#Corno Cieco
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Non sono uscito di senno, ma sono stanco dell’estate. Cerchi nel cassettone una camicia, e il giorno è perso. Venga l’inverno e copra tutto, presto, le città e le genti e, innanzitutto, il verde. Io dormirò vestito, sfoglierò libri in prestito, finché non se ne andrà per la sua strada l’anno, quel che resta, come il cane che sfugge al cieco e che traversa lungo le strisce pedonali. È libertà se scordi il patronimico del capo, se è dolce la tua bocca più della chalvà di Shiraz e se, col cervello strizzato come il corno di un capro, dall’occhio azzurro nessuna stilla scenderà.
Iosif Brodskij
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Blinnenhorn - Corno Cieco (3374)
#blinnenhorn#Corno Cieco#val formazza#rifugio Claudio e Bruno#morasco#lago dei sabbioni#rifugio Mores#rifugio 3A#Piano dei Camosci#rifugio Città di Busto#Alpe Bettelmatt#Trekking#hiking#alpinism#freedom#free#nature#landscape#Into The Wild#wild#cloud#snow#lake#Alexander Supertramp
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“ Avevo affisso alla porta del mio studio un cartellino con questo avviso:
Sospese da oggi le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni ceto, d’ogni età, d’ogni professione, che hanno fatto domanda e presentato titoli per essere ammessi in qualche romanzo o novella. N.B. Domande e titoli sono a disposizione di quei signori personaggi che, non vergognandosi d’esporre in un momento come questo la miseria dei loro casi particolari, vorranno rivolgersi ad altri scrittori, se pure ne troveranno.
Mi toccò la mattina appresso di sostenere un’aspra discussione con uno dei più petulanti, che da circa un anno mi s’era attaccato alle costole per persuadermi a trarre da lui e dalle sue avventure argomento per un romanzo che sarebbe riuscito – a suo credere – un capolavoro. Lo trovai, quella mattina, innanzi alla porta dello studio, che s’aiutava con gli occhiali e in punta di piedi – piccolo e mezzo cieco com’era – a decifrare l’avviso. In qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo, egli non aveva l’obbligo, lo so, di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei giorni l’Europa. S’era perciò arrestato alle parole dell’avviso: «in un momento come questo», e pretendeva da me una spiegazione. Erano ancora i giorni di torbida agonia che precedettero la dichiarazione della nostra guerra all’Austria, ed entravo di furia nello studio con un fascio di giornali, ansioso di leggere le ultime notizie. Mi si parò davanti: – Scusi… permette? – Non permetto un corno! – gli gridai. – Mi si levi dai piedi! Ha letto l’avviso? – Sissignore, appunto per questo… Se mi volesse spiegare… – Non ho nulla da spiegarle! Non ho più tempo da perdere con lei! Via! Vuole le sue carte, i suoi documenti? Venga, entri, prenda e se ne vada! – Sissignore… ecco, ma se volesse dirmi almeno che cosa è accaduto?… Sperando di farlo schizzar per aria, polvere, come per una cannonata a bruciapelo, gli urlai in faccia: – La guerra! Rimase lì impassibile, come se non gli avessi detto nulla. – La guerra? Che guerra? Me lo tolsi davanti con uno strappo violento; entrai nello studio, sbattendogli la porta in faccia; e, buttandomi sul divano, corsi con gli occhi alle ultime notizie dei giornali, se finalmente la dichiarazione di guerra era avvenuta, se gli ambasciatori d’Austria e di Germania erano partiti da Roma, se c’erano già i primi fatti d’armi per mare o alla frontiera. Nulla! ancora nulla! E fremevo. «Ma come? ma come?», dicevo. «Che s’aspetta? E che aspettano ancora questi signori ambasciatori, dopo le sedute solenni della Camera e del Senato e il delirio di tutto un popolo che da tanti giorni grida per le vie di Roma guerra, guerra! Son diventati sordi? ciechi? L’albagìa tedesca, la tracotanza austriaca dove sono più? Quattro, cinque volte, nei giornali del mattino, nei giornali del pomeriggio, in quelli della sera s’è loro annunziato che i treni speciali sono pronti per essi. Niente. Sordi. Ciechi. E intanto a Trieste, a Fiume, a Pola, in tutto il Trentino si fa scempio e strazio dei nostri fratelli che ci aspettano; e noi li abbiamo lasciati partire protetti e tranquilli, i signori sudditi austriaci e tedeschi!» Mentre così pensavo, fremendo, m’avvenne di levar gli occhi dal giornale, e che vidi? Lui, quel petulante, quell’insoffribile personaggio, ch’era entrato non so come, non so donde, e se ne stava pacificamente seduto su una poltroncina presso una delle finestre che guardano sul mio giardinetto, tutto ridente e squillante, in quei giorni di maggio, di rose gialle, di rose bianche, di rose rosse e di garofani e di geranii. Guardava fuori, con faccia beata, i cipressi e i pini di Villa Torlonia dirimpetto, dorati dal sole, abbagliati sotto l’intenso azzurro del cielo e stava a udire con delizia evidente il fitto cinguettio degli uccellini felicemente nati con la stagione e il chioccolio della fontanella del mio giardinetto. La sua vista inopinata, quel suo atteggiamento di delizia mi suscitarono una rabbia che non so dire: una rabbia che avrebbe dovuto lanciarmi addosso a lui, e invece restava lì come schiacciata dal peso d’uno stupore, ch’era anche nausea e avvilimento. Gli vidi, a un tratto, voltare verso me quella beata faccia. Con l’orecchio intento e una mano appena levata: – Sente? – mi disse, – sente che bel trillo? È un merlo, questo, sicuramente. Afferrai i giornali stesi su le ginocchia con l’impeto di piombargli con essi sopra ad accopparlo, urlandogli nel furore tutte le ingiurie, tutti i vituperii che mi venivano in bocca. E poi? Sarebbe stato inutile. Scaraventai a terra i giornali, puntai i gomiti su le ginocchia, mi presi la testa tra le mani. Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire: – E che c’entro io, scusi, se il merlo canta? se le rose ridono nel suo giardinetto? Corra a mettere la museruola a quel merlo, se le riesce, e a strappar queste rose! Non credo, sa, che se la lasceranno mettere la museruola gli uccellini; e tutte le rose di questo maggio da tutti i giardini, non le sarà mica facile strapparle… Mi vuol far saltare dalla finestra? Non mi farò male; e le rientrerò nello studio dall’altra. Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua guerra? Cacci il merlo da quell’acacia; se ne volerà nel giardino accanto, su un altro albero, e seguiterà di lì a cantare tranquillo e felice. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. “
---------
Brano tratto da:
Luigi Pirandello, Colloquii coi personaggi.
NOTA: il racconto breve Colloquii coi personaggi fu pubblicato per la prima volta a puntate sul quotidiano palermitano Il Giornale di Sicilia (17-18 agosto e 11-12 settembre 1915; il Regno d’Italia era entrato in guerra il 24 maggio). Assieme ai racconti Personaggi e La tragedia d’un personaggio questo testo ha fornito lo spunto per l’innovativo Sei personaggi in cerca d’autore, dramma rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma.
#Luigi Pirandello#Colloquii coi personaggi#letture#leggere#intellettuali italiani del XX secolo#Grande Guerra#scrittura#radiose giornate di Maggio#primavera#drammaturgia#vita#narrativa italiana del '900#metateatro#letteratura europea#Sei personaggi in cerca d’autore#scrittori siciliani#creatività#Novelle per un anno#natura#Roma#citazioni letterarie#letteratura italiana del '900#prima guerra mondiale#Palermo#creazione artistica#Italia#Regno d’Italia#patriottismo
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Ma il sogno è
il mondo mio
tu sai che oggi lascerei la mia realtà.
Capisci me,
si, tu lo sai,
che solo per me il sogno è il mondo mio.
Un destino è un campo di grano
povero triste dolore profano
tutto tra noi è, ma non è per me, lo sai.
Il sogno mio
è vero ormai
e mi dà il senso, oramai, e tu lo sai
Un amico, sai cosa te ne fai
inutile, fuggevole,
tutto bravo è, ma non è per me, lo sai.
Il sogno mio
è vero ormai
e mi da il senso, oramai, tu lo sai.
Il sogno è
il mondo mio
tu sai che oggi lascerei la mia realtà.
Capisci me,
si, tu lo sai...
* * *
Chanson de Bianca / 2
Giuditta del Vecchio
Testo:
Un amico, sai cosa te ne fai
inutile, fuggevole, tutto bravo è
ma non è per me e tu lo sai.
Ma il sogno è
il mondo mio
tu sai che oggi morirei per onestà.
Ascolti me,
si, tu lo sai,
che solo il sogno è per me la realtà.
Un amico, sai cosa te ne fai
inutile, fuggevole,
tutto bravo è, ma non è per me, lo sai.
Il sogno mio
è vero ormai
e sveglia il tempo e sveglia il canto e tu lo sai...
* * *
Immagino non sia sfuggito a nessuno di voi che la Chanson de Bianca altro non è in realtà se non una bizzarra, sebbene suggestiva, rivisitazione di Pensieri e Parole di Battisti e Mogol.
Eppure, ed ecco il primo mistero, ancora nei credits del film non si fa alcun cenno a nessuno dei due nomi. Come autore della musica figura invece François Dompierre, prolifico autore canadese di colonne sonore, mentre autore del testo sarebbe tale Jersy Kowal, di cui non ho trovato traccia altrove al di fuori dei confini di questo film.
Premesso che l'arrangiamento musicale del pezzo è indubbiamente pregevole (mentre il testo mi appare, nella sua stesura, piuttosto caotico), la domanda che in me sorge spontanea a questo punto è: com'è possibile che non sia apparentemente insorto, in una situazione del genere, nessun problema di violazione di copyright o nessuna accusa di plagio?
L'altro enigma riguarda poi i presunti interpreti della Chanson: Sylvie Legault e Federico Troiani. Anche qui la situazione è tutt'altro che chiara.
Per quanto riguarda il primo dei due nomi - e premesso che il brano sembra sia stato in realtà cantato effettivamente da Giuditta del Vecchio - Sylvie Legault è un'attrice di cinema e di teatro d'improvvisazione canadese tuttora vivente, e sembra non entrarci niente (almeno secondo Wikipedia e IMDB) con Léolo.
Federico Troiani risulta essere invece un musicista e cantautore italiano attivo tra gli inizi degli anni '70 e i primi anni '80. Ma anche nel suo caso, nessuna delle pagine che lo riguardano e che ho consultato, cita una sua eventuale partecipazione al film come interprete di questa canzone.
Voi ci capite qualcosa? Io, per il momento, mi arrendo.
* * *
Note e crediti
Le informazioni biografiche sui vari personaggi citati sono tratte da Wikipedia.
La lista dei titoli della soundtrack di Léolo proviene dal blog World of soundtrack
Commenti
MikiMoz7 marzo 2014 16:04
Sei andato a pescare un film assurdissimo, a tratti surreale... !
Sì, lei è in Snack Bar Budapest e in effetti non si trovano molte notizie su questa attrice. Inoltre sembra essere sparita da molto tempo...
A me Battisti non piace per nulla, ma è curiosa questa cosa qui che riporti... Guarda, per risolvere qualche mistero del genere, puoi rivolgerti a Nocturno (rivista o forum) ;)
Moz-
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Ivano Landi7 marzo 2014 16:36
Io invece adoro Battisti, Miki, ma solo l'ultimo periodo, quello con Pasquale Panella al posto di Mogol. Considero i 5 dischi (più l'inedito "Gabbianone") della coppia Battisti/Panella il vertice assoluto della musica leggera italiana.
Venendo al film, il tuo suggerimento su Nocturno è buono, ma ti confesso che a me più che risolverli nei misteri piace sguazzarci ;) Sono però contento quando nelle mie peregrinazioni mi imbatto in un indizio, anche minimo, che va ad accumularsi agli altri in mio possesso :)
MikiMoz7 marzo 2014 23:52
Sì, ti capisco perfettamente.
Anche io ho qualche mistero legato a ricordi... spesso ne ho parlato sul blog e tra un po' ne riparlerò, sperando che possiate aiutarmi!
In ogni caso, mi ero perso la tua risposta al post precedente, ho letto ora :)
Moz-
Ivano Landi8 marzo 2014 07:37
Uhmm... sembra interessante. Aspetto i post e spero di poterti essere utile, se sono cose pertinenti ai miei campi d'indagine :) Per me i ricordi sono fondamentali e uno dei miei motti è il milleriano (nel senso di Henry Miller): "Ricordati di ricordare".
Marco Lazzara12 marzo 2014 22:49
No, questo film non lo conoscevo proprio.
Ci sarà un secondo post in cui cercherai di svelare il mistero dietro la colonna sonora?
RISPONDI
Ivano Landi13 marzo 2014 10:15
Pare che oltre ai grandi misteri classici - UFO, Loch Ness ecc. - esista tutta una selva di mini-misteri ugualmente senza apparente soluzione.
Con Chanson de Bianca anche setacciando internet non si arriva da nessuna parte. Proprio come era successo per Come little children nel mio post precedente.
Forse bisognerebbe adottare per entrambe i casi la soluzione proposta da MikiMoz, cioè chiedere a Nocturno. Ma almeno per il momento preferisco dedicare il mio tempo a occuparmi di nuovi argomenti.
Chuck16 aprile 2015 19:28
Congratulazioni per un buon articolo simile. Solo una piccola osservazione: la canzone 6 ha il nome sbagliato. Il suo nome è "Sabahiya", ed è eseguita da Banga (Tanta-Suaag). Saluti! Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Passion_–_Sources
RISPONDI
Ivano Landi17 aprile 2015 07:52
Grazie delle congratulazioni e benvenuto nel mio blog. E anche della precisazione. Avevo preso la lista pubblicata in questo post da un sito specializzato in colonne sonore e può darsi ci siano anche altri errori... chissà.
Un saluto e ancora grazie!
Kuku30 novembre 2018 15:08
I misteri legato a questo film sono piuttosto impenetrabili!
E' veramente strano che della Del Vecchio sia sparita ogni traccia, com'è possibile?
Il nome Leolo mi sembra davvero evocativo. Ma è un diminutivo siciliano? Anche se non c'entra per nulla, il suono mi fa venire in mente Mr. Trololo!
RISPONDI
Ivano Landi30 novembre 2018 19:52
Davvero pazzesca la situazione di questo film, Kukuviza... tutte le strade che intrapresi all'epoca per cercare di venirne a capo finivano in un vicolo cieco. Chissà se oggi, a quasi cinque anni di distanza, qualcosa è cambiato.
Sul nome Léolo, non ricordo se è chiaramente specificato nel film, ma credo che il giovane protagonista lo ritenga appunto un nome siciliano.
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Anite di Tegea: una grande poetessa con le palle, l’Omero donna che non scriveva di cose tenere e delicate, ma di morenti, militari caduti, suicidi e cani da corsa, risorge dall’antichità
Un pregiudizio difficile da estirpare è che le poetesse debbano scrivere solo di cose dolci, tenere e delicate, in toni gentili e vezzosi. Un disgraziato malinteso, si capisce. Ugo Pontiggia è troppo acuto per caderci, però, e lo dimostra nella sua traduzione con commento degli Epigrammi di Anite di Tegea (La Finestra editrice, 79 pp., 16 euro). Anite è una poetessa vissuta in età ellenistica, in Arcadia, e appartenente, come Nosside, altra poetessa, e Leonida di Taranto, “all’area dorica del primo epigramma ellenistico, caratterizzata da una predilezione per le descrizioni ambientali e dal realismo delle situazioni e dei dettagli” (D. Del Corno). Di lei ci restano 21 epigrammi, giunti a noi perché compresi in quel ricchissimo repertorio del genere che è l’Antologia Palatina: essi vertono su diversi argomenti, e sono caratterizzati da una genuina effusione della sensibilità e da una partecipazione simpatetica alle minute vicende che immortalano: ma ciò non significa che l’ispirazione di Anite sia esile, perché questa autrice sa entrare nel cuore delle vicende, anche se piccole e quotidiane (ecco forse a partire da dove, nel tempo, ella poté venire malintesa).
La varietà fra gli epigrammi ellenistici non era solo tematica, cioè non si esplicitava solo nella scelta dei soggetti (erotici, funebri, letterari, ecfrastici, etc.), ma si manifestava anche nella diversità fra vari gruppi poetici, detti “scuole”: e alla scuola dorica si può ricondurre, infatti, l’interesse per il quotidiano e il familiare. Gli Epigrammi di Anite si concentrano, pertanto, sulle piccole cose di ogni giorno: un capro con cui i bambini giocano, dopo averlo adornato di briglie di porpora, un epitaffio per una cavalletta e per una cicala cui Mirò, una bambina, fece una tomba comune, la sepoltura per un cavallo, meneidaios, “valoroso in battaglia”, un augurio di buon riposo a un viandante che può ristorare il corpo stanco sotto verdi fronde nella calura infuocata. Tutte situazioni molto semplici, che Anite sa immortalare con accuratezza e precisione. Tuttavia, la sua lingua non è leziosa, né lo è la traduzione di Pontiggia, ma precisa, esatta, direi quasi affilata nella sua essenzialità: e questo è il maggior pregio del volume, che ha anche una veste grafica di rara eleganza, a partire dalla copertina, una fotografia di Tina Modotti raffigurante una giovane, con un semplice abito di un bianco abbagliante, colta nell’attimo in cui il vento inizia a sollevarle i capelli nerissimi.
Della vita di Anite, noi conosciamo molto poco: una testimonianza antica, in Pausania (Viaggio in Grecia 10, 38, 13), così dice: “Il santuario di Apollo era ridotto a un rudere. Lo aveva fatto costruire in origine un certo Falisio, un privato. Falisio si era ammalato agli occhi ed era quasi cieco; il dio di Epidauro gli mandò la poetessa Anite con una lettera sigillata. Anite aveva fatto un sogno che presto divenne realtà. Trovò fra le sue mani la lettera sigillata e, giunta per mare a Naupatto, chiese a Falisio di togliere il sigillo e di leggerla. Lui, cieco, non credeva di poter vedere le parole, ma, sperando che da Asclepio venisse qualcosa di buono, tolse il sigillo e, guardando la cera, guarì. Diede ad Anite quanto era scritto: duemila stateri d’oro”: un brano, di ispirazione fra il leggendario e il religioso, che, con il consueto uso del mondo antico dell’aneddoto, ci comunica il valore della poetessa e il potere della sua azione.
Come nota il curatore della presente edizione Ugo Pontiggia, mancava a oggi un’analisi del carattere unitario della poesia di Anite: le osservazioni della maggior parte dei critici, anche di Albin Lesky (cfr. Storia della Letteratura Greca – III –L’Ellenismo, trad. it. Di F. Codino, Milano 1996, p. 918), si fermano a sottolinare la freschezza degli epigrammi di questa autrice, il suo aderire minutamente alla realtà quotidiana e così via. Pontiggia però si spinge oltre, e, a integrazione di quanto già osservato in passato, nota come la poesia di Anite sorprenda per la tecnica di ripresa allusiva dei testi antichi, soprattutto di Omero: negli epigrammi qui presentati, infatti, “innovazione e tradizione si fondono in una nuova e riposata lingua”, in cui risalta “la capacità di accostarsi ai soggetti del racconto con delicatezza e compassione” (p. 9): una bimba morente, tre giovani donne che scelgono di suicidarsi, alcune ragazze morte prima delle nozze, un comandante caduto, un cane da corsa, i piccoli animali che allietano i giochi dei bambini, sono i personaggi di Anite, che per ognuno di essi “sa trovare parole antiche e talora nuovissime, ma tutte nel segno di una condivisione nel momento estremo, con una grazia e una raffinata semplicità che colpirà il lettore” (ibid.).
Non vi è più in questa poesia la vertigine del divino, di una parola poetica che apre uno squarcio in un mondo dominato dalla potenza degli dèi, e nemmeno c’è la ricerca fine a se stessa dello splendore della lingua: piuttosto troviamo una poesia che riesce, attraverso le minute esperienze del quotidiano, anche nei suoi particolari intrisi di dolore, a proporci un’attenzione particolare per i deboli e i sofferenti. Certo, colpisce che nella poesia di Anite abbiano un ruolo di primo piano i bambini: nell’Iliade essi occupavano uno spazio marginale, anche se, già in Omero, si possono trovare i primordi di una capacità descrittiva piena di partecipazione simpatetica, con grande attenzione alla bellezza, che troverà ulteriore sviluppo nei testi della poetessa ellenistica: per esempio, Omero sottolinea la bellezza di Astianatte, paragonato a una stella, che piange spaventato, vedendo il gigantesco elmo del padre Ettore ondeggiare davanti a sé con il suo intimidente cimiero, e che con il suo pianto determina una distensione dell’atmosfera creatasi fra i genitori; e più tardi, Simonide, nel celebre Frammento 543 Page, descriverà Danae la quale, rinchiusa col figlioletto Perseo in una cassa abbandonata alla mercé delle onde del mare, chiederà al piccolo di dormire per non temere quel che fa paura nella notte senza luce.
Forse, ipotizza Pontiggia, questa attenzione per i piccoli, gli ultimi, coloro che sono toccati dall’ombra della morte, è il portato di una tradizione antichissima, propria del folklore greco (e non solo greco) che assegnava alle donne un ruolo fondamentale nell’elaborazione del lutto e nei riti funebri, e, specularmente, nei riti che riguardano non solo la morte, ma anche la nascita. Pensiamoci: gli eroi greci piangono, e danno ampiamente sfogo al loro dolore con le lacrime (pensiamo ad Achille per la morte di Patroclo), ma poi sono capaci di allontanare da sé questa afflizione, riconoscendo in questo atto la prerogativa dell’agire maschile: e così Archiloco, in un’elegia per alcuni concittadini periti in mare, afferma, all’ultimo verso: “Ma fin d’ora sopportate, respingendo il femmineo lutto” (Frammento 10 Tarditi).
Non erano certo solo le donne a essere incaricate del compianto funebre nell’antichità: lo facevano anche gli uomini, e anche lamentatori professionali, ma non è un caso che la conclusione dell’Iliade coincida con il momento di massimo pathos provocato dal compianto delle donne troiane per la morte di Ettore, compianto che viene assegnato in prima battuta alla moglie, Andromaca, e alla madre Ecuba, e, infine, a Elena. Questo elemento permane in età storica, e quindi anche nella poesia di Anite, quando ancora all’elemento femminile si assegna un ruolo centrale nel dare inizio alla vita, e nel sancirne la fine, accompagnando con i canti rituali l’estremo rito, il commiato dall’armonia e dalla bellezza del cosmo, che si rivela anche nei suoi dettagli.
Silvia Stucchi
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Il tesoro delle scienze occulte. Gli stregoni. Lo stregone, sacerdote della chiesa demoniaca
Il tesoro delle scienze occulte
Gli stregoni
Lo stregone, sacerdote della chiesa demoniaca
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Le quattro streghe. di Israel van Mackenem, sec. XV
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Compendium Maleficarum, PAdre Guaccius, Milano, 1626
E' perfettamente logico dunque che alcuni uomini, preso atto dell'esistenza dei due opposti del bene e del male e avendo constatato che Dio aveva sulla terra la sua Chiesa ricca e onorata, i suoi preti, la sua liturgia, le sue cerimonie, la sua messa, i suoi libri si siano chiesti perché lo spirito del male, di cui talvolta si mostrava loro un'immagine spaventosa, non avrebbe potuto anch'egli avere la sua Chiesa, i suoi sacerdoti, le sue cerimonie, la sua messa. E' perché non avrebbero potuto questi sacerdoti del demonio concedere loro ciò che Dio non si era degnato di concedere? Perché non tributare ad essi tutti gli onori chiedendo a lui la felicità e la gioia, dato che lo si diceva padrone delle ricchezze temporali e beni transitori? La Chiesa lo rappresentava come un angelo decaduto, ma non era egli l'equivalente di Dio, poiché nel libro di Giobbe lo vediamo partecipare al consiglio del Signore, parlare a quest'ultimo familiarmente e addirittura fare con lui una scommessa?
Non si mostra impunemente il diavolo sulle cattedrali per dieci secoli a trenta generazioni di uomini senza che arrivino ad esserci dei curiosi che lo vogliono vedere veramente di persona, degli adulatori che gli vogliono fare la corte e dei ribelli che vogliono consacrargli il proprio corpo e la propria anima. Satana ebbe i suoi sacerdoti: gli stregoni. Soprattutto ebbe le sue sacerdotesse: le streghe. E sempre come conseguenza della più ovvia logica, dato che gli uomini erano i soli ammessi al servizio del Signore, le donne, che ne sono escluse, si volsero in numero preponderante al suo rivale tenebroso che le accoglieva con maggiore magnanimità.
Sulla pietra di volta di destra del portale ovest della cattedrale di Lione non vediamo uno stregone, ma una strega tra le sculture zodiacali, si tratta di un'opera molto strana del principio del XIV secolo, certo la più antica rappresentazione di questo personaggio in una cattedrale. La sua presenza non può che indicare un implicito riconoscimento da parte della Chiesa della realtà della stregoneria, a differenza di alcuni cristiani moderni, che sarebbero ben lieti di rinnegare queste imbarazzanti tradizioni e con esse il diavolo.
La strega è nuda, e lo sarà anche nelle incisioni del sabba, del XVI e XVII secolo: cavalca un caprone di cui tiene con la destra un corno mentre con la sinistra fa volteggiare un animale, il classico gatto nero, lo stesso che ritroviamo ancor oggi presso le cartomanti. Nel bassorilievo di fronte due personaggi rinchiusi in un castello fortificato la indicano dall'alto delle torri all'attenzione di un terzo che le lancia addosso due cani e corre a rinchiudersi precipitosamente nella porta rimasta aperta del maniero.
E' quasi impossibile dare una definizione precisa dello stregone: le sue funzioni erano molteplici ed esistevano diversi tipi di stregoni e di streghe, senza contare che questi nomi erano spesso attribuiti abusivamente a personaggi che occupavano posti ben diversi nella scala sociale e che erano ben distanti gli uni dagli altri per il loro grado di cultura.
Funzione principale dello stregone era da gettare la mala sorte su coloro verso cui per una ragione era di gettare la mala sorte su coloro verso cui per una ragione o per l'altra aveva dell'ostilità: invocava su di essi la maledizione dell'inferno, così come il prete invocava la benedizione del cielo, e in questo campo egli si trovava in rivalità diretta e assoluta col mondo ecclesiastico.
Egli poteva inoltre, ottenere benefici e vantaggi temporali per coloro che erano disposti a fare un patto, vantaggi che la Chiesa condannava per la loro origine demoniaca, anche qui lo stregone si trovava in netta contraddizione col prete, il quale predicava che i beni temporali non possono essere ottenuti senza peccato tranne che da Dio, indirizzandosi a lui, o direttamente o tramite i suoi santi.
C'erano stregoni esperti che conoscevano l'arte di far apparire il diavolo i demoni subalterni dell'immenso esercito infernale; evidente superiorità sul prete, al quale la teologia impediva di tentare Dio con la richiesta di miracoli e che quindi non poteva provocare alcuna apparizione benevola; altri stregoni, detti necromanti, facevano apparire i morti, operazione che spesso viene confusa con l'apparizione dei demoni da cui invece differisce nettamente.
Si dava il titolo di <<stregone>> o <<strega>> a individui che in realtà erano semplicemente dei <<posseduti>> e questa distinzione non è definita con chiarezza. I fenomeni di innovamento erano spesso, manifestati con la stregoneria e dovevano ritrovarsi persino nella consacrazione suprema delle svariate qualità dello stregone, il capolavoro dell'arte infernale: il sabba, adunata di tutti gli stregoni d'una zona sotto la direzione del diavolo in persona. Non tutti gli stregoni però si recavano al sabba e non tutti erano dediti alle attività tenebrose che abbiamo citato. Molti erano quelli che si limitavano ad esercitare arti meno malefiche: predicevano la buona ventura, leggevano l'avvenire nei tarocchi, interpretavano le linee della mano e si dedicavano alla divinazione secondo svariati procedimenti di cui si trasmettevano misteriosamente le tradizioni. Quella popolazione girovaga degli zingari pare si sia sempre dedicata in modo particolare a questo genere di stregoneria, mentre di stregoni sataneggianti erano solitamente stabili nel loro paese.
C'erano infine gli stregoni che definiremo <<intellettuali>>. Venivano chiamati stregoni perché non esisteva allora il concetto esatto di quello che è oggi per noi lo <<scienziato>>, L'uomo dotto era l'uomo dei libri, insegnava ex cathedra nell'università senza allontanarsi dalla dottrina della Chiesa e da quella di Aristotele. Ma colui che si cimentava nella manipolazione della materia per strapparle i segreti nell'ombra del laboratorio e per coordinare i primi in certi passi della scienza sperimentale, era una specie di mago, nome che spesso gli veniva dato perché allo studio dei segreti della natura affiancava volentieri attività psichiche.
In tutte le città della Germania, dell'Ungheria, delle Fiandre e del Brabante nel medioevo c'era sempre un vecchio che viveva isolato in una casa misteriosa, in fondo a qualche vicolo cieco, col catenaccio della porta ineluttabilmente sprangato in faccia ai curiosi e agli intrusi. Mezzo orefice e mezzo antiquario, veniva ritenuto estremamente ricco; talvolta aveva una figlia graziosa che si faceva vedere soltanto a messa e che non sapeva nulla dell'attività del padre. Si immaginava che egli leggesse negli astri e cercasse di trasformare i metalli e che cercasse degli automi, si finiva nel concludere che aveva venduta l'anima al diavolo e li si chiamava dunque stregone. Questo personaggio, molto popolare, ha ispirato una quantità di racconti fantastici, come quelli di Hoffmann; il famoso dottor Faust.
Ci furono anche monaci ai quali si diede questo appellativo: Ruggero Bacone e Alberto Magno, che divenne arcivescovo di Ratisbona in Baviera, si lasciarono alle spalle fama di stregoni. E ci furono anche dei re, come Enrico III e sua madre Caterina dè Medici, e perfino dei papi: il papa san Leone Magno vissuto nel V secolo, il papa Onorio del VII secolo e il papa Silvestro II dell'XI secolo furono tutti, a torto o a ragione, ritenuti stregoni e si attribuirono loro diverse magie.
Numerosissimi nei secoli passati, di stregoni di campagna non sono ancora completamente scomparsi in Europa, ma se ne incontrano ancora spesso nei paesi balcanici e jugoslavi.
Quanto agli stregoni di città, oggi sono rappresentati dalle chiromanti, dalle cartomanti e dagli astrologhi; la scienza di questi ultimi ha visto nella prima metà del nostro secolo un vero e proprio rifiorire ed essi sono attualmente numerosi in Francia, in Germania, in Danimarca, in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Tramite gli alchimisti essi si ricollegano come un tempo alla scienza analitica e sperimentale che non di rado si china sui libri del passato chiedendosi se gli antichi non abbiano avuto l'intuizione delle più avanzate teorie moderne.
#Annalisa Lanci#il tesoro delle scienze occulte#superstizione#buio#buio tra cielo e terra#tra cielo e terra
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Soltanto attenendoci al corso prescritto dal tempo possiamo percorrere rapidamente gli immensi spazi che ci separano gli uni dagli altri. Senza dubbio, disse Austerlitz dopo qualche istante, il rapporto fra spazio e tempo, così come ne facciamo esperienza noi viaggiando, ha ancor oggi qualcosa di illusionistico e illusorio, ed è anche per questo che ogni qualvolta ritorniamo da un viaggio, non sappiamo mai con certezza se davvero siamo stati via. __________ Dall'esempio di simili opere di fortificazione più o meno così Austerlitz concluse, alzandosi dal tavolo e mettendosi lo zaino in spalla, le osservazioni fatte allora sullo Handschoenmarkt di Anversa - possiamo facilmente vedere come noi, a differenza degli uccelli che per millenni costruiscono sempre lo stesso nido, siamo inclini a spingere le nostre imprese ben oltre ogni ragionevole limite. Prima o poi, disse ancora, bisognerebbe catalogare i nostri edifici, ordinandoli secondo le dimensioni: si scoprirebbe subito che a prometterci almeno un barlume di pace sono proprio quelli collocati al di sotto delle normali dimensioni dell'architettura domestica - la capanna, l'eremo, le quattro mura del guardiano delle chiuse, la specola di un belvedere, la casetta dei bambini in giardino -, mentre di un edificio enorme, come ad esempio del Palazzo di giustizia di Bruxelles, su quello che una volta era il colle della forca, nessuno potrebbe sostenere a mente fredda che è di suo gradimento. Nel miglio dei casi lo si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l'ombra della loro distruzione e, sin dall'inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine. __________ Perfino adesso che sto cercando di ricordare, che ho ripreso in mano la pianta granchiforme di Breendonk e nella didascalia leggo le parole Ex ufficio, Tipografia, Baracche, Sala Jacques Ochs, Cella d'isolamento, Obitorio, Reliquiario e Museo , l'oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadono incessantemente nell'oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno... __________ A differenza di Elias, il quale stabiliva sempre un collegamento tra malattia e morte da una parte e prova, giusta punizione e colpa dall'altra, Evan raccontava di morti che, colpiti anzitempo dal destino, sapevano di essere stati defraudati di ciò che spettava loro e cercavano quindi di ritornare in vita. Chi aveva occhio per queste cose, non di rado riusciva a vederli. A tutta prima sembravano persone normali, ma se li si fissava con particolare attenzione, i loro volti sparivano o tremolavano un poco ai bordi. Inoltre, erano quasi sempre di una spanna più piccoli di quanto non fossero da vivi, perché l'esperienza della morte, sosteneva Evan, ci rimpicciolisce, esattamente come una stoffa nuova, quando la si lava per la prima volta, si restringe. __________ Alla parete, sopra il basso banco da lavoro di Evan, disse Auterlitz, pendeva da un gancio il drappo nero portato via dal nonno al feretro quando le figure imbacuccate che lo trasportavano erano passate davanti a lui, ed è certamente stato Evan, disse ancora Austerlitz, a raccontarmi che è un simile velo di seta, e nulla di più, a separarci dall'aldilà. __________ Perfino quando in direzione Penrith-Smith, uomo particolarmente bonario, doveva far assaggiare la bacchetta a uno di noi per via di qualche episodio che gli era giunto all'orecchio, si aveva quasi l'impressione che la vittima concedesse temporaneamente all'esecutore della pena un privilegio che in realtà spettava soltanto alla vittima stessa, destinataria della punizione. __________ Allora, a tredici anni, non ero certo in grado di capirlo, oggi però mi rendo conto che l'infelicità accumulatasi in lui aveva distrutto la sua fede proprio nel momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno. Quando d'estate tornai di nuovo a casa, già da settimane non era più in grado di assolvere al suo ufficio di predicatore. Un'unica volta salì ancora sul pulpito. Aprì la Bibbia e, con voce rotta e come se lo facesse soltanto per sé, lesse un versetto dal Libro delle Lamentazioni: He has made me dwell in darkness as those who have benne long dead. La predica che doveva seguire, Elias non la tenne più. Restò lì fermo per qualche tempo a guardare oltre le teste della sua comunità paralizzata dal terrore, con gli occhi immoti di un cieco, così mi parve. Poi ridiscese lentamente dal pulpito e uscì dalla casa del culto. __________ Far visita a uno dei miei conoscenti, in ogni caso poco numerosi, oppure frequentare gente, nel normale senso dell'espressione, era ormai impossibile per me. Mi faceva orrore, disse Austerlitz, dover ascoltare qualcuno e, ancor più, essere io stesso a parlare, e procedendo in tal modo le cose, capii a poco a poco in quale isolamento io vivessi e avessi sempre vissuto, tra la gente del Galles non meno che tra gli Inglesi e i Francesi. Non mi è mai accaduto di pensare alla mia vera origine, disse Austerlitz. Né mai mi sono sentito parte di una classe, di una categoria professionale o di una confessione religiosa. Fra gli artisti e gli intellettuali mi trovavo non meno a disagio che nella vita borghese, e stringere un'amicizia personale già da lungo tempo era un'impresa superiore alle mie forze. Appena conoscevo qualcuno, subito pensavo di essermi consentito un'eccessiva confidenza; appena qualcuno si rivolgeva a me, io cominciavo a prenderne le distanze. Se in generale qualcosa mi legava ancora agli uomini, erano in definitiva soltanto certe forme di cortesia, da me addirittura esasperate, il cui fine - come oggi so, disse Austerlitz - era non l'omaggio all'interlocutore del momento, ma la possibilità di sottrarmi alla consapevolezza di essere sempre vissuto - per quanto indietro riuscissi a risalire con il pensiero - in uno stato di assoluta disperazione. __________ Quanto ai primi tempi trascorsi a Bala sotto la tutela dei coniugi Elias, non sarei più in grado di ricostruirli. Dei nuovi abiti, che mi resero assai infelice, di questo mi rammento, così come dell'inesplicabile scomparsa dello zainetto verde, e di recente ho avuto addirittura l'impressione di ricordare ancora qualcosa dell'atrofizzarsi in me della lingua materna, del suo echeggiare mese dopo mese sempre più fievole e rimasto dentro di me, penso, per qualche tempo almeno, come una sorta di raschiare o batter colpi prodotto da un'entità prigioniera che sempre, quando le si vuol prestare attenzione, si arresta e tace per lo spavento. __________ A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l'impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d'animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l'aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce. Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto, e mai questa sensazione è stata così forte in me quanto quella sera nella Šporkova, mentre il paggio della regina delle rose mi trafiggeva con lo sguardo. __________ Particolarmente inquietanti mi parvero però le porte e i portoni di Terezìn, che sbarravano tutti l'accesso, come credetti di avvertire, a uno oscurità non ancora violata, nella quale - così pensai, disse Austerlitz - nulla più si muoveva tranne l'intonaco che si sfalda dalle pareti e i ragni che secernono i loro fili, corrono sulle assi con le loro zampette veloci o restano sospesi alle tele in fiduciosa attesa. __________ Che cosa significavano la tovaglia di pizzo bianco, quella dei giorni di festa, appesa allo schienale dell'ottomana, e la poltrona da salotto con la sua fodera di broccato stinto? Quale segreto nascondevano i tre mortai in ottone di varia grandezza che evocavano responsi oracolari, oppure le coppe di cristallo, i vasi di ceramica e le brocche di terracotta, il cartellone pubblicitario di lamiera che recava la scritta Theresienstadter Wasser, lo scrigno con le conchiglie, l'organetto in miniatura, i fermacarte sferici, nelle cui bocche di vetro galleggiavano favolosi fiori subacquei, il modellino di una nave, una specie di corvetta a vele gonfie, la casacca del costume locale, in una leggera stoffa estiva di lino chiaro, i bottoni di corno di cervo, l'enorme copricapo degli ufficiali russi e la relativa uniforme olivastra con le spalline dorate, la canna da pesca, il carniere, il ventaglio giapponese, il paesaggio infinito, dipinto con lievi pennellate intorno a un paralume, e nel quale un corso d'acqua scorreva placido, non si sa se in Boemia o in Brasile? E poi, in una teca non più grande di una scatola da scarpe, quello scoiattolo impagliato, e in certi punti già roso dalle tarme, che a cavalluccio su un ramo mozzo teneva implacabilmente fisso su di me il bottone vitreo del suo occhio e il cui nome ceco - veverka - mi tornò alla memoria da lontano, come quello di un amico da tanto tempo dimenticato. Che cosa poteva significare - così mi domandavo, disse Austerlitz - quel fiume che non ha né sorgente né foce, ma rifluisce costantemente in se medesimo, oppure veverka, quello scoiattolo sempre fermo nella stessa posizione, o ancora il gruppo in porcellana color avorio raffigurante un eroe a cavallo che, in groppa al suo destriero ritto sulle zampe posteriori, si piega all'indietro per sollevare con il braccio sinistra un'innocente creatura femminile, priva ormai anche dell'ultima speranza, e salvarla così da una sciagura non rivelata all'osservatore, ma senza dubbio spaventevole? Altrettanto fuori dal tempo, come quell'attimo salvifico, sospeso nell'eternità e che continua ad aver luogo qui e ora, erano tutti i ninnoli, gli attrezzi e i souvenir arenatisi nel bazar di Terezìn, i quali, per una serie di coincidenze imperscrutabili, erano sopravvissuti ai loro antichi proprietari e scampati al processo della distruzione, sicché ora in mezzo a essi io riuscivo a cogliere solo indistintamente e con fatica la mia ombra. __________ Tutto questo adesso lo capivo, e nel contempo non lo capivo: ogni particolare che, mentre visitavo il museo da una sala all'altra e poi di nuovo all'indietro, si dischiudeva davanti a me - davanti a colui che, come temevo, era rimasto nell'ignoranza per propria colpa - superava infatti di gran lunga la mia capacità di comprensione. __________ Alla fine, disse Austerlitz, quando la ricamatrice si avvicinò per avvisarmi che era ormai ora di chiudere, stavo leggendo per l'ennesima volta su una didascalia che a metà dicembre del 1942, dunque proprio nei giorni in cui Agàta arrivò a Terezìn, erano recluse nel ghetto, su una superficie edificata di un chilometro quadrato al massimo, circa sessantamila persone, e poco dopo, quando mi ritrovai di nuovo fuori sulla piazza deserta, sentii con inequivocabile certezza che quelle persone non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e nei solai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura l'intero spazio fra cielo e terra che una pioggia sottile tratteggiava di grigio. __________ A quell'epoca le miniere - così lessi mentre sedevo davanti alla fortezza di Breendonk - erano già state nella maggio parte dismesse, comprese le due più grandi, la Kimberley Mine e la De Beers Mine, e poiché mancavano di recinzione era possibile spingersi - se si aveva il coraggio di farlo - sino al limite più avanzato di quelle enormi cave e guardar giù in un abisso di migliaia e migliaia di piedi. Davvero orrido, scrive Jacobson, era vedere che a un passo dal terreno solido si spalancava un simile vuoto, comprendere che non vi era transizione alcuna, ma solo quella linea di confine, da un lato la vita nella sua ovvietà e dall'altro, di questa vita, l'inimmaginabile antitesi. L'abisso, che nessun raggio di luce riesce ad attingere, è l'immagine impiegata da Jacobson per indicare la storia remota e sommersa della sua famiglia e del suo popolo che di laggiù, ne è ben consapevole, mai potranno risalire in superficie.
W.G. Sebald, Austerlitz
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Il santo del 7 settembre: Beata Eugenia Picco
Beata Eugenia Picco Lei ha pronunciato queste parole: “Come Gesù ha scelto il pane, cosa tanto comune, così deve essere la mia vita, comune... accessibile a tutti e, in pari tempo, umile e nascosta, come è il pane". Queste parole di Eugenia Picco scaturiscono da una lunga contemplazione di Gesù, Pane di vita, spezzato per tutti. A questa contemplazione Eugenia arriva dopo lungo e sofferto cammino. Nasce a Crescenzago (Milano) l'8 novembre 1867 da Giuseppe Picco e Adelaide Del Corno. Il padre è un valido musicista de «La Scala» di Milano, cieco. La madre è una donna frivola, che non ama il marito, ma ama il denaro, il successo e i viaggi. Eugenia è spesso affidata ai nonni e incontra i genitori solo nelle brevi soste che si concedono tra una tournée e l'altra, fino a quando un giorno la madre torna sola, senza il marito, facendolo credere morto. Del padre, Eugenia non saprà più nulla. Da questo momento la madre costringe la figlia ad andare ad abitare con lei e con il suo convivente, dal quale, in seguito, avrà altri due figli. Eugenia cresce in un ambiente irreligioso e moralmente guasto, dovendo fare i conti con i desideri mondani della madre che la vuole cantante di successo e con il convivente della madre che la molesta e infastidisce spesso. #chiesacattolica Read the full article
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Raccontami una storia (seconda parte)
- Ci sei? - Si. - Ti vedo pensieroso. - Sono solo un pò annoiato, tutto qua. - Ti va di finire di raccontarmi la storia? - Certo. Vieni qui, appoggiati a me. No, non così, fatti abbracciare. Ecco, perfetto. Dove eravamo rimasti? - Gli dei hanno abbandonato Loki. - Ah si, giusto. Allora, Loki è incatenato ad una roccia, con un serpente sopra che gli brucia il volto col suo veleno. Nel frattempo, nel resto dei mondi, si avvicendano gravi catastrofi. Giunge un inverno terribile, freddo e pungente che distruggerà ogni raccolto. Le bestie muoiono e gli uomini sono ridotti alla fame e alla disperazione, al punto di uccidersi tra loro. I figli si scagliano contro i padri e i fratelli contro i fratelli. L’amore, l’amicizia, la lealtà non contano più nulla. Tre anni di freddo intenso ed ininterrotto portano i popoli alla follia, e dalla follia nascono guerre e pestilenze. All’apice del dolore, quando sembrava che nulla di peggio potesse accadere, poiché l’umanità è ormai ridotta all’osso, discendono le tenebre eterne. Il sole e la luna infatti, sono stati divorati da due bestie malefiche, due lupi di dimensioni spropositate. A causa della sofferenza per la perdita dei loro astri, anche le stelle si spengono, sprofondando il creato nell’oscurità totale. Ma è solo a questo punto che avviene il vero disastro. Yggdrasill è indebolito, e si scuote tutto, dalla cima più alta dei suoi rami alla punta più profonda delle sue radici, tra le quali giaceva il serpente Nidhoggr. La terribile scossa provoca catastrofi naturali in tutti i nove mondi. Terremoti, incendi, alluvioni, tempeste e tornadi imperversano ovunque ma, quel che è peggio, è che Loki riesce a liberarsi. - è arrabbiato? - A dir poco. Tu come ti sentiresti se ti legassero ad una pietra per l’eternità, lasciandoti li a patire la fame, la sete, col volto costantemente schizzato da acidi velenosi? - Praticamente quel che succede il Lunedì mattina quando non trovo nemmeno il caffè. - Scèm. Comunque. Loki è furente, gli dei lo hanno sbeffeggiato, oltraggiato e umiliato. Lui, che è una forza primordiale! Costi quel che costi, devono pagarla! E così con la sua magia costruisce una nave terribile, fatta con le unghie dei morti e, radunati i suoi mostruosi figli e un esercito pari solo a quello di Odino, parte alla volta di Asgard per distruggerla. Ma Heimdall, il guardiano di Asgard che vigila sul ponte Bifrost, nota subito i movimenti dell’esercito di dannati e, soffiando all’interno del suo poderoso corno, chiama a raccolta l’esercito degli Aesir e dei loro alleati. Tutti i guerrieri morti valorosamente in battaglia, infatti, venivano accolti da Odino, e aspettavano con ansia che venisse questo giorno. La battaglia è feroce, perché gli schieramenti sono alla pari. I primi a cadere sono Odino e il lupo Fenrir, figlio di Loki. Colti alla sprovvista, molti Aesir cascano in preda allo sconforto, e le forze del caos approfittano del momento di smarrimento finché Thor non uccide il Jormungand, il serpente che avvolge il mondo tra le sue spire. La gioia per la vittoria è però di breve durata perché il veleno del serpente è penetrato nella pelle di Thor che, sopraffatto dalla stanchezza, si lascerà morire. Lo scontro continua e pochi sono i superstiti. Ovunque giacciono Aesir, giganti di ghiaccio e di fuoco e altri bestie mostruose. Gli ultimi che ancora combattono sono Loki e Heimdall, ma le forze hanno ormai abbandonato entrambi. Sono stremati, spossati, e con un ultimo, tremendo colpo, si ammazzano a vicenda. Niente è più vivo sul campo di battaglia, e al di fuori dei suoi confini, sono pochi i sopravvissuti. Surthur, un gigante di fuoco, da allora fuoco all’intero creato, riducendolo in cenere. - Quindi nessuno ha vinto? - Beh. Diciamo gli Aesir. Il loro sacrificio non è stato vano perché sono sopravvissuti i figli di Odino e di Thor, e dall’inferno di Hel, Balder e sua moglie fanno ritorno e tutti insieme daranno origine ad un nuovo futuro per tutta l’umanità. - Mmm. - Che c’è? - Niente! - Non è vero, ti si è formata la ruga in fronte, tra le sopracciglia. Cos’è che non ti convince? - No, niente, è che finisce male. - Beh, lo sapevi già, ma questa è mitologia, non una fiaba, non sempre c’è il lieto fine. Che poi non è vero, perché con il ritorno di Balder c’è di nuovo speranza. - Ma no! Anzi, è completamente ingiusto! - Ingiusto? - Si! In questa storia i buoni sono dei grandissimi stronzi, e gli stronzi sono quelli che vengono maltrattati. - Ma che dici? - Ma si, pensaci. Freia, la dea ninfomane, si innamora dello scemo del villaggio (ah, tra l’altro è incesto quello) e fa giurare a tutti quanti che non torceranno un capello al suo povero, piccolo, figlioletto, che così diventa imbattibile e può vantarsi di essere forte, coraggioso e audace. Ci credo, pure un ragazzino di 20 chili, maglione compreso, può essere un eroe così. Bello vincere facile. - Ma Balder era buono! - Non è un superpotere. Dovrebbe essere la norma, non eccezione. Comunque. Dopo sta gran stronzata dell’immortalità si mettono a giocare ad un gioco mortale. Balder muore, ammazzano un innocente per aver ucciso Balder, e alla fine puniscono Loki. Ma, cosa sarebbe successo se l’incantesimo di Freia non fosse andato a buon fine? Balder sarebbe morto alla prima ascia, o spada, lanciata, magari per mano di sua stessa madre, o di suo padre. Che avrebbero fatto gli Aesir allora? accoppato il grande Odino? violentato Freia? Nah, se ne sarebbero lavati le mani, avrebbero pianto un pò e poi avrebbero ripreso la propria vita indolente. Ma, siccome ad uccidere Balder è stato Loki, allora decidono di punirlo per l’eternità. Solo perché Loki, non era uno di loro. Era un mezzo gigante. (Tra l’altro, gran bastardi a prendersela col cieco. Bravi tutti così) Ci credo che si è incazzato, io pure mi incazzerei. Altro che dare fuoco al mondo, io ve magno tutti impanati e fritti, a stronzi! - E questo cosa ti dice? - Che non bisogna mai allontanare il diverso, ma accoglierlo; che le persone, anche quelle considerate migliori, indossano delle maschere; che il confine tra bene e male non è sempre netto e distinto. E che non bisogna MAI, MAI fare incazzare il dio degli inganni, o prima o poi quello torna e ti brucia il culo. - Sai una cosa? - Cosa? - È per questo che ti amo.
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L’occhio del toro
Uno dei nemici di Daredevil, l'uomo senza paura, è comparso più o meno negli anni Ottanta. Indossava un costume che a me piaceva molto. La sua capacità era quella di avere una mira straordinaria. E di trasformare qualsiasi oggetto in un'arma. La casa editrice Corno l'aveva battezzato Occhio di bue. Commettendo un clamoroso errore. Perché il nome originale è Bullseye. Tradotto letteralmente significa, appunto, occhio di bue o occhio del toro. In realtà il termine indica il centro del bersaglio. La casa editrice che dopo la chiusura della Corno ha ripreso le pubblicazioni del fumetto, ha però ripristinato il nome americano. Il cinema ha ovviamente stravolto ogni cosa. Nel mediocre film che vede come protagonista Ben Affleck nei panni di Devil, Bullseye (alias Colin Farrell) viene presentato come prima nemesi insieme a Kingpin. In realtà, il nemico storico del supereroe cieco è il Gufo. Kingpin nasce come avversario dell'Uomo Ragno, e solo più avanti si batte con Devil. Ma torniamo a Bullseye. Nel film non indossa il costume dei fumetti. È pelato e porta in fronte una specie di mirino in rilievo. Lo so che quando scrivo queste cose sono un po' cagacazzi. Ma i fumetti sono una cosa seria. E anche se non li compro più, continuo a trattarli con il rispetto che credo meritino.
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Storia 2: Blinnenhorn
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Il primo lunedì del mese mi tornò alla mente quel mio amico con il quale mi ero ripromesso di andare a scarpinare su qualche tremila. Fortuna volle che avesse organizzato per il giorno seguente una gita in Val Formazza. Mi unii al gruppo.
Parto di casa alle cinque del mattino e faccio tutta la strada del Lago d’Orta per arrivare fino a Gravellona Toce evitando l’autostrada e i suoi costi. Le montagne che si vedono dalle sponde del lago sono un invito e in me la voglia di arrivare in cima aumenta. Per le sette ci ritroviamo tutti e, insieme, partiamo per Riale (1700metri), una frazione walser del comune di Formazza. Nel viaggio ci fermiamo al Forno Ossolano dove oltre al cibo necessario mi sono comprato, per golosità pura, due brioches bellissime a vedersi. Cari lettori non dimentichiamoci queste brioches perchè saranno importantissime.
A Riale sono le 8 e 15 del mattino. La luce del sole non è ancora arrivata a fondovalle. Noi proseguiamo con l’auto oltre il villaggio, fino a un parcheggio posto sotto la diga di Morasco. Dopo poco tempo iniziamo il cammino, superiamo la diga e, dopo aver costeggiato il lago omonimo arriviamo all’imbocco del sentiero. Il fondovalle è sempre all’ombra. Il verde alla base delle montagne è intenso e scuro. L’acqua del lago è nera. La luce è lassù, sulle cime acuminate grigie e rocciose. Lo spettacolo davanti a me avrebbe dovuto forse trasmettermi calma e incanto. Invece mi mise in soggezione e in ansia, forse, pensai, per il ricordo che quei luoghi mi suscitavano dall’ultima volta in cui, partito incautamente e stupidamente da solo, andai a scarpinare sui tremila in Val d’Aosta. Quell’avventura si concluse bene solo grazie all’intervento di un amico.
Il sentiero si divide in tre parti, una via è chiusa agli escursionisti, probabilmente per la pericolosità della montagna che sembra franargli sopra, la seconda via è la nostra. La terza va all’Alpe Bettelmatt. L’ansia che io nascostamente tenevo segreta agli altri richiamava nella mia mente sempre più pensieri negativi, ricordi tristi, persone di pianura e di montagna scomparse. Eppure, pensavo, davanti a me i miei compagni vanno avanti, nonostante i loro problemi. E io sono qui a sprecare il mio tempo e le mie energie in questi pensieri invece di rendermi conto che il mondo, la vita e il mio sentiero di bellezze e avventura sono tutti qui,stesi davanti a me, in attesa che i miei scarponi li calpestino.
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Dopo ogni tornante che supero l’energia torna. La voglia di esplorare le cime, di salire ricomincia a impossessarsi di me. La luce è ora alta e il calore inizia a far sudare. Il sentiero ci conduce nella valle laterale dove, dopo una camminata tra arbusti bassi e pietraia, vediamo spuntare la diga del lago Sabbione. Tutte queste dighe, immagino sfruttate per l’energia idroelettrica, sono delle mostruosità grigie, enormi. I laghi che contengono mi fanno paura: sono anch’essi grigi se la luce li colpisce, sono neri se nascosti all’ombra, e sembrano privi di vita come un’enorme colata di mercurio. Oltre la diga, oltre il lago ecco la Punta d’Arbola e la Punta Sabbione con il suo ghiacciaio: subito le nuvole coprono queste cime. Noi proseguiamo lungo le rive del lago. Il sentiero qui è più pianeggiante, più semplice.
Con facilità arriviamo al rifugio Claudio e Bruno (2710 mt.). La vista da qui è fantastica e io, affamato, mi mangio la prima brioches. Buonissima.
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Il Blinnenhorn (3374 mt), ossia il Corno Cieco, non si vede mai. Solo alla fine lo si può ammirare. Il cammino dopo il rifugio è interamente su pietraie e sabbia e sale molto più velocemente. E’ totalmente inutile cercare di capire dove sia la cima. Non si vede. Ma poi alzo la testa ed eccola lì la sommità. In alto sulla nostra testa c’è una cresta che proseguendo verso ovest porta alla vetta. Saliamo ancora, sempre più lentamente, ormai abbiamo superato i tremila e la testa inizia a ballare. Si fa fatica. Raggiunta la cresta vediamo che davanti a noi si apre tutto un ghiacciaio, stupendo, enorme ai miei occhi: il ghiacciaio del Gries. Giro lo sguardo a Ovest: la cima che vedevo dal basso era solo una collinetta di terra e sassi. La vera cima è ancora più in alto, sopra il ghiacciaio. Le nuvole le roteano tutte intorno. Il vento, comparso all’improvviso, è sempre più forte. In fretta ci vestiamo. Io mi mangio anche la seconda brioches. Buonissima.
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Il sentiero è poco segnato. Ci sono solo ometti posti a terra, qualche traccia, ma nessun cartello, nessun altro segnale. Quindi una parte dell’attenzione va a dove passare. Il cammino continua esterno al ghiacciaio. Qualche metro più in là la neve perenne, qualche metro più in qua il burrone. Io sorrido. Mi sembra tutto perfetto: le ansie quassù sono state dominate e io mi sto godendo quello che ho intorno. Giungiamo, in fila, su una piccola sella. Dall’altra parte, a pochi metri da noi c’è il vuoto. Una folata di vento forte fa sbandare prima il mio amico e poi me. Subito ci accucciamo tutti a terra, a quattro zampe come i neonati. L’improvvisa sferzata di vento alza la sabbia e la terra che mi finisce negli occhi. Aspettiamo che tutto sia finito per ripartire con più foga. Arriviamo in cima con un po’ di paura per l’avvenimento di poco prima. Scattiamo due foto e iniziamo la discesa correndo.
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Il tempo sta iniziando a guastarsi: è ormai pomeriggio inoltrato ed è Agosto. Il temporale è un evento da prendere per forza in considerazione in questo periodo. La discesa è veloce. Superiamo il rifugio, continuiamo la discesa. Abbandoniamo le pietraie. Ecco gli arbusti ed ecco la prima pioggia. E, improvviso, il primo lampo seguito da un tuono terribile in quella valle piccola e stretta. Ricominciamo a correre. Altri tuoni fortissimi sopra la nostra testa. Per la seconda volta nella giornata torno a sentirmi un neonato davanti alla natura. Fortunatamente passiamo per un alpeggio dove ci rintaniamo in una casetta aperta. Aspettiamo la fine del temporale. Una volta usciti ricominciamo il cammino, stanchi ma felici. I miei amici, i miei compagni alzano lo sguardo e sorpresi mi indicano un punto davanti a me.
Davanti a noi, alla nostra altezza, un arcobaleno.
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