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Nobody Wants This: Kristen Bell, Adam Brody e una serie perfetta per i millennial

Cosa succede se una podcaster sul sesso incontra un rabbino? Non è l'inizio di una barzelletta ma l'incipit di un perfetto comfort show. In streaming su Netflix.
Ci sono serie, strombazzate o meno che siano, che nascono attraverso l'unione dell'algoritmo per colpire il proprio target di riferimento, magari puntando su star conosciute e molto amate e su un plot già visto ma sempre funzionale, soprattutto se legato al genere di appartenenza. Tuttavia, non è detto che questa commistione di elementi faccia centro. Per fortuna non è questo il caso se pensiamo a Nobody Wants This, la serie Netflix originale pensata appositamente per i millennial in cerca dell'anima gemella (e non solo), in cui tutto è davvero al posto giusto.
Nobody Wants This: l'ABC della commedia romantica

Bell e Brody, adorabili tanto da soli quanto insieme
Partendo dalle basi, la serie Netflix è una romcom abbastanza classica negli archetipi e negli stilemi, ma attualizzata ai giorni nostri, oltre le dating app e il successo dei podcast. Kristen Bell, l'ex Veronica Mars, è Joanne, appunto una podcaster insieme alla sorella minore Morgan (Justine Lupe): utilizzando i propri battibecchi e confronti quotidiani, parlano della difficoltà delle relazioni 4.0, mettendosi a nudo con le proprie disavventure per parlare di amore e sesso ma soprattutto di empowerment e indipendenza delle due parti all'interno di un rapporto.

Le due sorelle funzionano bene insieme
Adam Brody, l'ex Seth Cohen di The O.C. - quindi gli autori, Erin Foster in primis, hanno utilizzato due amori adolescenziali dei millennial non a caso - è Noah, un rabbino in erba, che proviene da una famiglia ebrea, molto credente e molto praticante, tanto che qualsiasi relazione con qualcuno al di fuori della cerchia non viene vista di buon occhio. Entrambe le famiglie sono un po' ingombranti ed entrambi hanno una spalla su cui piangere: Noah infatti è pappa e ciccia col fratello più grande e sposato, Sasha (l'altissimo Timothy Simons di Veep) con un'ebrea maniaca del controllo. Tutti ingredienti perfetti per una partenza col botto, che per fortuna non si affievolisce col passare delle puntate.
È tutta questione di chimica nella serie Netflix
Kristen Bell e Adam Brody sono meravigliosi, da soli e insieme, e fin dal primo minuto reggono benissimo la scena e la storia d'amore nascente tra i due protagonisti, che non potrebbero essere più diversi. Lei schietta, forse fin troppo, e fisiologicamente predisposta all'incasinare le cose; lui timido e metodico (ma molto più sicuro di sé di Seth) eppure curioso di cosa c'è fuori dal proprio orticello. Lei agnostica, lui credente. Non dovrebbero stare insieme, eppure non riusciamo a non tifare per loro, al volersi scoprire pezzo dopo pezzo quando nessuno intorno a loro crede in quella relazione. Si troveranno così ad affrontare argomenti seri come la religione, sempre attraverso l'umorismo.

Gli opposti si attraggono nella serie Netflix
Tra cliché e stereotipi tipici del genere, a colpire non è solo quanto i due funzionino insieme (non era scontato) ma soprattutto le battute al vetriolo che si lanciano continuamente, facendoci sognare e credere che si abbia quasi sempre la risposta pronta a tutto, e facendoci ridere per davvero (altro elemento per nulla scontato). Nobody Wants This prende quindi il meglio dal talento dei propri protagonisti per farcire una torta che abbia tanti gusti ben amalgamati tra loro. A partire dalla scrittura fino alla messa in scena, colorata di una fotografia luminosa e raggiante che per una volta utilizza il sole di Los Angeles invece che la più tipica New York.
Più della somma delle proprie parti

Anche i comprimari funzionano!
Non funzionano però solo i due protagonisti, altrimenti la ricetta del comfort show per questi primi freddi non sarebbe stata completa. Justine Lupe e Timothy Simons sono due ottime spalle che danno il prezioso contributo sia insieme ai propri fratelli sullo schermo sia tra di loro, creando situazioni tragicomiche. Anche il resto del cast forse un ensemble divertente e sopra le righe, mettendo in piedi una storia, pur ingenua in alcuni sviluppi, che è esattamente quello di cui avevamo bisogno per iniziare la nuova stagione televisiva in streaming. Complice anche la durata perfetta delle puntate: dieci episodi da 20-25 minuti, ricordando a Netflix che non c'è bisogno di fare le comedy oltre la mezz'ora, anche se non vi sono inserzioni pubblicitarie di mezzo. La riuscita è la stessa, anzi è migliore.
Conclusioni
In conclusione Nobody Wants This è il perfetto comfort show da divano e copertina, che va giù come una buona tazza di cioccolata calda aromatizzata alla cannella o a ciò che più preferite, senza bisogno di festività di mezzo e anzi ambientata nell’assolata California. Kristen Bell e Adam Brody sono pazzeschi insieme e, forse un po’ a sorpresa, lo sono anche i comprimari rendendo questa romcom dei tempi moderni proprio ciò il dottore ha ordinato per il cambio di stagione. Una commedia romantica cinica sotto mentite spoglie, in realtà dolcissima.
👍🏻
Kristen Bell e Adam Brody sono il sogno di ogni millennial insieme… e funzionano!
Anche Justine Lupe e Timothy Simons sono fantastici, così come il resto del cast.
La scrittura di Erin Foster: non ci si emoziona solo, si ride anche!
La durata breve degli episodi: evviva!
👎🏻
C’è qualche cliché nella caratterizzazione e nello sviluppo, ma fa parte del gioco.
C’è forse qualche ingenuità nella risoluzione degli eventi, ma serve a dare speranza.
#nobody wants this#kristen bell#adam brody#netflix#netflix series#netflix italia#recensione#series review#review
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Ana Tijoux

Ana Tijoux, cantautrice e attivista femminista è l’autrice del rap Cacerolazo! che nel 2019, è stato l’inno della rivolta al caro vita che ha portato il Cile all’attenzione mondiale.
Considerata la miglior rapper di lingua spagnola, ha ricevuto otto nomination ai Grammy.
Il suo nome completo è Ana María Tijoux Merino ed è nata a Lilla in Francia il 12 giugno 1977, figlia di esuli fuggiti dopo il colpo di Stato di Pinochet nel 1973.
È cresciuta respirando l’impegno politico e gli interessi artistici coltivati in famiglia fra danza e fotografia..
La passione per l’hip hop e le culture di strada sono state le basi della sua carriera artistica.
Tornata in Cile nel 1993, sin da giovanissima suonava con diverse band.
A vent’anni aveva già inciso il primo disco Vida Salvaje con i Makiza seguito, a distanza di poco, da Aerolineas Makiza salito al top del mercato hip-hop latino-americano. La band si è sciolta nel 2006 e lei, che intanto collaborava a diversi progetti e incideva brani per colonne sonore di film, si è concentrata sul suo primo album da solista Kaos che ha visto la luce nel 2007, ricevendo le nomination ai Latino MTV Video Music Awards nelle categorie Best New Artist e Best Urban Artist.
Il successo internazionale è arrivato due anni dopo con 1977, che prende il titolo dall’anno della sua nascita. Il disco, in gran parte autobiografico, cantato in spagnolo e in francese, ha segnato un allontanamento significativo dalla musica pop e dalle collaborazioni precedenti, dimostrando una maturità artistica che l’ha portata a esibirsi in festival internazionali e a fare un tour in Nord America. Segnalato da Thom Yorke, cantante dei Radiohead, tra i migliori prodotti dell’anno, è stato usato per il videogioco FIFA 11 e nella famosa serie tv Breaking Bad.
L’album La Bala (uscito nel 2011), ha ricevuto la nomination al Grammy Latino nella categoria Música Urbana.
Nel settembre 2012, Ana Tijoux ha aderito al progetto multipiattaforma “30 Canzoni per 30 Giorni” in sostegno delle donne oppresse in tutto il mondo.
Nel 2019 le sue casseruole in versione rap sono diventate la canzone simbolo della protesta contro il presidente miliardario Sebastián Piñera in Cile.
L’anno seguente ha celebra nuovamente quel grande movimento con il brano Rebelion de octubre, che ci ricorda come la sua dimensione artistica sia molto più articolata e profonda, toccando diverse sonorità e ribadendo il suo attivismo femminista decoloniale.
La sua musica intende rompere i confini di genere e farci ballare come risposta di gioiosa ribellione contro le ingiustizie della società.
Il suo ultimo lavoro Antifa Dance è una bella azione sonora basata su ritmi urbani, rap e movimento, intrisa dalla coscienza politica espressa attraverso parola e azione.
Ana Tijoux trasforma le proteste in canzoni potenti che sono un’iniezione di incoraggiamento in questi tempi di emergenza globale.
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Ciao! Mi piacciono molto le tue foto ( •͈ᴗ•͈) perché riesci sempre a mettere in risalto quei piccoli dettagli che spesso passano inosservati, volevo chiederti come hai imparato a fare foto cosi belle e se quindi avessi qualche consiglio per un principiante. Inoltre sono curioso di sapere quale macchinetta fotografica usi. Grazie! ✿
Ciao!!
Intanto grazie mille, per la domanda e per il fatto che ti piacciano, mi fa tanto piacere!!
Io non lo so, ne parlavo qualche settimana fa con un amico che mi chiedeva la stessa cosa. A me è venuto naturale, è come se avessi sempre fotografato. Solo che, prima, lo facevo attraverso le parole non avendo la macchina fotografica: scrivevo ciò che attirava la mia attenzione, ci ricamavo storie, pensieri, emozioni. È come se quelle parole fossero diventati scatti, immagini tangibili. Le basi le ho imparate facendo un corso, il gusto guardando tante foto, ma poi di base scatto ciò che mi emoziona. Mi piace pensare che la fotografia sia una sorta di esercizio quotidiano alla meraviglia, sicuramente ora sono moooolto più reattiva a ciò che mi circonda.
Come macchina ho una Canon (2000d) con su una lente fissa (50mm, 1.8). Per qualsiasi domanda o per due chiacchiere son qua 🍬
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Lo scopo di Hamas non è uno stato Palestinese, ma una guerra di religione per spegnere l'ultima scentilla di indipendenza e libertà in una parola Israele. Prendono mensilmente centinaia di milioni di euro eppure è sempre stato tutto abbandonato, hanno usato i soldi solo per tunnel, hanno 36 ospedali alcuni stati Arabi solo 1, ma solo perché li usano solo come basi terroristiche.
Il loro fine è solamente uno stato Islamico esteso, poi faranno ( e lo stanno già facendo ahimè) lo stesso in Europa. Ricordate che dopo il popolo del Sabato toccherà al popolo della Domenica..
La Palestina è un business umano fondata da un delinquente internazionale che fu Arafat. Un azienda basata su vittime, terrore e collaborazione di intere famiglie criminali cresciute ad odio e ak47.
L' islam peggiore quello radicalizzato dell intifada.
Invocano il decolonialismo della Palestina solo le orrende dittature islamiche, Libano, Siria, Yemen, Iran, Afghanistan. Raccontano attacchi terroristici come "Resistenza", è Guerra come "genocidio; forse la fotografia più chiara di un'ideologia confusa e intrisa di una religione del terrore. Il loro mantra è "Morte al sionismo". I centri sociali Europei ( dove si rifugiano migliaia di migranti coranici) invocano lo sterminio di Israele, glissando su sharia,lapidazioni, gay defenestrati, spose bambine. In Israele, virgola geografica e democratica all'interno d'un mare di nazioni ferocemente islamizzate puoi fare cio che vuoi, potete dire lo stesso degli stati che circondano Israele e che vogliono cancellarlo? Ma per favore!
Potreste partire volontari e andare a combattere insieme alle brigate di hamas, un foulard verde in fronte, un ak47, e via a divenir martiri. E visto che sono maschilisti e ferocemente patriarcali in vita, anche da morti avrete 12 vergini con cui sollazzarvi in modo che non ci sia mai fine allo schifo morale anche nel vostro aldilà.
Riconoscerai l'albero dal frutto.
#liberopensiero #robertonicolettiballatibonaffini #israel #hamás #jerusalém
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Passo 1: pianificare
Progettare le fondamenta è sempre il passo più importante, perché senza di questo non si può pensare di costruire qualcosa di durevole.
Io ho appena finito questo punto. Ho pianificato:
-I miei sogni
-I miei obiettivi
-Le basi della mia agenzia
-Il mio piano di apprendimento
Oggi voglio parlare dell'apprendimento: anche questo è parte delle fondamenta.
Ho capito che se non sviluppo le mie abilità, non posso pensare di avviare un'agenzia di successo. Proprio per questo ho fatto una lista di tutti gli argomenti di cui ho bisogno (fotografia, editing, sound design, vendite, copywriting, SEO e comunicazione), o almeno quelle di cui so di avere bisogno, e ora mi sono creato un piano per impararle tutte a un livello avanzato in 16 settimane.
Secondo le mie previsioni, potrò cominciare a lavorare attivamente sull'agenzia entro la fine di aprile, e aprirò l'agenzia in Agosto/Settembre.
Domani vi racconterò meglio i miei obiettivi e sogni.
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LA NAISSANCE DES GRANDS MAGASINS
L’ascesa della borghesia francese, durante il cosiddetto Secondo Impero, favorita da Napoleone III, ( che ricordiamolo è colui che diede il compito al barone Haussman di ridisegnare completamente Parigi) crea le condizioni ideali per la nascita del “grande magazzino”, come centro del commercio al dettaglio. Quell’evento, quasi prodigioso, simbolo per eccellenza della modernità, celebrato nella pittura, nella fotografia e nella letteratura, segnerà la storia del costume europeo prima e mondiale poi. La culla del grande magazzino è Parigi e proprio qui, al Musée des Arts Decoratifs, è allestita una mostra che raccoglie, manifesti, maquettes, oggetti, costumi, fotografie e molti altri materiali del rutilante mondo dei grandi magazzini, soprattutto parigini, della fine del XIX secolo (mostra aperta fino al prossimo 13 ottobre). I grandi magazzini sono all’origine di una rivoluzione commerciale che farà entrare la Francia in un nuovo ordine sociale ed economico, ovvero quello del consumismo. La mostra, attraverso nove documentatissime sezioni, segna le tappe, più concettuali che cronologiche, di questo percorso. Per dare la misura di questa rivoluzione del costume e dell’economia, ricordiamo che Émile Zola nel 1882 realizza una sorta di reportage presso i Grands Magasins du Louvre per la preparazione del suo romanzo “Au Bonheur de Dames”. Da un punto di vista meramente commerciale e del costume, i grandi magazzini, rivoluzionano il concetto di commercio a partire dall’abbigliamento della persona (soprattutto della donna), aprendo le porte al concetto stesso di moda. È qui infatti che in uno stesso reparto si trovano tutte, e tutte insieme, le componenti dell’abbigliamento, ma anche della toilette. Anche le "ventes spéciales", che noi chiamiamo oggi "saldi", nascono in seno ai grandi magazzini parigini e gli “affiches” di queste vendite sono quanto di più gustoso offra la mostra del MAD. La trionfante società borghese consente, all’epoca, una rapida crescita demografica e, soprattutto per le classi sociali più agiate, fa strada il giocattolo come strumento ludico-educativo. Anche i giocattoli, su produzione in larga scala, fanno la loro comparsa proprio nei grandi magazzini già dal 1870, così come le più raffinate strategie pubblicitarie che cercano di far leva sulle giovani mamme attraendole verso il prodotto dedicato al bambino. Ma le innovazioni del grande magazzino non finiscono qui; la mostra infatti dedica una ampia sezione alle vendite per corrispondenza, attraverso un apparato fotografico e supporti video. Amazon in fondo non ha inventato niente di nuovo: attraverso accuratissimi cataloghi, esposti in mostra, gli acquirenti potevano scegliere il prodotto anche per corrispondenza. Nel 1912 “Au Printemps” si inaugura l’atelier “Primavera” (curioso l’uso del termine italiano che richiama il nome originale del grande magazzino), un atelier che produrrà mobili e oggetti d’arte in serie, una produzione seriale insomma, che sarà qualche decennio dopo, con altre basi ma con la stessa intenzionalità, la grande novità del Bauhaus di Weimar e Dessau. A Parigi atelier saranno aperti presso le “Galeries Lafayette (Atelier “La Matrise”), Le “Bon Marché” (Atelier “Pomone”) e ancora nel 1923 “Les Grands Magasins du Louvre” (“Studium Louvre”). Tra le gli oggetti esposti, quelli che stimolano maggiormente l’immaginazione sono a mio avviso le affiches, alcune compositivaente e, perché mo, artisticamente pregevolissime, come per esempio il manifesto per “Samaritaine” di Emilio Vila del 1929 o la fantasmagorica litografia de i “Magasins Crespin-Dufayel (manifesto di proprietà del MAD), così cime deliziose sono le litografie di Jules Cheret per “Aux Buttes Chaumont”, i magazzini del Boulevard de la Vilette. L’apparato fotografico di tutto rispetto, ha certamente il suo pezzo migliore nell’album fotografico, diviso per reparti di vendita, dell’organigramma completo del personale (direttori, capi, impiegati, commessi) de “Le Bon Marché Rove Gauche” del 1887. Una mostra insomma strabiliante in una città sempre strabiliante.


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Non ho scelto strade facili credo. Ho avuto sempre paura delle strade sbagliate, del rovinarmi un'opportunità.
Non mi piaceva e non capivo la matematica, così mi sono messo a studiarla, l'ho resa la mia strada. E mi sono laureato in ingegneria, magistrale con quasi il massimo dei voti.
Sono arrivato a non capire più cosa volessi, perché tutto era indifferente. Certo, quando sei così lontano dai talenti e valori personali può capitare.
La fotografia e la creatività non le ho mai abbandonate, così come neanche la strada umanistica. Tant'è che è lei ad avermi ripescato. Negli ultimi anni ho costruito un castello di abilità e competenze. Insomma, mi sono rifatto, un'attività fotografica che non va benissimo ma anche le basi per farla funzionare. Poi l'amore per la pittura.
Penso che magicamente la vita mi abbia messo sempre alla prova, rivelandomi nel momento giusto le strade celate per vari motivi. Così come quando mio padre ha comprato una reflex digitale, che avevo 19 anni... Così come quando ho ripreso a fotografare per eventi, ed ho scoperto il mondo delle mostre a pochi mesi dalla laurea magistrale.
Adesso che di proseguire nel costruire sono dubbioso, che costruire significa continuare a darmi da fare ma con compromessi troppo grandi, mi sento perso. Le due strade sono tracciate, ma possibile che non trovi ancora la direzione giusta da prendere, quella che mi faccia sentire minimamente soddisfatto e appagato? Cosa e quando deve succedere per illuminarmi il cammino? Quale passo dovrei compiere che non riesco a vedere? Forse trasferirmi altrove?
E poi, mi manca tanto l'amore. In questi ultimi mesi ho perso dei punti fermi, nella mia città ed in quella "nuova", che tra le due fazioni ho preferito scegliere persone nuove.
Dove sta la mia stella cometa?💫


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Act N°1 a/i 2018: Show n°0, una riflessione attuale in codice sartoriale

Sembra una polaroid di questa nostra eclettica epoca fashionista: sì esatto, proprio quella fotografia concreta e maneggevole, non racchiusa nell’effimero digitale di una nuvola che si può vedere ma non si può afferrare, bensì fatta di sostanza e che prende vita al momento in cui viene scattata. Sì esatto, proprio quel genere di fotografia che apparteneva al secolo scorso, che sembrava estinta ma no, non lo è, perché le icone, così come la verve da sottocultura che invade le strade e lo stile di vita e di guardaroba, non si estinguono, ma si reinventano e ci accompagnano.

Ecco, la collezione di Act N°1 a/i 2018-19 andata in scena su una passerella d’eccezione all’appena trascorsa edizione di AltaRoma, ovvero la Galleria Nazionale di Arte Moderna, ha il potere di una polaroid: un ritratto diretto, giovane eppur consapevole, schietto e intrigante nella sua imperfezione, della realtà nella quale siamo immersi e con la quale ci si diletta ad esprimersi.
Dopotutto s’intitola “Show n°0”: come fosse una messa in scena sincera dell’attualità senza alcun grado di separazione tra noi e gli abiti che han sfilato. E i vari mondi che la loro apparenza sartoriale composita e la loro ispirazione culturale complessa han raccontato.
Primo fra tutti, il mondo squisitamente personale della cultura d’appartenenza che ha intriso di ricchezza multiculturale l’infanzia dei due fashion designer, che del brand sono fondatori e anime creative: Luca Lin e Galib Gassanoff. L’infanzia e i ricordi saporiti che di essa ancora restano e che nutrono l’ispirazione dei due creativi: l’infanzia dunque, il primo atto dell’esistenza e la prima tessera del mosaico della propria identità, quando si creano le basi dello spettacolo che si protrarrà per tutta la vita e le sue evoluzioni. Eccolo qua, il primo atto: l’Act N°1!

Per comprendere al meglio è necessario fare un passo all’interno delle relative autobiografie: entrambi son giovanissimi, entrambi son cresciuti sul territorio emiliano-romagnolo e maturati nella moda a Milano, ma al contempo entrambi provengono da origini estere, Luca Lin è nato da genitori cinesi e Galib Gassanoff è nato e cresciuto in Georgia da genitori azeri.

Et voilà il fil rouge che dà forma e corpo alle collezioni del brand Act N°1 e che si riallaccia anche nella collezione a/i 2018-19: il bagaglio prezioso che viene dal métissage culturale personale è sottoposto all’attitude studiatamente scomposta di quel grunge anni ’90 che ancora esercita la sua attrazione, in questo caso creando un vero mash-up tra il pregio della materia lavorata e il cool dell’attitude streetwear. Il tutto è poi tradotto attraverso l’esattezza tipica della manifattura sartoriale italiana.

L’occhio e il gusto devono star bene attenti: quelli che sembrano esercizi di styling sono operazioni di stile molto sottili, dove il mix di provenienze provoca la stratificazione appassionata, che a scomporla rivela le stampe ricercate tratte da acquerelli originali cinesi, i jacquard preziosi dove sbocciano le peonie, i pattern grafici che ricreano i motivi dei tappeti orientali direttamente dall'arredamento post-sovietico degli anni ’90.

E via scomponendo si gode l’effetto che fa il collage di capi d’abbigliamento e d’icone prese da epoche stilose che sembrano lontane eppur son così recenti: patchwork di pezzi di vestiti decostruiti, ovvero smantellati per poter essere poi riassemblati, in particolare quelli dal gusto sporty come le felpe che si fondono negli abiti, i bomber military che s’incastonano nelle bluse, le due camicie che diventano minidress e il tulle lieve che ricopre l’aplomb del cappotto dritto e materico.

Passo dopo passo, anzi, strato su strato si va verso un’eleganza rivisitata con la stessa urgenza della mescolanza: le stampe delle vesti che rievocano il kimono han bisogno della grinta del denim che si affaccia da sotto, il velluto elegante degli abiti va annodato con rapida nonchalance in vita e l’invasione luminosa delle paillettes è da gran finale. Ma sempre intrise da quell’attitude casual che non fa rinunciare alla felpa, mai, nemmeno quando prende la voglia irrefrenabile d’indossare anche un bel paio di cuissard glitterati.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
{ Photo backstage ©Grey Magazine }
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Storia di un pezzetto di Roma: via di Monte Savello.
Fonti:
Foto Fondo Vedo Anticoli Portico d'Ottavia passanti
- info.roma
- roma segreta
- Mappe del Falda e del Nolli
- varie ed eventuali.
Nei rari momenti di quiete della città (vale a dire di mattina presto e a tardissima notte) c'è un dolce silenzio, in questa breve via cieca che si chiama oggi "di Monte Savello".
Via modesta, appartata, è difficile imboccarla di proposito; più spesso la si prende per sbaglio e poi, indispettiti, si torna indietro: non porta a niente, solo a un parapetto di pietra e travertino e, sotto, un vuoto popolato di rovine.
Il romano ha fretta di arrivare e tirerà un paio di mortacci mentre torna verso il Lungotevere. Il turista ha già visto ruderi più maestosi: difficilmente si impressionerà di questi.
Come tanti altri luoghi belli e defilati di Roma, non è raro che venga usata come orinatoio a cielo aperto o deposito di bottiglie vuote: le scalette che la riuniscono alla piazza sua omonima, con i capolinea dell'autobus 63, sono spesso ridotte a una latrina.
Però lei sopporta, mansueta, dimenticata, ora vespasiano, ora parcheggio, con il suo nasone al quale i disgraziati si fanno il bidè e i suoi vasi di cactus e di papiri spelacchiati tra cui dormono, tra le vespe, i gatti randagi.
Peccato: questa vietta ha tanto da raccontare. Basta sostarci un poco, toccare i muri, e si sentirà forse la dolcezza di una storia antica che attende, sommessa, qualcuno che la voglia ascoltare.
Certo, in questa zona - a destra la Sinagoga, alle spalle il Portico di Ottavia, davanti a noi la nave in eterna navigazione che è l'Isola Tiberina, a sinistra, oltre la vasta curva del lungofiume, la valle del Circo Massimo e la rocca dell'Aventino - qui, da dovunque inizi a raccontare c'è spazio per milioni di storie.
Non sarebbe forse nemmeno necessario scegliere proprio questo punto, quest'angolo particolare, e i millenni ci rotolerebbero dalle labbra solo a parlarne, come in quella bella favola della fanciulla che seminava perle e diamanti appena apriva bocca.
Però a noi, questo punto, piace perché ci possiamo sedere ad osservarlo sul muretto di San Gregorio ai Quattro Capi e ascoltare il vento che spettina i platani e porta su la voce antica delle rapide, giù a fiume.
Monte Savello, quindi.
Iniziamo.
Prendiamo le mosse da una bella fotografia trovata per caso sulla rete.
È stata scattata un giorno di maggio del 1961, il 18, un giovedì che, anche in bianco e nero, non appare meno radioso di come doveva essere a colori: la fonte è l’Archivio Luce.
Della nostra vietta indoviniamo l'angolo a ridosso della Chiesa di San Gregorio della Divina Pietà.
Per poco non si vede il punto in cui il muro della chiesa è tagliato da una buchetta di marmo che doveva servire per l'elemosina e che forse, in questi anni Sessanta ancora intensamente cattolici, poteva essere ancora attiva.
Da quasi centovent'anni la strada ha cambiato nome e, da una trentina, anche la forma.
Sì, perché si chiamava via dei Savelli, fino al 1883: quello è l'anno in cui molte vie cambiano nome e si gettano le basi di molte drastiche trasformazioni, per la nostra città.
Facciamoci un salto, al 1883, e lasciamo il sor Anticoli tranquillo, per ora.
Già poco dopo la presa di Porta Pia, i Savoia si sono trovati per le mani una Roma pastorale, sorniona e zuppa fino alle midolla di fango del Tevere (entrati loro il fiume, burlone, li ha subito benedetti con una piena come non se ne ricordavano di così formidabili da vari anni).
Vorrebbero farne una capitale europea, così, tra alterne interrogazioni del giovane Parlamento unitario elaborano un primo Piano Regolatore: è il 1873.
In dieci anni, dai di lima, dai di mazzette, ecco che siamo al 1883: vede la luce, depositato presso gli Uffici del comune, il Secondo Piano regolatore.
Questo pare il colpo di spazzola dato da una madre ottocentesca alla testa ribelle del suo figlio più piccolo, che intende portare a messa con i capelli leccati ma i cui ricci sfuggono da tutte le parti alle sue zaccagnate.
Per ora, comunque, la strada cambia solo di nome e non di forma: oltre alla villa Orsini, sulla sinistra verso il Teatro di Marcello, è tutta fitta di botteghe e c'è a destra un altro bell'edificio, palazzo Lercari, e poi case nel cui perimetro e cortile, affacciato al fiume, sbucano dei ruderi strani e dei vecchi abbeveratoi.
Le botteghe sono vecchie e hanno tutti degli aggeggi strambi appesi attorno alle porte: sono i robbivecchi, i stracciaroli, e più in là callarari, macellari, drogheri, tutto un mondo di voci e di facce e di odori e di forme che si affollano lungo il tracciato della via.
Carrozze salgono e scendono verso il Ghetto appena riaperto alla vita civile; vengono e vanno a piazza Montanara, luogo di mercato e di contrattazione dove si radunano poveri cristi da fuori Roma, i burini. Da Facebook raccogliamo la testimonianza che ancora qualcuno ricorda un adagio materno: e che joo faccio fà, ai burini de piazza Montanara?, come dire che là in piazza si trovava solo manovalanza scadente, inadatta a lavori di fino.
(nelle foto: via dei Savelli ovvero di Monte Savello; persone radunate nel portone di palazzo Lercari, anni '20, fonti varie tra cui Istituto Luce).





Tempo nemmeno cent'anni, da quel 1883, e siamo di nuovo alla nostra fotografi anni '60, con i signori a spasso nei pressi della premiata bottega Anticoli.
La nostra via è già monca; non esistono più né piazza Montanara, né palazzo Lercari.
Il campo medio della nostra prima immagine è occupato da poche figure: ci sono tre macchine – la zona era già trafficata allora! - e forse una appartiene al distinto signore che attende di essere servito fuori dal materassaio.
Qui ci viene in sostegno la preziosa testimonianza di chi, quei luoghi, oggi li vive quotidianamente: il titolare del bar e rivenditoria tabacchi n. 125, collocata proprio in via di Monte Savello, che provvede la sua parte di memoria storica.
Il negozio di Anticoli, ci narra, passa nelle mani del sor Cesare dopo il 1955, anno cruciale, per la nostra storia, perché vi si gira La bella di Roma, dolce-amara cronaca d’un corteggiamento fallito in cui il tappezziere Gracco Marcelli - Alberto Sordi tenta di conquistare una bella e imprenditoriale Nannina - Silvana Pampanini.
A quest'altezza, il negozio futuro Anticoli è ancora di altri proprietari che vi hanno una rivenditoria di tessuti (forse Spizzichino).
Proprio là dentro si tiene il set per la tappezzeria di Gracco: tutti i materiali murari attualmente visibili nel bar sono originali e compaiono anche nel film di Sordi, dalla salitella al banco con i parapetti di ferro alle travature lignee originali, meritoriamente conservati dagli attuali gestori.
Il bar-tabacchi di oggi abbraccia tre distinti locali di ieri separati, uno dei quali era un'Osteria delle Quattro Stagioni attiva in periodo di guerra.

Torniamo alla nostra foto.
Un'altra figura maschile si muove per via del Portico di Ottavia in direzione del monumento: sembra in divisa.
È diretto in direzione di largo Arenula, non sappiamo di più; potrebbe aver traversato il ponte dall'isola Tiberina, o forse ha girato l'angolo proprio da via di Monte Savello.
Quella via infatti, in questi anni, è ancora viva, a differenza di oggi; non solo vi si aprono i negozi che La bella di Roma indirettamente ci mostra ma abbiamo immagini di affissioni elettorali lungo il muraglione di villa Orsini, affissioni che non sarebbero state collocate, senza la ragionevole certezza di un adeguato passaggio di potenziali elettori.
Dall’edificio in cui si apre il materassaio, una donna si affaccia sulla strada con in braccio un pupo che sembra l’unico ad accorgersi della presenza indiscreta della macchina fotografica, verso la quale guarda ingrugnato.
Da quelle finestre spesso spalancate si scorge oggi, e ben chiara, la travatura del soffitto, analogamente esposta nel locale che occupa oggi gli spazi di Anticoli, un bar-tabacchi.
Difficile dire, senza chiedere ai proprietari, se quei travi sono originali, ma è plausibile che il palazzotto rimonti a un’epoca tra il Seicento tardo ed il Settecento come dipendenza della villa Orsini in Monte Savello.
(edit: Confermato, tutto il materiale è originale).
Se si analizza la pianta del 1667 di Giovan Battista Falda infatti, dirimpetto all’edificio n. 109, San Gregorio della Divina Pietà, c’è un edificio d’angolo di modesta altezza – non più di tre piani – la cui pianta a L sembra replicata da quello attuale (si veda Goofle Maps – veduta satellitare e Roma IeriOggi per una buona risoluzione della Mappa di Falda).
L’edificio manca in una delle mappe più antiche di Roma moderna, la terza e più recente tra quelle uscite dalla penna dell’umanista, pittore e archeologo (allora si chiamavano “antiquari”) Pirro Ligorio. Pirro crea la sua ultima mappa nel 1561 ma la mappa, oltre che essere forse un po’ raffazzonata per quel che riguarda gli edifici ritenuti di minore interesse (le sue mappe sono, infatti, incentrate sul suo amore per gli edifici antichi e sono, di fatto, mappe archeologiche) non poteva forse dettagliare molto altro, visto che il palazzo sorto sul Teatro dei Marcello per mano dell’architetto Baldassarre Peruzzi era forse, a quest’altezza, ancora in costruzione (di questa storia, del resto, ne parliamo tra poco).
L’edificio in cui, quasi trecento anni dopo, doveva serenamente lavorare il nostro materassaio appare invece in una bella mappa del 1663 (Blaeu), quindi sappiamo che viene costruito nei cento anni tra le due mappe. Infine, per il 1748 siamo certi che è già in piedi: ce lo prova Giovan Battista Nolli, grande topografo comasco cui si deve una delle mappe più ricche e accurate per la conoscenza della Roma moderna. Nella sua mappa, san Gregorio è l’edificio 1036 e dirimpetto, nel monumento numerato 1022 e che è il complesso di palazzo Orsini, eccola lì, la casetta del futuro Anticoli materassi reti e tralicci.
Tra l'altro, proprio in Nolli il tracciato della attuale via di Monte Savello si vede benissimo ma, in quegli anni, non è troncata perché arriva fino dirimpetto alla Rupe Tarpea, alla scomparsa Piazza Montanara con la sua fontanella che oggi si trova lungo via de’ Coronari, in piazza San Simeone (974):
Quindi quest’unico, superstite palazzo che abbiamo identificato, già a metà del Seicento terminava nel lungo muraglione di cinta della proprietà Orsini: addirittura per Falda sosteneva forse anche una rampa in salita lungo il Monte Savello.
Già, il monte: ma qui, si dirà, non ci sono monti, anzi la sede stradale è bassa, infatti dal capolinea degli autobus nell’omonima piazza si scende una breve rampa per raggiungere l'attuale tabaccheria.j
Per aver risposta, ovviamente, basterà proseguire proprio al capolinea e girare tutto attorno al Teatro di Marcello, dove via del Foro Olitorio ci conduce in discesa lungo il perimetro di san Nicola in Carcere, nei cui muri è stato incastonato quanto resta di un tempio a Speranza (Spes) e una targa ci informa della discreta presenza di una piccola orma scavata nel selciato: è l'opera di Micha Ullman "Seconda casa. Gerusalemme-Roma", una clessidra le cui coppe, Roma e Gerusalemme, fluiscono l'una nell'altra, unite "a simboleggiare un dialogo millenario".

La configurazione dei luoghi è stata modificata molto dagli interventi di sterratura ed apertura degli scavi intorno al Teatro di Marcello, risalenti al periodo tra il 1926 ed il 1940, ma il “Monte” c’era davvero: solo, come il vicinissimo Monte Cenci dietro la Sinagoga, non era naturale, ma prodotto dall’accumulo di detriti e rovine sulle quali furono affastellati nel Medioevo edifici e torrette difensive, prima dei Fabi o Faffi, poi dei Pierleoni, la cui presenza nella zona resta nel nome del Lungotevere che proprio dal Ponte Quattro Capi ha inizio e in una torre sull’Isola.
(Qui un paio di fotografie da Romasparita.eu.
La prima mostra il Portico non ancora isolato dalla piazza tramite ulteriori lavori di scavo. Siamo ancora all'altezza del 1960.
La seconda rimonta al 1926, anno d'inizio delle prime demolizioni di tutto quanto restava della zona il Lungotevere e il Campidoglio).
Queste famiglie, Faffi, Pierleoni, Savelli e, appunto, i vicini Cenci, signoreggiavano su una città che faticava a riprendersi dalle devastazioni dei Goti e dal passaggio tra Impero e Papato, ma che stava lentamente delineandosi come la capitale di un regno teocratico, quello papale, il cui potere era insieme spalleggiato e conteso da famiglie di mercenari, ricchi borghesi in grado di acquistare terreni e costruirvi torri e fortilizi per difendere i loro e la gente che viveva su quelle aree.
Un esempio per tutti, proprio i Pierleoni, forse discendenti da un mercante ebreo, Baruch, che nel 1000 si sarebbe convertito al cristianesimo pur rimanendo a vivere nell'area che 575 anni più tardi sarebbe stata recintata e ridotta a Ghetto: è loro anche la torretta collocata al civico 5 di via del Teatro di Marcello, dirimpetto a San Nicola in Carcere, risparmiata dalle demolizioni novecentesche per la via del Mare.
Quanto ai Savelli, più tardi famiglia di almeno due papi accertati (Onorio III e Onorio IV, a cavallo tra 1100 e 1200) si incastellarono proprio qui, arraffando pezzi di terreno sotto il quale giacevano ancora le rovine del Teatro di Marcello: ci sono tracce della loro signoria sia qui che più in là, salendo all’Aventino per il meraviglioso e ripido pendio che si chiama Clivo della Rocca dei Savelli, nel vicolo Savelli che congiunge via del Pellegrino a corso Vittorio Emanuele, poco più a Nord di piazza Campo de’ Fiori.
Qui dominarono il quadrante tra sant'Angelo, Regola, Parione, azzuffandosi con i vicini Pierleoni, Caetani, Cenci, Orsini e quante altre famiglie oggi scomparse o dimenticate, fino a smorire ai primi del 1700, lasciando i loro beni sparsi tra i Chigi e altre famiglie con cui si erano imparentati i rami più a lungo sopravvissuti, quelli dei castelli Romani.
Comunque, tra il 1517 e il 1525 i Savelli stavano ancora benone: non si sa con certezza quando, ma è intorno a queste date che, anzi, decidono di far sì che la loro abitazione, finora un accrocco turrito di fronte al vasto Tevere con le sue calette e le scale che conducono agli attracchi per le vicine salare dell'Aventino e il mercato di piazza Montanara, sia finalmente all’altezza dei grandi lavori che in tutta Roma fervono per costruire palazzi e Chiese degni di una capitale rinascimentale (da poco si va mettendo mano alla sontuosa via Giulia, trionfo dei potentati fiorentini e, al loro seguito, delle maggiori famiglie cittadine).
Il cardinal Giulio Savelli si rivolge così a un architetto di grido, Baldassarre Peruzzi, che in quegli anni (1519?) partecipa con altri illustri nomi (Raffaello, Antonio da Sangallo il Giovane, Jacopo Sansovino) al concorso per la realizzazione di San Giovanni dei Fiorentini, la chiesa nazionale della potente comunità di banchieri insediata in Ponte, lungo la via Giulia che proprio in questi anni si va spianando.
Peruzzi non vince il concorso (che meriterebbe un articoletto a parte per le malversazioni di cui poi il Sansovino, vincitore, fu accusato), ma accetta la commessa dei Savelli, i quali gli affidano la creazione di un palazzo che inglobi e sostituisca in parte gli edifici più antichi.
Peruzzi, quindi, è uno dei grandi artisti e architetti del Rinascimento Romano: legato a Siena alla scuola del Pinturicchio, quando scende a Roma fa presto ad avvicinarsi a Raffaello e, soprattutto, all'amato e detestato Donato Bramante, le cui spregiudicate operazioni di demolizione delle preesistenze per far largo a nuove creazioni gli meritano, da parte del notoriamente linguacciuto popolo romanesco, il soprannome di Mastro Ruinante.
Peruzzi si mostra subito all’altezza delle sue frequentazioni: infatti, messo mano alla dimora dei Savelli, butta giù vecchiumi e, assieme, anche cospicue fatte del Teatro romano, cui aggiunge di sana pianta un terzo piano includendovi frammenti avanzati dai vari templi e costruzioni romane della zona.
L’abbraccio della cavea romana, ormai sfracellata, si trasforma sotto le sue mani nella culla per un nuovo giardino di delizie in cui il cardinale Giulio Savelli potrà collocare le sue collezioni di arte antica.
Ma il palazzo Savelli era destinato a passare di mano, quasi condividendo la natura di questo fazzoletto di Circo Flaminio che fu luogo sempre disperatamente amato dai suoi edificatori e, allo stesso tempo, destinato a continui mutamenti e trasformazioni.
Era stato così durante Roma antica: prospiciente il Foro Olitorio, quella che forse fu la vera culla di Roma ben prima della fondazione sul Palatino, incardinato di fronte al guado dell'Isola Tiberina, questo dimesso angolo cittadino ha testimoniato forse i primi veri insediamenti e le prime attività commerciali che, dalla riva dell'isola, portavano merci e bestie dalla riva destra del fiume, di appannaggio etrusco, in direzione del Campidoglio, del Velabro e del Palatino.
Qui sorgeva forse un arcaico tempio di Diana, dea di Nemi e di Ariccia, centri legati alle origini di Roma e dei popoli del Latium vetus, quell'Alba Longa mitica che si allungava sull'orlo boschivo del cratere del Lago di Albano.
Qui sono stati trovati i resti delle fondamenta di un antico tempio della Pace che Giulio Cesare distrusse per fondarvi sopra un teatro di cui non vide, vivo, che le fondamenta.
Poi, il Teatro fu "ereditato" da Augusto e questi si trovò finalmente a terminarlo, ma nel frattempo perse l'amato nipote Marcello cui, infatti, l'edificio fu amaramente dedicato.
(continua).

Image source:
Fondo Vedo Istituto Luce Fondo VEDO / Sinagoga di Roma Insegne di un negozio al Ghetto di Roma (Cesare Anticoli)
passanti e una donna con bambino affacciata ad una finestra - campo medio
data: 18.05.1961
luogo della ripresa: Roma
colore: b/n
materia e tecnica: gelatina bromuro d'argento/pellicola (poliestere)
oggetto: negativo
codice foto: FV00189859 Luce Anticoli
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Le basi della fotografia
Guida alla Fotografia Parte 1 Le Basi della Fotografia
Le Basi della Fotografia Che si tratti di una Reflex, una Mirrorless o lo Smartphone che utilizziamo quotidianamente la fotografia ha un qualcosa che accomuna tutti questi strumenti, uguali per principio di funzionamento ma diversi per costruzione, questa è la LUCE. Questo è il primo capitolo su Le Basi della Fotografia, articolo dopo articolo condividerò le mie conoscenze ed esperienze sul…
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#Basi di fotografia#Diaframma#Esposizione#Fotografia#ISO#Istogramma#Tempo d&039;esposizione#Tempo di scatto#Triangolo dell&039;esposizione#Tutorial di Fotografia
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La Fotografia Sociale ed Umanistica
di Renzo Saviolo: --
Cameron, Nadar, Riis, Hine, Sander, Lange, Evans, Cartier Bresson, Shaan, Frank, Arbus, Avedon, Jeffries.
Gruppi variamente impegnati con un fondamento comune.
Fattoria, Vita, Foto Legue, Magnum, PIC, Famiglia dell'uomo, Foto stampa.
Questi nomi non vogliono rappresentare una gerarchia di valori al livello più alto, ma semplicemente quelle figure e istituzioni che meglio si prestano a rappresentare l’oggetto della nostra indagine.
Nel 1839 giunse a compimento il mezzo che sarebbe diventato il linguaggio visuale dell’età industriale.
I due principali elementi, la camera oscura per quanto riguarda l’ottica e l’annerimento dei sali d’argento, per l’alchimia più che per la chimica, erano note da tempo.
La fotografia fu, al tempo della rivoluzione industriale, quella che accompagnò l’età dell’energia nelle sue varie forme quali il vapore, l’elettricità e il motore a scoppio, giungendo ad un uso dell’immagine che aveva ristretto il mondo e, come l’oggi dimostra, perchè lo sviluppo della tecnica lo ha permesso, diventato alla portata di tutti.
La fotografia contemporanea porta la comunicazione dell’immagine e il suo uso al punto che le trasformazioni digitali hanno reso la visualità così inflazionata da poter parlare di morte dell’immagine, poichè la quantità sembra aver ucciso la qualità e riempito il mondo in modo tale da rendere tutto rumore di fondo.
Nei suoi vari aspetti questo faceva dell’immagine fotografica un certificato di realtà che ben presto fu percorso in ogni direzione, dato che si prestava, man mano che lo sviluppo tecnico lo consentiva, a soddisfare esigenze documentaristiche, artistiche, sperimentali le più diverse.
Ben presto fiorirono tutte le applicazioni possibili nei diversi generi, man mano che l’evoluzione apriva nuovi settori e rendeva in grado di affrontare tematiche diverse, allargando il linguaggio capace di parlarci di ogni aspetto del mondo.
Fin qui si era sempre parlato di immagini singole che potevano racchiudere in sè un aspetto compiuto; mettendo più immagini in sequenza sullo stesso argomento e mostrandone momenti diversi, si sarebbe raggiunta la dinamica di un fatto temporale, sia pur limitato ad una sintesi dei suoi momenti salienti.
Questi nuovi confini erano le basi per lo sviluppo futuro di cinema e televisione. Si poteva ora non mostrare staticamente il mondo, ma farlo seguire nel suo farsi.
Il nuovo permetteva possibilità che la visione non aveva mai conosciuto, se l’età industriale non avesse consentito l’uso della macchina nel campo della visione, come era avvenuto in tutti gli altri settori. La conquista del tempo instaura un rapporto singolare fra oggetto di cui si ferma per un istante il divenire, mantenendolo fisicamente presente e immobile.
Nasce così quello che nel primo caso fu denominato “Documentario fotografico” che aveva il suo corrispettivo nel cinema nel “documentario”. Successivante il “Reportage” sarà la nuova frontiera, oggi spostata su “Phototelling” e “Storytelling”. Dobbiamo ricordare che tuttavia il mezzo linguistico è sostanzialmente simile, per non dire lo stesso, di quello usato nel fotormanzo che, a sua volta, fatto salvo il movimento, è quello del fumetto. Si può ora operare quella sintesi narrativa per immagini che aprirà la pagina più ricca, gloriosa e legata all’essenza del processo fotografico che è il reportage sui settimanali illustrati.
Sarà particolarmente efficace la successione delle foto, frutto di azione sul campo o scelte a posteriori. Offre uno strumento che ha dato lo sviluppo più potente della fotografia. Tutto si gioca sul fattore tempo e sulla capacità di organizzarlo.
Un esempio d’uso della temporalità sarà quello di Bresson la cui analisi ci offre un utile strumento.
Il topico “momento decisivo” è l’esempio più singolare di quell’attimo in cui l’azione si porta al suo sviluppo estremo e diventa l’aspetto centrale, basato sulla fotografia di soggetti nel quale i movimenti delle varie forme raggiungono in una frazione di secondo il classico equilibrio a cui la sua opera ci ha abituato.
Il massimo di ciò che storicamente è stato prodotto appartiene al genere del reportage sui temi sociale e umanistico. Differenze utili soltanto per meglio comprendere i limiti entro i quali le varie personalità, più che i vari generi, operano. Ricordando che le categorie servono soltanto a meglio chiarire dove, come e perché tale autore si caratterizza, definito da scelta del soggetto, modalità operative e, in una parola, stile.
L’occasione di queste note è data dalla notizia di una mostra di Robert Frank, fotografo tanto grande quanto misconosciuto dal pubblico americano, per la profondità della sua critica della società e del mondo. Si verifica per lui quella intolleranza ideologica verso atteggiamenti culturali diversi dalle linee dominanti.
Parlare di Frank ci consente di tentare un approccio verso autori che si sono posti sempre con assoluta libertà di giudizio, sensibilità per il mondo degli esclusi ed in sostanza per quella che si definisce “alienazione”. Frank è una punta di diamante, ma le sistematiche categorie di sociale e umanistico sembrano incapaci di cogliere in una definizione coerente tutte le diverse accezioni di certi autori.

Julia Margaret Cameron, Portrait of John Herschel, April 1867
Il problema si presenta col nome della più grande ritrattista dell’800 e forse di ogni tempo, J.M. Cameron. La sua opera: ritratti di grandi personalità scientifiche, letterarie, artistiche a mezzo busto e, da quando ha potuto usare obiettivi che permettevano la vicinanza al soggetto, primi piani di grande espressività e di affascinanti volti femminili che non erano altro che le cameriere di servizio nella sua casa. Le categorie indicate non bastano per definire la dignità e il carattere di personaggi, per cui si può parlare di forme encomiastiche. Non si tratta di una critica sociale, si è nobilitata la realtà con una trasfigurazione, il suo aspetto più creativo.

Nadar, Portrait de Sarah Bernhardt, 1865
Questo invece non è nell’altro grande protagonista del ritratto dell’800, Nadar, che nelle sue mezze figure ci dà I maggiori esponenti del mondo parigino come immobili nature morte più che con caratteri pulsanti vitalità.

Jacob Riis, Boy working in sweatshop, ca.1880
Jacob Riis è invece il vero iniziatore della fotografia sociale. Giornalista del Time, comprende che la parola non basta più per raccontare il reale, ma che si può, anzi si deve mostrarlo. Ed ecco allora nascere un grande fotografo, ammirevole nella sua capacità di cogliere l’essenza del soggetto, ciò dimostra che non è la tecnica e la bella immagine a risolvere i problemi ma la capacità di capire, l’empatia per il soggetto e la sensibilità per trasformare il tutto in figura.

Lewis Hine, Children working in a cotton mill in Macon, Georgia, in January 1909
Similmente Hine può adoperare mezzi piò evoluti, Il suo mondo dei bambini al lavoro e nell’innalzarsi dell’Empire State segnano con potenza l’evidenza di risultati che fanno storia.

August Sander, Konditor, Köln 1928
Allo stesso modo Sander negli “uomini del XX secolo” mostra l’ambizione di illustrare con un potente affresco i volti ed i caratteri dell’umanità del tempo. Mostrare il vero è sempre rischioso, infatti I nazisti, che volevano il guerriero trionfante, non potevano tollerare l’illustrazione di quella umanità dolente e distrussero parte dell’archivio. Sander è ascrivibile al sociale, poichè I volti e gli atteggiamenti mostrano i viventi di quel mondo come un prodotto dell’ambiente più che la caratterizzazione individuale del soggetto, tipica del ritratto.

Dorothea Lange, Migrant Mother (Florence Thompson) 1936
Quanto le categorizzazioni siano intercambiabili lo dimostrano le figure umane della Lange nella loro capacità di evocare un patetismo che non può non essere nominato come umanistico. Nella caratterizzazione di questi personaggi non si può escludere la dimostrazione del problema sociale.

Walker Evans, Bud Fields and his family at their home, Hale County, Alabama 1936
Walker Evans è figura più facilmente classificabile. Le sue scene stradali ne fanno il più rappresentativo degli ambienti americani.

Henri Cartier Bresson, Coco Chanel, Paris 1964
Cartier Bresson non può non esser nominato benchè le sue immagini trascendano ogni limite di categoria, rispondendo a criteri più estetici che politici, ponendosi come maggior interprete della “street photography”, definizione ineccepibile. non potendosi negare che Bresson trovi nella strada il proprio teatro. Altro è il suo reale interesse: la trasformazione dell’accidentale in assoluto attraverso l’astrazione geometrica. Altro ancora può invece dirsi dei ritratti, cui si dedica alla fine dei grandi viaggi. La caratterizzazione con la quale rende l’essere della persona al di là dei formalismi perfetti ne fanno il capostipite della categoria del “ritratto ambientato”, dato che l’individuo è sempre inserito nel suo ambiente, con tagli piuttosto larghi che articolano lo spazio della scena.

Ben Shahn, Blind street musician, West Memphis, Arkansas, 1935
Ben Shahn, il grande pittore americano, diventa anche un grande fotografo per merito di Walker Evans e sarà strettamente bressoniano, cosa certamente non facile, con tagli fortissimi in primi piani di grande intensità espressiva.

Robert Frank, Trolley, New-Orleans 1958
Venendo ancora a Frank, la desolazione, il vuoto, la luce spettrale, il senso di latente angoscia che permeano le sue immagini ne fanno un autore tanto grande quanto difficile

Diane Arbus, Identical twins, Roselle, NJ 1967
Di tutt’altra materia è fatta l’angoscia di Diane Arbus, che trova nella mostruosità del mondo esseri singolari che rappresentano più I problemi personali suoi piuttosto che della società o degli individui.

Richard Avedon, Bee man, 1988
Il caso di Avedon è singolare. Autore grandissimo nella fotografia di moda, i cui soggetti abituali sono bellezza, lusso, ricchezza, dei quali possiede tutte le chiavi, sentirà il bisogno, quasi a compensazione, di trovare in se stesso un’altra anima e la sua capacità di esplorare altre dimensioni in senso opposto, toccandoi temi che sarebbero i più lontani dai suoi abituali, quali le donne bruciate dal napalm a Saigon, la morte del padre, il grande affresco dell’ “American West”, in cui la teatralità dei personaggi è di un’umanità dolente e rassegnata sotto gli orpelli che la caratterizzano. Ovvio che l’ottimismo americano non volesse riconoscersi in tale dimensione, che resta una pietra miliare unificando i due generi. È un fenomeno recente, ma si pone da subito a fianco dei maggiori esempi che la storia ci ha consegnato.

Lee Jeffries, da Homeless, 2008
Si tratta di un nome affacciatosi alla ribalta al massimo livello, allargando la raccolta di capolavori di un nuovo fotografo, Lee Jeffries. Con i suoi “Homeless” ha rifondato il livello della fotografia umanistica. Le sue maschere, simili a interpretazioni teatrali del tragico, ossessivamente presenti, al limite dell’ecccesso, rappresentano certamente un ambito di carattere sociale, riaffermando che la dignità umana non dovrebbe mai essere messa in dicussione. Ma questa denuncia non può neppure essere taciuta.
Quale società vi è dietro questi volti? Quale percorso ne ha modellato la storia? Ma altresì le espressioni che alterano questi volti trovano una dimensione perfino artistica nel loro eccesso. Sollevano il problema dell’estetizzazione della rovina, ma la questione è già stata risolta da Salgado e da Nachtwey.
La fotografia sociale scriverà le sue pagine più gloriose con una serie di istituzioni che hanno usato la fotografia come strumento di conoscenza non solo individuale, caratterizzate da un atteggiamento di empatia nei riguardi dell’umanità ed un’attenzione positiva verso la sofferenza, ovunque si manifesti.
L’elenco rappresenta una scelta di istituzioni molto diverse, ma che hanno nelle forme più profonde un atteggiamento che vede nell’uomo la dignità ed il diritto così spesso negati.
Ciò che colpisce in questi enti è la loro varietà.
Per il “Farm” si tratta infatti di un organismo governativo, quindi di una rivista illustrata settimanale, di un’associazione privata ideologicamente orientata, di un’agenzia fotografica giornalistica, di una Fondazione-Museo alla memoria, di una mostra fotografica, di un concorso fotografico mondiale.
Il tratto comune, che tranne l’agenzia Magnum francese e il Press Photo olandese sono tutte iniziative americane a testimonianza del fatto che il dinamismo, la vitalità americana si è impossessata della fotografia fin dal suo apparire, diventando in pochi anni, come dimostrato dalla produzione industriale dei materiali usati per la fotografia, facendone ciò che in poco tempo sarebbe diventata la tecnica e l’estetica visuale della modernità.
Sopra ogni altro fenomeno apparso nel mondo della fotografia svetta la Farm Security Administration. Chi potrebbe uguagliare con l’organizzazione sociale del progressismo Roosveltiano comprendente i nomi più illustri dell’epoca, con una produzione di migliaia di immagini, una sorta di “mission”, ambientale e sociale insieme, la più ampia iniziativa di ogni tempo. A sostegno ecco nascere LIFE, il prototipo di ogni rivista, che con la tiraltura di milioni di copi ne faranno un modello inarrivabile, radunando la crema del fotogiornalisnmo mondiale.
La Photo Legue è la più progressista raccolta di fotografi che vedono nel mezzo uno scopo non puramente estetico, ma la documentazione e la denuncia dello stato delle cose, in una generale aspirazione al progresso e all’uguaglianza.
Il Magnum vuole riscattare il lavoro del fotografo dalla schiavitù della committenza, restituendo potere agli autori, altrimenti asserviti al mercato, divenendo per qualità e prestigio la prima agenzia al mondo.
L’International Center, viene fondato dal fratello di Capa in memoria dei caduti sul campo, veri martiri della missione del “mostrare”, insieme alla scuola, al museo ed alle mostre.
Family of Man è probabilmente la più grande e bella mostra di tutta la storia della fotografia. Non è una mostra, è un’opera d’arte in forma di mostra, creata da Steichen, direttore del Dipartimento di fotografis del MOMA, composta da 500 immagini di auori diversi che mostrano la vita umana in tutti I suoi atteggiamenti nei diversi paesi e culture.
Infine il Press Photo, il piò grande concorso mondiale che mostra ogni anno la situazione del fotogiornalismo, le tendenze, I temi e lo stile dominante, fornendo un attendinile quadro dell’attualità.
Da quanto esaminato si conferma il ruolo primario della fotografia quale strumento di conoscenza, comunicazione e creazione anche artistica, vero mezzo tipico dell’età industriale, dotato di una travolgente capacità innovativa, come dimostrato dalla rivoluzione digitale che ha rovesciato ogni cosa con tempi che rendono l’aggiornamento sempre più impegnativo e necessario.
Tutto cambia e non si può non inseguire la vita di un mondo che non è più il nostro anno dopo anno. Ma che deve diventarlo.
Bisogna racogliere la sfida e trovare un determinato coraggio. Altro modo non c’è.
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Diverse cose da dire
Il nome del tuo blog starebbe benissimo anche per etsy/vinted (e anche le mille versioni precedenti del nome)
Non mollare che è un’idea carinissima e sei davvero brava
Per la fotografia la regola è sempre la stessa, con qualunque macchina se si sanno le basi e si ha la creatività si fanno grandi cose piene di sentimento! Le canon più semplici vanno da dio e ti consiglio di pensare anche ai rullini, perché no? (effettivamente un po’ meno versatili da quanto mi raccontano ma sembrano davvero affascinanti per una come te)
Quel 'diverse cose da dire' mi ha scaldato un po' il cuore.
Oramai in un nome come questo mi ci rispecchio, è inutile negarlo, ma sarebbe un qualcosa di troppo personale, troppo collegato a qui, non trovi? Sono nota per mollare, ho tante idee ma anche il brutto vizio della procastinazione e di non credere in me, ma ci vorrei provare. Ti ringrazio tanto per il davvero brava 🌸
Ma, di basi in realtà ho poco e niente, sarebbe in assoluto la prima macchina per me che ho scattato sempre con smartphone di categoria nemmeno alta. I rullini affascinano anche me, ma d'altra parte ho due polaroid, quindi come prima macchina preferirei altro.
Una come me?
Comunque grazie per tutto 💖
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#ApritiCielo: Dal mio balcone Il mio primo scatto (riuscito) con la reflex. Riflessioni: È un sollievo finalmente vedere la realtà vera delle cose. Col cellulare, nonostante i Mega pixel, a lungo mi sono sentita frustrata per la non corrispondenza di ciò che vedevo con la foto generata. Tante volte mi sono rammaricata perché molti paesaggi mozzafiato, trasposti nella #fotografia, perdevano la loro bellezza naturale apparendo spesso fiacchi e deludenti. Ecco, io adesso voglio spingermi a rappresentare le cose come realmente sono, so che devo mangiare molta pastasciutta a partire dalle basi della tecnica fotografica, ma sono fortemente motivata e so che ne verrò a capo. Piano piano. #sky #photography #cielo #brabs #iorestoacasa #casaamaracasa #reflex #clouds #nuvole #nelbludipintodiblu https://www.instagram.com/p/B-Uy_RPIc3v/?igshid=vzcjl14xtsld
#apriticielo#fotografia#sky#photography#cielo#brabs#iorestoacasa#casaamaracasa#reflex#clouds#nuvole#nelbludipintodiblu
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Drops rebounds
#macrophotography #macrofotografia
Le miei macro fotografie di drops and flowers realizzate con una Nikon D300s, 105macro, tubi Kenko, focus stacking.
💢 Per contattarmi potete scrivere una email a : [email protected]
O visitare il mio Sito Web https://lnx.nikimage.com
Opoure visitare il mio profilo Facebook : https://facebook.com/MNicorelli
Oppure seguire il mio profilo Instagram https://www.instagram.com/mario_jr_nicorelli/
Per visualizzare le mie foto in HD andate su Flickr : https://flickr.com/photos/mario_nicorelli
Per curriculum vitae visitate il mio profilo LinkedIn : https://linkedin.com/in/mario-jr-nicorelli
💢 My name is Mario Jr. Nicorelli, I’m 40 years old and I live in Salgareda in the province of Treviso, Veneto, Italy. The title of my work is: “drops and flowers”. I create macro photos using drops of water as a lense for flowers in the background. Drops and flowers is a photos passion that takes a lot of time and precision.
Non sono un professionista ne un guru’ della fotografia. Non mi fregio di titoli o d’iscrizioni presso fondazioni rinomante, sono solo un curioso ed eclettico fotografo autodidatta. Mi chiamo Mario Jr Nicorelli vivo e lavoro a Salgareda in prov. di Treviso. Come attività principale non mi occupo di fotografia ma ben si sono impiegato come programmatore di produzione in una grande azienda nel settore del mobile/arredo la 3B Spa. Nel tempo libero mi occupo ovviamente di fotografia, suono il pianoforte e adoro l’escursioni/gite in montagna. Mi sono appassionato alla fotografia nel lontano 2000 acquistando la mia prima reflex a pellicola la Nikon F80, a quel tempo “come tutti” fotografavo ogni genere di soggetto senza pensare a quale maggiormente mi piaceva riprendere. Da alcuni anni le cose sono cambiate, i soggetti che prediligo fotografare sono le “gocce d’acqua” in macro fotografia. Non essendo un esperto di Macro ho dovuto iniziare piano piano, studiando non solo le basi tecniche di questa disciplina ma soprattutto osservando e analizzando le immagini dei grandi autori con il fine di ottenere un buon risultato senza cadere nel banale. Prima di cimentarmi nella macro ho sempre amato fotografare la natura in ogni suo aspetto, da quello paesaggistico a quello della fauna del nostro territori. Ora continuo a fotografare la natura solo che lo faccio da un punto di vista molto più ristretto. Sia chiaro non sono un fotografo che attende il “colpo di fortuna” o aspetta come tanti di “cogliere l’attimo”, a me piace la fotografia tecnica che si apprende con uno studio approfondito e svariate prove sul campo, ma soprattutto se desidero una mia fotografia cerco di realizzarla senza aspettare che capiti per caso. Sempre in merito alla fotografia ci tengo a ricordare che sono l’ideatore e il fondatore del Centro Stile Salgareda. Tutto e’ iniziato nel 2011 quando ho comunicato su vari social l’esistenza di questo nuovo circolo fotografico a Salgareda “in realtà non esisteva nulla, ma l’idea era quella di creare curiosità negli appassionati residenti nelle vicinanze così che si facessero vivi“. In breve tempo ho iniziato a raccogliere adesioni un po’ da tutto le province arrivando nel 2014 a creare un circolo reale con sede propria presso il comune di Salgareda. Ahimè come sempre le belle cose non dura molto, nel 2017 a causa ripetuti contraddittori con il nuovo direttivo del gruppo, ho da prima lasciato ogni carica all’interno dell’associazione per poi chiudere definitivamente alcuni mesi dopo con un gruppo che oramai non mi rappresentava più. Da settembre 2017 gestisco da solo la pagina del Centro Stile Fotografia, pagina nata nel 2011 da cui è poi partito il circolo fotografico di Salgareda.
➡️ Macro Photographer Mario jr Nicorelli e la sua passione per le Drops. ⬅️
Quando mi chiedono…. Cosa ti appassiona nella fotografia macro incentrata sulle gocce d’acqua? Rispondo sempre che inizialmente è nato tutto come un gioco, un passatempo, un modo come un altro per fare dei test e delle prove. Poi foto dopo foto ho iniziato a vedere in quel “macro mondo di goccioline” una realtà che prima ad occhio nudo non riuscivo ne a comprendere ne ad immaginare e questo mi ha spinto a continuare. Uscire alla mattina presto e trovarsi da solo nei campi dove tutto era ricoperto di rugiada che brillava con le prime luci del sole, mi rendeva felice come un bimbo alla sagra paesana. Fotografare in macro è già di per se articolato e molto tecnico come genere, se poi ci aggiungiamo riflessi e illuminazioni particolari tutto diventa ancora più problematico. Scoprire come riuscire a realizzare scatti cosi complessi è stato lo stimolo che mi ha fatto entusiasmare nella realizzazione delle macro drops. Attualmente mi diverto a portare a casa ogni genere di fiore che mi presta l’amico fiorista, così da realizzare sempre nuovi set dove le goccioline siano il soggetto principale.
Saluti Mario jr Nicorelli

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