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Sante Pollastro e Costante Girardengo: Il bandito e il campione
Sante Pollastro e Costante Girardengo nacquero entrambi a Novi Ligure. Il primo era un bandito, il secondo un abile ciclista su strada e un ottimo pistard. L’amicizia tra i due fu molto discussa all’epoca; entrambi provenivano da famiglie povere e avevano la stessa passione per la bicicletta. Continue reading Sante Pollastro e Costante Girardengo: Il bandito e il campione
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Genova 2001 per noi? A tutto gas - Osservatorio Repressione
Quest’anno ricorre il 20° anno dal G8 di Genova. Con questo articolo iniziamo a ripercorrere quelle tragiche giornate
A distanza ormai di 20 anni dalle “giornate di luglio a Genova 2001”, ripercorro questa brutta storia. Una vicenda quella dei CS non solo mia, ma comune a migliaia, decine di migliaia di persone.
Certo, apparentemente una piccola cosa a confronto delle brutali percosse e torture di Diaz e Bolzaneto. Ma ci ricorda che per reprimere l’insubordinazione popolare le classi dominanti sono disposte a ricorrere a qualsiasi cosa. Anche alla guerra chimica. Meglio conoscere e possibilmente prevenire.
TESTIMONIANZA DI UN GASSATO (COSTRETTO SUO MALGRADO A RIPENSARCI)
Sinceramente. Nei mesi immediatamente successivi alle giornate del luglio 2001 non avevo più intenzione di ripensare a Genova . La sensazione di “scampato pericolo” (dopo aver conosciuto nei dettagli quale fosse stato trattamento subito dagli arrestati a Bolzaneto, le conseguenze dell’attacco notturno in stile militare alla Diaz) era stata molto forte e aveva alimentato il desiderio di rimozione. In effetti, come molti altri, probabilmente mi ero illuso di esserne uscito illeso. Tuttavia, dopo aver trascorso il peggior inverno della mia vita (2001-2002), avevo dovuto prendere in seria considerazione la possibilità di aver subito danni biologici significativi (per quelli morali si può soprassedere) avendo inalato ( ma la contaminazione sembra avvenire anche attraverso la pelle, gli occhi…) i famigerati CS.
Con il senno di poi, non credo sia eccessivo parlare di un “esperimento di guerra chimica a bassa intensità in tempo di pace”.
Ma andiamo con ordine.
Sabato 21 luglio 2001 sono arrivato a Genova in pullman. Facevo parte della numerosa delegazione di membri di varie associazioni vicentine che intendevano portare – pacificamente – la loro protesta al G8:
Gocce di Giustizia, Movimento UNA (Uomo-Natura-Animali), Lipu, Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, Rifondazione Comunista, diversi pacifisti della Casa per la Pace di Vicenza, Collettivo Spartakus, Centro Sociale “Ya Basta!”, alcuni sindacalisti della Cgil e della Cisl vicentine sensibili alle problematiche del Terzo Mondo.
Era inoltre mia intenzione raccogliere testimonianze da utilizzare per eventuali articoli. Durante il viaggio ho avuto una lunga conversazione con il compagno Arnaldo Cestaro, militante maoista dei primi anni Sessanta, sempre in prima linea in tutte le battaglie pacifiste e antimperialiste. Ricordo in particolare che per decenni l’ho visto picchettare ogni domenica, o quasi, la base militare “Pluto” di Longare.
Parlando dei vecchi tempi, gli avevo chiesto informazioni su tutti quei militanti di buona famiglia – spesso arroganti e autoritari – che dopo gli entusiasmi giovanili, erano rientrati nei loro ovili dorati. Mi spiegò che “uno era diventato dentista, un altro ingegnere, un altro ancora imprenditore…” E fin qui niente di strano, ovviamente. Però, aggiunse, la maggior parte di loro- incontrandolo – fingeva di non conoscerlo.
“Su quali basi – gli avevo chiesto – si permettono questo atteggiamento?”
Risposta: “Caro Sartori “te me pari bauco”. Ossia, tradotto dal veneto “mi sembri ingenuo” (ma tanto).
“Ma xe logico. In base all’articolo quinto: chi che ga fato i schei ga vinto” (non penso di doverlo tradurre).
Purtroppo per lui, l’ottimo e saggio Cestaro la sera non rientrava con noi in pullman ma si fermava a Genova (il giorno dopo voleva portare dei fiori sulla tomba di un vecchio amico) e andava a dormire alla Diaz. Ancora oggi, dopo tanti anni, porta i segni e le conseguenze delle percosse subite (braccia e gambe rotte).
Lo rividi,, sempre indomabile, soltanto l’anno dopo, a Firenze (mentre entrambi uscivamo dalla Fortezza da Basso per unirci al corteo del 9 novembre 2002) e poi in tante altre occasioni: dalle manifestazioni “NO-DALMOLIN” alle iniziative contro i rifiuti tossici sepolti sotto la A31.
Per quanto riguarda i gas CS di Genova 2001, personalmente ho subito una prima esposizione nel punto in cui il corteo, provenendo da Corso Italia, ha svoltato a destra, in prossimità dei Giardini Martin Luther King, e poi lungo Corso Torino in direzione di Piazza Ferraris, dove si doveva concludere – almeno ufficialmente – la manifestazione.
Come unica protezione avevo prima un fazzoletto e poi una maschera di carta (di quelle vendute in farmacia) che mi era stata data da un altro manifestante, il compagno Giorgio Fortune scomparso pochi anni dopo. Niente per gli occhi. Questo perché avevo considerato di partecipare ad una manifestazione pacifica e autorizzata, non pensando di dovermi attrezzare in alcun modo (in quanto ritenevo di potermi tenere il più lontano possibile da ogni eventuale “casino”).
Con il senno di poi, ovviamente, ho peccato di ingenuità (“baucaggine” direbbe Arnaldo) e di eccessiva fiducia nelle istituzioni.
Sono rimasto in zona per qualche minuto, il tempo necessario per scambiare qualche impressione con alcuni baschi che inalberavano una ikurrina listata a lutto (per Carlo Giuliani ovviamente).
Quindi rispetto al vero e proprio “casino” in atto, mi trovavo a qualche centinaio di metri di distanza anche se zaffate di gas arrivavano con una certa regolarità (presumo da Piazzale Kennedy), ma sul momento gli effetti non sembravano particolarmente intenso (avvertivo solamente una leggera irritazione agli occhi).
Ci tengo a precisare che in passato mi ero ritrovato altre volte in prossimità di lacrimogeni (di tipo “normale”, presumibilmente), sia alla fine degli anni Sessanta che poi negli anni Settanta (quasi sempre in Italia). Successivamente, come fotografo e giornalista freelance negli anni Ottanta, Novanta e oltre, in vari “conflitti a bassa intensità” (come in Irlanda del Nord e nei Paesi Baschi), ma senza particolari conseguenze.
Al momento della carica che doveva spezzare il corteo in due sono riuscito a passare , anche se di poco.
Altro ricordo “fotografico”: un drappello di bandiere galleghe – bianche con la striscia diagonale blu e la stella rossa – illuminate dal sole che sfilavano in velocità davanti alla carica appena in tempo per non esserne travolte (come invece accadde all’improvvisato cordone).
Dopo poche centinaia di metri mi sono accorto che alle nostre spalle c’erano grossi problemi, sia per il fumo dei lacrimogeni (riocrdo il tunnel già intasato), sia per le “ondate” di persone in fuga che – ad ogni carica successiva – si mettevano improvvisamente a correre disordinatamente mettendo in moto tutto il corteo davanti (come un’onda , appunto), nonostante gli appelli alla calma.
Riuscivo comunque ad arrivare in piazza Ferraris e perfino a seguire i vari interventi (Hebe Bonafini, Giuliano Giuliani il padre di Carlo, Agnoletto, Bovè…) fino alla fine.
In questo momento di pausa ho avuto anche modo di apprezzare la grande eterogeneità della “moltitudine” presente. Citando alla rinfusa: il già intravisto drappello di bandiere bianche con striscia diagonale blu e stella rossa della Galizia; diverse bandiere gialle con le quattro strisce rosse dei catalani; bandiere con i quattro mori di un movimento indipendentista sardo (NON un partito, ci tengono ndr); qualche ikurrina basca (sia autentica che “apocrifa”, quelle dell’Askatasuna di Torino); i famigliari dei militanti della sinistra turca all’epoca in sciopero della fame (alla fine i morti saranno oltre cento) con le foto degli hunger strikers; i Sem Terra del Brasile; alcuni comunisti greci che cantavano “Bella ciao” (in greco, ovviamente); gli animalisti della LAV di Bassano e gli antispecisti dell’UNA di Vicenza; il comitato di Bolzano a sostegno degli indiani U’wa della Colombia; molte bandiere curde (del PKK) e ritratti di Ocalan . E anche in mezzo a un esercito di militanti di Rifondazione Comunista, un solitario con la bandiera occitana; alcuni membri di un movimento autonomista trentino con due genziane sulla bandiera (ho poi controllato: all’epoca c’erano due fazioni; quella con le due stelle alpine vicina al centro destra, quella con le due genziane al centro sinistra); uno striscione in memoria di Edo e Sole (compagni anarchici militanti NO-TAV), bandiere corse, scozzesi, bretoni (tutte di movimenti autonomisti o indipendentisti di sinistra … Oltre ovviamente alle varie tribù dell’anarchismo (CNT iberica, CNT francese).
Più o meno la stessa molteplicità eterogenea rivista poi a Firenze nel novembre 2002.
Del tutto inaspettato, l’incontro con l’amico “Giaco”, scrittore e giornalista di Radio Popolare (e massimo esperto nel nostro Paese sulla questione basca) intento a fare la doccia con i secchi d’acqua che una pia vecchietta genovese riversava sulla folla dalla finestra. Non poteva poi mancare il mitico Vincenzo Sparagna, inossidabile direttore di “FRIGIDAIRE”, intento a distribuire un particolarissimo numero speciale: “Il testimone di Genova”.
Al termine dei vari interventi avevo creduto di poter ripercorrere a ritroso il percorso del corteo (Corso Sardegna, Corso Torino). Invece, come tanti altri, dovevo ritornare velocemente verso piazza Ferraris a causa della forte irritazione alla gola e della lacrimazione agli occhi dovute ai gas ancora abbondantemente presenti nelle strade.
Infatti la coda del corteo, praticamente quasi fino a piazza Ferraris, era stata ripetutamente caricata e attaccata con i lacrimogeni.
In questa occasione, dal momento in cui il bruciore acuto mi ha costretto a tornare indietro a quando l’irritazione è diventata sopportabile, saranno passati circa venti minuti. A questo punto, temendo di perdere il pullman per il ritorno, ho cercato di aggirare le strade dove ancora stagnava il pestilenziale gas.
Ho seguito altre persone dirigendomi verso una strada in salita (forse via dell’Orso). Anche qui, salendo, di tanto in tanto ho avvertito bruciore agli occhi. Siamo arrivati nei pressi di una chiesa (presumibilmente San Fruttuoso) dove alcuni frati ci hanno offerto molta acqua (“dar da bere agli assettati”) e la possibilità di utilizzare i bagni.
Poi ci hanno indicato una stradina raggiungibile solo a piedi che ci avrebbe portato in Corso Europa per raggiungere i pullman. Deve essere stato nel tardo pomeriggio, forse un paio d’ore dopo la fine del comizio.
Un genovese, amico dei frati, ci ha fatto da guida. Ad un certo punto una parte della stradina era crollata e per pochi metri si poteva procedere solo in fila indiana, praticamente aggrappati al muretto. Alla fine il vicolo sbucava in una strada che in quel momento era percorsa da gruppi di persone, evidentemente di ritorno dal corteo. Eravamo arrivati a pochi metri di distanza quando tutti hanno iniziato a correre, a scappare.
Temendo di rimanere bloccato, mi precipitavo in strada entrando nel flusso di persone in fuga. A quel punto, piuttosto agitato ormai, sentivo ancora che una forte presenza di gas proveniva da dietro le nostre spalle. L’esposizione durava, credo, solo una decina di minuti, ma mi sembrò più intensa delle altre. In questi frangenti non avevo protezione e subito dopo ho iniziato a provare un forte senso di nausea. Come tanti altri, sono scappato salendo una scala che si rivelò completamente intasata da chi cercava di fuggire. Non saprei dove collocare esattamente questo episodio, comunque tra San Fruttuoso (sotto la Chiesa) e gli Ospedali Civili. Come ho detto dopo questa fuga ho iniziato a provare nausea, sensazione di vomito e mal di stomaco che mi ha accompagnato per tutto Corso Europa. I pullman avrebbero dovuto stazionare su un lato di Corso Europa (via Isonzo,) ma invece il punto di incontro era stato spostato di circa un chilometro. Sono arrivato dopo le 19 (giusto in tempo per non dover restare a Genova), attraverso altri vicoli, ancora una volta grazie ad un cittadino genovese che si è offerto come guida.
Nel complesso l’intensità dell’esposizione non avrebbe dovuto essere troppo elevata (anche se non saprei dire rispetto a quali parametri vista la particolare natura del CS) ma ripetuta più volte, per un totale di circa un’ora di esposizione. Come ho detto ho provato bruciore agli occhi, lacrimazione, irritazione alla gola, nausea anche se al momento nessun sintomo appariva con violenza.
Tuttavia dall’inizio di settembre 2001 ho cominciato ad avere problemi respiratori. Nonostante i molti anni di pratica sportiva e di allenamento costante (escursionismo, alpinismo, ciclismo) con buoni risultati. In particolare – sottolineo – fino a pochi giorni prima del 21 luglio avevo effettuato varie ascensioni nelle Dolomiti senza alcuna difficoltà o disturbo.
Da allora ho dovuto usare medicinali e sottopormi a vari trattamenti.
Dopo una serie di visite mediche ho dovuto riconoscere che il danno c’era e anche dopo tanto tempo la situazione rimaneva problematica.
Ho quindi ritenuto mio diritto e dovere sporgere denuncia (tramite l’avvocato Canestrini di Trento) contro gli autori dei delitti deducibili da quanto detto.
Successivamente ho raccolto varie testimonianze di altre persone che dopo Genova si sono trovate con problemi di salute, più o meno acuti. Si tratta di solito di problemi respiratori: asma, bronchite ricorrente (anche in estate), raucedine, difficoltà respiratorie. Tuttavia, ho avuto l’impressione che molti sottovalutassero la gravità della questione (quasi una forma di rimozione), forse sperando che “col tempo andrà tutto bene”. Personalmente credo che ogni caso andava considerato, ricostruendo nel dettaglio quanto accaduto, cercando di specificare luogo, tempo, circostanze e sottoponendosi a opportune visite mediche in modo da poter quantificare con precisione quante persone (sicuramente centinaia, probabilmente migliaia), esposti a CS, hanno subito conseguenze dopo essere state irrorate con il micidiale aerosol. Soprattutto pensando al futuro,
E il futuro – a venti anni di distanza – è ancora molto incerto, soggetto sempre più a decisioni prese da altri. Anche la semplice partecipazione ad un evento autorizzato per esprimere democraticamente il proprio pensiero potrebbe comportare gravi rischi per la salute. Concludo dicendo che, a mio avviso, l’uso massiccio di sostanze altamente tossiche ha rappresenta (almeno per l’Italia) un vero salto di qualità in campo repressivo.
Gianni Sartori
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*nota 1: qualche dato scientifico sul micidiale aerosol a base di CS che la polizia ha usato a Genova in maniera massiccia e spregiudicata (si parla di almeno 60.000 lacrimogeni) contro manifestanti inermi. Sui bossoli in alluminio raccolti (che ricoprivano a migliaia le strade) era ben evidente la scritta: “cartuccia 40 mm a caricamento lacrimogeno al CS,S TA – 1 – 98”.
Il CS non è una sostanza qualsiasi. È stato messo al bando dalla convenzione mondiale sulle armi chimiche (ma solo per il suo uso in tempo di guerra). È considerato estremamente dannoso, può provocare danni permanenti e può avere effetti sui cromosomi delle persone. Secondo i dati raccolti da uno studio del Parlamento europeo, ad alti livelli di esposizione, il CS può causare polmonite ed edema polmonare fatale, disfunzioni respiratorie, oppure gravi gastroenteriti ed ulcere perforanti. Sperimentazioni in vitro hanno dimostrato che il CS è clastogenico, causa cioè la separazione dei cromosomi, e mutageno, cioè può causare mutamenti genetici ereditabili, mentre in altri casi il CS aveva dimostrato di poter causare un aumento nel numero di cromosomi abnormi.
Il CS era già noto per essere stato usato in Vietnam e per essere una delle sostanze sotto accusa tra quelle in possesso dell’Iraq. Inoltre viene studiato con preoccupazione negli Usa ed è stato oggetto di una proposta di messa al bando da parte dell’associazione dei medici sudcoreani che hanno richiesto una “ricerca indipendente per comprenderne gli effetti acuti e subacuti, cronici e di lungo periodo, in particolare su soggetti a rischio, bambini, neonati, anziani, soggetti con malattie croniche preesistenti e pazienti in degenza”.
Come ha scritto il senatore verde Francesco Martone (vittima dei CS e autore di una inchiesta sui fatti di Genova) “chi era a Genova lo ricorda. Ricorda il fiato mozzato, il cuore in gola, l’impossibilità di respirare, la pelle bruciata e gli occhi pieni di lacrime. Ricorda la sensazione di vomito e nausea, immediata, ed il bruciore allo stomaco, i dolori al fegato”. Nella sua inchiesta Martone ha anche ricostruito la storia dell’uso repressivo di questo gas. Il CS è stato usato a Seattle, a Québec, a Genova, in Irlanda del Nord, a Waco, a Seul, in Palestina, in Malesia, in Perù.
In un libro di Gore Vidal (La fine della Libertà – verso un nuovo totalitarismo?) si parlava della strage di Waco, quando il 19 aprile del 1993 gli agenti dell’Fbi posero fine al lungo assedio alla sede della setta dei Davidiani, usando gas CS e carri armati. Secondo le successive ricostruzioni, fu proprio il CS a innescare l’incendio nel quale morirono 82 persone.
Il CS, sigla per chlorobenzylidene malonitrile, in italiano “ortoclorobenzalmalonitrile” è stato sviluppato negli anni ‘50 dal Chemical Defence Experimental Establishment [Porton, Inghilterra]. In Italia i candelotti al CS li produce la ditta Simad s.p.a. di Carsoli, in provincia dell’Aquila. È una sostanza cristallina usualmente mescolata con un composto pirotecnico in una granata o candelotto. Si diffonde sotto forma di nebbia o fumo di particelle sospese. La sua efficacia deriva dalla proprietà irritante, molto forte, per la pelle e le mucose, e di agente lacrimante anche in dosi minime. Gli effetti caratteristici sono una congiuntivite istantanea con blefarospasmo, irritazione e dolore. Il CS micronizzato e mescolato con un antiagglomerante o trattato con idrorepellenti a base di silicone (formule note come CS1 e CS2) può rimanere attivo per giorni e settimane, se polverizzato sul suolo. A Québec, dove si fece uso di CS per reprimere le manifestazioni contro il Trattato dell’Area di libero commercio delle Americhe (aprile 2001), l’ufficio di igiene pubblica avvisò i residenti di indossare guanti di gomma e lenti protettive nel trattare i residui, di gettar via il cibo contaminato (anche quello dentro ai contenitori), rimpiazzare i filtri dell’aria condizionata, e lavare l’esterno delle abitazioni.
Non risulta che nel 2001 gli abitanti di Genova abbiano mai ricevuto suggerimenti del genere.
A livelli più alti il CS è stato associato con disfunzioni cardiache, danni al fegato e morte. Dal punto di vista tossicologico, molte associazioni mediche hanno raccomandato lo svolgimento di maggiori analisi di laboratorio ed epidemiologiche, per avere un quadro completo delle conseguenze mediche derivanti dall’esposizione di componenti quali il CS. Il Journal of the American Medical Association concludeva che la “possibilità di conseguenze mediche di lungo termine quali formazione di tumori, effetti sull’apparato riproduttivo e malattie polmonari è particolarmente preoccupante, considerando l’esposizione alla quale vengono soggetti dimostranti e non dimostranti in caso di operazioni di ordine pubblico”.
L’azienda che fornì il CS al cloruro di metilene, la Defense Technology Corporation (Wyoming) si è poi unita alla Federal Laboratories. Questa ditta, nel 1992, insieme alla TransTechnology Corp, fu oggetto di una causa civile da parte delle famiglie di nove palestinesi uccisi da esposizione a CS, usato massicciamente dagli Israeliani contro l’Intifada.
Va anche ricordato che l’Italia ha ratificato nel 1925 il protocollo di Ginevra contro l’uso di sostanze soffocanti o gas e che nel 1969 almeno ottanta paesi hanno votato per la messa al bando di gas lacrimogeni in operazioni di guerra. Per quanto riguarda l’Italia: come si giustifica la discrepanza sul regime di uso di CS, proibito in guerra ma permesso in tempo di pace, considerando che l’Italia è firmataria ed ha ratificato il protocollo di Ginevra? Secondo alcuni esperti, esisterebbe al riguardo una grave scappatoia legale nella Convenzione sulle armi chimiche, poiché la Convenzione non proibisce l’uso di gas tossici in operazioni “pacifiche” come ad esempio quelle di “law enforcement” (ripristino della legge).
A questo punto è lecito chiedersi quali siano le garanzie per un cittadino che esercita il suo diritto inalienabile all’espressione delle proprie opinioni.
O forse il diritto alla salute di un civile vale meno di quello di un militare?
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Lettere da un paese chiuso 28
Quando muore Babbo Natale. Eravamo felici, e non lo sapevamo.
Queste lettere hanno un mese, il 21 febbraio ci fu il primo caso di contagio rilevato, a Codogno. Sembra passata una vita, e sono passate invece tante morti. Bergamo ha preso il posto di Codogno, perfino il primo morto a Cuba era un bergamasco: due coppie di anziani in vacanza a basso costo, le due donne contagiate, l’altro uomo no. Nelle ultime 24 ore ci sono stati, a Bergamo, 509 contagi (a Milano di più, 526, ma non c’è proporzione tra le due città). I malati restano in barella anche 48 ore, in attesa del ricovero. Ormai si muore spesso in casa, le ambulanze faticano a tener dietro alle chiamate, i parenti sanno che i più fragili non avranno accesso alle terapie intensive, e si rassegnano a tenerli a casa: morire, ma non da soli. Non è che manchi la solidarietà: Ci sono almeno dieci ambulanze guidate da autisti delle altre provincie. Vi ricordate Amatrice ? Hanno mandato cento camici chirurgici. Vi ricordate l’ Irpinia del terremoto ? Stanno facendo una sottoscrizione. Ma un’altra colonna di camion militari è pronta. Muore il custode dell’orologio planetario di Clusone, muore il presepista di Ponte San Pietro, muore il dottore degli oleandri di Pumenego, muore Siro, il Babbo Natale di Torre dei Roveri, muoiono preti e suore, muore l’ex carabiniere che aveva fondato la onlus “Caduti di Nassirjia” e il carabiniere in servizio, muore la cassiera del supermercato: muoiono le piccole storie delle piccole comunità. Mi sono chiesto perché non mettiamo una scritta sui balconi, o un distintivo da Facebook con sopra scritto “Io sono bergamasco”. L’abbiamo fatto tante volte: mettere i colori francesi sui nostri profili per dire che eravamo con loro, dopo quella raffica di attentati a Parigi, “ Je suis Charlie” per dire che eravamo con quella redazione colpita. Adesso diciamo che stiamo con i medici e gli infermieri, ci mancherebbe altro. Ma nessuno dice “io sono bergamasco”. Il fatto è che nessuno di noi vive a Parigi, nessuno fa satira sul fondamentalismo islamico: e invece tutti potremmo essere una seconda Bergamo, e Brescia teme di diventarlo. E allora non ci arrischiamo a dire “Io sono bergamasco”: anche la solidarietà impone le distanze, qualche volta. Ci sono molti angoli d’Italia che per causa di focolai trascurati e misure di sicurezza non rispettate, rischiano di diventare come Bergamo: il record di contagi milanesi negli ultimi giorni è figlio di un maledetto week end di inizio mese, sole e parchi. E questo, con un po’ di scaramanzia, frena le chiacchiere e i distintivi. Un modo di dire la nostra solidarietà c'è: fare in modo che le nostre città e i nostri paesi tengano a bada il contagio, mantengano posti liberi nelle terapie intensive, si prendano cura dei bergamaschi vivi e dei bergamaschi disposti sui camion, come i bergamaschi si sono sempre presi cura degli altri. Ho pensato perchè in certi momenti , adesso, mi sento bergamasco. Intanto perché è difficile non voler bene a un popolo che stringe i denti per non piangere, o piange e stringe i denti.
E poi per me è una terra di alpini. Sono stato una volta in un cinema di Bergamo bassa, sul viale che sale dalla stazione, invitato dagli alpini a parlare di qualcosa, forse della vicenda dei marò. Io non ho fatto l’alpino: mi hanno spedito, artigliere, in punizione in Sicilia, dall’altro capo di Italia: mai punizione fu così felice, perchè ho scoperto e imparato ad amare la Sicilia. Ma vengo da una terra di alpini, li conosco, e ho prestato il mio nome quale direttore di una rivista di sezione dell’Ana in Friuli, “Alpin jo mame”, che non ha bisogno di traduzioni. Io non vi chiedo di ricordare quello che hanno fatto in Bosnia o in Mozambico, o in Afghanistan, no. Li abbiamo visti in Abruzzo, no ? Li vediamo quando c’è da fermare il traffico per una gara podistica, o regalare il loro lavoro, il loro tempo per qualunque cosa serva, fosse pure solo donare il sangue ? Li abbiamo applauditi quando sfilavano a Milano, pochi mesi fa ? Certo, non sappiamo che a Sefro, una frazione marchigiana sulla strada che da Assisi conduce a Loreto, c’è un edificio polifunzionale in legno appena finito, e finirlo sono stati gli alpini bergamaschi. Il solo gruppo ANA di Nembro ha avuto undici vittime. Andati avanti, nel linguaggio degli alpini. Gli altri, adesso, sono alla Fiera, a mettere in piedi un ospedale da campo.
Non solo loro, quanto a solidarietà: ho incontrato più missionari e volontari bergamaschi, negli angoli sfortunati del mondo, che di qualunque altra città italiana. Per anni sono stato tallonato affettuosamente da una persona speciale, Giangi Milesi, presidente del Cesvi. Sapeva del mio rapporto difficile con le ong, e lo scavalcava con affetto ed entusiasmo. Andavo una volta l’anno in un teatro di Bergamo, dove Cristina Parodi conduceva una serata per raccogliere fondi per la solidarietà ai quattro angoli del mondo, in stile bergamasco: poca ideologia, maniche tirate su, molti fatti. Adesso Giangi ha il Parkinson, e lo affronta con coraggio. I suoi sono in missione sotto casa, ad aiutare gli anziani soli e l’ospedale Giovanni XXIII.
Come tanti, posso dire di conoscere più l’aeroporto di Bergamo, che la città. Ci sono tornato l’ultima volta due o tre anni fa, in Città Alta, per parlare a un evento dedicato ai viaggi, Ulisse Fest. Provo, adesso, a ricordare i bergamaschi che mi ricordo di aver conosciuto. Il primo è il mio caporedattore quando stavo a “Epoca”, Gualtiero Tramballi. Un capo duro e gentile, intelligente e severo, che ti aiutava a crescere. Mi ricordo quella volta che andai, per non ricordo più quale storia, a Bergamo. Mi passò il pezzo con un’attenzione doppia. Mi ricordo Gigi Riva, allora inviato de Il Giorno nei Balcani, e poi a L’Espresso, un bergamasco innamorato dei Balcani. L’altro giorno, dopo che avevo scritto in queste note di Sarajevo, ho parlato al telefono con Bogdan Tanjevic, l’uomo del basket. Abbiamo parlato di Sarajevo, e di Trieste dove vive, e alla fine mi ha detto : “Salutami Gigi Riva”. Diciamo che ho molti conflitti d’interesse, anche quello egoista di pensare che se diciamo “io sono bergamasco” vorrà dire che non lo siamo diventati, che abbiamo smorzato l’onda del contagio. Gualtiero Tramballi, il caporedattore di cui vi ho detto, aveva scritto, nel 1976, un libro sul terremoto del Friuli. Forse mi aveva preso a benvolere per questa ragione. Certe volte mi chiedo ancora cosa mi correggerebbe, se scrivessi che un mese fa eravamo felici e non lo sapevamo. Oppure siamo stati felici senza saperlo, fino a poco più di un mese fa. Accetterei ancora adesso quelle sue correzioni, da bergamasco ruvido e buono.
Il decreto CuraItalia ha molte cose che non vanno, ma bisogna essere uniti. Mi limito a segnalarne umilmente una: là dove si definiscono obbligatorie le mascherine chirurgiche per i medici e il personale sanitario. Non è così: le mascherine chirurgiche possono bastare per i malati, non per chi li cura. E del resto mancano anche quelle. E’ un’idea borbonica cavarsela imponendo qualcosa per legge, e così lavandosene le mani, io ho la coscienza pulita. In Francia, dove pure seguono il modello italiano, il governo ha sequestrato tutte le mascherine, e le ha distribuite al personale medico. Quelle in più nelle farmacie, distribuite con ricetta medica innanzitutto a immunodepressi e anziani. Ieri in televisione, parlando di scarse protezioni, mi sono tornati in mente gli alpini, e mi è venuto da dire che abbiamo trattato i medici e gli infermieri come gli alpini in Russia: scarponi di cartone, e via con l’eroismo.
Toni Capuozzo
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VICTUS
Difficile dire ora quali siano state le circostanze che mi abbiano portato in quella realtà alterata, ricordo però di essere stato sveglio e lucido quando vidi il mondo trasformarmisi intorno. Avevo deciso di isolarmi dal caos e dal frastuono della città, che generavano forti allucinazioni e paranoie nella mia malandata testa. Mi trasferii in un piccolo chalet sulle Alpi, distante un paio di chilometri da Bolzano. La casa aveva un solo piano, divisa in una cucina-salotto, un bagno e una stanza singola. Non avevo bisogno d’altro, anche perché tendevo a stare pochissimo chiuso dentro. L’unico conforto all’interno di quelle quattro pareti era il grande camino nel soggiorno. Quando calava la notte, e le temperature invernali mi rendevano impossibile stare all’aperto, mi sedevo a terra, di fronte al camino, a guardare il fuoco crepitare, a scrivere e leggere Baudelaire. Come ho già detto, passavo intere giornate all’aperto, passeggiando per i boschi innevati che ingoiavano lo chalet. L’aria fresca, la neve soffice e i rumori della natura riuscivano a badare al mio povero cervello in frantumi. Ormai erano un paio di settimane che non avevo disturbi di nessun tipo, fino a questa mattina almeno. Era una giornata soleggiata, resa ancora più luminosa dal manto di neve fresca che rifletteva la luce, sentivo versi fiorenti di bestie e uccelli tutti intorno a me. Stavo vagando da circa cinque o sei ore ed il sole ormai aveva raggiunto lo zenit. Mi trovavo nel pieno della foresta ma a un centinaio di metri i grossi pini lasciavano intravedere un grosso spazio aperto. Raggiunta la fine di quegli imponenti alberi si aprì davanti ai miei occhi un piccolo paradiso terrestre. Un minuscolo altopiano, largo 500 metri e lungo circa la sessa misura, ricoperto di erbetta soffice e grosse macchie di stelle alpine. Di tanto in tanto spuntavano dal terreno rocce di diversa grandezza, ricoperte da un muschio di un verde smeraldo. Al centro della piccola radura notai uno strano particolare. Un piccolo laghetto nel quale non si rigettava nessun torrente e dal quale non usciva nessun ruscello. Fosse stata solo questa la stranezza non ci avrei fatto molto caso, (molti laghi vengono generati da sorgenti sotterranee), ma quello che il mio occhio notò immediatamente fu la forma del lago stesso: la roccia corrosa dall’acqua creava un bacino perfettamente circolare, di precisione innaturale. La domanda mi venne spontanea: Chi l’aveva costruito? Perché? Cominciai ad addentrarmi nello slargo naturale, e mi resi conto di una cosa: Faceva un caldo tremendo. Mentre mi dirigevo verso lo specchio d’acqua notai un particolare che fino ad allora era rimasto nascosto dietro la meraviglia e lo stupore della scoperta, li non c’era neve. Questo era dovuto probabilmente all’alta temperatura in quella zona. La causa di quell’afa mi rimane e forse mi rimarrà per sempre indefinita. La mia testa è ormai allo stremo, e anche se riuscissi a mantenere la sanità mentale non mi rimarrebbe molto da vivere. Mi affretto dunque a raccontare il resto della vicenda nella speranza che qualcuno possa leggere queste pagine. Raggiunsi la pozza d’acqua, aveva un diametro di una trentina di metri, il fondale aveva una forma emisferica e nel punto centrale, raggiungeva la profondità massima di una 15 di metri. Una semisfera perfetta. L’acqua era perfettamente limpida, incolore, e riuscivo a vedere chiaramente sotto la superficie anche nella parte più profonda. Quello che vidi al suo interno generarono in me un terrore puro che non sono in grado di descrivere, un terrore che però non mi immobilizzava, al contrario mi spingeva ad indagare, sperando di smentire il tutto dando la colpa ad uno dei miei deliri. Ancorati sul fondo roccioso dello stagno trovavano posto alghe di un azzurro opalescente, con steli rosso cremisi che sembravano emanare luce propria, provai a immergere la mano per afferrarne una ma questa rimbalzò contro lo specchio d’acqua che rimase piatto, immutato. Si vennero a creare soltanto alcune increspature nel punto in cui la mia mano aveva cercato di immergersi. Non sapevo più cosa pensare, in preda ad una curiosità morbosa mi rimisi in piedi e provai a poggiare un piede, sembrava reggere. Riuscii ad arrivare al centro dello stagno camminando su quello strano liquido, ma una volta essermi fermato nel mezzo di colpo sprofondai fino alle caviglie e la prodigiosa acqua assunse lo stato solido in un attimo, bloccandomi lì, come se avessi i piedi nel cemento solido. Preso dal terrore, in quel momento avevo rinunciato a credere che si trattasse di un allucinazione. Provai a liberarmi ma fu tutto inutile, quella maledetta acqua rimase immobile nonostante avessi cercato di liberarmi con tutte le mie forze. Ero allo stremo quando un forte rumore che non sono in grado di descrivere mi invase le orecchie. Un onda sonora proveniente da sotto la superficie che mi risuonò nelle ossa, come delle pulsazioni di un enorme cuore annegato in quello stagno. Guardando in basso vidi le alghe emettere luce al ritmo di quelle palpitazioni. Successivamente gli steli cominciarono a rilasciare uno strano liquido rosso, colorando l’intero stagno di sangue. Da quest’ultimo emersero tre spade da cavaliere di un acciaio splendente, con l’ elsa rivolta al cielo. Io mi trovavo al centro, e dopo essere arrivate all’altezza delle mie spalle cominciarono a ruotarmi lentamente intorno. Sul dorso delle lame erano impressi simboli incomprensibili, ma non appena tentai di decifrarli il metallo comincio a contorcersi e i simboli divennero pian piano lettere latine. Quello che lessi in quel momento, nonostante la mia ragione sia quasi svanita del tutto, riesco ancora a ricordarlo perfettamente: Voi siete sordi – Io sono quiete Voi siete muti – Io sono silenzio Voi siete ciechi – Io sono oscurità. Non appena riuscii a leggere le tre incisioni le spade rivolsero le punte contro di me, all’altezza del collo accelerando la loro rotazione. Cominciarono a stringersi, ad avvicinarsi a me fino a quando non mi tranciarono la testa di netto, almeno così mi sembrò. Ricordo un buio improvviso, e poi il folle risveglio sotto un cielo crepuscolare. Mi tirai su e lo spettacolo raccapricciante che mi si presentò di fronte mi fa rabbrividire al solo pensiero. Avevo i piedi immersi in un liquame nero che emanava un miasma di morte e putrefazione, intorno a me si ergevano colossali spadoni di pietra, alcuni grandi quanto me stesso altri grossi come colline. Le loro else grondavano sangue, che colando sulle lame andava a finire in quella melma pestifera. Di fronte a me vidi un enorme spada alta una cinquantina di metri, abbastanza inclinata da poter essere scalata, ci corsi incontro e mi trascinai in cima cercando di scappare da quel puzzo indescivibile. Arrivato in cima la vista di un orizzonte interminabile di terra nera, invasa da quella orrenda melma frantumò completamente la mia ragione. Sentii le mani bruciarmi all’improvviso e osservandole le vidi ricoperte del sangue che colava dalla spada su cui mi ero arrampicato. Sentii le gambe molli e svenni di colpo. La mia mente si era arresa di fronte a tanto orrore. Poi la normalità. Mi risvegliai nel soggiorno dello chalet affianco al camino, ancora turbato da ciò che avevo visto o sognato, ma cosciente del fatto che fosse stato solo un sogno. Decisi subito di andarmene, la pace che avevo trovato era sparita con quel sogno ed era ora ti trovare un altro rifugio per la mia anima. Raccattai quel poco che mi ero portato, ma quando feci per uscire dal portone d’ingresso un pugnale cadde giù dal cielo trafiggendomi la coscia. É circa un ora che sono chiuso in casa e una pioggia di spade, lance e pugnali continua a martoriare lo chalet. In alcuni punti il soffitto è crollato riversando quella pioggia d’acciaio all’interno. Non importa che io muoia dissanguato o per merito di quella pioggia mortale, sto per levarmi la vita io stesso. Non posso reggere un altro minuto con questo dannato martellare nelle orecchie e questo terrore nel cuore. Lascio questo diario nel camino in pietra sperando rimanga illeso a testimonianza dell’accaduto. V.G.
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23 ott 2018 09:48
“NON SONO UN PICCOLO CASALEGGIO” – CHI E’, CHI NON E’, CHI SI CREDE DI ESSERE PAUL KOELLENSPERGER, L’INFORMATICO EX M5S CHE HA FATTO IL BOTTO IN ALTO ADIGE – “VERRÀ GIÙ TUTTO ANCHE QUI. IO VOGLIO SCALFIRE IL POTERE MONOLITICO DELL' SVP, CHE GOVERNA DA 50 ANNI. MA SENZA IL VOTO TEDESCO NON SI VA DA NESSUNA PARTE"
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Marco Imarisio per il Corriere della Sera
Grande vittoria, piccola festa. Sull' invito, naturalmente bilingue, per un «breve aperitivo» di ringraziamento alla terrazza di «Sportler Alpin», lo storico negozio per attrezzatura di montagna nel centro della città, c' è scritto così. Anche ieri, a scrutinio ormai finito da un pezzo, i suoi collaboratori hanno dovuto convincerlo ad abbondare almeno questa volta con gli aggettivi. È un imprenditore del web, cofondatore e socio di una azienda specializzata in e-commerce. Molto riservato, quasi timido, detesta parlare di sé, si è giocato tutta la campagna elettorale sulla rete, anche se quest' ultima è stata una scelta obbligata perché di soldi per affissioni e pubblicità sui giornali non ce n' erano.
«Se proprio vuole, c' è qualche analogia», concede lui. Il gioco delle affinità con Davide Casaleggio finisce qui. A differenza del delfino di M5S, Paul Köllensperger ha una maggiore propensione al sorriso e nessuna passione per il dogmatismo. Erano nella stessa famiglia, fino allo scorso luglio.
Cinque anni fa, da perfetto sconosciuto, pioniere del web sul quale aveva cominciato a lavorare nel lontano 1995, padre di tre figlie, aveva vinto a sorpresa le primarie online ed era diventato il primo e unico eletto dei Cinque Stelle nel Consiglio provinciale dell' Alto Adige. La solitudine lo aveva portato a qualche riflessione. «Qui M5S è un fenomeno solo italiano. Io voglio scalfire il potere monolitico dell' Svp, che governa da cinquant' anni. Ma senza il voto tedesco non si va da nessuna parte».
Köllensperger chiese una deroga alle regole sulle candidature e al filtro della sacra piattaforma Rousseau. «Diedi la mia disponibilità a una proposta nuova, capace di abbracciare i tre gruppi linguistici della provincia. Dissi ai vertici nazionali che così avrebbero attirato l' attenzione del mondo tedesco, che continua a considerare M5S una vicenda al limite dell' avanspettacolo». Gli venne risposto picche. Si lasciarono bene, per quanto possibile, anche se con l' avvicinarsi del voto il fuoriuscito ricevette accuse di «pizzarottismo», che in casa M5S sono preludio alla chiamata di un esorcista. Il risultato è che il Team Köllensperger ha preso un incredibile 15,2% e la bellezza di sei consiglieri, mentre M5S si è fermato a un eloquente 2,3%.
Ad appena quattro mesi dalla nascita, la nuova lista è diventata la prima formazione capace di vincere spostandosi al centro e non verso destra, pescando in ugual misura da M5S, Svp e dagli estremisti di Freiheitlichen. L' anima dell' eretico altoatesino non è mai stata del tutto a cinque stelle.
«Ho sempre avuto posizioni europeiste e liberali. Le abbiamo declinate su temi concreti, lotta al caro vita, al traffico e alle disfunzioni del sistema sanitario, lasciando ad altri battaglie che interessano più agli storici che alla gente normale, come quella sul doppio passaporto».
Köllensperger, che parla italiano «nel 90% della mia vita», è caduto proprio sui candidati italiani. Sei eletti, tutti di lingua ed etnia tedesca. Alla meranese Francesca Schir è mancato un pugno di voti. Al monolite Svp, per quanto scheggiato, mancano invece tre consiglieri per governare, ma per Statuto autonomo devono essere di etnia italiana.
Tanto vincere per nulla. «Non è così. Dobbiamo convincere gli italiani. A Bolzano e Merano si vota nel 2020. La voglia di cambiamento degli altoatesini resta. E l' Italia dimostra che prima o poi viene giù tutto. Basta avere pazienza». Nell' attesa, il suo telefono suona in continuazione. Lo stanno chiamando giornali e televisioni da Germania e Austria. E lui risponde, in tedesco.
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“…e comunque leggere è più bello di scrivere”: dialogo con Eliana Bouchard
Gli scrittori sono stelle alpine. Squillano. Bisogna solo avventurarsi nei luoghi remoti. Quelli contrari alla norma letteraria. Per scovarli. A me accade così. Qualche anno fa, qualche volta, vado a trovare Giuseppina Bagnato, che è pastora presso la Chiesa Evangelica Valdese di Rimini. Parliamo di Bibbia, lei mi spiega alcune cose, io gli espongo le mie perplessità. Quando, dopo un po’, sa che mi occupo di letteratura, mi passa un libro. Si chiama Louise. Il libro, pubblicato da Bollati Boringhieri, è un romanzo storico particolare, lirico, centrato sulla figura di Louise de Coligny, che perde marito e padre durante la Notte di San Bartolomeo, e diventa la quarta moglie del principe Guglielmo I d’Orange. Questo è il libro d’esordio – di svolta, piuttosto – di Eliana Bouchard, che entra nella cinquina del Campiello, sono passati dieci anni. Quando parlo con la mia amica pastora, la Bouchard ha da poco pubblicato La mia unica amica (2013). Quest’anno, sempre con Bollati Boringhieri, esce La boutique (pp.296, euro 16,50), che è una raffinata storia di ‘integrazione’, senza pappe morali: “Una donna in carriera, una solida casalinga, un musicista, un padre frustrato, un ex operaio, un omosessuale fedifrago e una fioraia pentita si scambiano affetti e gelosie, amori e tradimenti, aspettative e delusioni. Per ciascuno a suo modo la boutique rappresenta un punto fermo da cui ripartire per darsi ancora una chance”. Così dice la ‘quarta’. La Bouchard ha un passo narrativo prezioso: ama la sua storia e l’intrico delle sue vie, non ha bisogno di farci vedere quanto è brava né di accelerare, di dare fuoco alla materia linguistica. Ha pazienza – dote rarissima nella scrittura – e maturità. Conosce i luoghi dove crescono le stelle alpine, e gli sguardi che si accalcano sulle rocce. A me continua a stordire il modo in cui Eliana descrive una morte per suicidio. “Quando Nina era stata informata del fatto che Kurt si era lasciato cadere da una finestra del grattacielo in cui lavora- va, non aveva posto domande, semplicemente si era alzata dalla poltrona dalla quale dirigeva un’importante catena di alberghi, aveva indossato il breve soprabito e si era stretta al manico rigido della borsetta con entrambe le mani. Aveva camminato con piglio spedito per diversi chilometri per raggiungere l’appartamento scelto con Kurt e, arrivata a casa, aveva scritto una lettera in cui rassegnava le dimissioni. Spinta da un bisogno urgente di casualità aveva chiuso l’abitazione priva di divisori, era andata a dormire in un albergo scelto a caso, si era comperata degli abiti comodi eppure eleganti in un negozio qualsiasi, aveva abbandonato nello stanzino di prova quel che indossava all’ingresso e aveva concluso i preliminari del percorso iniziatico in un hammam dove si era asserragliata nella sauna. Infine si era accomodata nella poltrona di un parrucchiere dove aveva ridotto i ricci a una corona di virgole e punti interrogativi”. Non ci sono parole a detergere il dolore – sarebbero tutte retoriche e fasulle – e a squalificarlo come una vicenda domestica. Non c’è compiacimento. C’è un gesto, nudo: stringere la borsetta; ci sono i ricci, esemplari, a forma di punti interrogativo. Ci vuole sapienza per far parlare la vita dalla maceria del dolore, per limitarsi a decretare una immagine, senza didascalie etiche o commenti. Così, ho bloccato Eliana in una trincea di domande.
Partiamo dalle origini. Come è nato in te l’impulso alla scrittura? Da una necessità infantile, da una lettura particolare, da un avvenimento preciso, dal caso?
Avrei sempre desiderato scrivere, ma mi pareva che tutto fosse già stato detto, spesso in modo ineccepibile. C’era sempre qualcosa di urgente da leggere, era appagante. Fino alla mezza età ero convinta di non aver nulla di così importante da dire da voler misurare me stessa con la scrittura. Poi, grazie all’insistenza di Louise che mi aveva eletta a sua interprete, mi è stato chiaro che avevo in mente qualcosa di inedito e prezioso, unicamente mio, singolare. Nessuno, che io sapessi, era stato interpellato da una donna del Cinquecento in maniera così empatica. Nessuno di mia conoscenza. Valeva la pena provare, legarsi alla sedia, cercare il proprio modo di lavorare: scrivere, buttare, rifare, scrivere, buttare e rifare finché tutte le parole andavano al posto giusto. Una fatica irresistibile. È cominciato così. Sono stata chiamata.
Si scrive da soli, ma non si è mai soli, penso. Qual è l’incontro che ti ha formato? E la lettura, quella decisiva, c’è? Qual è?
No, non sono mai stata sola mentre scrivevo e non parlo della compagnia dei personaggi che muovi con le tue dita ma degli interlocutori fantasma cui presento le pagine che spuntano dal video. Si tratta di persone note, non necessariamente autorevoli sul piano della scrittura, ma che inconsciamente scelgo come supervisori dei contenuti, dell’interesse che questi possono esprimere. Sono spesso preoccupata di vivere fuori dal mondo, di non sapere che cosa importa agli altri e mi chiedo e chiedo al lettore immaginario se quel che faccio è buono. Sul piano dell’esempio ho avuto talmente tanti maestri che ho impiegato parecchio a buttarmi. L’incontro che mi ha formata è avvenuto intorno ai cinque anni, accanto al mio letto c’era una porta che vedevo io sola con su scritto Lettura. Se l’aprivi entravi nella realtà, tutto il resto era finzione. La persona della svolta potrebbe essere il prof. Cesare Cases, mio direttore quando lavoravo all’Indice dei libri del mese. Mi ha aperto il cervello, mi ha mostrato che cosa c’è dietro una parola, dietro una frase, mi ha insegnato a portare rispetto, a dissacrare e a portare nuovamente rispetto. A caldo, di letture decisive dico: L’isola del tesoro, Sussi e Biribissi, Il mastino dei Baskerville, Högni, Storie di cronopios e di famas, Orgoglio e pregiudizio, I racconti di Sebastopoli, Cattedrale, La guardia bianca, I balenieri di Quintay, Yossl Rakover si rivolge a Dio, La prima volta di Rachel, I sette giorni di Avraham Bogatir, I fratelli Karamazov. Queste sono letture del passato che rileggo ogni tanto. No, mi correggo, Sussi e Biribissi non l’ho più riletto ma me lo ricordo.
Ne “La boutique” racconti, in un contesto inusuale, una storia di ‘integrazione’ e di amore. Intanto: qual è l’idea fondamentale del libro? Poi: come ti è venuto in testa? Raccontaci la gestazione, la generazione.
L’idea è che l’altro lo devi guardare negli occhi se vuoi conoscerlo. È una precondizione. L’ideale sarebbe anche toccarlo, sfiorarlo; per molti questo è chiedere troppo, sicuramente per me, ma guardare negli occhi, questo posso farlo. Può far star bene ma anche molto male. Dipende dagli occhi. Un giorno, distribuendo degli abiti ai profughi mi è capitato davanti un afghano di nome Ibrahim, diceva una sola parola, sempre la stessa e aveva delle idee precise su quel che gli serviva. Ho impiegato parecchi minuti a capire che voleva un abito tradizionale, giacca, pantaloni, camicia. Quando ha avuto quel che voleva ha accarezzato la stoffa come fosse una persona cara. Mi ha spezzato il cuore. Non riuscivo a togliermelo dalla mente, ne parlavo con tutti, era un’ossessione. Finché Lavinia, la mia maestra di canto, mi ha detto: secondo me questa è una storia che devi scrivere. È andata così. Ho scritto la storia di Ibrahim per sistemarlo, per dargli un contesto in cui vivere, per non abbandonarlo.
Dal sorprendente “Louise” a “La boutique”, mi affascina il passo della tua scrittura. Lento, da miniatore, anomalo. Faccio un esempio, dalla descrizione di un ‘colpo di fulmine’: “Un raggio obliquo del sole puntava dritto su di lei, come una freccia indicatrice, mettendo in risalto l’armonia della piccola figura, e Ibrahim, a due anni dalla morte della moglie, nel vedere la donna aveva avuto un’allucinazione. Gli si era seccata la gola, si era appoggiato al muro per avere un sostegno di fronte al fatto straordinario di ritrovare l’amore perduto sulla soglia di un negozio fiabesco, vestita con un gusto semplice se pure occidentale, con i capelli ricci invece che lisci, ma per il resto si trattava di lei, della reincarnazione di Nur”. Ogni cosa ha il giusto ritmo ‘da camera’, la disposizione adatta, nitida. Come fai? Da dove viene il tuo modo, il tuo ‘stile’? Cosa ti piace leggere?
Secondo me la cosa bella è che “vedo” le situazioni fin nel dettaglio. A quel punto è facile descriverle, sono vive davanti a me. Si muovono. Corro loro dietro. Ma, c’è un ma, cerco di non dire stupidaggini. Nur, ad esempio, è il titolo di un voluminoso reportage di Monica Bulaj sulla luce nascosta dell’Afghanistan. Ho guardato le sue fotografie fino a cascarci dentro e il risultato è la reincarnazione di Nur, la moglie di Ibrahim. A Monica Bulaj credo di aver rubato, oltre alle visioni, qualche parola, così come al professor Gastone Breccia dal suo Le guerre afghane. Lo spirito di Ibrahim, invece, è tutto racchiuso nello splendido Il ritorno di un re di William Dalrymple nella bella traduzione di Svevo D’Onofrio. Ma non ho copiato, ho ruminato. Come vede, dietro una frase si può nascondere un metro lineare di volumi. Mi lasci dire, leggere è ancora più bello di scrivere. E poi mi sono nutrita dei racconti di Vauro, che ho la fortuna di avere per amico, quando tornava dai suoi giri in Panshir a cercare Massoud. È stato lui a svelarmi il significato della parola che Ibrahim ripete meccanicamente nel primo capitolo.
C’è un altro passo del tuo libro che mi ustiona. Eccolo: “Quando Nina era stata informata del fatto che Kurt si era lasciato cadere da una finestra del grattacielo in cui lavorava, non aveva posto domande, semplicemente si era alzata dalla poltrona dalla quale dirigeva un’importante catena di alberghi, aveva indossato il breve soprabito e si era stretta al manico rigido della borsetta con entrambe le mani”. Qui racconti un suicidio. Con una fermezza invidiabile. Senza retorica, senza reflui patetici o gioco empatico. Dimmi. Mi viene da chiederti. Come si fa a dire il dolore? Che cosa significa ‘male’?
Appunto, non si può dire il dolore, non ci sono le parole, io non le ho, e allora tanto vale descriverne la rappresentazione. Ai tempi delle torri gemelle, io che guardo pochissimo la tv, sono stata delle ore a osservare i corpi che cadevano, li accompagnavo uno per uno, decine, centinaia di volte, e poi l’esodo degli impiegati della Lehman Brothers con i loro cartoni in braccio. Che potenza in quei cartoni. A forza di guardare ho fuso le due immagini anche concettualmente fino a spingere Kurt, il marito di Nina, giù dal palazzo, ma nel nome c’è anche lo spasimo di Cobain. Avevo dedicato molte pagine a questa caduta, poi ho buttato via tutto, è rimasto soltanto: “Quando Nina era stata informata del fatto che Kurt si era lasciato cadere da una finestra del grattacielo in cui lavorava non aveva posto domande…”. Nina abbandona tutto, solo stringe il manico rigido della borsetta con entrambe le mani. Che cosa c’è di più doloroso di questo gesto? Tutto il dolore slitta nella rigidità del manico e si fissa in un oggetto. Rispondo alla domanda sul male con una rapida associazione mentale. Con le migliori intenzioni di Bille August. Il male più grande l’ho subito da chi aveva le migliori intenzioni e non riesco a immaginare che cosa sarebbe accaduto se queste fossero state le peggiori.
In che modo la tua visione del mondo traluce nei libri che scrivi? Intendo: etica ed estetica, in te, vanno a braccetto? E, in ogni modo, ami l’epoca in cui vivi?
Faccio rispondere a Ibrahim. “Non gli appartiene più neanche una pietra di quel mucchio di sassi che Allah ha sparso nel suo paese quando si è preso la pena di dare una forma al pianeta. Ora è inutile recriminare. Ibrahim professa a suo modo il culto del bello e non può tornare in un paese ridotto in macerie. Ringrazia Allah per non averlo abbandonato, per essere ancora lì, con lui, nella cavità del cuore dove è rimasto al sicuro per tutto il viaggio e dove albergherà nel tempo a venire”. Se amo l’epoca in cui vivo? Mah. Direi di sì, se fossi vissuta prima non avrei potuto leggere né Carver né Oz, e neppure Mishima e neanche Kader Abdolah, né la Woolf né la Laurence, che perdita.
Perché hai scritto “La boutique”? Con quale obbiettivo, pensando a quale lettore? E ora: cosa scrivi – o cosa vorresti scrivere?
L’obiettivo era davvero di liberarmi di Ibrahim, di dargli una sistemazione, di togliermi di dosso il dispiacere per la sorte che portava stampata nell’iride, poi, come capita scrivendo si va ad affrontare tante questioni irrisolte che premono e vogliono udienza. Il narcisismo, ad esempio, giusto per dire una banalità. Diversamente dalle altre due volte, però, questa è una vera invenzione destinata a tante persone. Ho scritto pensando che avrei voluto farmi capire meglio, rinunciare a qualche effetto speciale indotto dall’opulenza del lessico per appianare le forme e sistemare i contenuti dopo averli stirati e disposti in cassetti con qualche sacchetto di elicriso. Cosa scrivo? Lavoro da anni a un testo illeggibile, contorto, saccente, antipatico, ispido, a tratti noioso e ripetitivo. Più ci lavoro più si attorciglia. L’oggetto? L’inconscio. Cosa vorrei scrivere? Una storia senza aggettivi.
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LA CATTEDRALE VEGETALE CRESCE NELLA NATURA
Trasformare una radura alpina in un luogo naturale mistico e sacro e in un punto d’incontro e contemplazione che ispiri il ricongiungimento tra gli esseri umani e la natura.
Sulle Alpi Orobie Bergamasche è nata una enorme struttura interamente costruita in materiale vegetale vivente, realizzata su un grande piano e composta da alberi di faggio disposti a 5 navate e incrociati tra loro. La foresta piantata secondo lo schema di una cattedrale, è stata costruita secondo l’antica arte dell’intreccio che prevede l’uso di legno flessibile, picchetti, chiodi e corde. Tutti materiali impiegati sono utilizzati con tecniche tradizionali dei tempi passati, nel rispetto del ciclo naturale di nascita, rigoglio e marcescenza delle piante.
La cattedrale cresce con il tempo che passa e si integra con lo spazio circostante modificando continuamente il suo aspetto. Sebbene sia isolata e non accessibile con mezzi pesanti è subito diventata il simbolo del Monte Arera, tra la val Brembana e la val Seriana in provincia di Bergamo. Il progetto si propone di rilanciare e di valorizzare la ricchezza e l’unicità delle specie vegetali alpine che crescono nel Parco e sui crinali delle Orobie Bergamasche e offrire a chi lo desidera, indipendentemente dalla sua fede religiosa, un luogo di pace, silenzio e riflessione.
“Mi piaceva immaginare di pormi in relazione con la vicenda naturale, senza recare offesa, senza cercare di prevaricarne il corso” ha dichiarato Giuliano Mauri il suo ideatore.
Fonte: Cattedrale Vegetale - 13 novembre 2017
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Brigata Taurinense, palpeggiamenti e baci: maresciallo indagato per violenza sessuale Vittime tre soldatesse. L’uomo, 35 anni, è anche accusato di maltrattamenti con l’aggravante razziale, ai danni di un militare di origini marocchine di Massimiliano Nerozzi corriere della sera Più che alla linea delle discese alpine, si dedicava a quella delle allieve, durante le esercitazioni di sci, allungando le mani sui fianchi e palpeggiando il sedere, fino a baci sulle guance (non richiesti): per questo, un maresciallo capo plotone della brigata alpina Taurinense è indagato dalla Procura per violenza sessuale, nei confronti di tre soldatesse. L’uomo, 35 anni, è anche accusato di maltrattamenti con l’aggravante razziale, ai danni di un militare di origini marocchine. Che sarebbe stato più volte pesantemente insultato. Indagati anche due ufficiali Nell’ambito della stessa inchiesta — coordinata dal pubblico ministero Barbara Badellino — sono indagati anche due ufficiali dell’esercito: un capitano, 44 anni, per omessa denuncia; e un quarantasettenne tenente colonnello, per favoreggiamento. Due contestazioni che allungano sulla vicenda la cupa ombra di un tentato insabbiamento del caso, tra rassicurazioni e l’augurio di risolvere tutto in caserma. Perché poi, invece, una seria attività di accertamento dei fatti fu avviato solo quando era già partita l’indagine dei carabinieri. La vicenda inizia nel gennaio del 2017, e si snoderà per circa un anno, in occasione degli allenamenti in vista dei campionati sciistici delle truppe alpine, quando il plotone del maresciallo sale diverse volte in alta quota: da Oulx a Pragelato, qui in Piemonte, da Brusson (Valle d’Aosta) al Passo del Tonale (Lombardia). Si dovrebbe affinare la tecnica sulle piste, in vista delle gare e come patrimonio tecnico per la carriera, ma — secondo la ricostruzione fatta nell’avviso di fine indagini notificato alle parti — il maresciallo ne approfitta per molestare gravemente le tre soldatesse, che all’epoca hanno tra i 25 e i 21 anni. In più occasioni, l’uomo mette le mani sui fianchi delle ragazze, palpeggia i glutei e, in un paio di occasioni, le bacia sulle guance. Per il codice penale, non è altro che violenza sessuale, aggravata dell’abuso di autorità. All’inizio, le giovani stanno zitte, al massimo ne parlano tra loro, anche perché l’atteggiamento di alcuni ufficiali, che finiranno indagati, non dev’essere il massimo. Dentro una brigata, la Taurinense, che tanto lustro ha dato all’esercito, con missioni in tutto il mondo, e che tanto ha investito sull’apertura dell’esercito alle donne. E, va da sé, sul loro rispetto. Morale: il capitano, comandante del reparto, avrebbe tenuto comportamenti tali da configurare il reato di omessa denuncia da parte del pubblico ufficiale, e un tenente colonnello accusato di favoreggiamento personale. Detto brutalmente, l’impressione è che si volesse coprire il maresciallo
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Le statistiche finanziate dal ministero dell’Interno danno in costante aumento la fiducia nei confronti della polizia, e in generale, di tutte le istituzioni pubbliche e private che gestiscono l’ordine pubblico per conto del governo o delle corporation. Secondo l’Eurispes nel 2018 il 71% della popolazione avrebbe una buona opinione del lavoro della polizia, buona opinione che invece non si estende alle istituzioni politiche, in calo netto in diversi sondaggi, che evidenziano come la maggior parte delle persone ritengano immutabile la situazione sociale in cui sono immersi e ne attribuiscano la responsabilità al governo di turno. Solo un italiano su 5 ha fiducia nel governo, sempre secondo i dati più recenti forniti dall’Eurispes, che non trovate sul sito del ministero dell’Interno ma hanno ampia eco sui siti legati a militari e polizia. In altri termini ci sarebbe fiducia nel braccio armato dello Stato ma non nelle istituzioni politiche e, tanto meno in quelle giudiziarie, che ne determinano le regole di ingaggio, l’impiego sui vari territori, il finanziamento, la narrazione. Lo sa bene l’attuale ministro dell’Interno che in ogni occasione possibile indossa la divisa della Polizia di Stato, contando su un processo identificativo che si innesti su un immaginario consolidato.
Facciamo un passo indietro Nel dicembre del 2013 per tre giorni Torino venne attraversata da blocchi, cortei spontanei e serrate dei negozianti: volantini tricolori inneggiavano ad una presa del potere dei militari come passaggio ad un governo civile che ne interpretasse le istanze. Gli applausi ai poliziotti, baciati e abbracciati durante cortei selvaggi e blocchi stradali erano il segno di una volontà di rottura “rivoluzionaria”, in cui i vari corpi armati dello Stato si mettessero a disposizione dei cittadini insorti. Durò poco, la repressione fu minima, la tolleranza notevole. Il blocco sociale che a Torino si rappresentò con forza non ebbe equivalenti nel resto della penisola, dove la “rivoluzione” forcona venne cavalcata solo dall’estrema destra classica, senza assumere il carattere vagamente insurrezionale della tre giorni subalpina. In Barriera di Milano, il quartiere di Torino dove sono nata e dove ho trascorso buona parte della mia vita, il cuore della rivolta erano i lavoratori autonomi dei mercati, le partite IVA, i tassisti, i giovani italiani disoccupati, i piccoli negozianti schiacciati dalla grande distribuzione. Nei giorni che precedettero la breve avventura Forcona nei bar di Barriera si respirava un’aria strana, a metà tra l’esaltazione e il timore, in bilico tra la voglia di fare il “salto” e l’ansia per i propri affari. Nessuno aveva paura della polizia, delle possibili denunce: erano convinti di essere nel giusto e che i giusti non potessero che stare dalla loro parte. L’illegalità diffusa cui si dedicarono nei tre giorni successivi era giustificata dal diritto/dovere all’insurrezione. Segno che la legittimità delle istituzioni politiche è sempre, anche in questo caso, soggetta al consenso popolare. Le ragioni sociali di quell’anomalo dicembre vennero evidenziate dalla maggior parte di chi studiò o commentò la vicenda, ma c’era una radice politica che i più preferirono ignorare. Sei mesi prima il movimento 5Stelle aveva sfondato le porte del parlamento con un’armata Brancaleone, nella quale si identificavano tanti di coloro che a dicembre volevano fare la “rivoluzione”. Erano quelli che promettevano di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno”. Uno dei motivi guida dei Forconi era la consapevolezza di aver votato per cambiare mentre tutto restava come prima. Tutto finì in nulla e tutti tornarono a casa con la coda tra le gambe. La rivoluzione non è un pranzo di gala e non si fa in tre giorni.
Il nemico interno Più di cinque anni dopo quell’aggregato sociale ha trovato rappresentanza nell’ibrido giallo-verde al governo. La militarizzazione sempre più schiacciante dello spazio sociale ne è la caratteristica distintiva. Se la polizia è l’istituzione che attira i maggiori consensi, metterla in campo è un buono spot pubblicitario. Gli spot funzionano finché la merce vera è l’immaginario che generano: quando le questioni sociali restano sullo sfondo, il meccanismo rischia di rompersi. Se nel mirino finiscono gli immigrati, i consensi verso il governo aumentano. L’indignazione per i porti chiusi, i morti nel Mediterraneo e sulle rotte alpine è forte tra le classi medie colte, ma non tocca le periferie, dove gli italiani impoveriti vivono a fianco degli immigrati poveri e vorrebbero vederli sparire, nell’illusione che eliminato il “nemico interno”, tornerà l’età dell’oro con welfare, pensioni, sanità, scuole, trasporti di qualità. Il governo, consapevole della necessità di offrire una risposta alle tensioni sociali che attraversano il paese, ha fatto leva su due proposte che hanno garantito il successo elettorale del Movimento 5Stelle e della Lega alle scorse elezioni politiche: quota 100 e reddito di cittadinanza. Entrambi i provvedimenti rischiano di portare ad un flop, perché il trucco c’è e si vede. La legge Fornero non è stata abolita. Chi rientra nella quota 100 prenderà una pensione molto più bassa di chi ci andrà a 67 anni, perché il sistema di calcolo della pensione resterà quello fissato dalla legge del governo targato PD. Il reddito di cittadinanza è un’elemosina, elargita a chi la “merita”, accettando di lavorare gratis, di fare qualsiasi lavoro ovunque. Un meccanismo che ha lo scopo di disciplinare gruppi sociali pericolosi. Non si riconosce un diritto ma si definisce una condizione di inferiorità morale da cui i soggetti beneficati devono dimostrare di voler uscire. L’emblema di questa misura è la tessera a punti che i titolari del reddito devono usare dove e come decide il governo. Chi ha la sfortuna di essere nato altrove non avrà nemmeno l’elemosina destinata agli altri. Se, come prevedibile, le misure sociali del governo non daranno risposte al blocco sociale che lo sostiene, la parola va alla retorica del nemico interno ed alla polizia. Una china scivolosa anche per il ministro dell’Interno, che all’indomani dello sgombero dell’Asilo di Torino, dopo 24 anni di occupazione, ha dichiarato che “dopo aver bloccato gli sbarchi dei migranti, è pronto all’affondo decisivo contro i “delinquenti” dei centri sociali”. Vecchi “nemici” evocati per mantenere il focus sull’ordine pubblico, sulla militarizzazione delle città, sulla stretta disciplinare. Le periferie delle nostre città sono sempre più polveriere sociali pronte ad esplodere. In alcuni casi sono i fascisti a dare le carte di un gioco truccato, animando le proteste contro rom, profughi, immigrati, altrove la partita è più complessa e difficile da vincere.
Torniamo a Torino. Lo sgombero dell’Asilo, gli arresti per sovversione, sono stati gestiti occupando militarmente un settore importante della periferia Nord e moltiplicando la pressione disciplinare sulla città. Chi conosce e vive questa zona assapora da anni il sapore agre del controllo militare cui è sottoposto ogni giorno. Una quotidianità scandita da posti di blocco, retate di stranieri senza documenti, senzatetto, poveri che vivono lavando vetri o smerciando qualcosa. Tanti di quelli che vivono tra Barriera di Milano e Aurora conoscono gli anarchici, che da decenni sono radicati nel quartiere. Diversi gruppi anarchici hanno o hanno avuto sede qui. Tante lotte, iniziative culturali, di solidarietà e di mutuo appoggio si sono sviluppate tra la Stura e la Dora. Negli ultimi tempi lo scontro sociale è più duro. Nei lunghi anni di governo del centro sinistra Torino si è trasformata radicalmente. La metropoli della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi di carabinieri, militari e poliziotti. La giunta a 5Stelle si è velocemente inserita nel solco dei governi precedenti. L’area di Porta Palazzo è attraversata da un processo di gentrificazione, che ha reso necessaria la normalizzazione violenta del quartiere. Un processo che nel quadrilatero romano venne gestito con infinita lentezza, favorendone l’assorbimento in maniera quasi indolore, ha subito una secca accelerazione. Segno dei tempi. Siamo in una periferia tradizionalmente eccentrica, in tutta la densità semantica del termine. Quartiere di poveri e di immigrati vicinissimo al salotto buono della città, luogo dove le pratiche e gli immaginari utopici si sono intrecciati lungo l’arco dell’ultimo secolo. Qui il questore Messina, che pure si era guadagnato simpatie con le retate dei pusher, degli immigrati, lo sgombero lento dell’ex MOI e della baraccopoli di via Germagnano, commette un errore. Trasforma un’area della città in un fortino assediato: intere strade chiuse, check point per entrare nella strada dove si vive, controlli a tappeto di chiunque passi. Questa volta non ci sono applausi. Anzi. Si indignano i commercianti che non riescono più a lavorare, si preoccupano i settori più progressisti dell’Ateneo Torinese, che arrivano ad indire un’assemblea pubblica sulla città sotto assedio. Un vero boomerang. Il questore Messina, nonostante riesca a gestire con una certa abilità i cortei anarchici che attraversano la città il 9 febbraio e il 30 marzo, perde il posto. Viene comunque sostituito da De Matteis, che pare altrettanto malintenzionato, Il governo della città e quello nazionale sono consapevoli che la povertà crescente, la precarietà della vita e del lavoro, la pressione disciplinare che permea di se ogni ambito sociale potrebbero innescare una insorgenza sociale diffusa. A Torino come in ogni dove d’Italia.
Rivolte urbane e militarizzazione del territorio Negli ultimi 30 anni periodiche rivolte urbane hanno scosso città e metropoli del primo mondo. Spesso la scintilla è stata la stessa: la brutalità della polizia nei confronti di persone razzializzate, povere, escluse, ghettizzate. Le statistiche che sostengono che il 71% della popolazione italiana ha fiducia più o meno alta nella polizia ci dicono anche che il 29% non ne ha affatto. Si tratta in primis dei settori, che per collocazione sociale o posizionamento politico sono costitutivamente nel mirino delle forze dell’ordine. Le istituzioni statali avocano a se il monopolio legittimo della violenza e ne delegano alcune funzioni solo ai privati non ostili agli interessi del blocco di potere dominante. L’utilizzo della violenza è quindi una prerogativa dello Stato, che può dispiegarsi a pieno solo contro chi viene considerato nemico da distruggere. La guerra, interna o esterna, è l’ambito dove l’esercizio della forza attraverso pratiche altrimenti criminali è consentito e plaudito. Quando tattiche belliche vengono attuate in ambiti che per i più non sono di guerra, il consenso si riduce. La guerra interna ha le sue regole e solo in contesti in cui la polarizzazione sociale è territorialmente marcata può dispiegarsi liberamente, altrimenti si creano aporie in cui possono aprirsi spazi inediti per teorie e pratiche più radicali. Nel quartiere Aurora a Torino, studenti, giovani creativi e altre soggettività che, per collocazione sociale stanno contribuendo alla gentrificazione, venendoci ad abitare e facendo lievitare gli affitti, hanno considerato intollerabile la militarizzazione del quartiere. La gestione dello sgombero di un posto occupato da anarchici, la contestuale minaccia di cancellazione della zona normalizzata ma povera del mercato degli stracci del Balon, ha innescato una reazione che è andata oltre i gruppi politici e sociali effettivamente coinvolti. L’occupazione militare del quartiere, che mirava a rendere tangibile la pretesa criminalità degli occupanti dell’Asilo, è riuscita, per una volta, a mostrare la criminalità del potere. E tutto questo negli stessi luoghi dove la violenza poliziesca si è dispiegata selettivamente per anni contro poveri e stranieri, e l’iniziativa politica era agita solo dai due gruppi anarchici della zona, l’Asilo e la Federazione Anarchica. La militarizzazione e i controlli indiscriminati hanno fatto saltare gli equilibri. La partita nelle città italiane, dove sono poche le aree ghetto, fisicamente e socialmente separate, è più complessa che altrove.
Il governo ne è consapevole e punta sul coinvolgimento diretto dei cittadini nella gestione dell’ordine pubblico. La Lega ha pronto un progetto di legge sulla “sicurezza partecipata”, che mira a costruire relazioni di complicità territoriale tra cittadini e forze dell’ordine. Oltre agli occhi e alle orecchie elettroniche, ai controlli biometrici, ai gps sulle auto, anche lo spionaggio di quartiere. L’auspicio è che, tramite pratiche partecipative di segno opposto, si riescano ad inceppare anche questi, più sottilmente perversi, meccanismi di controllo. Ne riparleremo.
Maria Matteo (Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)
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