#Civiltà annientate
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Simone Weil nasceva oggi, 3 febbraio, centoquindici anni fa. Simone la visionaria, il genio poetico, la digiunante, la mai stata baciata. Nata ebrea ma poi divenuta cristiana senza sacramenti, senza battesimo, senza gerarchia. Simone che "la Croce da sola mi basta".
Eri professoressa di liceo ma sei voluta andare a lavorare in fabbrica, nonostante la tua salute già compromessa, per sentire fin dentro la carne la condizione operaia, e poi sei andata a fare la rivoluzione in Spagna, e infine ti sei lasciata morire, sul quel letto a Londra, rifiutando il cibo, per mettere in atto, davvero e non solo a parole, il nucleo centrale del tuo pensiero, ovvero l'idea di decreazione.
Dio per farci esistere s'è ritratto, cercare Dio è asportarsi dal mondo. Creare quel vuoto che lui, lei, ləi ha voluto affinché il nostro essere avesse lo spazio per apparire. Cercare Dio è disfare la creazione, farci a pezzi ovvero farci mangiare. Un'idea né propriamente cristiana né propriamente ebraica. Un'idea sovrannaturale, radicale e piena di grazia, che ci turba e commuove, come ogni cosa in te.
Simone, che non ha mai conosciuto l'amore dei corpi ma i cui scritti vibrano d'un trasporto erotico teso e perfetto, Simone, che amavi la Grecia, il suo pensiero e i suoi miti, ma che amavi soprattutto le civiltà sconfitte, quelle cancellate dalla faccia della terra, tutte le comunità e le culture annientate dalla Bestia sociale, dall'Impero, dal regno della forza.
Simone non convertita ma sempre sulla soglia, luogo di possibilità più che di adesione o appartenenza, il luogo di chi non viene ammesso. Simone, che ci hai insegnato a pensare senza dimenticare la vita, e le sue contraddizioni, dolorose e liberatorie, dal cui attrito, qui e là, sa prodursi la scintilla del senso. Simone, esteta feroce e senza misura, sacerdotessa alla ricerca del tempio perduto, autentica figlia di Urano e Nettuno, tutta né cuore né testa, ma spirito, Simone tutta spirito, facoltà che diffida da ogni identificazione ovvero catena.
Ai genitori poco prima di morire affidasti alcune parole, saluto ed eredità, lascito di tutta una vocazione: “Non siate ingrati verso le cose belle. Godete di esse, sentendo che durante ogni secondo in cui godete di loro, io sono con voi. Dovunque c’è una cosa bella, ditevi che ci sono anch’io“.
Jonathan Bazzi
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La convinzione della nostra vocazione universale è sbagliata e pericolosa. Nega le altre culture e le altre civiltà che verrebbero annientate in favore di una pretesa cultura mondiale del consumismo e dei "diritti dell'uomo" che sono solo "diritti del mercato".
-Dominique Venner
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“ A fine 2017, 15.364 scienziati di 184 paesi firmarono una dichiarazione dal titolo World Scientists’ Warning to Humanity: A Second Notice, in cui si affermava: «abbiamo scatenato un evento di estinzione di massa, il sesto in circa 540 milioni di anni, in cui molte forme di vita attuali potrebbero essere annientate o sulla via per l’estinzione entro la fine di questo secolo». Si potrebbe essere tentati di infischiarsene. Molti, in cuor loro, magari pensano: abbiamo distrutto intere civiltà umane, perché preoccuparsi della scomparsa di un numero, seppur elevato, di specie animali e vegetali? Sopravvivremo tranquillamente. Credo che sia questo il pericolo maggiore: pensare che quanto stiamo facendo non riguardi direttamente la conservazione della nostra civiltà, non si parli nemmeno della sopravvivenza della nostra specie. Come potrebbe l’estinzione di piante, insetti, alghe, uccelli, mammiferi vari, influire sulla nostra sopravvivenza? Ok, è triste che i rinoceronti, i gorilla, le balene, gli elefanti, le banane, le foche monache, le lucciole, le violette si estinguano ma, alla fine, chi li ha mai visti? Viviamo in città. Per noi urbani, la natura è roba da documentari, niente a che vedere con noi. A noi interessa lo spread, il pil, l’euribor, il nasdaq, sono queste le cose che possono far crollare la civiltà come la conosciamo. Sbagliato! Lo ripeto, è l’idea – talmente diffusa da essere diventata un luogo comune – che noi umani siamo fuori dalla natura che è veramente pericolosa. L’estinzione di un numero così elevato di specie, in un tempo così breve, è qualcosa le cui conseguenze non possiamo valutare. Scrive Rodolfo Dirzo, professore a Stanford ed esperto di interazione fra le specie: «I nostri dati indicano che la Terra sta vivendo un episodio enorme di declino ed estinzione, che avrà conseguenze negative a cascata sul funzionamento degli ecosistemi e sui servizi vitali necessari a sostenere la civilizzazione. Questo “annientamento biologico” sottolinea la serietà per l’umanità del sesto evento di estinzione di massa della Terra». Ora, è vero che le cassandre non sono mai state simpatiche a nessuno, tuttavia si tende a dimenticare che Cassandra – l’originale –, la profetessa inascoltata, aveva ragione! Essere consapevoli del disastro che i nostri consumi stanno creando dovrebbe renderci tutti più attenti ai nostri comportamenti individuali, ma anche arrabbiati verso un modello di sviluppo che, per premiare pochissimi, distrugge la nostra casa comune. “
Stefano Mancuso, La nazione delle piante, Laterza (collana i Robinson / Letture), 2019¹; pp. 79-80.
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Artico nero, Matteo Meschiari e Groenlandia- Manhattan, Chloé Cruchaudet - Cronache terribili ma bellissime...
Artico nero, Matteo Meschiari e Groenlandia- Manhattan, Chloé Cruchaudet – Cronache terribili ma bellissime…
Mi sono lungamente interrogata su come parlare di questi due libri comprati in periodi diversi ma per motivi correlati. Il primo ad arrivare, a dicembre dello scorso anno fu “Artico nero“, ad attirarmi la copertina – l’editore è uno di quelli da cui puoi comprare saggistica e narrativa anche ad occhi chiusi – e una sinossi che non lasciava trasparire poi più di tanto. Una lettura…
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Gli Aztechi e la leggenda dell'isola di Aztlán
Gli Aztechi e la leggenda dell’isola di Aztlán
Le civiltà definite da noi occidentali “precolombiane” abitarono il continente americano prima dell’arrivo degli europei. Quelle che erano stanziate in mesoamerica, vale a dire nella parte centrale del continente, furono sistematicamente annientate dai Conquistadores spagnoli. Oggi le ricordiamo perché ci hanno lasciato reperti di grande bellezza, costruzioni maestose, e anche tante storieche si…
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Ho pubblicato 3.300 poeti, senza mai ricevere un centesimo da questo Paese impoetico: dialogo con Crocetti, l’uomo che ha messo il poeta in prima pagina
Due momenti sono esemplari. 1972, Samo, Grecia. Nicola Crocetti (nella fotografia di Fabrizio Annibali), milanese nato a Patrasso, ha 32 anni ed è al cospetto di Ghiannis Ritsos, tra i massimi poeti del secolo scorso e di sempre, ai domiciliari perché avversario del regime ‘dei colonnelli’. Crocetti volta dall’Italia per incontrare l’icona della poesia che combatte e non soccombe, per conoscere il poeta assoluto. Nove anni dopo, nel 1981, quando Crocetti fonda ‘la Crocetti’, il libro inaugurale sarà Erotica, raccolta di poesie d’amore che Ritsos dona all’amico. Il secondo momento, è intimo e epico insieme. Crocetti e il poeta, Ritsos, che ha l’odore dell’eroe, viaggiano lungo l’Italia, da Catania a Milano, da Taormina a Venezia e Firenze. Ne nasce un libro di Poesie italiane, una specie di folgorante diario lirico, dal titolo Trasfusione e pubblicato da Einaudi con una nota partecipe di Vittorio Sereni, “si può dire che scrive vivendo e camminando, che il suo respiro è la scrittura”, scrive l’italiano del greco, con toni di gioia e un tozzo d’invidia. Crocetti, in quel viaggio, compiuto nel 1976, è il cronista del genio, la sua traduzione dal greco il regesto del gesto lirico in sé.
Nicola Crocetti insieme a Ghiannis Ritsos
Crocetti avverte, nella quotidiana pratica della poesia di Ritsos, in grado di scrivere diverse poesie al giorno, dallo sguardo selvaggiamente lirico, l’avvenimento stesso della poesia. Si consolida lì l’amicizia tra l’editore dei poeti e uno tra i poeti più grandi – Sereni lo avvicina all’intensità di un Thomas S. Eliot. Uomo votato, gettato nella poesia, senza civetterie – anzi, è risaputa la sua ritrosia – Crocetti compie il gesto rivoluzionario, ne abbiamo già scritto, 30 anni fa, dando alla poesia italiana uno spazio ‘pubblico’ e di pregio, la rivista Poesia. Non una rivista ‘d’accademia’, ma per tutti, creata come un tabloid, con quell’idea geniale, dal 1991, di dedicare la copertina intera al volto del poeta (il primo fu Giorgio Caproni), come a dire ‘il poeta in prima pagina’, qualcosa di assurdo per i canoni dell’informazione – il poeta non è un vip, non è una star, non è uno ‘di cui si parla’ – di eccezionale. Per sua natura, la rivista non è l’editore, spietato nelle scelte degli autori da pubblicare; è uno spazio più accogliente, un ring dove tutti possono farsi le ossa liriche. In effetti, Crocetti, attraverso Poesia, ha dato spazio, tra Premi Nobel e poeti occasionali, tra poeti sempiterni e poeti per un attimo, a 3.300 autori, e ne è fiero. Con tutta la gente che scrive, potremo fondare un partito politico, riscrivere poeticamente la Costituzione – in endecasillabi – e prendere il Parlamento: al posto di legiferare, leggiamo versi. Ovviamente, non di sola poesia vive l’uomo: per mandare avanti editrice e magazine Crocetti ha speso denari ed energie. In questo Paese dei balocchi i danarosi pensano di comprarsi l’eternità con una squadra di calcio o finanziando un quotidiano, dimenticando che solo la parola poetica ti permette di battere al fotofinish la morte.
Intanto. Qual è stato l’istante, l’incanto, l’avvenimento che 30 anni fa ti ha convinto di fare ciò che hai fatto: la più autorevole (e diffusa) rivista di poesia d’Europa?
“L’idea era nella mia mente da molti anni, ma non avevo i soldi. Nel 1987 amico poeta che ci credeva mi offrì una piccola somma, e l’anno dopo partii con 20.000 copie. Tre anni dopo avevo raggiunto la tiratura di 50.000 copie”.
Nell’editoriale che festeggia il numero 100 di Poesia, siamo nel 1996, scrivi: “Poesia tocca i cento, ma è come fosse all’inizio. Il suo cantiere è colmo di pensieri, di progetti, di scommesse”. Ora, 30 anni dopo, è come il primo? Cosa è cambiato da quella furia poetica? C’è ancora? Ti auguri altri 30 di questi anni?
Gennaio 1988: il primo numero di Poesia
“La ‘furia poetica’ c’è ancora, perché il mondo trabocca di poesia. Ma questo riguarda soprattutto quelli che la ‘praticano’, cioè che la scrivono (e sono milioni nel mondo), e quelli che la amano con passione (e sono molti meno). Tra questi non ci sono i politici né gli uomini ricchi e potenti, gli unici che potrebbero fare qualcosa per diffonderla, ma se ne disinteressano, quando non la deridono. Mi auguro che Poesia duri altri trent’anni e più, ma senza di me. Primo perché io ho un’età, secondo perché sono esausto. Fare questa rivista per trent’anni, senza mezzi economici, solo con i proventi delle vendite e degli abbonamenti, è stata la fatica più grande della mia vita, e per me non è uno sforzo replicabile. Ho bussato a tutte le porte chiedendo un po’ di soldi, ma è stata una questua umiliante e infruttuosa. I miei amici americani mi dicono: se tu fossi qui, ti coprirebbero d’oro. E credo che lo intendano letteralmente. L’equivalente americano di Poesia, Poetry di Chicago, nel 2002 ricevette una donazione di 100 milioni di dollari. Poesia non ha mai avuto un ghello dalle cosiddette istituzioni (per la verità, da cinque o sei anni prendiamo i rimborsi per la carta: spiccioli), e qualche donazione insufficiente da due o tre persone. Evidentemente non sono un buon imprenditore, visto che ci sono molti piccoli editori che hanno ricevuto centinaia di migliaia di euro. Ma, come dice Kavafis, ‘più avanti – in una società perfetta – apparirà di certo qualcun altro – che mi somigli e agisca da uomo libero’”.
Chi sono gli autori che sei più felice di aver scoperto e pubblicato su Poesia? Chi è il poeta – al di là dell’immenso Ritsos, a cui ti lega un rapporto di affetti e di lettere assoluto – che ti ha insegnato, stupito, conquistato di più?
Gennaio 2018: 30 anni di Poesia, numero 333
“Hai detto bene, l’immenso Ritsos. Uno dei maggiori poeti del Novecento, che ha avuto la ‘sfortuna’ di scrivere in greco, una lingua parlata da una decina di milioni di persone nel mondo. Dico ‘sfortuna’ per modo di dire, perché il greco è una lingua magica, meravigliosa. È parlata ininterrottamente da 2500 anni, è l’erede diretta e diletta di Omero, di Saffo, dei maggiori poeti e filosofi della civiltà occidentale, e fa parte del Dna di tutti i popoli civili del mondo. Essendo il greco la mia lingua madre, i poeti greci contemporanei sono quelli con cui ho avuto un rapporto di affetti e di lettere assoluto. Ma non voglio far torto agli altri 3.300 poeti che ho pubblicato su Poesia. Tra quelli che più mi hanno insegnato, stupito, conquistato, ci sono Derek Walcott, Seamus Heaney, Yves Bonnefoy e molti altri. Tra gli italiani Alda Merini, persona eccentrica, ma poeta fino al midollo, e Pierluigi Cappello, uno dei pochi giovani che ha avuto il successo che meritava”.
Inutile nascondere che i piccoli editori di poesia, meravigliosamente tenaci, come te, hanno attraversato e attraversano un momento difficile. Cosa bisognerebbe fare per non rischiare, ogni anno, la chiusura, la fine? Come si fa a sopravvivere?
“Non attraversano ‘momenti’, ma ore, giorni, mesi, anni, vite intere difficili. Almeno in questo sventurato Paese, dove della poesia, come si diceva, non interessa nulla a nessun politico o potente. Perché i più sono miseramente incolti. E anche miopi. Perché pensa cos’hanno ottenuto i mecenati del Rinascimento con pochi spiccioli: si sono guadagnati l’immortalità. Cosa bisognerebbe fare? Il Nobel Iosif Brodskji diceva che bisognerebbe far trovare nei comodini di tutti gli alberghi, assieme alla Bibbia, un libro di poesia. A qualcuno concilierebbe il sonno, ma per molti sarebbe una scoperta folgorante”.
Dal tuo punto di vista privilegiato, generoso e severo insieme, ti chiedo in che stato è, oggi, la poesia italiana. Esistono grandi opere? Sono annientate dall’assenza della critica e dall’autoreferenzialità del pubblico? Dove si cerca, oggi, la buona poesia, in che canali circola? Nel sottobosco dei libri autoprodotti, nella clandestinità dei micro editori, nelle riviste?
“La buona poesia esiste, e si trova. Si trova nelle raccolte pubblicate da una miriade di piccoli editori, che la cercano come Diogene il Cinico, di giorno con una lanterna, cercava l’uomo, e che la pubblicano con passione e sacrifici. Si trova nelle molte riviste a circolazione limitata. E si trova, anche se mescolata a tonnellate di spazzatura, in quello sconfinato oceano che è il web.
Viviamo in un’epoca confusa e difficile, più di altre del passato. Ma che più di ogni altra del passato offre occasioni e opportunità. Occorre frugare, scegliere, farsi guidare dai consigli dei pochi critici affidabili e dei pochissimi maestri rimasti. E prima di scrivere, leggere molto”.
L'articolo Ho pubblicato 3.300 poeti, senza mai ricevere un centesimo da questo Paese impoetico: dialogo con Crocetti, l’uomo che ha messo il poeta in prima pagina proviene da Pangea.
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