è sviante, irrazionale. […] Razionale è piuttosto quest’altra domanda: come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”
La risposta che ne dà Popper, come è noto, è quella di una “società aperta” garantita dal regime della democrazia liberale. Come spiega Yascha Mounk, viviamo tempi “straordinari” nei quali regna il caos diffuso, e si moltiplicano le crudeltà in uno scenario di progressiva consunzione dei sistemi liberal-democratici, mentre fioriscono per contro democrazie illiberali (o al contrario liberalismo senza democrazia), strette dall’alternativa esiziale fra populismo e tecnocrazia [Mounk 2017].  Tuttavia, in attesa che l’Autore spieghi meglio i dettagli del suo progetto “epistemocratico”, non possiamo non dirci d’accordo sulle sue critiche al funzionamento delle attuali democrazie. Ed è persino difficile dissentire dall’idea portante delle sue argomentazioni che la democrazia non sia una forma di “intelligenza o saggezza collettiva”, come sostiene una lunga serie di autori sulla scorta di Aristotele. Primo, perché questi attributi possono essere predicati di individui e non di masse indifferenziate di elettori, fra i quali sono davvero pochi coloro che si impegnano e sono un minimo informati per concorrere consapevolmente alla formazione di scelte collettive. E secondo perché, proprio per questo, la democrazia “aritmetica”, nella quale i voti si contano, non coincide con la democrazia “epistemica” nella quale i voti pesano.
In conclusione, si può essere più o meno d’accordo con le diagnosi di crisi della democrazia avanzate da Brennan e con le terapie proposte, peraltro non compiutamente indicate né tanto meno realizzabili nei sistemi contemporanei (come riconosce lo stesso Autore). Ma è certo che questo libro sembra come una roccia precipitata in un immenso specchio d’acqua che, complice la presunta “fine della storia” che postula la perennità e insostituibilità del modello di democrazia liberale [Fukuyama 2003], correrebbe il rischio di diventare una palude stagnante.
Fonte: Contro la democrazia (LUISS University Press) .
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toscanoirriverente · 4 years
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Scuola, le 10 priorità per il nuovo Governo secondo gli studenti
1. Maggior orientamento al futuro
La questione delle questioni: l’orientamento. Viviamo in un’epoca ricca di incertezze. Anche dal punto di vista formativo e lavorativo. I mestieri e le professioni cambiano, alcune spariscono, se ne affacciano di nuove. Indispensabile conoscere prima queste dinamiche, per prepararsi a dovere. Un compito che il sistema didattico non sempre riesce ad assolvere. Il risultato è che tanti ragazzi si accorgono di aver sbagliato strada o di non aver avuto il giusto consiglio. Quando, forse, è troppo tardi. Ecco, il 17.2% non vorrebbe fare la loro stessa fine.
2. Una scuola più pratica
Al punto precedente, in qualche modo, si lega anche le seconda priorità in ottica studenti per dare sul serio uno slancio in avanti al mondo dell’istruzione. Per il 17% la scuola deve cercare di essere sempre più pratica. La teoria continuerà a servire ma i programmi dovranno essere svecchiati, aggiornati. Parallelamente, si dovrebbero introdurre maggiori momenti ‘pratici’, anche negli indirizzi in cui per ora sono marginali. Oltre a sapere, per i ragazzi, bisogna saper fare.
3. Innovare la didattica
Perché i ragazzi, dovendo indicare i cardini del proprio ‘programma per la scuola’, alla fine guardano soprattutto alle loro esigenze. Al terzo posto, infatti, mettono anche l’assoluta urgenza di una didattica più innovativa, che li faccia familiarizzare con gli stessi metodi e strumenti con cui poi si dovranno confrontare negli studi futuri e nel lavoro. A pensarla così è il 15%.
4. Scuole più sicure
Ai piedi del podio, con il 10% dei consensi, un’altra annosa questione: la sicurezza del luogo in cui, in tempi normali, i ragazzi passano gran parte delle giornate. Il pensiero va subito allo spinosissimo tema dell’edilizia scolastica. Tanti gli istituti che ancora oggi non ricevono un’adeguata manutenzione, mettendo in pericolo chi li frequenta. Ma, in questo momento storico, scuole più sicure può anche voler dire ambienti più ‘sani’, in cui non ci si contagia e non ci si ammala.
5. Cattedre più ‘stabili’
In molti non ce la fanno più a dover cambiare ogni anno i propri docenti, a causa della rotazione delle cattedre e del precariato che affligge la categoria degli insegnanti da molti anni. Così, il 9,7% si fa alleato dei professori nella loro battaglia, chiedendo al Ministro una soluzione rapida.
6. In presenza al 100%
Uno degli obiettivi dichiarati di Bianchi è quello di riportare i ragazzi in classe ogni giorno e tutti assieme. L’andamento della pandemia, però, lascia un po’ scettici sulla sua fattibilità, perlomeno in tempi rapidi. Per questo anche i ragazzi hanno un atteggiamento prudente: è l′8,1% a spingere forte su questo tasto. Un numero comunque non basso.
7. Docenti più ‘tecnologici’
La necessità di garantire un corpo docente sempre pronto a confrontarsi con generazioni che cambiano e con le nuove sfide che il sistema didattico periodicamente propone è uno dei temi più importanti per la scuola. Anche Mario Draghi, nel suo programma, ha parlato esplicitamente della necessità della formazione continua dei professori. Specie dal punto di vista tecnologico. Gli studenti però la vedono diversamente: è il 7.4% che lo vede un passaggio indifferibile.
8. Diritto allo studio per tutti
Quello della parità di accesso, per tutti gli studenti, alle stesse opportunità di formazione - a prescindere dal luogo di residenza o dal contesto sociale di provenienza - è un argomento che forse preoccupa più gli addetti ai lavori che i ragazzi. Solamente il 5.9% lo avverte come prioritario. E questo è un ulteriore problema: i dati sull’abbandono e sulla dispersione scolastica parlano chiaro.
9. Riparare i danni prodotti dalla Dad
Non possiamo negare che la Didattica a distanza abbia portato con sé nuovi problemi, legati sia all’arretratezza digitale di cui soffrono ancora troppe famiglie sia alla difficoltà di andare avanti con i programmi ‘da remoto’. Ma, considerando che solo il 5.7% chiede al neo ministro di concentrarsi sul recupero degli apprendimenti, possiamo dire che nella stragrande maggioranza dei casi la Dad alla fine abbia funzionato
10. Classi meno affollate
Quello delle ‘classi pollaio’ è un dossier aperto sul tavolo di ogni ministro dell’Istruzione e che torna in auge a ogni inizio d’anno scolastico. Durante la pandemia, poi, è stato ulteriormente accentuato dal fatto di dover attuare il distanziamento nelle aule. Ma gli studenti, pur avendolo ben presente, non lo fanno rientrare tra le cose più urgenti da risolvere: appena il 4% lo mette in cima alla lista.
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vitaconsacrata · 4 years
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Riflessione sulla c.d. clausura: tra equivoci e realtà
In questa giornata di preghiera “pro orantibus” vorrei dedicare alcune riflessioni alla c.d. vita contemplativa e/o claustrale. Purtroppo qualificare la vita monastica femminile come claustrale e/o contemplativa ha generato molti equivoci e continua a generarli tutt’ora nella distinzione delle forme di vita consacrata. La vita monastica ed eremitica femminile non si contraddistingue per il carattere contemplativo rispetto alla vita battesimale di qualunque fedele laico, così come di qualsiasi altra persona consacrata erroneamente definita di vita “attiva” e/o apostolica. La contemplazione e l’azione sono componenti esistenziali di qualunque stato di vita cristiano (e non necessariamente solo quello cristiano). Pertanto, la vita quotidiana di una donna consacrata in monastero è definita contemplativa in quanto il segno specifico della sua consacrazione e della comunità in cui vive è incentrato sulla forma esteriore della preghiera, in particolare della Liturgia delle Ore e della lectio divina monastica, e non sull’alimentare l’immagine di una vita paradisiaca con tonache e veli svolazzanti sullo sfondo di tramonti e albe edeniche.
Altro equivoco nasce dal termine clausura, derivante da “claustrum” e non dal colloquiale “chiusura”, a cui viene assimilato non senza la stessa corresponsabilità di alcune claustrali. Per una “monaca di clausura pontificia o papale” essere segno tramite l’osservanza del confine della clausura e della grata potrebbe evocare tantissime dimensioni della sua persona e della comunità a cui appartiene, tenendo conto che ella è inserita nel contesto circoscritto e simbolico del chiostro con i limiti normativi liberamente scelti e professati. La clausura per il mondo monastico femminile è una dimensione fisica che può aiutare la vita interiore della donna se ella è chiamata ed è in grado di vivere il silenzio e la solitudine quale spazio abitato da Dio con la sua Parola e la sua Presenza, altrimenti potrebbe essere percepito come un carcere, una gabbia, un groviglio di catene normative. In quest’ultimo caso la clausura viene considerata e testimoniata come una mutilazione della persona, nonostante sia stata professata da donne nella maggiore età e liberamente scelta con libera coscienza e volontà. La rivendicazione successiva alla professione religiosa claustrale che la clausura sarebbe stata imposta alla persona non sembra corrispondere a verità, perchè ogni donna alla soglia della professione sa di poter liberamente optare per altri stati di vita e di vita consacrata, dunque l’obiezione appare molto debole e facilmente opinabile.
La problematica della clausura in realtà forse si potrebbe analizzare su un altro piano di riflessione, che richiama i cenni iniziali: “se e quanto la clausura sia oggetto di discernimento quale condizione di realizzazione della vita religiosa contemplativa fondata sui voti di povertà, castità e obbedienza e, dunque, quanto sia mezzo per la realizzazione della persona, della sua vocazione e consacrazione religiosa”. Infatti, la clausura è solo un mezzo, non il fine, e come ha già affermato Papa Francesco, “le mura del monastero non sono sufficienti per dare il segno” .
La clausura non è sufficiente perchè la monaca sia segno che indica Gesù e quando tale dimensione di volontaria limitazione relazionale e fisica dello spazio, in cui ella vive, è vissuta come fine della vita religiosa (osservanza della clausura come santità), inevitabilmente anche il segno testimoniale personale rischia di deformarsi e disorientare la monaca stessa e coloro che sono legati alla sua preghiera e testimonianza. Tanti sono stati i documenti del Magistero che hanno descritto e soprattutto regolamentato con norme la vita contemplativa femminile, ma ci si permette di obiettare che a tutt’oggi all’elaborazione dei contenuti magisteriali non hanno partecipato direttamente e attivamente coloro che la clausura la vivono, cioè le monache di clausura, salvo la compilazione di questionari di consultazione previamente alla stesura della Costituzione Apostolica Vultum Dei Quaerere e Cor Orans.
Solo chi vive la clausura femminile, può parlare di clausura femminile, perchè essa non è semplicemente un paragrafo del Codice di Diritto canonico o delle Costituzioni proprie, che limita uscite ed entrate delle monache nei monasteri, ma contraddistingue un mondo spirituale, emotivo, di pensiero, di comportamento, che non ha paralleli negli altri stati di vita, anche consacrata. La clausura è una condizione di vita che ha la potenzialità inversamente proporzionale di amplificare la dimensione di tutto ciò che al di fuori del monastero sarebbe insignificante, in quanto lo spazio fisico, la quantità limitata di relazioni interne ed esterne, l’assenza o la limitatezza delle attività apostoliche esterne, la ripetitività di gesti e reazioni, di servizi domestici e di preghiera genera dinamiche di vita personale e comunitaria, che assorbono la più parte delle energie quotidiane. La posizione di un tavolo in una stanza o di un vaso di fiori in chiesa, di una tenda in un ambiente comune o di un carrello per i pasti in refettorio non avrebbe rilevanza per più di qualche minuto in una persona calata nella vita laicale o consacrata apostolica; in clausura, invece, potrebbe segnare anche l’andamento di un’intera giornata di rapporti fraterni, perchè dietro la posizione di un oggetto o la modalità di esecuzione di un servizio domestico vi è una quantità notevole di significati e ruoli rivestiti da ciascuna monaca. L’emotività e la sensibilità in clausura è notevolmente più sollecitata e intensa, poiché nello spazio simbolico claustrale la monaca “si gioca”, volente o non volente, la sua realizzazione personale quotidiana. Pertanto, ogni gesto di attenzione o disattenzione, ogni linguaggio verbale o paraverbale, ogni atteggiamento e comportamento sono costantemente sotto lo sguardo proprio e delle sorelle con cui si vive e se la vita fraterna non è animata dalla gioia e dalla carità, questa condizione può divenire molto impegnativa. La qualità della relazione in clausura sarebbe bene si valutasse sull’amore, cioè sulla concreta donazione di sé, non tanto nell’esteriorità del servizio o delle opere, poichè la sofferenza, il sacrificio, il lavoro non misurano l’amore. Spesso sono forme di autogiustificazione. L’amore vero non ha forma e perciò può essere una “minaccia” ed al contempo una sfida alla fede, al sacrificio e alla mistica . La porta lasciata aperta ad una sorella anziana che fatica a camminare verso una stanza, una porzione di tempo libero dedicato alla sorella più malata, farsi carico dei lavori più pesanti, anche solo sollevare una cassetta di frutta più pesante per alleggerire la sorella oppure sostituire una sorella in difficoltà nel servizio per lei più faticoso, la pulizia di un bagno che sarà usato dopo da un’altra sorella, sono tutti gesti e parole che potrebbero apparire insignificante e quasi ovvii, ma in realtà misurano il “peso” dell’amore, cioè dell’attenzione di mente e cuore verso le sorelle con cui si vive e non hanno una “forma predefinita” che possa apprendersi da manuali o biografie di santi. Tali attenzioni sembrano indispensabili per poter crescere e preparare atti di donazione più grandi, soprattutto nelle responsabilità comunitarie, in quanto lo spirito di donazione è dono dello Spirito Santo e ciascuna monaca è chiamata a custodirlo e a farlo fruttificare in comunità mediante l’esercizio quotidiano di piccoli atti di donazione. Nella dimensione “microscopica” della carità nella quotidianità (c.d. mistica del quotidiano) sembrano nascondersi la carità o l’egoismo, la benevolenza o la malizia, la sincerità o la teatralità, tutto dipende dall’intenzione con cui la monaca li compie e su questo ella può interrogarsi sulla qualità della propria vocazione religiosa, anche e soprattutto quando può esservi stato un ripiegamento della religiosa su se stessa, cadendo nella tentazione tanto evidenziata da Papa Francesco in VTD n. 11 con queste parole: “Tra le tentazioni più insidiose per un contemplativo, ricordiamo quella chiamata dai padri del deserto “demonio meridiano”: è la tentazione che sfocia nell’apatia, nella routine, nella demotivazione, nell’accidia paralizzante. Come ho scritto nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, questo porta lentamente alla «psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come “il più prezioso degli elisir del demonio”». Le parole di J.H. Newman che mi permetto di riportare: “nulla c’è di più propenso a generare abitudini egoiste (che sono la più diretta negazione della carità) che l’essere indipendenti nel nostro modo di vita. Coloro che non hanno legami personali o stimoli ad esercitare quotidianamente la comprensione e la tenerezza, coloro che non devono consultare nessuno per fare il proprio comodo, e vanno e vengono come pare loro, coloro che possono permettersi di cambiare come vogliono e permettersi quei cambiamenti d’umore così tipici nella maggior parte delle persone, faticheranno molto per ottenere il dono celeste che viene descritto nella liturgia come ‘il vincolo della pace e di tutte le virtù” , descrivono quella che potrebbe definirsi la “periferia esistenziale claustrale”, cioè la condizione di monache che purtroppo – con parole di Papa Francesco – perdono “la memoria della vocazione, del primo incontro con Dio, del carisma che ha fondato il monastero” e quando perdono “questa memoria e l’anima comincia ad essere mondana, pensa cose mondane e si perde quello zelo della preghiera di intercessione per la gente ”. Pertanto, se la monaca di clausura si sente in difficoltà rispetto alla clausura che lei stessa ha scelto, sarebbe più prudente che si domandasse se le difficoltà sono realmente legate alle modalità della clausura (pur nelle diverse possibilità) oppure se vi siano difficoltà di vita religiosa più profonde, relative innanzitutto alla propria relazione personale con Gesù, alla fedeltà nella preghiera o al modo di vivere i voti di povertà, castità e obbedienza, celando le proprie sofferenze e frustrazioni in altrettanti ed invisibili atti di autodifesa che potrebbero apparire esternamente come aggressività, disimpegno, disinteresse e “fuga” virtuale o effettiva dalla comunità, ma che in realtà sono stati di dolore personale che sembra inutile qualificare e giudicare dal punto di vista morale, quanto piuttosto sarebbe utile trovare soluzioni ed offrire strumenti di guarigione e cura spirituale, psicologica e fisica.
NOTE:
[1]Papa Francesco, Incontro con religiose e religiosi della Diocesi di Roma, 16 maggio 2015, https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/may/documents/papa-francesco_20150516_religiosi-roma.html
[2]Larranaga X., L’esistenza consacrata nella Chiesa, cap. 4, punto 4.2.
[3]Larranaga X., L’esistenza consacrata nella Chiesa, cap. 3, punto 3.1, nota 86.
[4]Papa Francesco, Incontro con religiose e religiosi della Diocesi di Roma, 16 maggio 2015, cit.
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lamilanomagazine · 1 year
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Milano: al Teatro alla Scala una nuova versione del balletto "Le fille mal gardée"
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Milano: al Teatro alla Scala una nuova versione del balletto "Le fille mal gardée". Venerdì 14 e domenica 16 aprile 2023 il Teatro alla Scala accoglie i giovani talenti della sua Accademia, Scuola di Ballo e Orchestra, quest’ultima al suo debutto al Piermarini, per una nuova versione de La fille mal gardée, coreografia firmata da Frédéric Olivieri sulla partitura di Peter Ludwig Hertel con scene e costumi di Luisa Spinatelli, rielaborati da Angelo Sala e Maria Chiara Donato. Sul podio, David Coleman. Il balletto è stato realizzato grazie al contributo della Fondazione Milano per la Scala balletto e della signora Hélène de Prittwitz Zaleski. La fille mal gardée si annovera fra i balletti più antichi ad essere rimasti nel repertorio, essendo nato all’epoca della Rivoluzione francese. È Jean Bercher Dauberval a curare la prima coreografia del balletto, dal titolo Le ballet de la paille, ou il n’est qu’un pas du mal au bien, che va in scena al Grand Théâtre de Bordeaux nel 1789 su uno zibaldone di temi e canzoni popolari francesi. Il balletto conosce nel tempo numerose edizioni e molteplici modifiche nel titolo, nei nomi dei personaggi, nella coreografia e nella partitura musicale.   Il Direttore della Scuola scaligera ha scelto la partitura di Hertel, composta nel 1864 per la versione coreografica di Paolo Taglioni per l’Hofoper di Berlino, rappresentata al Teatro alla Scala nel 1880. Nella locandina dell’epoca comparivano anche le allieve della Scuola di Ballo. Fra le numerose edizioni del balletto nel corso del Novecento (fra cui si ricorda in particolare quella fortunatissima di Frederick Ashton per il Royal Ballet nel 1960 su musiche di Ferdinand Hérold arrangiate da John Lanchbery con inserti rossiniani e donizettiani), si cita la versione che Heinz Spoerli ideò per l’Opéra di Parigi nel 1981, ripresa dal Teatro alla Scala nel 1987 in cui brillavano Carla Fracci, Gheorghe Jancu, Bruno Vescovo e Biagio Tambone, con scene e costumi di Luisa Spinatelli, gli stessi oggi rielaborati da Angelo Sala e Maria Chiara Donato per questa nuova edizione di Olivieri. Il balletto, che appartiene al genere comique e pantomimico, uno dei generi in voga alla fine del Settecento in cui prevale l’ambientazione contemporanea immersa in un contesto agreste e in una realtà contadina, mette alla prova gli allievi della Scuola di Ballo scaligera non solo sul piano tecnico, dal momento che la coreografia è pensata per esaltare le loro abilità classico-accademiche, ma anche sul piano interpretativo, poiché richiede notevoli doti ironiche e gestuali soprattutto per alcuni dei personaggi, come M.me Simone qui incarnata da un’allieva e non da un tradizionale danzatore en travesti. Due parole sulla trama: la vicenda, che ha luogo in un tranquillo villaggio di campagna, narra dell’idillio fra Lise e Colas, osteggiati dalla madre di lei, la vedova Simone, che preferirebbe per la figlia il giovane Alain, sempliciotto rampollo del ricco proprietario terriero Thomas. Simone decide di chiudere a chiave la figlia nella sua stanza per avere l’agio di organizzare rapidamente le nozze, non sapendo che lì la stessa Lise aveva precedentemente nascosto l’amato Colas. Al momento di stipulare l’atto, alla presenza del notaio, Simone apre la stanza e Lise e Colas vengono scoperti. Non potendo più opporsi all’unione fra i due ragazzi, il balletto si chiude con il festeggiamento per l’amore che trionfa. In scena una sessantina di allievi fra il 2° e l’8° corso. Fra i momenti più significativi del balletto, che presenta diversi numeri pantomimici come richiede la tradizione del genere settecentesco e che metteranno alla prova i giovani danzatori, si citano il Ballo dell’Albero di Maggio, scena in cui si festeggia il raccolto, con i ballerini che danzano fra una serie di nastri colorati legati a un palo decorato; la “danza degli zoccoli”, che M.me Simone compie con quattro contadine, così chiamata per le calzature che generano un ritmo simile a quello del tip-tap; la danza di Lise quando sogna la vita coniugale con Colas circondata da tanti figli e il Pas de deux finale per festeggiare il matrimonio. Per i giovani musicisti dell’Orchestra, reduci dal recente successo in Oman dove alla Royal Opera House di Muscat hanno eseguito Le nozze di Figaro sotto la direzione di Sesto Quatrini nello storico allestimento di Giorgio Strehler, si tratta del debutto nella sala del Piermarini. Un debutto tanto atteso quanto impegnativo. E, come ormai consuetudine in occasione degli spettacoli che hanno per protagonisti i complessi artistici dell’Accademia, vengono coinvolti anche studenti di altri corsi, come i sarti, che dopo essersi occupati della messa a misura dei costumi, saranno dietro le quinte impegnati nelle attività di sartoria di palcoscenico, i truccatori e parrucchieri che predisporranno il trucco e le acconciature degli artisti prima dell’entrata in scena e gli allievi del corso foto, video e new media, chiamati a documentare le diverse fasi dello spettacolo.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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