#Carlo di Borgogna
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Bosch, il giardino dei sogni: ecco il film
Hieronymus Bosch morì nell’agosto del 1516 e questa è l’unico fatto certo della vita dell’artista che è possibile datare con certezza. Nacque a s-Hertogenbosch, in quelle terre dominate dai duchi di Borgogna. Bosch aveva alle spalle antenati di di Aquisgrana che ben sette secoli prima era stata la sede scelta dalla corte di Carlo Magno. L’artista nel corso della propria produzione artistica…
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Ugo di Toscana
Era figlio del marchese Uberto e di Willa, figlia di Bonifacio duca di Spoleto e Marchese di Camerino. Nato tra il 951 e il 953, muore nel 1001. Alla madre era attribuita la fondazione del complesso della Badia Fiorentina e del convento di San Ponziano a Lucca. L’importanza del personaggio deriva anche dalle sue nobili origini che risalgono addirittura a Carlo Magno. Suo nonno era Ugo di Provenza re d’Italia e la madre di questi, Berta di Lotaringia, aveva come trisavolo Ludovico il Pio. Il padre di Ugo, Uberto, era anche lui marchese di Toscana e per un breve periodo duca di Spoleto e marchese di Camerino, titoli che saranno acquisiti anche dal figlio. Suo zio Lotario sposerà Adelaide di Borgogna che rimasta vedova divenne la moglie di Ottone I; sua zia Alda era invece la consorte di Alberico II figlio di Marozia. Dalla loro unione nascerà Ottaviano che sarà papa con il nome di Giovanni XII. Sua sorella Waldrada convolerà a nozze con il doge Pietro IV Candiano; tutti personaggi appartenenti alle classi dominanti nell’Italia del X secolo e che avranno enorme influenza sulla vita di Ugo, che godrà della fiducia dei reggenti, acquisendo sempre più potere e consolidando il governo della Toscana, assumendo quello del ducato di Spoleto e della marca di Camerino.
Ugo da giovane fu uno scapestrato, alla morte del padre avvenuta intorno al 970, divenne Marchese di Toscana e si trasferì con la madre a Firenze facendola diventare nuovamente la capitale del Marchesato di Toscana, che sotto il dominio Longobardo era stata spostata a Lucca, ritenuta una città più sicura. Essendo distante dal mare, Lucca era al riparo da eventuali attacchi bizantini e facilmente collegata ad altre città grazie alla via Francigena, una strada molto usata all'epoca sia dai Longobardi che per gli scambi commerciali. Ugo divenne un valente uomo d’armi, ma soprattutto un ottimo diplomatico saggio e ponderato. A lui viene attribuita la costruzione di ben sette abbazie, anche se le fonti storiche ritrovate ne attestano al marchese solo tre: San Michele a Marturi, San Gennaro a Capolona e il santuario della Verruca. Degli altri non ci sono conferme storiche documentate. Ugo è ricordato per il bene fatto alla città di Firenze, amato e stimato dai fiorentini per come aveva gestione cittadina e per averla fatta ritornare la città più importante del marchesato. Firenze allora era ancora un piccolo centro, arrivava più o meno a tremila abitanti racchiusi nella cerchia muraria, ma aveva un popoloso contado sparso nella sua periferia.
Badia fiorentina stemma Ugo di Toscana Lo stemma araldico di Ugo era composto da strisce rosse e bianche, o di rosso e d’argento (nell’araldica spesso il bianco è associato all’argento e il giallo all’oro), che sono diventati i colori di Firenze: del Comune, del Popolo della Repubblica, anche se con piccole variazioni. Questi colori ricordati anche da Dante nel Paradiso definiti “La bella insegna”. Il poeta cita Ugo con l’appellativo di “Gran Barone”. Giovanni Villani invece parla dei suoi colori “dogati” rossi e bianchi, mentre due secoli dopo Vincenzo Borghini si riferisce allo stemma araldico descrivendolo composto da sette doghe vermiglie e bianche. I colori di Firenze insomma.
Il ricordo di Ugo e delle sue gesta vennero immolate nel 1345 in una biografia dedicata al marchese scritta da un certo notaio Andrea Abate, ma che riporta nella sua opera anche avvenimenti fantasiosi della vita dell’uomo.
Monumento al Marchese Ugo di Toscana, 1481, Badia fiorentina Mino da Fiesole Nel 1481 Mino da Fiesole lo immortala in un suo monumento funebre presente ancora nella Badia Fiorentina, nel 1590 Cristoforo Allori invece lo raffigurò in un dipinto che si trova attualmente nella galleria degli Uffizi. Mentre Raffaele Petrucci nel 1618 eseguì una statua con le sue fattezze collocandola nel chiostro grande della Badia Fiorentina. Padre Placido Puccinelli, un monaco della Badia Fiorentina nel 1643 scriverà la “Historia d’Ugo principe della Toscana” e poi ancora nel 1664 la “Historia dell’Eroiche Attioni di Ugo il Grande”.
Ancora oggi nella Badia tutti gli anni viene celebrato l’anniversario della sua morte avvenuta il 21 dicembre del 1001, giorno per altro dedicato a San Tommaso. La celebrazione della messa solenne avviene con la partecipazione delle autorità, del Gonfalone della città e di molti fiorentini. Sul sepolcro di Ugo vengono deposti ovviamente fiori bianchi e rossi ed una corazza con un elmo che la tradizione ritiene siano stati da lui indossati. Ovviamente si tratta di una leggenda, perché dalle fattezze delle armi da difesa, si capisce che i pezzi sono posteriori alla sua epoca. Fino a qualche decennio fa venivano aggiunti sul sepolcro un bastone di comando ed un pugnale di cui però oggi se ne sono perse le tracce.
Francesco Morandini, il Poppi, Visione di Ugo a Buosollazzo, 1568, Palazzo Pitti Nonostante sia passato molto tempo dalla sua morte, la commemorazione è ancora molto sentita dai fiorentini, che ancora oggi gli sono grati, consapevoli che grazie a lui Firenze oggi è il capoluogo della Toscana. Viene raccontato un aneddoto per cui Il Marchese Ugo morì vicino Pistoia, ma per non essere sepolto in quella città, venne rivestito velocemente con la sua armatura messo nuovamente a cavallo e fatto rientrare a Firenze grazie alla complicità di un servitore che sorreggeva la salma mentre cavalcava. Non sappiamo però se si tratta di un fatto storico o di una semplice leggenda. La salma fu deposta in una cassa di ferro con inciso il suo nome e l’anno di morte “Hugo Marchio Mi” ed inserita in un prezioso sarcofago di porfido. Il dominio di Ugo si estenderà su buona parte dell’Italia centrale, dal Tirreno all’Adriatico, che il marchese governerà con ampia autonomia amministrativa, spesso sostituendosi all’autorità imperiale.
Riccardo Massaro Read the full article
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RESULTAT DEL CONCURS AGOST 2021: MANFRED DE ROBERT SCHUMANN
RESULTAT DEL CONCURS AGOST 2021: MANFRED DE ROBERT SCHUMANN
Hem arribat al final d’agost i ja tenim guanyador del concurs de l’edició 2021. Vist la resposta setmanal no semblava difícil doncs la gran majoria dels participants seguien amb quasi total encert la majoria d’enigmes sol·licitats. Aquest era el principal objectiu i només complicar-ho el darrer dia per tal d’evitar el màxim de desercions possibles i fidelitzar el seguiment. La darrera era la…
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Ritratto di Carlo V a cavallo, Tiziano Vecellio, 1548, olio su tela. L'opera ritrae Carlo V d'Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, a cavallo. Il quadro è uno dei tanti di Tiziano commissionati dalla famiglia imperiale. L'Impero moderno del Cinquecento non è più quello cavalleresco-medievale e necessita di un'immagine pubblica nuova ed efficace. Inoltre deve coniugare insieme classicità (rappresentata dall'esempio costante dell'Impero romano) e modernità, in modo che le diverse etnie e culture che compongono l'enorme Impero possano tutte riconoscersi nella figura unificante dell'imperatore. Tiziano riesce in quest'opera delicatissima, armonizzando gli ideali cavallereschi della Borgogna (ben conosciuti dall'imperatore) con i riferimenti al mondo classico (Carlo V era infatti anche chiamato Caesar Carolus, nel tentativo di avvicinarlo al modello dato dagli imperatori romani). L'opera viene commissionata da Maria d'Ungheria, sorella di Carlo V, per celebrare la vittoria dell'esercito del fratello sui protestanti della Lega di Smalcalda a Mühlberg (aprile 1547). L'imperatore a cavallo viene raffigurato come un vero e proprio soldato di Cristo in difesa della cristianità minacciata dal crescente diffondersi del Protestantesimo. Egli sostiene con la mano destra una lancia - un riferimento sia alla possenza degli antichi imperatori romani (di cui come detto Carlo si considera l'erede) sia un riferimento alla lancia di Longino (che venne conficcata nel costato di Gesù Cristo durante la Passione) o a quella di San Giorgio (con la quale il santo trafisse il drago, bestia comunemente associata all'eresia). Il volto di Carlo è serio ed impassibile, anche se non totalmente realistico; Tiziano infatti nel dipingerlo ne addolcì il prognatismo mandibolare, tipico degli appartenenti alla casata degli Asburgo. Oltre a ciò, ebbe cura di tralasciare i segni della gotta di cui l'imperatore soffriva al tempo della battaglia e che lo avevano costretto a seguirne lo svolgimento a grande distanza, disteso su una lettiga. L'Imperatore indossa una prestigiosa armatura ricoperta d'oro e d'argento, che tuttora è conservata nell'Armeria del Palazzo Reale di Madrid insieme alla raffinata bardatura del cavallo. Il paesaggio di fondo è placido, occupato dal fiume Elba, e non vengono rappresentati i nemici sconfitti (dietro alla figura equestre c'è solo un bosco). La luce e i colori sono molto caldi, con predominanza dei rossi e degli ocra. Il dipinto ha parlato ai sudditi e ai nemici dell'imperatore in modo inequivocabile, mostrando nello stesso tempo la forza del guerriero, la saggezza del sovrano, la fatica dell'uomo. Secondo un aneddoto, peraltro confermato da una serie di radiografie, il quadro appena eseguito venne rovesciato a terra dal vento mentre si trovava all'aria messo ad asciugare. Ne risultò danneggiata la parte posteriore del cavallo, che fu poi ridipinta da un altro pittore. L'opera divenne l'immagine dinastica per eccellenza della casa d'Austria. Il ritratto è esposto al Museo del Prado (Madrid).
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Giovanna d'Arco. Il maggio delle fate
Giovanna d’Arco
San Michele Arcangelo
Santa Caterina d'Alessandria
Santa Margherita d'Antiochia
Il maggio delle fate
Jeanne che tutti nel suo paese chiamavano e avrebbero continuato a chiamare Jeanette, era nata verso il 1412 - si dice convenzionalmente il giorno dell'Epifnia di quell'anno: ma la cronologia è incerta - nel villaggio di Domrémy dipendente dalla castellanìa di Voucouleurs (una decina di chilometri più a nord) nella balìa di Chaumont. Si era nel ducato di Bar, sulla riva sinistra della Mosa: in un territorio grande quanto un fazzoletto circondato da terre borgognone ma fedele al delfino, quel giovane e incerto principe Carlo di Valois.
Un'area di frontiera la chiameremmo noi. E la parola per quanto non ancora troppo diffusa (si preferiva renderne il concetto ricorrendo all'antico termine <<marca>>, d'origine carolingia), esisteva già. La si era adottata in Francia durante il primo quarto del Trecento, ma era d'origine iberica e richiamava l'idea della line lungo la quale si affrontano due mondi e due civiltà diverse in Spagna, appunto, la cristiana e la musulmana. Il territorio compreso tra la Lorena e i Vosgi odierni era stato a lungo diviso e conteso: in pien IX secolo, esso faceva parte integrante della <<Lotaringia>>, quindi della parte orientale delle due regioni nelle qualisi era scisso il dominio di Carlo magno. Ma il regno dei <<franchi occidentali>>, che era poi diventato la Francia capetingia, aveva pian piano spostato verso est, ampliandoli, i suoi confini: e nel 1301 un trattato fra l'imperatore romano - germanico Alberto I d'Asburgo e il re di Francia Filippo IV il Bello, aveva fissato il corso della Mosa come linea di confine tra il regno dii Francia e il ducato di Lorena, terra d'Impero. Come sempre si faceva con le aree di frontiera, i sovrani francesi avevano in un primo tempo ridotto al minimo la pressione fiscale e garantito ogni sorta di privilegi alle comunità entrate da poco stabilmente nella loro compagine: ma al tempo stesso ne avevano seminato il territorio di fortezze e di guarnigioni di frontiera.
Il villaggio di Domrémy era solcato da un ruscello a nord del quale esso dipendeva direttamente dal dominio regio, a sud di signori di Buorlémont-Joinville, vassalli del Barrois, feudo diretto dalla corona tenuto prima dal cardinale di Bar e quindi da suo nipote Renato d'Angiò, genero ed erede di Carlo II duca di Lorena. Quelli di Domrémy, stavano dalla parte del delfino; ma la gente del vicino paese di Maxey, era <<borgognona>> e quelli dall'altra parte della Mosa, fideles del duca di Lorena, approfittavano di tutte le occasioni per sbocconcellare un pò di quelle terre contese. Neufchàteau a una decina di chilomentri da Domrémy, apparteneva al re: il quale però l'aveva concessa in feudo al duca di Lorena, nonostante questi fosse - ma la pratica era corrente - vassallo dell'imperatore. Il fulcro lealista della regione era la fortezza di Vaucouleurs, fedele al delfino e circondata dai suoi nemici. Nonostante la guerra che la devastava, tutta l'area era importante e potenzialmente prospera: là s'incrociavano la via mercantile che collegava Lione a Treviri con quella che univa Basilea alle città rese ricche e famose fin dai tre secoli prima grazie alle <<fiere di Champagne>>.
Oggi non si hanno dubbi sul fatto che il toponimo della località di Domremy-la-Pucelle nei Vosgi, piacevole tappa sulla strada fra Parigi e Basilea, vada scritto senza l'accento acuto sulla <<e>>: ma la consuetudine ha i suoi diritti. Esso dipende da Dominus Remigius, ed è attestato almeno all'XI secolo; ma è forse più antico, dal momento che la tradizione di dare in Francia ai luoghi nomi di santi qualificati dall'epiteto Dominus avviata verso la fine del VI secolo, venne abbandonata verso il X, allorché prevalse quello di Sanctus.
Domrémy era quindi un insediamento dedicato a san Remigio, l'evangelizzatore dei franchi che secondo la tradizione avrebbe consacrato Clodoveo re cristiano della sua gente ingendolo in Reims, col crisma contenuto in un'ampolla mracolosamente recaata dalla colomba dello Spirito Santo. In realtà a Reims, nel Natale del 496, Clodoveo era stato non consacrato re, bensì battezzato. Nel capoluogo della Champagne si era cominciato a consacrare i re dal 5 ottobre dell'816, quando vi fu unto e incoronato Ludovico il Pio figlio di Carlomagno.
Giovanna, una dei cinque figli dei bons laboureurs - contadini, ma piuttosto piccolissimi proprietari - Jacques, il cui cognome si è tardivamente fissato nella forma <<d'Arc>> e Isabelle Romée era una ragazza come tante altre, che si distingueva d'altronde per il suo vivo senso religioso e per l'ingenua ma profonda devozione. Aveva tre fratelli maggiori - Jeacques, Pierre e Jean - e una sorella, Catherine, che sarebbe morta forse di parto nel 1428. La devozione dei genitori e probabilmente il loro imoegno nel pellegrinaggiol sembrano confermati da questi quattro nomi, che rimandano ai principali grandi santuari meta dei pellegrinaggi del tempo: Santiago de Compostela, legato al culto delle reliquie di San Giacomo, Roma, Gerusalemme, il Monte Sinai.
Forse più nota per i pellegrinaggi fatti da lei stessa o dai membri della sua famiglia era la madre Isabelle detta Romée. Un cognome, questo, o piutosto un soprannome? <<Romei>>, erano in effetti chiamati i pellegrini che volgevano i loro passi verso Roma, alla volta dell'apostolo Pietro e della reliquia che custodiva l'effigie di Cristo, <<la Veronica>>. Jeacques non era comunque, s'è detto, proprio un povero contadino, come invece una leggenda romantica ha cercato di far credere. Doveva essere piuttosto agiato ed era circondato da rispetto, nel 1623 era stato decano di Domrémy talvolta aveva rappresentato il suo villaggio presso i signori del luogo.
La ragazza accudiva alle faccende domestiche, sapeva filare e cucire (si sarebbe vantata di saperlo fare molto bene) e nei giorni di festa frequentava la chiesa. La conooscevano come una brava e tranquilla bambina: per quanto qualche testimonianza raccolta nei due processi del 1431 e del 1456 - dai quali ci poviene quasi tutto quel che sappiamo di lei - riferisca di una sua speciale propensione per le cose della fede, d'una sua qualche inclinazione un pò più ingenuamente devota rispetto alle coetanee, a una sua più intensa partecipazione ai sacramenti; conosceva comunque le principali preghiere, insegnatele dalla madre. Può darsi che in qualche modo fosse in contatto con gurppi affini ai <<begardi>>, o almeno così dissero di lei durante il processo di riabilitazione: che fosse una <<beghina>> era il parere registrato nel 1429 dal mercante veneziano Antonio Morosini, che nel suo <<giornale>> raccoglieva le notizie che provenivano da Bruges.
Quel tempo e quelle terre erano piene comunnque di mistici e di <<devoti>> che vivevano il rapporto con Cristo e con la fede di un modo nuovo, intima, che rifuggiva dalla mediazione delle istituzioni ecclesiastiche e si traduceva in un'infinità di pratiche rituali private spesso numerose e ossessive ma anche - talvolta - in una vita di comunità laiche all'interno delle quali la tensione spirituale si esternava in termini quotidiani. Può darsi che anche i predicatori appartenenti agli Ordini mendicanti francescano e domenicano, che senza dubbio passavano spesso per le strade molto battute tra la Mosa e il Reno, abbiano influito su Giovanna. Ma per quel che si sa, la sua vita devota - probabilmente un pò più intensa di quella dei suoi coetanei - s'inquadrava comunque bene nei consueti usi parrocchiali. Il centro attorno al quale essa ruotava era la messa domenicale, grande momento di compartecipazione e di scambio durante il quale, a partire dal IV Concilio Lateranense del 1215, era invalsa la consuetudine di comunicarsi: ma la pratica della comunione frequente non era incoraggiata dalla Chiesa, che temeva un'eccessiva familiarità con i sacramenti e suggeriva piuttosto l'adorazione dell'ostia consacrata.
Anche i pellegrinaggi facevano probabilmente parte dell'esperienza della giovane figlia di Jacques e d'Isabelle: non quelli più importanti, verso le grandi mète lontane, bensì - secondo una tendenza che nel XV secolo si andava diffondendo in tutta la Cristianità occidentale - quelli diretti a sedi vicine che erano sovente piccole cappelle o modesti oratori. Così Notre-Dame di Beaumont, non lontano da Domrémy. Non siamo insomma dinanzi a una consuetudine ecclesiale e devozionale debole e incolta: le comunità rurali del tempo erano animate da un sentimento religioso concreto, profondo, incentrato su un robusto senso del sacro che si esprimeva nel culto della regalità del Cristo, della Vergine, della realtà e del sacramento. L'immagine del Cristo Re, la memoria del vescovo evangelizzatore san Remigio, lo stesso clima della frontiera fra due monarchie dal forte contenuto sociale - la romano-germanica, e la francese, entrambe devote alla memoria di <<san>> Carlomagno - facevano sì che la gente di Domrémy e dintorni restasse ben ferma nella fedeltà a colui che riteneva il suo re; e gli adulti deò villaggio senza dubbio erano fieri - lo dessero o meno a vedere - dei loro ragazzi, che tornavano spesso a casa laceri e insanguinati per aver affrontato a sassate e a bastonate nella battaliolae (così frequenti nel medioevo) i ragazzi dei villaggi vicini, fedeli al duca di Borgogna e partigiani pertanto di Enrico VI, re di Francia e d'Inghilterra.
Giovanna era immersa nella cultura tradizionale della sua comunità familiare e insediativa: una cultura fatta di proverbi, di espressioni consuete, di conoscenze tecniche e materiali, di credenze e di leggende. Talvolta, specie durante le feste e in primavera, si univa alle compagne e alle coetanee ai piedi d'un grande albero, forse un faggio, che la tradizione folklorica collegava alle fate e attorno al quale si danzava e si contava; il primo giorno di maggio - il mese dell'inizio del tens clar e dell'amore; il mese caro alle cavalcate e alla poesia cortese, ma sacro anche alla Vergine Maria - si appendevano ghirlande di fiori ai suoi rami. Era un omaggio ad antiche dimenticate divinità (delle quali comunque senza dubbio non si conservava se non una memoria vaga e fiabesca) o alla Madonna? Si trattava comunque della Calenda maja alla quale ai primi del Duecento il provenzale Rambaldo di Vaqueiras aveva dedicato una canzone bellissima; era il Calendimaggio celebrato un pò dappertutto nell'Europa del tempo.
A Domrémy, presso <<l'albero delle fate>> c'era una fonte celebre per le sue proprietà taumaturiche; gli ammaliati di <<febbre>> venivano a berne l'acqua. E non lontano dall'abitato sorgeva un bosco, evidentemente di querci (detto, appunto, <<Bois Chenu>>: che potrebbe anche significare però <<bosco vecchio>>), che forse manteneva in qualche modo il ricordo della sacralità attribuita alle querci nelle tradizioni celtica e germanica. Nei racconti di fate, l'albero, la fontana e il bosco sono abitualmente collegati fra loro: e sono protagonisti d'una vicenda i cui tratti abbastanza semplici si ripetono, con qualche variante, in molte tradizini sparse nel continente eurasiatico. La fata appare sotto l'albero e presso la fontana, talvolta travestita da vecchia; di solito dona a un brav'uomo povero e meritevole un'inattesa fortuna, oppure predice un avvenire felice a un'onesta e brava ragazza.
Era un'adolescente più o meno tredicenne - un'età tuttavia in cui, nel Quattrocento, non si era più troppo bambine - la Giovanna che, nell'estate del 1425, cominciò a udire (proprio, sembra, nel <<Bois Chenu>>) delle <<voci>>, da lei prontamente attribuite all'arcangelo Michele e alle sante Margherita d'Antiochia e Caterina d'Alessandria. Che proprio a metà 1425 fosse l'arcangelo Michele a rivelarsi e a parlare della liberazione della Francia degli inglesi, non è cosa priva di signifcato. L'arcangelo guerriero era ormai il vero e proprio protettore della Francia, da quando il suo collega san Giorgio aveva scelto con tanta decisione la parte inglese (o gli inglesi avevano scelto lui: il che era in fondo lo stesso). Dal 1418, nella Francia settentrionale sottomessa tutta o quasi al re di Francia e d'Inghilterra, l'isoletta fortificata di Saint-Michel-au-Péril-de-la-Mer, tra Normandia e Bretagna; resisteva indomita mantenednosi fedele al delfino.
Mont-Saint-Michel, luogo arcano di leggende folkloristiche legate forse alle tradizioni celtiche precristiane e visitato da un'apparizione dell'arcangelo che ai primi dell'VIII secolo si era rivelato a sant'Auberto vescovo di Avranches, era divenuto caro alla corona di Francia fin da quando, nel 1204, re Filippo II Augusto se n'era impadronito strappandolo agli inglesi. Luigi IX il Santo vi era giunto pellegrino nel 1256, Filippo IV nel 1307, l'infelice Carlo VI nel 1393. Erano stati i sovrani di Francia a finanziare la splendida costruzione gotica che ancor oggi incorona lo scoglio: il santuario detto a buona ragione <<la Merveille>>, costituito da re piani sovrapposti simbolo dei tre ordini nei quali si scandiva la società cristiana, quelli che pregavano, quelli che combattevano e quelli che con il loro lavoro assicuravano la vita e la prosperità di tutti. I tre <<stati>> simbolizzati - si dicceva in Francia - dai tre ptali del regale fiordaliso, Il povero Carlo VI nutriva per l'arcangelo una vera devozione: aveva dato il suo nome alla figlia che gli era nata nel 1395 e anche a una delle porte di Parigi. Il culto di Michele era poi divenuto quasi esclusivo nel <<re di Bourges>>, quando i parigini l'avevano abbandonato e si poteva pensare quindi che anche il loro patrono, sa Dionigi, gli avesse voltato le spalle.
Mont-Saint-Michel, dunque, resisteva. Ed era il simbolo d'una Francia che non s'arrendeva, che non si piegava alla logica del trattato di Troyes e al ritorno al di qua della Manica del potere dei re che governavano dall'altra parte del mare. Nel maggio del 1425 gli inglesi, spazientiti, avevano scatenato contro l'ostinata piazzaforte un'offensiva combianta per terra e per mare. Del resto, Mont-Saint-Michel non era propriamente un'sola: una sottile lingua di terraferma la collegava al continente, ma per molti giorni all'anno essa era sommmersa dall'alta marea. Sfruttando queste speciali caratteristiche del terreno, i difensori avevano tenuto duro nonostante l'assedio fosse ccndotto da uno dei più abili e temibili capi miltiari del tempo, William de la Pole conte di Suffolk.
La notizia della resistenza della piazzaforte consacrata all'arcangelo si sparse rapidamente in tutta la Francia. Era ricordato che la valle della Mosa era all'incrocio fra itinerario di viaggio e di commercio intensamente frequentati: la strada tra Lione e Treviri, quindi fra corso del Rodano e corso del Reno, v'incrociava - come si è detto - qualla che da Basilea (e quindi dalla pianura padana) conduceva all'area delle <<fiere di Champagne>>, almeno dal XII secolo uno dei centri nevralgici del commercio europeo. Di merrcanti in grado di recare in Barrois e in Lorena notizie della Bretagna e della Normandia ce n'erano parecchi. A meno che la storia della valorosa difesa dei francesi sotto l'egida dell'arcangelo non fosse stata recata a Domrémy da qualche devoto pellegrino. Nei dintorni del villaggio c'era difatti il santuario di Saint-Michel, una delle tappe dell'itinerario del pellegrinaggio michelita che da Mont-Saint-Michel attraverso la Val di Susa dominata dalla Sagra di San Michele giungeva fino all'altro haut lieu della devozione all'arcangelo, Monte Sant'Angelo, sul promontorio del Gargano in Puglia.
Giovanna conosceva bene il santuario michelita sito non lungi dalla sua dimora; e non si esagera in ipotesi supponendo che le gesta dei difensori di Mont-Saint-Michel fossero giunte anche alle sue orecchie. Inoltre, i tredici anni sono quelli della pubertà: quelli in cuui le bambine - al contatto con la paura e la sorpresa delle prime perdite sanguigne - sentono, anche se ancora non capiscono, di star diventando ormai donne. E' un momento magico e delicato, bellissimo e terribile: oggi sappiamo che le tempeste ormonali in quelle poche settimane scatenate nei giovanissimi corpi possono produrre turbe quasi sempre solo passeggere, ma non sempre di entità lieve. Non è mancato chi ha posto quei turbamenti in rapporto con le <<voci>>. Fu appunto a tredici anni, secondo la tradizione consacrata dai Vangeli apocrifi, che Maria ricevette la venuta dell'arcangelo Gabriele. Molti sono i contatti fra Maria e Giovanna. Anche nella vita della ragazza del Barrois c'è un arcangelo: ma non quello dell'Annunzio. Giovanna incontra il principe celeste della Guerra, della Morte e della Giustizia.
Ma c'erano altri aspetti inquietanti, nelle <<voci>>. La primaa volta che le sentì fu nell'estate del 1425, nel giardino di casa: era mezzogiorno, un momento arcano e terribile della giornata, l'ora dei <<demoni meridiani>>. Giovanna era a digiuno, una condizione che senza dubbio favorrisce li stati emotivi, se non alterati, della coscienza. La voce, che era buona perché veniva da destra, dalla parte della chiesa vicina, ed era accompagnata da una forte e chiara luminosità, era appunto quella - Giovanna se ne sarebbe sempre detta sicura - dell'arcangelo Michele. Le parlarono più tardi Margherita d'Antiochia e Caterina d'Alessandria. Lasciamo ad altri le facili ipotesi che tali <<allucinazioni>> dipendessero da una disposizione psico-fisica o dalle tempeste ormonali collegate con la pubertà. L'attribuziione delle <<voci>> non a in sé niente d'eccezionale: di Michele s'è già detto: Margherita e Caterina erano due tra le sante più venerate in quell'epoca, e non solo nella Francia orientale.
Le <<vooci>> che parlavano a Giovanna insistevano sulla necessità di adempiere la volontà di Dio, che imponeva la liberazione del suolo di Francia dall'invasore. La ragazza - che talora giungeva anche a vedere gli arcani interlocutori - ascoltava con timore e con commozione: conosceva già la guerra con le sue crudeltà aveva avuto esperienza nel suo stesso paese delle violenze e delle razzie perpetrate dalle bande di mercenari a caccia di bottino. Nel luglio del 1425 alcuni avventurieri borgognoni avevano razziato il bestiame della regione. Nel 1428 gli anglo-borgognoni si erano impadroniti di tutte le piazze della Mosa fedeli al delfino e nel luglio avevano assediato a Vaoucouleurs mentre la gente di Dommrémy era stata costretta a rifugiarsi poco lontano, a Neufchateau, i terra lorenese. Pare che soltanto lì la ragazzina fosse in qualche modo constretta a un più impegntivo lavoro, non più domestico ma pastorale: forse si trattò di badare a un modesto gregge.
Le <<voci>> andavano facendosi più insistenti e perentorie: pretendevano che la povera fanciulla si facesse profeta di Dio al pari di quelli del Vecchio Testamento: le ordinavano di recarsi <<in Francia>> - vale a dire nelle terre controllate dal delfino - e le ripetevano che essa aveva ricevuto dal Signore la missione di liberare la città d'Orléans dall'assedio nel quale gli inglesi la stringevano fin dall'ottobre del 1428. Orléans, chiave del medio corso della Loira, sorgeva a nord del grande fiume, sulla sua riva destra: era pertanto una sentinella avanzata del <<re di Bourges>> un territorio denominato dal re di Francia e d'Inghilterra. Essa stava a guardia del ponte di pietra che univa le due sponde. La gente di Domrémy dovette cominciare presto ad accorgersi della ragazzina che forse non parlava, ma delle <<voci>> della quale chiacchieravano fin troppo parenti, amici e vicini.
La Francia e l'Europa del tempo erano assediate dalle <<profetesse>>: alcune - come Caterina da Siena e Brigida di Svezia - grandi sante, oltre al limite dell'eresia. Le sante si collegano sovente ai movimenti mendicanti: già, fra Due e Trecento, Margherita da Cortona , Angela da Foligno, Chiara da Montefalco e Dauphine de Sabron apparivano in un modo o nell'altro connesse con lo spiritismo francescano e con Ubertino da Casale; Catarina da Siena era ina <<mantellata>>, una terziaria domenicaana. Non era affatto raro che queste donne che pregavano e che profetavano pretendessero di trattare con i pontefici e con i potenti della terra. Una giovane di Parma, Orsolina Venerii, non aveva esitato, durante il periodo del cosiddetto <<grande scisma d'Occidente>>, a rivolgersi al papa residente in Avignone, Clemente VII domandandogli di rinunziare al suo ufficio in favore del suo collega e concorrente romano in modo da consentire il ritorno della Chiesa all'unità. Nel territorio di Albi - la regione della Linguadoca ai primi del Duecento famosa per la folta presenza degli eretici - la vedova Constance de Rebastens, che si definiva <<sposa del Cristo>>, narrava il contenuto delle rivelazioni da lui ricevute al suo confessore, che le trascriveva diligentemente in occitano e in latino. La sua vocazione le era apparsa chiara a partire dal 1384, quando aveva cominciato una serie di colloqui con na voce rivelatasi quella del Signore. La missione di Constance si presentava come dotata d'una precisa valenza politica e patriottica: essa era decismente schierata a favore del papa romano contro quello avignonese e, quanto alle faccende occitane, si opponeva a Giovanni II duca d'Armagnac che sosteneva gli inglesi parteggiando invece per Gaston Phoebus conte di Foix e partigiano di Carlo VI, cui attribuiva il compito di por fine allo scisma e guidava una nuova crociata. Constance incappò nel tribunale dell'Inquisizione: le si parlò di pubblicare le sue rivelazioni e la s'imprigionò. Pochi anni più tardi, nel 1396, Jeanne-Marie de Maillé - vedova di un signore della regione della Loira chhe viveva come reclusa presso un convento francescano di Tours - prese a profetare il futuro avvento d'un papa che avrebbe vestito il rude saio del poverello d'Assisi e non mancò di chiedere e ottenere udiena a re Carlo VI né di giungere un paoi d'anni dopo fino a Parigi, dove rimproverò la regina Isabella di Baviera per la vita disordinata per il lusso sfrenato, mentre il popolo soffriva la fame. Alla regina Isabella si rivolse anche, con un messaggio per il papa d'Avignone che veniva invitato una volta di più ai disinteressi, la <<reclusa>> Marie Robine detta anche <<Maria la Guascona>>, essa stessa oggetto di rivelazioni raccolte in un libro. Marie era giunta nel 1389 ad Avignone da uno sperduto villaggio della regione dell'Auch, ai piedi dei Pirenei; dopo una miracolosa guarigione ottenuta grazie a un pellegrinaggio, visse d'elemosine presso la cinta del cimitero di Saint-Michel dell'antica capitale pontificia. <<La Guascona>> sosteneva di ricevere le visioni, il contenuto delle quali era riservato al papa e al re Carlo VI; ma, nel 1398, scrisse anche Isabella di Baviera e fu da questa ricevuta. Marie era latrice di perentori messaggi divisi: il re doveva cambiare vita, lavorare alla composizione dello scisma papale, moralizzare la sua corte: altrimenti i sudditi si sarebbero ribellati, fiumi di sangue sarebbro stati versati, Parigi sarebbe stata distrutta.
Queste <<profetesse>> ebbero sorti differenti Jeanne-Marie de Maillé fu infatti canonizzata, ma un'altra visionaria, Catherine Sauve, sarebbe stata bruciata a Neufchateau nel 1417; da parte loro altre ispirate, come Catherine de la Rochelle e santa Colette de Corbie, avrebbero più tardi incontrato entrambe la ragazza di Domrémy.
Di Giovanna e delle sue visioni fu dinque costretto a occuparsi alla fine dello stesso capitano della piazza di Vaucouleurs, Robert de Baudricourt, che da pocco aveva a malapena respinto una parte offensiva borgognona e non aveva troppa voglia d'affrontare altri grattacapi. La ragazzina aveva già cercato di farsi ricevere una prima volta da lui nel maggio del 1428, quando si era recata a Vaoucouleurs col pretesto di venir a soggiornare qualche giorno presso uno zio che colà abitava. In quell'occasione, che fornì forse l'avvio alle chiacchiere del paese su Giovanna (che forse circolavano però già da tempo), il capitano si rifiutò di riceverla e di dar peso alle vociferazioni e alle polemiche: consigliò al familiare che accompagnava quella strana ragazzina dall'abito scarlatto di riportarla indietro senza tante storie, curando con quattro schiaffi la malattia che la faceva parlar troppo di Dio e di liberazione... Ma in seguito, nel gennaio del 1429, Robert accettò di star a sentire la figlia di Jacques d'Arc, un uomo che egli conosceva e stimava.
Il rude cappitano di Vaoucouleurs, anche se non si lasciò convincere, rimase per lo meno turbato dall'incontro e dal colloquio con l'ostinata ragazza che non faceva mai più mistero del compito assegnatole dal cielo: forse decise di sbarazzarsi d'una responsabilità che poteva diventar gravosa, forse pensò che non spettasse comunque a lui una decisione definitiva. Si affrettò a spedire a Nancy, ai suoi due signori feudali, quell'adolescente che parlava un pò troppo di <<voci>> e di visioni.
Il principe angioino si trovò indietro dinanzi alla pospettiva d'occuparsi di quella faccenda di <<voci>> e di profezie: ma il capitano di Vaoucouleurs, frattanto, aveva forse avvertito il delfino e su sua autorizzazione deciso d'inviargli la giovane, che il parroco di Vaoucouleurs aveva provveduto di esorcizzare e che alcuni nobili dei dintorni d'aiutare e d'accompagnare. Dopo averle assegnato una piccola scorta, Robert lasciò che la ragazza indossasse abiti maschili più adatti al viaggio e partisse su un cavallo donatole dai suoi compaesani. Sapeva già cavalcare, quella sedicenne figlia di piccolissimi proprietari? Comunque imparò presto. Gli abiti maschili e l'addio ai congiunti e al fidanzato che la famiglia le aveva scelto furono il segno della rinunzia a una vita familiare e sessuale ordinaria, a un destino sereno di moglie e di madre. Seguiva un modello? Nella storia di santa Marrgherita c'è qualcosa di simile: la storia d'una donna che indossa abiti da uomo per poter vivere insieme con gente dell'altro sesso.
Jacques d'Arc aveva sognato una volta che Giovanna abbandonava la casa paterna per seguire una torma di soldati. Era tutt'altro che strano, in quegli anni di violenza e di miseria, un tale destino: erano molte le piccole sciagurate che si davano a seguire una compagnia d'armati, spinte dal bisogno o perdute dietro a un miraggio d'amore e di gloria divenute ormai schiave della loro abiezione. Un sogno come quello di Jacques poteva aver un significato solo, e molto chiaro: ed egli soleva ripetere che, piuttostodi accettare una cosa del genere, avrebbe annagato la figlia con le sue stesse mani o avrebbe obbligsto uno dei fratelli a farlo in vece sua. In un certo senso, ora, le sue paure prendevano corpo: eppure l'incubo si avverva in modo ambiguo, che faceva pensare in qualche modo lasciava ben sperare. Giovanna se ne andava di casa, sì, e in abiti da maschio, e accompagnata da gente d'arme: tutto sembrava onorevole, eppure una certa anbiguità aleggiava sugli eventi, sui colloqui col castellano di Vaucouleurs, sul viaggio di quella ragazzina che non avrebbe neppur dovuto saper stare in sella. Chi l'avrebbe difesa dagli imprevisti d'un viaggio invernale tra una scorta della quale non si sapeva quanto si potesse fidare e i rischi delle intemperie, delle belve della foresta, di fuorilegge, dei soldati, in un tempo di guerra civile endemica nel quale era così difficile distinguere tra un bandito e un uomo d'arme? E chi avrebbe tutelato lei e la sua famiglia dalle malelingue dei compaesani? Jacques non era un uomo qualunque, a Domrémy, aveva rivestito cariche di rappresentanza nella comunità, era un personaggio in vista.
La piccola comitiva doveva percorrere quasi seicento chilometri, più della metà dei quali in territorio borgognone, per giungere al castello di Chinon, sulla sinistra della Loira, poche miglia a sud-est della confluenza del grande fiume con la Vienne: là in quel monento, risiedeva Carlo di Valois. Il <<uo dolce delfino>>, lo chiamava Giovanna.
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DOMENICA 04 SETTEMBRE 2022 - 🔸♦️ SANTA ROSALIA ♦️🔸 Rosalia Sinibaldi (Palermo, 1130 – Palermo, 4 settembre 1170) è venerata come santa dalla Chiesa cattolica. Patrona di Palermo, il suo culto è uno dei più diffusi di tutta la città e dell'intera Sicilia. Il tradizionale Festino di Santa Rosalia è un importante evento civile che coinvolge centinaia di migliaia di persone. Le sue reliquie sono conservate presso la Cattedrale di Palermo, a lei dedicata assieme alla Vergine Assunta. Rosalia Sinibaldi nacque nel 1130, presumibilmente a Palermo, dal conte Sinibaldo Sinibaldi, signore di Monte delle Rose e Quisquina, membro della famiglia dei Berardi, noti come Conti dei Marsi, famiglia discendente diretta dell'imperatore Carlo Magno, e dalla nobile Maria Guiscardi, nipote del re Ruggero II di Sicilia. È nota per essere stata altresì pronipote dei cardinali Berardo dei Marsi, Giovanni di Tuscolo, Leone Marsicano ed Oderisio di Montecassino. Quanto alla sua nascita, è stato tramandato che nel 1128 il re Ruggero II di Sicilia, mentre osservava il tramonto dal Palazzo Reale con la moglie Elvira di Castiglia, vide apparirgli una figura che gli disse: «Ruggero, io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo, tuo congiunto, una rosa senza spine». Per tale motivo, poco tempo dopo, quando nacque, la bambina fu chiamata Rosalia, da un'etimologia popolare latina secondo cui il nome Rosalia sarebbe composto da rosa e lilium, ovvero rosa e giglio. Esiste un'altra tradizione che vede spettatori della visione Guglielmo I di Sicilia e sua moglie Margherita di Navarra, ma tale avvenimento non può essere accaduto poiché Rosalia nacque nel 1130, mentre Guglielmo regnò dal 1154 al 1166. Da giovane Rosalia visse in ricchezza presso la corte di Ruggero e la villa paterna, ubicata nell'attuale quartiere di Olivella. Rosalia, educata a corte, per la sua bellezza e gentilezza nel 1149 divenne damigella d'onore della regina Sibilla di Borgogna. Un giorno il conte (o secondo altri principe) Baldovino (erroneamente identificato con Baldovino III di Gerusalemme) salvò il re Ruggero da un animale selvaggio, un leone secondo la leggenda, che lo stava attaccando; il re al (presso Palermo, Italy) https://www.instagram.com/p/CiElAhhoI1O/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Vini del Piemonte
Vini del Piemonte
I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia. In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
leggi tutto https://online-wine-shop.com/provenienza/piemonte/vini-del-piemonte/
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Vini del Piemonte
Vini del Piemonte
I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia. In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
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Vini del Piemonte
Vini del Piemonte
I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia. In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
https://online-wine-shop.com/provenienza/piemonte/vini-del-piemonte/
#barbera#barolo#Giulio Cesare#Marchese Falletti#piemonte#spumante rosso#uva nebbiolo#vino#vino rosso#vitigno
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Vini del Piemonte
Vini del Piemonte
I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia. In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
un nuovo post è stato publicato su https://online-wine-shop.com/provenienza/piemonte/vini-del-piemonte/
#barbera#barolo#Giulio Cesare#Marchese Falletti#piemonte#spumante rosso#uva nebbiolo#vino#vino rosso#vitigno
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Vini del Piemonte
Vini del Piemonte
I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia. In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
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Vini del Piemonte
I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia. In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
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SAN SILVESTRO 2020 Salutiamo questo anno bisestile che ha dato il meglio di sé... Con due autentiche perle emozionanti. CHAMPAGNE GOSSET BRABANT GRAND CRU NATURE CORTON CHARLEMAGNE GRAND CRU 2017 DOMAINE ROLLIN La classe di Gosset Brabant e' indimenticabile e cristallina. Sublimare così tanta forza,carattere a piacevolissime microossidazioni tenuti insieme da una trama di bellissima beva è da fuoriclasse. Non dimentichiamocelo mai. Sui pendii ripidi del Monte Corton,dove questa "magica" vite fu donata dall’imperatore Carlo Magno nel 775 alla collegiata di Saint-Andoche a Saulieu. La gioventù di questo 2017 è comunque grandiosa. Impronta decisa,il giovane rampollo di stirpe regale di struttura da campione. Toni burrosi e minerali, l'attacco e davvero tondo,mai grasso,ma pseudodolce, venato come un wagyu da una marezzatura di sale e silice. Scorre via deciso, robusto ma al tempo stesso signorile, in un crescendo amplificato di anima e carattere forte, per un finale lunghissimo, pietroso,un respiro potente che di salmastro. Inchino alla corte.... Abbiamo brindato con i re e come i re. AUGURI A TUTTI Riccardo e Roberta #winelovers🍷 #wineblogger #wineselectors #instawine #chardonnay #gossetbrabant #champagnelover #cortoncharlemagne #borgogna #burgundy #magister #vinnatural #degustate #uva #grandcru #domainerollinpèreetfils https://www.instagram.com/p/CJhFEiqsw3q/?igshid=1a7idcg31ewv4
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SABATO 04 SETTEMBRE 2021 - SANTA ROSALIA Rosalia Sinibaldi (Palermo, 1130 – Palermo, 4 settembre 1170) è venerata come santa dalla Chiesa cattolica. Patrona di Palermo, il suo culto è uno dei più diffusi di tutta la città e dell’intera Sicilia. Il tradizionale Festino di Santa Rosalia è uno degli eventi religiosi più importanti al mondo in cui nel capoluogo siciliano si riescono a radunare oltre 500.000 persone. Le sue reliquie sono conservate presso la Cattedrale di Palermo. Rosalia Sinibaldi nacque nel 1130, presumibilmente a Palermo, dal conte Sinibaldo Sinibaldi, signore di Monte delle Rose e Quisquina, membro della famiglia dei Berardi, noti come Conti dei Marsi, famiglia discendente diretta dell'imperatore Carlo Magno, e dalla nobile Maria Guiscardi, nipote del re Ruggero II di Sicilia. È nota per essere stata altresì pronipote dei cardinali Berardo dei Marsi, Giovanni di Tuscolo, Leone Marsicano ed Oderisio di Montecassino. Quanto alla sua nascita, è stato tramandato che nel 1128 il Re Ruggero II di Sicilia, mentre osservava il tramonto dal Palazzo Reale con la moglie Elvira di Castiglia, vide apparirgli una figura che gli disse: «Ruggero, io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo, tuo congiunto, una rosa senza spine». Per tale motivo, poco tempo dopo, quando nacque, la bambina fu chiamata Rosalia, da un'etimologia popolare latina secondo cui il nome Rosalia sarebbe composto da rosa e lilium, ovvero rosa e giglio. Esiste un'altra tradizione che vede spettatori della visione Guglielmo I di Sicilia e sua moglie Margherita di Navarra, ma tale avvenimento non può essere accaduto poiché Rosalia nacque nel 1130, mentre Guglielmo regnò dal 1154 al 1166. Da giovane Rosalia visse in ricchezza presso la corte di Ruggero e la villa paterna, ubicata nell'attuale quartiere di Olivella. Rosalia, educata a corte, per la sua bellezza e gentilezza nel 1149 divenne damigella d'onore della regina Sibilla di Borgogna. Un giorno il conte (o secondo altri principe) Baldovino (erroneamente identificato con Baldovino III di Gerusalemme) salvò il re Ruggero da un animale selvaggio, un leone secondo la leggenda, che lo stava attaccando; il re allora v (presso Palermo - Sicily - Italia) https://www.instagram.com/p/CTZe8zosfdD/?utm_medium=tumblr
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🎖️ 10 gennaio 1430: Filippo III di Borgogna per celebrare la grandezza del suo regno (che correva dalle Fiandre fino alla Svizzera), in occasione delle proprie nozze con la principessa portoghese Isabella di Alviz istituisce l'Ordine del Toson d'oro, un ordine cavalleresco che divenne ben presto il più prestigioso d'Europa. . 🏆 Messo sotto la protezione di San Andrea, l'Ordine contava originariamente 24 cavalieri, variò nei secoli successivi, raggiungendo i 70 membri nel XVIII secolo. Gli insigniti erano solo nobili e gli erano garantiti privilegi enormi, ad esempio il sovrano dell'Ordine doveva consultarsi con i cavalieri prima di entrare in guerra e ogni disputa tra i cavalieri doveva essere risolta all'interno di questa consulta. . 🤔Ogni suo membro era immune da ogni prassi giudiziaria e la messa in stato di arresto di un suo membro doveva essere messo ai voti. Inoltre tale onoreficenza non era ereditaria, ma alla morte di un membro le insegne ritornavano al sovrano dell'ordine. . 🏅 Quando Carlo V divenne Gran Maestro dell'Ordine del Toson d'oro decise di concedere la sovranità dell'Ordine ai re di Spagna. Con la guerra di Successione Spagnola l'ordine si divise in due rami, quello spagnolo e quello austriaco con a capo i rispettivi sovrani. . 👑L'Ordine del Toson d'oro vanta personaggi illustri: degni di nota l'arciduca Carlo, l'arciduca Alberto, il feldmaresciallo Radetzky, Arthur Wellesley duca di Wellington e altri grandi generali. L'Ordine esiste tuttora e i suoi membri sono divenuti di numero illimitato. . 👉Per altre curiosità seguici sui social e visita il nostro sito 💻acrimperi.it #acrimperi #reenactment #historicalreenactment #derjungekaiser #medal #chivalry #order #tosondoro #history #livehistory (presso Associazione Cultura e Rievocazione Imperi) https://www.instagram.com/p/B7IQYqhIpVQ/?igshid=1riz659oxmvgx
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La galleria De’ Cristoforis Sicuramente quando si parla di “Galleria” a Milano – come primo pensiero – viene in mente la galleria Vittorio Emanuele II, il “Salotto di Milano”, che per imponenza e importanza spicca su tutte le altre gallerie e passaggi. Ma prima che l’architetto Giuseppe Mengoni realizzasse la sua creatura, un’altra galleria era nel cuore dei milanesi, la Galleria De’ Cristoforis. Era il 17 settembre del 1831 quando fu posta, con solennità, la prima pietra che diede origine al primo passaggio coperto realizzato sul suolo italiano, considerati gli attuali confini e non quelli dell’allora Regno Lombardo-Veneto. Va precisato fin da subito che l’esistente Galleria De’ Cristoforis, passaggio collocato sempre in prossimità della chiesa di San Carlo, ha in comune con la galleria di cui stiamo parlando SOLO il nome, ma sia la posizione e gli edifici che la definivano, sia il tracciato non sono certamente più gli stessi. Bisogna infatti tenere conto di come si sono sensibilmente modificati i tracciati di parecchie vie a ridosso di San Babila, corso Matteotti (allora inesistente), via San Pietro all’Orto e altre limitrofe per cercare di collocare correttamente questo gioiello scomparso: un frammento di cartina, che risale al 1908, ci aiuterà in questo scopo. La galleria De’ Cristoforis 11/08/2011 di vecchiamilano Sicuramente quando si parla di “Galleria” a Milano – come primo pensiero – viene in mente la galleria Vittorio Emanuele II, il “Salotto di Milano”, che per imponenza e importanza spicca su tutte le altre gallerie e passaggi. Ma prima che l’architetto Giuseppe Mengoni realizzasse la sua creatura, un’altra galleria era nel cuore dei milanesi, la Galleria De’ Cristoforis. Era il 17 settembre del 1831 quando fu posta, con solennità, la prima pietra che diede origine al primo passaggio coperto realizzato sul suolo italiano, considerati gli attuali confini e non quelli dell’allora Regno Lombardo-Veneto. Va precisato fin da subito che l’esistente Galleria De’ Cristoforis, passaggio collocato sempre in prossimità della chiesa di San Carlo, ha in comune con la galleria di cui stiamo parlando SOLO il nome, ma sia la posizione e gli edifici che la definivano, sia il tracciato non sono certamente più gli stessi. Bisogna infatti tenere conto di come si sono sensibilmente modificati i tracciati di parecchie vie a ridosso di San Babila, corso Matteotti (allora inesistente), via San Pietro all’Orto e altre limitrofe per cercare di collocare correttamente questo gioiello scomparso: un frammento di cartina, che risale al 1908, ci aiuterà in questo scopo. Il tratteggio che unisce via Caserotte a piazza San Babila rappresenta il tracciato del futuro (per l’epoca) corso del Littorio, divenuto poi corso Giacomo Matteotti al termine della guerra; la sua realizzazione risale infatti al 1928-1930. E proprio in quegli anni, quindi, si perse una configurazione – a mio parere – più gradevole rispetto a quella odierna, sia in termini di sviluppo delle strade sia di edifici. Solo per fare qualche esempio: largo San Babila diviene piazza San Babila, togliendo all’omonima chiesa quel ruolo di “primo piano” di cui godeva da molti secoli e contestualmente si interrompe quel senso di continuità, anche “ottica”, che c’era fra corso Vittorio Emanuele II e corso Venezia spariscono antiche strade come via Soncino Meroni e via Sala per far posto al nuovo corso del Littorio (poi Matteotti) e alla nuova piazza Francesco Crispi, ora Filippo Meda viene completamente demolito l’isolato che ospita la Galleria De’ Cristoforis per accogliere i nuovi palazzi di un’importante compagnia di assicurazioni di Torino (la Compagnia Anonima di Assicurazioni Torino), la relativa Galleria del Toro (il cui nome ufficiale è Galleria Ciarpaglini) e anche il nuovo teatro nelle sale sotterranee, che assumerà proprio il nome di Teatro Nuovo pochi anni più tardi, con la nascita di corso Europa e dell’attuale largo intitolato ad Arturo Toscanini, anche la via Durini e la via Borgogna perdono la loro fisionomia che le ha accompagnate fino al XX secolo… per finire, anche via Montenapoleone e via Bagutta subiscono delle inevitabili deformazioni per accogliere i nuovi tracciati Luigi De’ Cristoforis (1798-1862) e la moglie acquistarono all’inizio del 1831 dal duca Serbelloni l’area che ospitava l’omonimo cinquecentesco palazzo. L’architetto Andrea Pizzala (*) fu incaricato di dirigere i lavori e in capo a un solo anno, e precisamente il 29 settembre del 1832, la galleria venne ultimata e inaugurata con una sfarzosa festa da ballo. La galleria De’ Cristoforis 11/08/2011 di vecchiamilano Sicuramente quando si parla di “Galleria” a Milano – come primo pensiero – viene in mente la galleria Vittorio Emanuele II, il “Salotto di Milano”, che per imponenza e importanza spicca su tutte le altre gallerie e passaggi. Ma prima che l’architetto Giuseppe Mengoni realizzasse la sua creatura, un’altra galleria era nel cuore dei milanesi, la Galleria De’ Cristoforis. Era il 17 settembre del 1831 quando fu posta, con solennità, la prima pietra che diede origine al primo passaggio coperto realizzato sul suolo italiano, considerati gli attuali confini e non quelli dell’allora Regno Lombardo-Veneto. Va precisato fin da subito che l’esistente Galleria De’ Cristoforis, passaggio collocato sempre in prossimità della chiesa di San Carlo, ha in comune con la galleria di cui stiamo parlando SOLO il nome, ma sia la posizione e gli edifici che la definivano, sia il tracciato non sono certamente più gli stessi. Bisogna infatti tenere conto di come si sono sensibilmente modificati i tracciati di parecchie vie a ridosso di San Babila, corso Matteotti (allora inesistente), via San Pietro all’Orto e altre limitrofe per cercare di collocare correttamente questo gioiello scomparso: un frammento di cartina, che risale al 1908, ci aiuterà in questo scopo. REPORT THIS AD Il tratteggio che unisce via Caserotte a piazza San Babila rappresenta il tracciato del futuro (per l’epoca) corso del Littorio, divenuto poi corso Giacomo Matteotti al termine della guerra; la sua realizzazione risale infatti al 1928-1930. E proprio in quegli anni, quindi, si perse una configurazione – a mio parere – più gradevole rispetto a quella odierna, sia in termini di sviluppo delle strade sia di edifici. Solo per fare qualche esempio: largo San Babila diviene piazza San Babila, togliendo all’omonima chiesa quel ruolo di “primo piano” di cui godeva da molti secoli e contestualmente si interrompe quel senso di continuità, anche “ottica”, che c’era fra corso Vittorio Emanuele II e corso Venezia spariscono antiche strade come via Soncino Meroni e via Sala per far posto al nuovo corso del Littorio (poi Matteotti) e alla nuova piazza Francesco Crispi, ora Filippo Meda viene completamente demolito l’isolato che ospita la Galleria De’ Cristoforis per accogliere i nuovi palazzi di un’importante compagnia di assicurazioni di Torino (la Compagnia Anonima di Assicurazioni Torino), la relativa Galleria del Toro (il cui nome ufficiale è Galleria Ciarpaglini) e anche il nuovo teatro nelle sale sotterranee, che assumerà proprio il nome di Teatro Nuovo pochi anni più tardi, con la nascita di corso Europa e dell’attuale largo intitolato ad Arturo Toscanini, anche la via Durini e la via Borgogna perdono la loro fisionomia che le ha accompagnate fino al XX secolo… per finire, anche via Montenapoleone e via Bagutta subiscono delle inevitabili deformazioni per accogliere i nuovi tracciati Luigi De’ Cristoforis (1798-1862) e la moglie acquistarono all’inizio del 1831 dal duca Serbelloni l’area che ospitava l’omonimo cinquecentesco palazzo. L’architetto Andrea Pizzala (*) fu incaricato di dirigere i lavori e in capo a un solo anno, e precisamente il 29 settembre del 1832, la galleria venne ultimata e inaugurata con una sfarzosa festa da ballo. (*) L’architetto Andrea Pizzala ha progettato, tra le altre realizzazioni, anche il Bagno di Diana di cui abbiamo già avuto modo di occuparcene in un precedente articolo. Parteciparono alla costruzione 450 operai e il costo sostenuto fu di circa un milione e mezzo di lire, costo che ben presto recuperato dal proprietario grazie all’affitto dei settanta prestigiosi negozi che si affacciavano sul passaggio: tra tutti ricordiamo il famoso caffè Gnocchi e la celeberrima libreria di Ulrico Hoepli, aperta nel 1870 dal libraio svizzero. A seguito della demolizione della Galleria De’ Cristoforis la libreria si trasferì prima in via Berchet e poi nel 1957 nel palazzo appositamente costruito da Figini e Pollini nella via a lui dedicata. Proprio dal sito della Hoepli (dalla pagina dedicata ai 140 anni di storia della casa editrice) è tratta quest’immagine che rappresenta le vetrine della libreria nella contrada de veder (la strada di vetro) come veniva ormai chiamata la Galleria De’ Cristoforis. Carlo Hoepli, nipote del fondatore, volle far ricostruire nel piano interrato della libreria, una riproduzione, ovviamente in scala ridotta rispetto all’originale, della galleria di vetro, che aveva contribuito alla nascita di una delle più grandi e importanti attività commerciale (e culturale…) della città: la prossima volta che entrate nella libreria, fate una visita al piano interrato e terminate le scale andate verso destra, fino in fondo… La galleria De’ Cristoforis 11/08/2011 di vecchiamilano Sicuramente quando si parla di “Galleria” a Milano – come primo pensiero – viene in mente la galleria Vittorio Emanuele II, il “Salotto di Milano”, che per imponenza e importanza spicca su tutte le altre gallerie e passaggi. Ma prima che l’architetto Giuseppe Mengoni realizzasse la sua creatura, un’altra galleria era nel cuore dei milanesi, la Galleria De’ Cristoforis. Era il 17 settembre del 1831 quando fu posta, con solennità, la prima pietra che diede origine al primo passaggio coperto realizzato sul suolo italiano, considerati gli attuali confini e non quelli dell’allora Regno Lombardo-Veneto. Va precisato fin da subito che l’esistente Galleria De’ Cristoforis, passaggio collocato sempre in prossimità della chiesa di San Carlo, ha in comune con la galleria di cui stiamo parlando SOLO il nome, ma sia la posizione e gli edifici che la definivano, sia il tracciato non sono certamente più gli stessi. Bisogna infatti tenere conto di come si sono sensibilmente modificati i tracciati di parecchie vie a ridosso di San Babila, corso Matteotti (allora inesistente), via San Pietro all’Orto e altre limitrofe per cercare di collocare correttamente questo gioiello scomparso: un frammento di cartina, che risale al 1908, ci aiuterà in questo scopo. REPORT THIS AD Il tratteggio che unisce via Caserotte a piazza San Babila rappresenta il tracciato del futuro (per l’epoca) corso del Littorio, divenuto poi corso Giacomo Matteotti al termine della guerra; la sua realizzazione risale infatti al 1928-1930. E proprio in quegli anni, quindi, si perse una configurazione – a mio parere – più gradevole rispetto a quella odierna, sia in termini di sviluppo delle strade sia di edifici. Solo per fare qualche esempio: largo San Babila diviene piazza San Babila, togliendo all’omonima chiesa quel ruolo di “primo piano” di cui godeva da molti secoli e contestualmente si interrompe quel senso di continuità, anche “ottica”, che c’era fra corso Vittorio Emanuele II e corso Venezia spariscono antiche strade come via Soncino Meroni e via Sala per far posto al nuovo corso del Littorio (poi Matteotti) e alla nuova piazza Francesco Crispi, ora Filippo Meda viene completamente demolito l’isolato che ospita la Galleria De’ Cristoforis per accogliere i nuovi palazzi di un’importante compagnia di assicurazioni di Torino (la Compagnia Anonima di Assicurazioni Torino), la relativa Galleria del Toro (il cui nome ufficiale è Galleria Ciarpaglini) e anche il nuovo teatro nelle sale sotterranee, che assumerà proprio il nome di Teatro Nuovo pochi anni più tardi, con la nascita di corso Europa e dell’attuale largo intitolato ad Arturo Toscanini, anche la via Durini e la via Borgogna perdono la loro fisionomia che le ha accompagnate fino al XX secolo… per finire, anche via Montenapoleone e via Bagutta subiscono delle inevitabili deformazioni per accogliere i nuovi tracciati Luigi De’ Cristoforis (1798-1862) e la moglie acquistarono all’inizio del 1831 dal duca Serbelloni l’area che ospitava l’omonimo cinquecentesco palazzo. L’architetto Andrea Pizzala (*) fu incaricato di dirigere i lavori e in capo a un solo anno, e precisamente il 29 settembre del 1832, la galleria venne ultimata e inaugurata con una sfarzosa festa da ballo. REPORT THIS AD (*) L’architetto Andrea Pizzala ha progettato, tra le altre realizzazioni, anche il Bagno di Diana di cui abbiamo già avuto modo di occuparcene in un precedente articolo. Parteciparono alla costruzione 450 operai e il costo sostenuto fu di circa un milione e mezzo di lire, costo che ben presto recuperato dal proprietario grazie all’affitto dei settanta prestigiosi negozi che si affacciavano sul passaggio: tra tutti ricordiamo il famoso caffè Gnocchi e la celeberrima libreria di Ulrico Hoepli, aperta nel 1870 dal libraio svizzero. A seguito della demolizione della Galleria De’ Cristoforis la libreria si trasferì prima in via Berchet e poi nel 1957 nel palazzo appositamente costruito da Figini e Pollini nella via a lui dedicata. Proprio dal sito della Hoepli (dalla pagina dedicata ai 140 anni di storia della casa editrice) è tratta quest’immagine che rappresenta le vetrine della libreria nella contrada de veder (la strada di vetro) come veniva ormai chiamata la Galleria De’ Cristoforis. Carlo Hoepli, nipote del fondatore, volle far ricostruire nel piano interrato della libreria, una riproduzione, ovviamente in scala ridotta rispetto all’originale, della galleria di vetro, che aveva contribuito alla nascita di una delle più grandi e importanti attività commerciale (e culturale…) della città: la prossima volta che entrate nella libreria, fate una visita al piano interrato e terminate le scale andate verso destra, fino in fondo… REPORT THIS AD L’illuminazione della galleria De’ Cristoforis era garantita da ventotto lanterne a “corrente d’aria” e amplificata da ingegnosi specchi di riverbero; inoltre molti negozi erano illuminati a gaz; va ricordato che la centrale termoelettrica Edison di via Santa Radegonda (la prima in Europa) fu inaugurata solo nel 1883. I negozi della galleria rappresentarono per oltre un trentennio il “non plus ultra” del lusso e dell’eleganza, fino a quando la nuova galleria, quella dedicata a Vittorio Emanuele II, la superò per sfarzo e imponenza, sebbene anche in questo caso una parte storica della città venne completamente demolita per far posto al “nuovo”. Alla sera la contrada de veder era il luogo di ritrovo della Milano “bene”, dove i signori portavano a passeggio le mogli o le figlie maggiori che potevano così sfoggiare il loro abbigliamento da festa (quelli che potevano farlo, ovviamente); i bambini invece venivano tenuti lontano, per paura che facessero troppi schiamazzi, dal favoloso (pare) negozio del signor Ronchi, che esponeva meravigliosi giocattoli in legno (no, la playstation non c’era ancora…) Non è possibile concludere questa breve descrizione non ricordando che i locali della galleria furono anche il ritrovo di molti artisti e letterati di uno dei movimenti più “ribelli” della seconda metà dell’800: gli Scapigliati; erano artisti che contestavano la cultura tradizionale, ribelli al conformismo e che riuscirono a creare quel sentimento di amore-odio nei confronti degli intellettuali, il mito dei “poeti maledetti”, sulle orme del celebre romanzo di Paul Verlaine. Per un approfondimento sul tema, rimando a questa pagina di Wikipedia. Nel 1935 la galleria De’ Cristoforis cessò di esistere, ma il comune – dopo il secondo conflitto mondiale – decise di assegnare lo stesso toponimo a un altro passaggio, al di là della piazzetta San Carlo, quasi a titolo di risarcimento morale…
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