#Assassini di massa
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Monografie Seriali - Ludwig: l'organizzazione criminale neonazista fondata da Abel e Furlan, serial killer missionari
Ludwig fu un’organizzazione criminale a stampo neonazista fondata, composta e determinata da Wolfgang Abel e Marco Furlan. Un duo, un singolo, un’entità astratta: s’accanì su omosessuali, senzatetto, fraticelli confusi nella fede. Divampò laddove il sollazzo sfogò l’umano istinto alla tentazione. Classificabili come serial killer organizzati e missionari, Abel e Furlan vestirono tonache…
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#Assassini di massa#Ideologie estremiste#Marco Furlan#Neonazismo#Omofobia#schizofrenia#Serial Killer Italiani#Stragi#Wolfgang Abel
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La società occidentale è una fogna a cielo aperto e in quanto tale dev' essere annientata.
lo schifo che provo ha superato davvero ogni limite dell' umana comprensione e tolleranza...e io ne ho davvero tantissima.
Non sono cattolico ma rispetto profondamente chi ha fede sincera e ridicolizzare il corpo di Cristo a fini meramente commerciali è davvero di uno squallore senza pari...satanismo allo stato puro.
Ovviamente non ci provano a fare una cosa simile con quella ideologia insulsa e ridicola quanto violenta e misogina che è l' islam... perché i comunisti sono la stessa cosa...griderebbero se solo si toccano i loro lerci assassini miti come il Che Guevara e quel porco di Stalin..ma tutto il resto: Bibbia, donne, bambini, famiglia....si può offendere, vilipendere... purtroppo la massa dorme anestetizzata da decenni...
M.P.
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Di tornadi e vicende sciocche
Il cinema è fatto così. O va a ripescare idee vecchie quasi quanto me. Oppure se ne inventa di francamente assurde. La seconda strategia viene messa in pratica soprattutto nel cinema catastrofico di bassissimo livello. Così è successo - con imprevisto successo - nel caso di Sharknado. Si abbina il tornado agli animali assassini, e si ottiene un tornado di pescecani. L'ultima trovata banalmente bislacca è Firenado. In pratica, un tornado di fuoco. Un gruppetto di improbabili scienziati finisce per aumentare la massa d'un tornado. E per dargli pure fuoco. Direi che non è il caso di aggiungere altro. Alla vicenda, sciocca quant'altre mai, si aggiungano una recitazione approssimativa da parte dei presunti attori ed effetti speciali non eccelsi. E si otterrà un pastrocchio non edibile.
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Regina di Spade
"Io non sono il Dolore che porto dentro"
Il Corpo è Sacro.
Agire violenza su se stessi o sull'altro, sia essa fisica o energetica, significa rinnegare la propria Origine Divina, la propria Autentica Essenza.
E' innaturale. Anche se ci fanno credere il contrario.
Ci siamo asserviti per anni allo strumento dell'Offesa, integrandolo secondo "normalità" all'interno della nostra Struttura.
"Ci hanno detto" che l'Uomo non può e non deve controllare i suoi "istinti". Che l'Uomo è una bestia. Che sta male se non "caccia", se non "uccide" la preda, se non si nutre del suo "sangue".
Che è l'insanabile "istinto alla riproduzione" a muovere le fila di questo Mondo, dove è naturale torturare o perseguitare la Vittima che si sottrae alla sfera di influenza sessuale dell'Altro.
Il Sistema protegge i Carnefici.
Essi sono consacrati al "Dio Consumo".
Svalutano l'Evoluzione Umana.
Il Risveglio dalla condizione di Vittima, non è conveniente né funzionale al mantenimento del controllo sistemico.
E' fondamentale far credere alla massa che lo stato primitivo degli Istinti è l'unica strada percorribile dal Genere Umano, che "il Consumo" è la Religione dei Popoli, nella sfera materiale, sessuale e personale.
L'Altro allora assume valore solo come "strumento di bulimico piacere".
"Ci innamoriamo dell'Altro" per "consumare" e "consumarlo".
E se l'Altro malauguratamente si sottrae, merita di essere vendicata la voglia insoddisfatta che ha lasciato nelle fauci del Carnefice, attraverso gesti subdoli, sotterranei e perversi.
La Violenza si insinua nei gesti, nelle parole, nei sottesi, nelle ossessioni, nelle svalutazioni, nei messaggi subliminali.
Si manifesta in un sasso lanciato di cui non vediamo la mano. Ma sentiamo la botta.
La violenza può essere letale quando è palese, ma ancora più pericolosa quando striscia nell'apparente invisibilità.
Si può essere assassini dell'Altro anche solo energicamente.
E l'Altro non lo verrà mai a sapere. Ed io non sono condannabile. Non ho "fatto nulla di male".
Ma io Vittima, "se non vedo", se la violenza non è agita alla luce del sole, se non posso identificare quel "qualcosa" che mi sta letteralmente soffocando, non riesco a difendermi o scappare.
Resto intrappolato nelle maglie invisibili della manipolazione e non riesco a scioglierne l'incantesimo, o per meglio dire, la "maledizione".
Mi sentirò colpevole, arrabbiato, triste, sfruttato, solo. Senza coglierne la ragione e spesso nemmeno la gravità.
Sento che qualcosa non va. Ma non riesco ad identificare la gabbia che mi costringe all'isolamento, alla dipendenza e alla paura.
Si può passare anni e anni dentro alla spirale della Manipolazione.
Con il convincimento che se non vedo, non è reale.
E invece lo è. Eccome.
E' dunque innaturale la Violenza?
Lo è.
Perché genera Dolore. E alimenta Rabbia.
Ed essi sono strumenti di asservimento arcaici, legati al Potere e allo Sfruttamento.
L'Offesa non è strumento evolutivo, la Sessualità non è carne da macello, il Sentimento non è strumentalizzazione e sottomissione dell'Altro.
"Ci hanno fatto credere". E noi abbiamo creduto.
Ed ora siamo pronti a smontare questa millenaria Illusione.
Mirtilla Esmeralda
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Storia Di Musica #261 - Pink Floyd, Animals, 1977
Le Storia Musicali di Febbraio, che iniziano eccezionalmente di sabato, avranno come matrice comune un aspetto che all’inizio della ricerca mi sembrava molto più presente, ma alla prova dei fatti non è affatto vero. Se infatti è molto facile trovare e ricordare canzoni che si ispirano ad un libro famoso, lo è molto più raro per gli album che prendono spunto da un libro. In effetti, se volessimo essere pignoli, pochissimi dischi sono strutturati come concept sulle vicende di un libro, qualcuno in più invece prende spunto, in molti casi in maniera decisiva, da un romanzo, un racconto o una raccolta per sviluppare dei temi simili a quelli del libro- fonte. E da questa seconda categoria che ho pescato le storie dei dischi di Febbraio. Che inizia con un gruppo che nel 1975 era probabilmente il più famoso (e ricco) del mondo. Reduci dall’accoppiata storica e leggendaria di The Dark Side Of the Moon e Wish You Were Here (due dei più grandiosi e leggendari dischi di tutti i tempi) i PInk Floyd erano sul punto di prendersi una pausa. Ma tramite un annuncio immobiliare, comprano un intero isolato della Chiesa a Britannia Row, a Islington, quartiere Nord di Londra. Furono creati dei magazzini e uno studio di registrazione all’avanguardia, dove la band iniziò a provare qualcosa. L’aria era piuttosto tesa: David Gilmour subì un clamoroso furto di strumenti, tra cui preziose chitarre, le idee erano piuttosto differenti sul da farsi fin quando Roger Waters iniziò a indirizzare le scelte su un binario ben preciso. Ispirandosi a La Fattoria Degli Animali, pensò a canzoni che descrivevano una simbolica struttura sociale piramidale, come nel romanzo, ma se nel capolavoro orwelliano la critica era alla dittatura Stalinista, qui gli animali sono schiavi del capitalismo, del perbenismo e sono uno dei più aspri e critici attacchi alla società contemporanea in musica. Waters scrive tutte le musiche e i testi di Animals, che esce nel gennaio 1977, tanto che è il primo disco dei dieci dei Pink Floyd senza nessun contributo di Richard Wright o di Nick Mason; Gilmour canta solo in un brano, e gli vengono accreditati solo due brani (per una band da decine di milioni di copie, era punto centrale). Waters pesca dalle sessioni di Wish You Were Here due canzoni, Gotta Be Crazy (che fu suonata anche qualche volta dal vivo) e Raving And Drooling: furono riadattate con i titoli Dogs e Sheep. Paragonando il comportamento umano a quello delle bestie, sono quindi presenti Pigs (Three Different Ones), al vertice della piramide sociale, che sarebbe la classe dirigente, i Dogs, arrampicatori sociali, arrivisti disposti a vendersi per il potere, e Sheep, al singolare, la massa di persone più deboli che hanno bisogno di un leader per sentirsi al sicuro. Questi tre brani costituiscono il nucleo centrale del disco, e sono anticipati e poi conclusi da una canzone acustica, solo voce e chitarra, Pigs On The Wing 1 e 2, in cui Waters descrive cosa succederebbe se lui e sua moglie non si curassero l'una dell'altro (Parte 1), e del rapporto di amore reciproco tra loro (Parte 2). Musicalmente, abbandonata l’epica di Wish You Were Here, qui la musica accompagna la cupezza dei testi, mai così potenti e forti. In Dogs si dice: Sordo, muto e cieco, continui solo a far finta\Che tutti sono sacrificabili e nessuno ha un vero amico\E ti sembra che quello che bisogna fare è isolare il vincitore\E tutto è fatto alla luce del sole\E tu ci credi veramente, tutti sono assassini; in Sheep: Cosa ottieni facendo finta che il pericolo non è reale\Mite e obbediente segui il capo\Lungo sentieri ben battuti nella valle d'acciaio\Che sorpresa! Uno sguardo di shock nei tuoi occhi\Ora le cose sono proprio quello che sembrano\No, questo non è un brutto sogno. Tra l’altro con una voce modificata da un vocoder, un roadie scozzese del gruppo legge una versione modificata del Salmo 23, il cui testo riprende la tematica del seguire ciecamente il leader (In verdi pascoli, mi conduce presso calme acque\Con luccicanti coltelli\ Egli libera la mia anima\Mi fa penzolare dall'alto, appeso a ganci\Mi trasforma in cotolette d'agnello). In Pigs (Three Different Ones), vengono presi in esami tre pezzi grossi: di due, un uomo e una donna, non è tanto facile capire chi siano (e le ricostruzioni che vedono gli attacchi di Waters a Margaret Thatcher non sono credibili, dato che divenne primo ministro solo nel 1979, l’album è di tre anni prima), ma di una è diretto lo strale. Waters canta: Ehi tu, Whitehouse, ah ah, sei una sciarada, in riferimento a Mary Whitehouse, capo dell’Associazione Nazionale dei telespettatori e franca promotrice di una campagna contro la TV, dove vedeva solo sesso e violenza. Ha un record niente male: i Deep Purple, presi di mira per lo stesso motivo, le dedicarono una canzone, Mary Lord, in Who Do You Think We Are? del 1973, insieme a Frank Pakenham, Settimo Conte di Longford, parlamentare che in quegli anni si batté molto contro la rappresentazione dell’omosessualità e redasse un rapporto, The Longfort Report, sugli effetti della pornografia, tanto che fu soprannominato dai detrattori Lord Porn. Un disco cupo, aspro, nerissimo anche nell’uso molto più potente dei sintetizzatori e di assoli drammatici di Gilmour, passò alla storia anche per la copertina, una delle più famose di tutti i tempi. Insieme a Storm Thorgerson e Aubrey Powell della mitica Hipgnosis, Waters chiese alla stessa azienda che realizzò i dirigibili Zeppelin di costruire un gigantesco Maiale aerostatico, che fu battezzato Algie. Come sfondo Waters scelse la centrale elettrica di Battersea, che con le sue quattro ciminiere agli angoli sembrava una gigantesca mucca stecchita capovolta. L’idea era di fotografare Algie tra le ciminiere, ma il 2 Dicembre 1976 un violento temporale fece prendere il volo a Algie che arrivò a 3000 metri di altezza. Powell informò la Polizia, e i piloti della Raf che videro un maiale gigante volare sopra Londra bloccarono per qualche ora i voli a Heathrow, fin quando verso sera un contadino del Kent chiamò per lamentarsi che un maiale atterrato nella sua proprietà infastidiva il bestiame. Il secondo giorno andò tutto per il meglio, ma Powell conservò il cielo plumbeo del giorno precedente, che fa da perfetto sfondo all’intera atmosfera dell’album, a cui aggiunse le foto di Algie del giorno dopo. Un disco che vendette moltissimo, nonostante la visione pessimistica del mondo che conteneva. E che ha un’ultima storia legata. Durante il tour In The Flesh per promuovere il disco, dove compare in tutta la sua grandezza anche Algie, a Birmingham, uno spettatore, secondo la leggenda vestito punk, lanciò una bottiglia contro Waters, che in tutta risposta rabbiosa gli sputò in faccia. Negli stessi mesi in cui il disco veniva alla luce, Johnny Lyndon dei Sex Pistols si presentava spesso con una maglietta con la scritta “I hate Pink Floyd”, da lui definiti “i dinosauri del rock”, epiteto che va ancora oggi per la maggiore: rappresentavano “quello che non volevano essere”. Solo anni dopo si scoprirà la verità, che era solo un modo per farsi pubblicità, tant’è vero che Nick Mason negli stessi Studi di Britannia Row produrrà Music For Pleasure dei The Damned, famoso gruppo punk, nel 1977, anno sacro del movimento. Tuttavia, quell’episodio fu centrale per Waters nell’esplorare l’incomunicabilità di certi pensieri, che sarà alla base del successivo, e leggendario, lavoro del gruppo.
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Nel 2022, il 14enne Gordon Gault è stato ucciso a colpi di machete in strada a Newcastle.
I suoi assassini Carlos Neto (18 anni) e Lawson Natty (18 anni) sono stati condannati rispettivamente alla pena di 9 anni e 2 mesi e 2 anni e 8 mesi.
Dopo soli 6 mesi di reclusione, Natty sarà scarcerato nel fine settimana a causa del sovraffollamento delle carceri.
Le autorità britanniche devono far spazio nelle carceri dopo gli arresti di massa dei manifestanti anti immigrazione?
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ANTOLOGIA MACABRA
Il Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, evoca la teoria complottista e razzista della sostituzione etnica (19 aprile). Ma poi, stupito delle reazioni inorridite, ci rassicura: tranquilli, la mia è solo ignoranza (20 aprile).
Il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dopo approfondite ricerche sulla storia del pensiero politico, scopre che il fondatore della destra in Italia è Dante Alighieri (14 gennaio), mescolando con signorile nonchalance il grande intellettuale medievale con concetti del moderno pensiero politologico e, perché no, un po’ di capre e un po’ di cavoli.
Il Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, individua la vera causa che porta milioni di persone a scappare dalla loro terra: il problema non va cercato nel periodo coloniale che ha sconvolto le società che l’hanno subito, e neanche nelle guerre spesso fomentate dal mondo ricco, né, tanto meno, nel cambiamento climatico; il problema è l’opinione pubblica italiana (25 marzo) che, evidentemente, deve essere raddrizzata, in un modo o nell’altro. Lo stesso Ministro ci informa anche che i veri colpevoli della morte di tanti bambini nei viaggi della disperazione sono i loro genitori (27 febbraio) che non li fanno viaggiare su comode e sicure imbarcazioni. Negare i problemi e trovare un colpevole, uno qualunque.
Il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ci rende partecipi della sua personalissima teoria pedagogica: per i bambini che non si conformano allo standard, lo strumento educativo migliore è l’umiliazione (21 novembre). Signor Ministro, alcuni miei amici e io consideriamo questa affermazione aberrante e ritengono che un’educazione fondata sull’umiliazione formi tanti piccoli nazisti, non menti libere e aperte, sia cioè la negazione dell’educazione stessa. Ma, come dice lei Ministro, forse il nostro pensiero è roba vecchia, figlio del periodo dell’”egemonia culturale della sinistra gramsciana che è destinata a cessare” (28 dicembre) (non voglio sapere, per il momento, come pensa di farla cessare). Adesso siamo nell’anno primo dell’era … (già, di quale era?) e tutto è cambiato.
Intanto, il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, riscrive la storia dell’attentato di via Rasella e, con un colpo di bacchetta magica, trasforma i nazisti invasori stragisti in una innocua banda musicale di pensionati (31 marzo) e i partigiani in assassini di quegli allegri musicanti.
Il Presidente della Camera dei Deputati, Lorenzo Fontana, persona gentile e equilibrata, storpiandone il cognome in Bàkelet, ci fa intendere di non aver mai sentito parlare dell’omicidio di Vittorio Bachelet sulle scale della Sapienza, degli anni di piombo e del più ampio problema della strategia della tensione che ha segnato, forse fino ai giorni nostri, la storia italiana (20 aprile).
Sembra un’antologia di umorismo macabro, ma sono dichiarazioni dei più alti rappresentanti delle istituzioni. La verità è menzogna e la menzogna è verità. Forse ha ragione il Ministro Lollobrigida, è solo questione di ignoranza (20 aprile). L’ignoranza, di per sé, non è una colpa. Ma l’ignoranza, che spesso fa rima con arroganza, unita al potere, è un’arma di distruzione di massa, innanzitutto di massa cerebrale.
Ma il problema ancor più serio è che – mi pare – ci stiamo assuefacendo ad ascoltare queste parole prive di senso, o dotate di un senso macabro, restando indifferenti. Questa assuefazione, questa indifferenza è ciò che fa paura. E’ importante, oggi più che mai, ricordarci l’un l’altro e insegnare ai giovani che le menzogne non sono opinioni, che i crimini sono crimini, che il bene comune è superiore al bene individuale, che i confini sono punti di contatto, che i bambini sono sacri e non possono essere piegati attraverso umiliazioni senza distruggerli. E che il conflitto fra valori di vita e disvalori di morte non ha niente a che fare con la normale dialettica democratica.
@Riccardo Cuppini
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SABRAESHATILA.“Celodisserolemosche”
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17 set 2020
Fisk, Israele, libano, Palestina, Sabra, Sharon, shatila
by Redazione
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Vogliamo ricordare Robert Fisk, scomparso il 30 ottobre, riproponendovi l’articolo che il grande giornalista scrisse quando tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dopo il massacro di migliaia di palestinesi nel settembre del 1982

di Robert Fisk – settembre 1982
Roma, 17 settembre 2020 Nena News – “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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Aggiungere e aggiungere, è forse l’unica soluzione che rimane agli assassini di massa, siano essi dittatori, terroristi, ministri che dichiarano guerre superflue o generali che li consigliano e li pungolano. Per questo bisogna eliminarli, perché sommano delitto a delitto e non si fermano mai.
Javier Marías - Tomás Nevinson
Ph Herbert Mason
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Funerale preventivo
di AICFMM 2
"Oh, ma certo ho capito: tu pensi che questo non abbia niente a che vedere con te. Tu apri il tuo fondo d'investimento e scegli, non lo so, quell'uccellino azzurro tramortito per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di come funzionano davvero i media, ma quello che non sai è che quell'uccellino non è semplicemente un social network, non è una piazza, non è una cloaca, è effettivamente un mezzo di comunicazione di massa. E sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2006 Jack Dorsey ha realizzato questo sito per gli "SMS di internet" e poi è stata la morte di Michael Jackson se non sbaglio a far crashare i suoi server per la prima volta. E poi l'uccellino è rapidamente comparso nei processi democratici di cinque diversi continenti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nel suprematismo bianco dei tech bros e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo trumpiano, dove tu evidentemente l'hai pescato nel cesto degli affari destinati a fallire. Tuttavia quell'uccellino rappresenta milioni di utenti e innumerevoli lamentele e speranze, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinto di aver fatto una scelta fuori dalle proposte dei media quindi in effetti amministri un medium che è stato selezionato per te dagli utenti qui presenti, in mezzo a una pila di... siti web."
"Twitter è morto! Twitter resta morto! E noi l'abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli uccellini? Nulla esisteva di più urlato e serioso in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che caratteri useremo per sfogarci? Che festività di autocelebrazione, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare un social network semplicemente per esserne degni?"
"Tu credi che questo sia semplicemente un social network? Questo non è semplicemente un social network, questo è un luminoso faro di speranze per... non lo so, diciamo una ragazzina che cresce in Italia con sei fratelli che finge di essere eterosessuale mentre invece legge fan-fiction e scrive su Twitter sotto le coperte, di notte, con una torcia!
"Ho visto La gente della mia età andare via Lungo i Mastodon che non portano mai a niente Scrivere il breve testo che conduce alla pazzia Nella ricerca di un hashtag che non trovano Nel mondo che hanno già dentro alle notti che dal delirio son bagnate Dentro alle stanze dai media trasformate Lungo ai cloud in fumo del mondo fatto di reti Essere contro ad ingoiare quei ricconi dei magnati È un Twitter che è morto Ai bordi delle strade Twitter è morto Nelle spunte prese a rate Twitter è morto Nei meme dell'estate Twitter è morto
Mi han detto Che questa mia generazione non dà credito In ciò che spesso han mascherato con il merito Nei meme eterni di pepe o dell'Elòn Perché è venuto ormai il momento di negare
Tutto ciò che è falsità, capitalismo e stortura Una politica che è solo far carriera Il trollaggio interessato, la dignità fatta di vuoto L' ipocrisia di chi sta sempre lì neutrale e mai nel torto
Twitter è morto Nel suprematismo bianco Twitter è morto Con gli ad sponsorizzati Twitter è morto Con i tweet di partito Twitter è morto
Ma penso Che questa mia generazione è preparata A un mondo nuovo e a una speranza appena nata Ad un futuro che ha già in mano A un social senza danni Perché noi tutti ormai sappiamo Che se Twitter muore è per tre giorni e poi risorge
In ciò che noi crediamo Twitter è risorto In ciò che noi vogliamo Twitter è risorto Nel mondo che faremo Twitter è risorto Twitter è risorto Twitter è risorto"
"Il punto è che dobbiamo seriamente pensare a dove piazzare Elon perché non parla praticamente più con nessuno."
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Il fatto di sangue a casa Canacci
Casa de' Canacci. Fatti di sangue a Firenze ne sono successi tanti, ma uno si caratterizza per un epilogo che testimonia l'acredine del mandante che rese il suo gesto indelebile sia per la crudeltà dello stesso sia per averlo programmato esattamente il 1° dell'anno del 1639. Il 70enne Giustino Canacci e la sua seconda moglie Caterina Brogi, oltre ai tre figli adulti avuti delle prime nozze di Giustino, Francesco, Giovanni e Bartolomeo vivevano in via dei Pilastri al n° 4. Via dei Pilastri è un'antica strada che prende il nome da una famiglia perugina trasferitosi a Firenze prima della battaglia di Montespertoli, i Pilastri. Caterina Brogi era davvero una bella donna, una fresca ventenne che riceveva costantemente attenzione dagli uomini che la incrociavano, lo stesso figlioccio Bartolomeo se ne era invaghito. La donna era però impenetrabile a qualsiasi avance, o almeno cosi sembrava. Nella realtà esisteva qualcuno che aveva fatto breccia, si trattava di Jacopo Salviati, I duca di Giuliano.
Veronica Cybo. Jacopo Salviati non solo era ricco e piacente, ma anche un poeta. Nato a Firenze nel 1607 era figlio di Lorenzo Salviati, marchese di Giuliano e di sua moglie, la nobildonna fiorentina Maddalena Strozzi. Nel 1627 si sposò con la principessa di Massa e Carrara Veronica Cybo-Malaspina ed ottenne da papa Urbano VIII, grazie a questo matrimonio, che il suo titolo venisse elevato da marchese a duca. Il matrimonio fu quindi conveniente per Jacopo, ma elevare il suo rango lo costrinse ad una moglie orgogliosa e fredda. Gli incontri segreti tra Jacopo e Caterina si svolgevano proprio in via dei Pilastri al civico 4 e nonostante la prudenza dei due amanti qualcuno si accorse della tresca. Non fu certo il marito di Caterina, il buon Giustino, che come marito sappiamo è sempre l'ultimo a sapere, ma qualcuno che fece arrivare la notizia all'orecchio di Veronica. Fu il respinto figlioccio Bartolomeo, che invece che confidarsi con il padre, il primo suo rivale in amore, lo fece con la moglie dell'amante della matrigna. Poi ci si domanda come nascono le telenovelas. La moglie di Jacopo, a differenza di Giustino, non rimase inerme e organizzò la sua vendetta in maniera non solo da riscattare il suo onore, ma da disonorare permanentemente quello del marito. Si coalizzò con Bartolomeo per conoscere esattamente gli orari degli incontri fedifraghi di casa Canacci e organizzò una sortita di tre sicari provenienti da Massa. I tre assassini aspettarono il 31 dicembre del 1638 per agire, consci che quella notte Caterina era sola con la sua fantesca. Non solo uccisero le due donne, ma fecero a pezzi i loro corpi.
La vendetta di Veronica Cybo Il 1° gennaio a villa al Cionfo Jacopo si svegliava, dopo i bagordi notturni, ignaro di quello che era successo la notte e affrontò la giornata secondo i rituali in uso. Uno di questi era ricevere, presso i suoi appartamenti, il cesto di biancheria pulita che la perfetta organizzazione della moglie gli faceva recapitare settimanalmente. Stavolta però la servitù non trovò solo la biancheria profumata, ma ben avvolta in una camicia ci trovò la testa mozzata della sua amante Caterina. L'epilogo è scontato. Jacopo capì l'antifona, i sicari rientrarono a massa belli tranquilli, Veronica si trasferì a Figline sino a che non fu certa della sua impunibilità e l'unico che pagò lo scotto fu Bartolomeo che fu arrestato e poi impiccato al Bargello. Questo il fatto di sangue di Casa Canacci al n° 4 di via dei Pilastri. Solo dopo aver scritto l'articolo mi sono accorto che già la Madonna delle Cerimonie Gabriella Bazzani ne aveva parlato proprio su queste pagine della Rivista Fiorentina. Insomma, vi siete letti un doppione.
Jacopo Cioni Gran Cerusico Read the full article
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Un mondo strano
Ma che mondo strano!
Un ragazzo uccide la sua ex fidanzata e passiamo giornate intere ad interrogarci sul perché di tanta violenza, ad indagare la psiche del giovane, i suoi condizionamenti sociali, a enunciare proclami e propositi politici e morali su tutte le TV, con la consueta galleria di esperti, che ci tocca comunque sopportare qualsiasi cosa accada.
Nel frattempo migliaia di ragazzi ucraini e russi, palestinesi o israeliti si massacrano giorno e notte, stuprano ordinariamente le donne dei nemici, distruggono città, ospedali, scuole, ricoveri, e ogni genere di costrutto umano, e nessuno si interroga sulla psiche di questi poveri assassini, e tutto si riduce a freddi ragionamenti geopolitici o economici.
Eppure dovrebbe essere giunto il tempo di chiederci anche per loro: ma come si educa un giovane a concepire lo sterminio come strumento legittimo di confronto politico o storico? che maestri hanno avuto? in che società sono vissuti? quali programmi televisivi hanno visto per anni e anni? e così via....
Possibile che i nostri arguti commentatori non capiscano che la violenza e l'omicidio, qualunque ne sia la motivazione, sgorgano sempre e comunque dallo stesso cuore umano, dal nostro cuore? e che quindi è esso che va curato, e non solo per non commettere femminicidi, ma anche per non uccidere e depredare e mentire e violentare, sempre e comunque, come questo mondo fa senza pudore alcuno?
Insomma non possiamo più alimentare una società strutturalmente violenta e omicida, fondata sulla predazione, la rapina, la menzogna, la pubblicità più oscena, la comunicazione di massa più abbietta, e poi piangere lacrime di coccodrillo per le conseguenze che produciamo.
Etty Hillesum, aggredita da un ragazzo della Gestapo nella primavera del 1942, perché continuava a sorridere pur dentro l'inferno della persecuzione razziale, scrisse subito dopo: "Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, ma che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull'umanità. E' solo il sistema che usa questo tipo di persone e a farne criminali. E quando si parla di sterminare, allora che sia il male nell'uomo, non l'uomo stesso."
Solo una prospettiva di tale profondità potrà confrontarsi in modo nuovo e onesto con la violenza e l'omicidio che abita ogni persona umana, superando questa fase di spaventosa ipocrisia, in cui si piange la morte di una giovane ragazza, mentre si legittimano a cuor leggero gli assassini di migliaia di altre ragazze e ragazzi, giustificandoli magari con la ragione di stato.
Marco Guzzi
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È lunga ma leggetelo tutto Così, tanto per ricordare tutto. "So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori." [Benito Mussolini ai soldati della Seconda Armata in Dalmazia, 1943] « Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore. » [Lettera di un soldato italiano inviata dalla Slovenia a casa nel luglio 1942 E. Collotti, L'occupazione nazista in Europa, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 543] « Noi abbiamo l'ordine di uccidere tutti e di incendiare tutto quel che incontriamo sul nostro cammino, di modo che contiamo di finirla rapidamente. » [Lettera di un soldato italiano inviata a casa dalla Slovenia nel luglio 1942 E. Collotti, L'occupazione nazista in Europa, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 543] « ...Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori. " [Temistocle Testa Prefetto di Fiume Proclama n° 2798 30 luglio 1942 Boris Gombač, Atlante storico dell'Adriatico orientale, Pontedera, Bandecchi & Vivaldi, 2007] « Il giorno 4/6/1942 alle ore 13:30 furono incendiati da parte degli squadristi del II° Battaglione di stanza a Cosale le case delle seguenti frazioni del Comune di Primano: Bittigne di Sotto...,Bittigne di Sopra..., Monte Chilovi..., Rattecievo in Monte... [...] Durante le operazioni di distruzione ... è stata fatta una esecuzione in massa di n. 24 persone appartenenti alle frazioni di Monte Chilovi e Rattecevo in Monte. [...] poiché è da temersi una immediata rappresaglia, si prega vivamente di voler inviare con tutta sollecitudine dei rinforzi. » [(IL COMMISSARIO PREFETTIZIO Attilio Orsarri, 5 giugno 1942) Alojz Zidar, Il popolo sloveno ricorda e accusa, Capodistria, Založba Lipa, 2001] « Le forze armate del Partito fascista repubblicano nell’Adriatesches Küstenland-Litorale Adriatico, dipendenti operativamente dai tedeschi […] svolsero un ruolo mostruoso: quello di consegnare ai tedeschi i loro concittadini; qui più che altrove, essi svolsero opera di fiancheggiamento nelle operazioni di rastrellamento e di fucilazione delle popolazioni civili […] Svolsero questi ruoli, almeno inizialmente, senza nemmeno essere riconosciuti come alleati dai tedeschi, che solo in seguito li considerarono parte integrante delle loro formazioni. » [(da “Dossier Foibe“ di Giacomo Scotti)] « ..... purtroppo non mancarono episodi di brutalità da parte di singoli nostri soldati. In località Pjesivci, alcuni militari della Taro stuprarono due ragazze - Milka Nikcevic e Djuka Stirkovic - per poi ammazzarle sparando loro al seno. Un'altra donna, Petraia Radojcic, fu bruciata viva nella sua casa. A Dolovi Stubicki furono massacrati dieci anziani, uomini e donne. Per aver dato ausilio ai ribelli le popolazioni dei villaggi della Pjesivica furono punite con la requisizione di oltre 1 000 pecore e capre e di 50 bovini.» [G. Scotti e L. Viazzi, L'inutile vittoria: la tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro, Milano, Mursia, 1998, p. 271] «....I condannati vengono condotti sull'altura che domina la cittadina, ed io che li vedo passare mentre salgono al luogo del loro supplizio sono addirittura impietrito! Penso che poteva toccare a me l'ingrato compito di comandare il plotone di esecuzione che li ha falciati a dieci per volta: una scena terribilmente squallida che non dimenticherò mai, vivessi mille anni. » [Generale Giovanni Esposto Regio Esercito G. Scotti e L. Viazzi, L'inutile vittoria: la tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro, Milano, Mursia, 1998, p. 338] « Si procede ad arresti, ad incendi, [...] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [...] La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi. » [Umberto Rosin Commissario Civile del Distretto di Logatec (Slovenia) 30 luglio 1942] « Le brutali rappresaglie degli italiani (l'incendio di 23 case e l'uccisione di circa 120 abitanti di Vlaka, Jabuka, Babina e Mihailovici e altri villaggi sulla sponda del Lim, nonché le successive commesse a Drenavo) suscitarono in noi e nei nostri combattenti un cupo furore. » [Josip Tito Memorie G. Scotti e L. Viazzi, L'inutile vittoria: la tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro, Milano, Mursia, 1998, p. 33] Roberto Ranfagni
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𝐜𝐚𝐩. 𝟏 | 𝐧𝐞𝐥 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐨 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐨 | 𝐥𝐞𝐯𝐢 𝐱 𝐟𝐞𝐦!𝐫𝐞𝐚𝐝𝐞𝐫 𝐟𝐟
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𝐰𝐜: 2.8k
𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐞: mafia/gangster au, sfw
𝐭𝐚𝐠𝐬: lemon, hurt/comfort, childhood friends to lovers, forbidden love, one-sided love, love triangle, implied eruri
Gli Ackerman e gli Smith, due dei più potenti clan della Metropoli, si trovano oggi riuniti nel più triste dei giorni. Erwin, primogenito ed erede prossimo dell'Impero degli Smith, è stato brutalmente assassinato solo pochi giorni fa.
Il corpo tumefatto e irriconoscibile risiede ora in una sontuosa cassa d'ebano al centro della sala. Tutt'intorno abiti scuri e volti lunghi. Uomini e donne della famiglia Ackerman, presenti in massa a dimostrare la loro decennale alleanza al clan Smith. Sterminate fila di assassini, spacciatori, ladri e signorotti arricchiti si spiegano fino a perdita d'occhio.
Tra loro si contano anche conoscenti, amici di vecchia data, membri di clan alleati e nemici giurati. Una massa indistinta accorsa a portare le sue più sentite condoglianze, in memoria di un ragazzo che lascia alle sue spalle l'ultima speranza di una pace possibile, dopo decenni di guerre sanguinolente, terribili e insensate, tra i maggiori clan della Metropoli.
Forse proprio quel sogno sfrenato lo aveva portato alla rovina, aveva volato troppo vicino al sole come un Icaro moderno e maledetto.
Erwin Smith era amato da tutti, generoso, tenace e di bell'aspetto. Non vi è luogo in città che possa contenere la folla che quel pomeriggio si è riversata nella villa di famiglia. Il salone da ballo è stato riconvertito per l'occasione in camera ardente poi temporanea cappella.
Gli ampi tendaggi da festa si sono tinti di nero. Pesanti drappi di velluto impediscono ai timidi raggi di quel pomeriggio di filtrare. La sala è quasi completamente immersa nel buio. Le porte sono state aperte per permettere anche a coloro rimasti fuori di poter ascoltare meglio l'omelia, far sentire la propria preghiera o lamento, e incrociare per l'ultima volta lo sguardo intenso e fiero di Erwin Smith.
Sopra la sua bara campeggia ora la sua effigie, la sua bellezza giovane ed eterna che rimarrà lì, ferma su quel telo, come nelle menti dei presenti, di ognuno di loro, per sempre.
Il silenzio assordante viene interrotto di tanto in tanto da qualche colpo di tosse o singhiozzo, i canti funebri si fanno cantilenanti rintocchi di morte.
L'aria, intrisa di incenso, ha iniziato a farsi pesante e insostenibile, una letale stretta attorno al collo. La senti avvolgerti e salirti su per i vestiti fino a quasi soffocarti nella stoffa.
Tutti gli occhi della sala non appena lasciano per qualche secondo l'immagine di tuo fratello maggiore Erwin, sono puntati su di te o su tua madre Evangeline, seduta al tuo fianco. Regale e perfetta come sempre, non si è scomposta nemmeno un secondo durante l'intera funzione. Al suo fianco la sua attuale compagna. Ha sostituito tuo padre quando il suo corpo era ancora caldo all'obitorio, circa una decina di anni fa.
Per un secondo ti fai coraggio e riporti lo sguardo sul volto eterno di tuo fratello. Ti chiedi come avresti fatto senza di lui dopo la dipartita di vostro padre, ti chiedi se avresti comunque continuato ad occuparti degli affari di famiglia, a sopportare tua madre e i suoi stupidi giochi di potere o semplicemente a mangiare.
Erwin era per te la stella più luminosa del firmamento, la guida nella notte più buia. Ora il cielo s'è fatto pesto e non puoi smettere di chiederti cosa ne sarà di te quando lo avranno definitivamente messo sotto terra.
Daresti qualsiasi cosa per essere al suo posto al di là di quel legno se questo significasse riaverlo lì, fra tutti quegli avvoltoi.
D'improvviso senti un enorme macigno sul petto sul punto di levarti completamente il fiato, la sua gravità che ti schiaccia a terra. Vorresti essere ovunque tranne che lì.
La cerimonia si concluse e i presenti iniziano a muoversi cercando di formare file il più possibile ordinate, pronti ad andare a porre un ultimo omaggio al ragazzo e alla sua famiglia. Ma sono in troppi e lo spazio è ridotto. In poco tempo inizia a crearsi il caos. Senti di non riuscire più a reggere.
Istintivamente ti volti, protendi le braccia in avanti quasi alla cieca, cercando di formare un varco tra la folla per poter scappare, ma due mani trovano presto le tue spalle, le afferrano e ti immobilizzano nella loro presa.
"Dove credi di andare?", tuona Levi. La sua voce è severa, ma sensibilmente provata dall'immenso dolore che anche lui in questo momento sta tentando di soffocare. Giuri di avergli visto gli occhi segnati dal pianto.
Levi. Levi Ackerman, nipote del capo clan Ackerman e suo futuro erede. L'attuale leader, Kenny Ackerman, è di fatti - come del resto la maggior parte dei suoi uomini - tassativamente scapolo e ha adottato il ragazzo l'indomani della morte di sua sorella Kuchel, senza battere ciglio. Quella era stata una decisione ovvia, una decisione che sarebbe stata presa a prescindere. Levi era l'unico possibile erede. Sarebbe stato un grande capo. Era stato baciato dal destino.
Nonostante il suo carattere freddo e impossibile, segnato da tutto il male che aveva visto passare sotto i suoi occhi e tra le sue mani, Levi Ackerman era riuscito in pochissimo tempo a conquistare la fiducia e il rispetto incondizionato di Erwin. Il suo unico vero amico, leale compagno sin dall'infanzia ed insostituibile consigliere.
Sapevano entrambi che un giorno avrebbero regnato insieme in quello strano e folle mondo in cui era capitato ad entrambi di nascere. E pur di raggiungere quel sogno avrebbero fatto carte false l'uno per l'altro.
Quella loro amicizia era riuscita con il tempo a lavare via la sinistra reputazione degli Ackerman dalle mani intrise di sangue vecchio di Levi, caricandolo però di un peso più gravoso dell'omicidio nella logica dei clan. Ovvero l'amore che un uomo poteva provare per un altro, l'amore che Levi provava per Erwin. Un amore impossibile e non ricambiato di cui i due avevano discusso solo indirettamente, quasi a bocca chiusa.
Il maggiore degli Smith avrebbe però terminato con le sue stesse mani chiunque avesse osato torcere anche un solo capello al suo braccio destro per colpa di quel segreto. Nulla tra di loro era cambiato. Quel fatto non li aveva allontanati in nessun modo, se mai li aveva solo resi più inseparabili di prima. Erwin sosteneva che non vi fosse alcuna differenza tra l'amore che l'uno provava per l'altro: stessa quantità, diverso colore.
Levi Ackerman è tutto questo e molto, molto di più. Un abisso imperscrutabile e profondo di storie che solo le strade della Metropoli possono raccontare e che custodiscono gelosamente nella loro oscurità. Per tutti gli altri, sul bordo di quella voragine Levi è solo il miglior assassino mai esistito, il leader perfetto, l'imbattibile genio degli scacchi e anche l'unico uomo che sia mai riuscito a destare l'attenzione e il desiderio della giovane rampolla Smith.
Cioè tu. Che ora sei lì, immobilizzata nella sua ferma presa.
Avevi provato in ogni modo a togliertelo dalla testa, ma nessuno degli uomini con cui eri stata o con cui avresti mai potuto giacere da lì all'eternità avrebbe retto il confronto. Avevi continuato a vivere nella consapevolazza che non lo avresti mai potuto avere. Che non saresti mai stata felice. Che saresti stata sei piedi sotto terra prima di conoscere il sapore delle sue labbra.
"Cass", ti fa lui di nuovo, scuotendoti piano.
"Ti prego, Levi, portami via da qui", gli bisbigli, levando di poco il capo fino a mostrargli i tuoi occhi ora iniettati di sangue. Il volto contratto e completamente segnato dal dolore, il collo rosso e teso.
Levi ti avvolge con il suo trench grigio scuro, accogliendoti nell'angolo ora scoperto tra il suo braccio e il suo torso. Ti scorta fuori dalla massa intorno a voi fino alla sua macchina, parcheggiata sul viale principale dell'immensa villa Smith.
Una volta entrati nella vettura, ti lasci andare ad un pianto incontrollato, inarcando la schiena e portandoti il volto praticamente tra le cosce. Non riesci più a trattenerti e il tuo respiro è ormai diventato erratico.
Non sapendo cosa fare, Levi mette in moto la vettura con una mano sola. L'altra si posa sulla tua gamba, prima stringendola forte e iniziando poi a massaggiarla, questa volta più delicatamente. La sua presa si allenta mentre le sue dite ti sfiorano le calze. Non ha una parola buona da dirti, non c'è davvero nulla di buono da dire da quando Erwin se n'è andato.
Ancora singhiozzando, alzi la testa per guardare Levi, il quale nel mentre non ha mai distolto gli occhi dall'asfalto di fronte a sé: la sua mascella è serrata e lo sguardo spento fissa l'orizzonte.
Decidi di riabbassare il capo in direzione delle tue gambe. La sua mano è ancora lì, che ti accarezza dolcemente, senza sosta. Così la prendi e la stringi tra le tue. Levi è l'unico che può capirti in questo momento. L'unico che sta soffrendo almeno quanto te.
Una volta arrivati in un garage sotterraneo, Levi ferma la macchina e senza mai guardarti direttamente negli occhi ti spiega che siete a casa sua. Si scusa ma non sapeva davvero dove altro andare.
Ti asciughi le lacrime con la manica della giacca, poi balbetti: "Va bene. U-un secondo. N-non r-riesco a muovermi".
Lui non ci pensa due volte e uscito dalla macchina, si presenta al tuo sportello e ti carica in braccio.
Non protesti e ti appendi al suo collo, riposando il volto sulla sua spalla. Levi ha un odore freddo ma accogliente. Sa d'inverno, delle foglie che cadono sull'asfalto umido e di tè caldo. Vorresti addormentarti lì accanto al suo volto e non svegliarti mai più.
Grazie ad un ascensore di servizio arrivate all'ultimo piano, al prestigiosissimo e inaccessibile appartamento di Levi. Dopo una serie di codici e scanner vocali siete finalmente dentro.
Levi continua a camminare stringendoti tra le braccia, tu intanto spii oltre la sua spalla il lungo e buio corridoio in cui state avanzando. Alcune luci soffuse emergono dai margini del pavimento in marmo, illuminano il perimetro di alcune profonde stanze limitrofe. Da lontano riconosci la città accendersi al di là di altissime vetrate che corrono lungo quasi tutte le pareti.
Un click alle tue spalle e qualche secondo dopo le mani di Levi ti poggiano piano sul suo letto. Non appena raggiungi le coperte, ti senti di nuovo avvolta da quella sensazione di terrore e solitudine, gli afferri di scatto la camicia dicendo sotto voce: "Ti prego, non andare..."
"Lascia che mi tolga il cappotto... e anche il tuo", fa lui.
Le dita ancora ti tremano e ti scivolano tra i moncherini della giacca. La mano di Levi sostituisce la tua e ti sfila via dal soprabito quasi senza che tu debba fare nulla. Poi si allontana e sparisce oltre una porta scorrevole ai piedi del letto. E' troppo buio per vedere di cosa si tratti, immagini una cabina armadio.
Nel frattempo ti sei rannicchiata, ancora in preda ad un tremore inarrestabile, contro la grande testiera di pelle alle tue spalle. Una volta tornato al tuo fianco, Levi si avvicina piano, quasi di soppiatto, e prendendoti le mani mormora: "Forza stenditi, dovresti riposare un po'..."
Non hai intenzione di lasciare la presa, Levi è costretto a coricarsi alle tue spalle, stringendoti a sé. Il tuo incessante tremare suggerisce al giovane Ackerman di fare qualcosa. Le sue dita iniziano ad accarezzarti delicatamente i capelli, poi lungo il braccio, poi ancora i capelli, poi il volto.
"Levi...", lo chiami piano.
Provi di nuovo, ma lui continua a rimanere in silenzio, inalando forte il dolce aroma dei tuoi capelli in cui è praticamente immerso. Decidi di voltarti, ritrovandoti a pochi centimetri dal suo volto. Levi ha gli occhi vitrei e ha appena serrato le labbra in una lunga linea sottile.
"Levi...", fai preoccupata, accarezzandogli il volto. "Levi...", lo chiami ancora.
Lui porta la sua fronte contro la tua e piano ti sussurra, lasciando che una lacrima gli righi il volto: "Li farò fuori ad uno ad uno... Con queste stesse mani... Non mi darò pace finché l'ultimo uomo che ha posato le sue luride mani su Erwin sarà morto... Te lo prometto."
E così dicendo continua ad accarezzarti i capelli e il volto, scendendo poi giù lungo la schiena e tirandoti più vicino a sé, stringendoti come se stessi per scivolargli via per sempre anche tu. Non ti avrebbe lasciata andare.
In tutta la vostra vita probabilmente non siete mai stati così vicini, nè avreste mai immaginato di esserlo.
In tutta la sua vita, Levi non ha mai pianto così, nè tanto meno qualcosa è riuscito a smuovere la sua impenetrabile corazza fino a quel punto.
In tutta la tua vita, non ti sei mai sentita così capita, in un mondo che ti ha soffocata in ogni modo umanamente possibile e che al di là delle apparenze non avrebbe fatto nulla per vendicare la morte del suo fiore all'occhiello. Un mondo di pose e convenienze, un mondo che amava e temeva tuo fratello come una minaccia troppo complicata da gestire, un fastidioso sassolino nella scarpa.
In questo momento così sbagliato, sembra ad entrambi di essere, almeno, nel posto giusto, l'uno tra le braccia dell'altro.
Ti senti completamente sopraffare da quelle sue parole, percepisci il suo dolore e la sua devozione ad ogni lettera, ad ogni respiro. Istintivamente gli prendi il volto tra le mani e lo porti a te. Quando la tua bocca incontra la sua senti una goccia salata sfiorarne il contorno. Anche i tuoi occhi hanno ripreso a lacrimare senza sosta, il suo pianto si mescolano con il tuo.
Le sue labbra sono inaspettatamente morbide, la sua lingua intrisa ancora di un liquore buttato giù per sopprimere il dolore qualche ora prima. O forse tutta la notte. L'intensità dei suoi baci ti prende alla sprovvista, ti senti quasi liquefare tra le sue braccia.
Levi ha bisogno di un secondo per riprendere fiato. Non appena le sue labbra lasciano le tue, ti sembra di nuovo di cadere nel vuoto più assoluto. Lo stringi singhiozzando, lui ti prende al volo, premendoti più forte contro il suo corpo.
Qualche minuto di silenzio tombale dopo, Levi indietreggia cercando il tuo sguardo nella penombra. Guardandoti distrattamente nessuno sarebbe riuscito a dedurre la tua parentela con Erwin. Non avevate lo stesso colore di capelli, né tanto meno degli occhi o il taglio delle labbra. Chiunque però fosse riuscito a spendere anche solo un secondo in vostra compagnia non avrebbe avuto dubbi. Avrebbe immediatamente riconosciuto quell'indissolubile filamento di coraggio e onestà d'animo che scorreva ad entrambi nelle vene. L'unico angolo puro del cuore non avvelenato dalle vostre rispettive madri. L'unico tassello di DNA che vi rendeva fratelli, la firma indistinguibile di vostro padre sotto la pelle.
Dietro ai tuoi occhi galleggia quello stesso fuoco che Levi spesso si perdeva ad osservare in Erwin, lo stesso fuoco che lo aveva sempre fatto sentire irrimediabilmente attratto da te quanto lo era da tuo fratello.
Si convince che sia quello il motivo per cui ora ha cercato di nuovo le tue labbra con le sue, per cui le sue mani si sono perse sotto i tuoi vestiti, per cui non riesce davvero a lasciarti andare questa sera.
Dovrebbe alzarsi e riportarti subito a casa, o andarsene e permetterti di riposare un po'. Dovrebbe essere ovunque tranne che in questo letto con te. Dovrebbe sentirsi dispiaciuto o quantomeno combattuto nel desiderare la sorellastra dell'unica persona che lui abbia mai amato in vita sua. Dovrebbe non volerti così tanto. Dovrebbe non aver mai sognato questo momento negli ultimi cinque anni giustificandolo come una mera e passeggera fantasia.
Dovrebbe. Però tu hai risposto a quel bacio con altrettanta foga e impazienza, le tue mani sono già corse lungo i bottoni della sua camicia e le tue gambe lo hanno stretto forte in vita fino a farlo ruotare di schiena. Sotto di te ora è totalmente impotente, preda anche lui della tua stessa bramosia.
Quando sente i pantaloni soffocarlo e la sua erezione implorarlo di essere liberata, le mani di Levi ti immobilizzano. Resti ferma così come sei sopra di lui, la gonna arricciata in vita, il maglioncino aperto e il reggiseno appena sollevato.
Con il fiato corto lo guardi perplessa. Lui deglutisce e cerca di riprendere fiato. Poi si trascina su contro la testiera e tu gli cadi in mezzo alle gambe ora divaricate.
Si passa nervosamente una mano tra i capelli e nel buio ti sussurra: "Perdonami, non avrei dovuto."
Come se già quella non fosse la più impossibile delle tue fantasie, sentire il temibile Levi Ackerman chiedere scusa in quel modo ha dato il colpo di grazia alla profonda curiosità che nutri verso di lui da quando hai memoria.
Levi Ackerman non ha mai chiesto il perdono di nessuno. Ma oggi ha pianto, si è sentito disperato. Ha già valicato il confine delle prime volte.
Cerchi la sua mano sulle lenzuola per rincuorarlo. Gli dici che non c'è nulla di cui scusarsi, che lo volevi tanto quanto lui. Ti fai avanti e lo baci di nuovo.
Ancora sulle tue labbra lo senti dire: "Non qui. Non ora. Non oggi."
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Il linciaggio di Maresego e la falsificazione storica a posteriori
Capodistria è una città storicamente italianissima, in cui sino alla seconda guerra mondiale gli slavi furono quasi totalmente assenti nel centro urbano e presenti soltanto come esigua minoranza nel contado. Le orde dei partigiani di Josip Broz procedettero però alla fine del conflitto mondiale e negli anni successivi ad una violenta e sanguinaria pulizia etnica contro gli italiani, riducendo la comunità ad un gruppo sparuto e spaurito di superstiti discriminati ed osteggiati.
Fra pochi giorni in questa città, in stato di occupazione da parte di stranieri da oltre 70 anni, si festeggerà pubblicamente il brutale assassinio di tre ragazzi. Il loro linciaggio avvenuto il 15 maggio 1921 con botte, sassi, bastonate, colpi di falce e pistolettate viene spacciato dalla vulgata politica locale come una “rivolta antifascista”, la cosiddetta “rivolta di Maresego”.
L’episodio è un esempio da manuale di come una vicenda storica conosciuta e ricostruibile con esattezza in tutte le sue dinamiche fondamentali viene alterata e capovolta da una propaganda ideologica.
Dovevano svolgersi nel 1921 elezioni nazionali in Italia e fra i vari raggruppamenti si era formata la coalizione detta del Blocco Nazionale, a cui partecipavano il Partito Popolare Italiano, il Partito di Ricostruzione Nazionale, l’Associazione Nazionalista Italiana, il Partito Nazionale Riformatore, i Fasci di Combattimento. Non si trattava quindi di una coalizione “fascista” in senso proprio, perché il partito fascista seppure presente era soltanto uno fra i molti.
Le elezioni in Venezia Giulia si tennero in un contesto di violenza politica, nel quale si distinguevano i nazionalisti slavi ed i comunisti, due categorie che in quella regione spesso coincidevano. Ambedue si resero responsabili ripetutamente di aggressioni ai danni dei loro avversari politici, servendosi in questo di gruppi paramilitari organizzati ed armati, avendo a disposizione ingenti arsenali con fucili, pistole, bombe a mano. Il terrorismo slavo, che insanguinò con omicidi ed attentati la Venezia Giulia per molti anni, si era già rivelato negli incidenti del 13 luglio 1920 a Trieste. Ad un comizio organizzato per protestare contro l’assassinio di marinai italiani a Spalato, dove svolgevano un’operazione di assistenza umanitaria alla popolazione, un estremista slavo pugnalò a morte un italiano di soli 19 anni, il cuoco Giovanni Ninì. Una folla furente cercò allora di assaltare il Narodni Dom, la cosiddetta casa della cultura dei nazionalisti slavi che già sotto il dominio asburgico si era rivelata un covo di estremisti violenti. Dalle finestre dell’edificio furono lanciate bombe a mano ed esplosi colpi di pistola, cosicché l’ufficiale italiano che comandava il reparto incaricato di proteggere il Narodni Dom dalla popolazione indignata cadde mortalmente ucciso. Seguì quindi una sparatoria contro il nido dei terroristi, che provocò un incendio alla sedicente “Casa della cultura”. Ma questo fu soltanto il più noto degli eventi di sangue provocati da facinorosi appoggiati dalla vicina Jugoslavia, che nutriva ambizioni imperialistiche verso la Venezia Giulia e persino il Friuli.
A Maresego il 15 maggio del 1921 un gruppetto di 11 giovanissimi del Blocco nazionale, ivi recatosi senza alcun intento di fare del male ma soltanto per affiggere manifesti elettorali, fu assalito da una massa di violenti d’estrema sinistra, che gli spararono addosso fucilate e gli scagliarono contro una fitta sassaiola. Vistosi attorniati da un’orda di malintenzionati che cercavano di ucciderli, i giovani gettarono un petardo su di un cespuglio ed esplosero alcuni colpi di pistola in aria per cercare di spaventare la folla, poi si diedero alla fuga inseguiti. Tre di loro, Giuseppe Basadonna, Giuliano Rizzatto, Francesco Giachin, furono raggiunti e brutalmente ammazzati: Basadonna, un sedicenne si era nascosto, ma fu scovato, trascinato all’aperto ed ucciso; Giacchin fu trucidato a sassate; Rizzato, già rimasto ferito alla testa, fu braccato per centinaia di metri mentre tentava di scappare ed ammazzato con alcuni colpi di fucile sparati a bruciapelo. Tassini, che era già rimasto ferito al capo, al collo ed al petto da una scarica di pallini, ricevette nella fuga un colpo di pistola, poi una pesante sassata che lo fece crollare a terra. Gli assalitori lo calpestarono, rompendogli costole, lo lapidarono, infine se ne andarono credendolo morte. Tassini invece sopravvisse e fu il principale testimone d’accusa al processo, anche se rimase invalido per tutta la vita. Contro gli assassini, che erano sia italiani, sia slavi, si tenne successivamente un regolare processo.
Questi, in estrema sintesi, i fatti di Maresego. Come si vede, non si trattò di una “rivolta antifascista” ovvero di una risposta difensiva ad immaginarie “violenze fasciste”. Un minuscolo gruppetto di attivisti del Blocco nazionale, composto da vari partiti, fu assalito e non assalitore, aggredito unicamente perché si era recato in un sobborgo abitato per lo più da estremisti di sinistra e per affiggere manifesti. I giovanissimi militanti erano armati, precauzione consueta nel clima bollente della campagna elettorale del 1921, ma evitarono intenzionalmente di servirsi delle armi per ferire i loro aggressori e cercarono solo di spaventarli. Al contrario, costoro agirono per uccidere ed ammazzarono senza alcuna esigenza tre ragazzi e storpiarono a vita un quarto, lasciandolo vivo solo perché sembrava ormai deceduto.
A posteriori, nel secondo dopoguerra, i nazionalisti slavi e comunisti assieme cercarono di giustificare il sanguinoso linciaggio di Maresego imbastendo su di esso una retorica mistificatoria e stravolgendo completamente gli eventi. Fu uno dei modi con cui furono creati dei “miti fondativi” al fine specifico di legittimare la conquista, la pulizia etnica e l’annessione di Capodistria alla Jugoslavia ed il suo successivo passaggio alla neonata Slovenia.
PS.
Sui fatti di Maresego esiste l'ottima analisi di Valentina Petaros nel suo saggio "1918-1921. Fuoco sotto le elezioni".
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Ma non è che con il tempo si migliori: si cresce e si paga uno psicoanalista, poi un sessuologo e poi un career coach. Si va a vivere da soli e finalmente si va in vacanza dove si vuole. Si va in palestra, si fa il botox, l'extention, il filler. Ma non cambia molto. Si soffre e poi ci si innamora, si è felici e poi si soffre ancora. E tutto continua ripetendosi. Così si finisce per essere un po' piú saggi. Come davanti a un film giá visto, anche se poi, in fondo, lo sappiamo tutti come andrá a finire la vita...
Per tanto tempo durante l'adolescenza, dopo aver perso mio padre, non volevo piú vivere. Pensavo non ne valesse la pena. In fondo la morte è una certezza e ci attende innanzi. Sarebbe stato meglio accorciare i tempi. E invece cazzo verso i vent'anni ho capito che il dolore può mutare, può rielaborarsi e liberarsi di tante idee vecchie che causano autolesionismo. Bisogna essere tanto forti però per capire che noi non siamo la nostra sofferenza ma, al contrario, la sofferenza ci attraversa, come una qualsiasi altra emozione. Anche se per alcuni di noi la sofferenza prende un posto enorme e diventa una costante.
Tutto il dolore dev'essere vomitato fuori, rielaborato e affrontato e, infine, riassorbito. Dobbiamo imparare a prenderci per mano, abbracciarci e, cosa piú difficile, ad amarci! Come il serial killer del 'Silenzio degli innocenti': dobbiamo metterci davanti allo specchio e dirci "io mi scoperei tutto" (ma chiaramente evitando gli assassini di massa!).
Vale davvero la pena prendere questa risoluzione con se stessi: io non sono il mio dolore e non voglio vivere con questo dolore sempre addosso. Io ci sono passata e devo dire che ne vale davvero la pena. È la cosa piú grande che faremo per noi stessi! perché non c'è solo 1 vita ad attenderci ma tutte quelle che decidiamo di vivere. Lo sperimentiamo tutti i giorni quando impariamo qualcosa di nuovo, o cambiamo città, lavoro, amante. E vi assicuro che più stiamo bene con noi stessi e più siamo capaci di avvicinare intorno a noi situazioni e persone che ci fanno stare bene. Abbiamo un magnetismo noi umani, siamo tipo calamite, perché tutti i nostri pensieri si proiettano dalla nostra mente sul mondo in cui viviamo.
Ogni scelta è una proiezione dei nostri pensieri sul mondo! È una porta che si apre su una vita nuova. Basta fare un passo, attraversarne la soglia e inizia il cambiamento - verso un nuovo mondo ancora da scoprire (e questo mondo è sia interno che esterno, sia intimo che oggettivo, è sia dentro che fuori di noi).
Prima però ci deve essere la cura. Imprescindibilmente. Bisogna sedersi e andare nel cinema del nostro inconscio con un buon critico d'arte vicino.
E film, dopo film, racconto dopo racconto, le paure se ne andranno (io c'ho messo 5 anni) anche se il passato resta, saremo noi a cambiare sguardo. E saremo capaci di sperimentare le nostre possibilitá. Saremo riconciliati nei nostri mille frammenti in un' unità capace di vibrare col mondo. Saremo all'interno di un dialogo, dove noi non saremo più in balia della vita ma come delle corde di chitarra vibreremo per processo 'simpatico' alla vibrazione della corda accanto. Allora alla vibrazione della nostra anima il mondo vibrerà in risposta.
'Conosci te stesso' lo ha scritto Immanuel Kant e poi scrisse 'l'uomo è il fine e non il mezzo'.
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