#Al caffè degli esistenzialisti
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Al caffè degli esistenzialisti di Sarah Bakewell: Un viaggio tra filosofia, libertà e Parigi. Recensione di Alessandria today
Esplorare il mondo dell’esistenzialismo in compagnia di Sartre, de Beauvoir, Camus e altri grandi pensatori
Esplorare il mondo dell’esistenzialismo in compagnia di Sartre, de Beauvoir, Camus e altri grandi pensatori Recensione Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail di Sarah Bakewell è un’opera che invita il lettore a esplorare il mondo dell’esistenzialismo, una delle correnti filosofiche più influenti del XX secolo, attraverso una prospettiva intima e coinvolgente. Bakewell, con…
#Al caffè degli esistenzialisti#Albert Camus#Alessandria today#angoscia e libertà#angoscia esistenziale#caffè filosofici#cocktail e filosofia#concetti di esistenza#corrente esistenzialista#divulgazione filosofica#esistenzialismo e libertà#esistenzialismo oggi#Fazi Editore#filosofi a Parigi#filosofia accessibile#Filosofia del XX secolo#filosofia e vita quotidiana#filosofia esistenzialista#filosofia moderna#filosofia per non filosofi#Heidegger filosofia#introspezione e filosofia#italianewsmedia.com#Jean-Paul Sartre#letteratura e filosofia#letteratura filosofica#libertà e filosofia#libertà e scelta#libri sulla libertà#libro su esistenzialismo
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Ieri ho trovato un libro del figlio illegittimo di Cristoforo colombo sulla ricerca della biblioteca universale. Devo comprare anche questo (+ città sola + al caffè degli esistenzialisti).
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La Nausea di Jean-Paul Sartre - recensione
La Nausea di Jean-Paul Sartre GENERE: filosofia, esitenzialismo
Ho affrontato questo testo, abbastanza ostico se volete, più per curiosità che per altro. Non avevo mai letto nulla di Sartre ma di questi tempi mi sono accorto di essere amante degli scrittori esistenzialisti (Kierkegaard, Dostoevskij e Kafka); leggere Sartre è stato un passaggio inevitabile ma non piacevole come mi sarei aspettato. Questo è un testo duro, un'analisi spietata della propria esistenza senza senso, una riduzione del tutto ai minimi termini. Non si può dire che La nausea sia un romanzo nel senso comune del termine, è piuttosto un diario "filosofico" che il protagonista tiene e su cui annota le proprie impressioni e pensieri sulla sua esistenza e sulla pochezza che lo circonda.
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Non avevo mai letto nulla di Sartre, era ora di provvedere! #instabook #bookstagram #instalibri #sartre #lanausea #loscaffaletraboccante
Un post condiviso da Lo scaffale traboccante (@loscaffaletraboccante) in data: 28 Ago 2017 alle ore 1:43 PDT
Nell'introduzione della prima edizione del libro, pubblicata nel 1938, è lo stesso autore a darci un'idea di cosa ci aspetta:
"Dopo aver viaggiato a lungo, Roquentin si è stabilito a Bouville, tra feroci persone dabbene. Abita vicino alla stazione, in un albergo per commessi viaggiatori e scrive una tesi di storia su un avventuriero del XVIII secolo, il signor de Rollebon. Il lavoro lo porta spesso alla Biblioteca municipale dove il suo amico Autodidatta, un umanista, s'istruisce leggendo i libri in ordine rigorosamente alfabetico. La sera Roquentin va a sedersi a un tavolino del "Ritrovo dei Ferrovieri" ad ascoltare un disco - sempre lo stesso: Some of These Days. E, a volte, sale in camera al primo piano con la padrona del bistrot. Da quattro anni Anny, la donna amata, è scomparsa. Pretendeva sempre di aver dei "momenti perfetti" e si sfiniva immancabilmente in sforzi minuziosi e vani per rimettere insieme il mondo intorno a lei. Si sono lasciati; attualmente Roquentin perde goccia a goccia il proprio passato, sprofondando sempre più in uno strano e oscuro presente. La sua stessa vita non ha più senso: credeva di avere avuto delle belle avventure, ma non ci sono più avventure, ha solo delle "storie". Si attacca al signor de Rollebon: il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente. Allora comincia la sua vera avventura, una metamorfosi insinuante e dolcemente orribile di ogni sensazione; è la Nausea che vi prende a tradimento e vi fa galleggiare in una tiepida palude temporale: è stato Roquentin a cambiare? O è stato il mondo? Mura, giardini e caffè vengono bruscamente assaliti da nausea; altre volte Roquentin si sveglia in una giornata malefica: qualcosa è in putrefazione nell'aria, nella luce, nei gesti della gente. Il signor de Rollebon torna a morire; un morto non può mai giustificare un vivente. Roquentin si trascina a casaccio per le strade, corpulento e ingiustificabile. E poi, il primo giorno di primavera, capisce il senso della sua avventura: la Nausea è l'Esistenza che si svela - e non è bella a vedersi, l'Esistenza. Roquentin conserva ancora un briciolo di speranza: Anny gli ha scritto, la rivedrà. Ma Anny è diventata una cicciona greve e disperata; ha rinunciato ai suoi momenti perfetti, come Roquentin alle Avventure; anche lei, a suo modo, ha scoperto l'Esistenza: non hanno più nulla da dirsi. Roquentin torna alla solitudine, sprofondando nell'enorme Natura accasciata sulla città e di cui prevede i prossimi cataclismi. Che fare? Chiamare in aiuto altri uomini? Ma gli altri uomini sono gente dabbene: si scambiano gran scappellate e ignorano d'esistere. Lui deve abbandonare un'ultima volta Some of these Days e, mentre il disco gira, intravede una possibilità, un'esile possibilità di accettarsi"
Sartre è uno dei maggiori esponenti dell'esistenzialismo e a suo modo di vedere la nausea si traduce in una dimensione parallela, metafisica, nella quale la condizione umana, quello che lo stesso autore definisce come "orrore di esistere", è vissuta come fonte di angoscia e di solitudine assoluta. "Siamo soli!" E' questo che Sartre sembra gridare al lettore ad ogni pagina e per ogni attimo di vita del protagonista; ed è un grido pieno di disperazione. Questo abbandono a se stessi obbliga l'individuo a decidere in autonomia, ma è proprio questo che concretizza l'esistenzialismo nella libertà assoluta del singolo sottolineando l'importanza delle proprie scelte.
Posso solo dire che questo libro mi ha lasciato un gran senso di solitudine: nonostante l'apertura sul finale, quello che ho letto sono più di 200 pagine di pessimismo, l'autore è pessimista senza voler fare nulla per non esserlo. E' infelice ma ci sguazza cercando ostinatamente la possibilità di ridursi a zero, inattivo, inoperoso. Se solo provasse a fare qualcosa... trovare un lavoro, avere una famiglia penso che tutto cambierebbe radicalmente...
Curiosità: In origine l'opera prendeva il titolo di Melancholia, in onore dell'omonima incisione del pittore Albrecht Dürer. Fu l'editore Gallimard a chiedere all'autore di cambiare il titolo, non ritenendolo sufficientemente "affabile" per il pubblico, in La Nausea...
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Per leggere Curzio Malaparte, lo scrittore eccentrico a tutto – anche a se stesso – dovete andare negli Stati Uniti
Che scoperta. Curzio Malaparte è uno dei grandi scrittori del Novecento – io non conto nulla, ma lo preferisco alle lacerate pagine di Pavese, al trapezio didattico di Calvino, alla pece pasoliniana. Spalanco i libri di Malaparte, putrescenti, eccessivi, eccezionali, anomali, imperiosi, e vedo qualcosa che si muove, come una cesta piena di serpi. Le parole di Malaparte si muovono. E lui mi pare puro Caravaggio, uno che della Madonna vede i piedi sporchi, sagomati di fango, che del sacro assembla l’osceno.
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A Lima i condor avevano messo nido sopra le case spelacchiate. Gli uccelli ti guardano male, là, perché il sentore di morte è ovunque se non hai i soldi per pagarti le guardie del corpo, e tutto è cibo e divoratori di cibo, come dice il santo Mani. Scortato – appunto – andai in Università – statale, i diamantati campus all’americana mi erano preclusi. Parlai di tre libri, diversamente emblematici, sulla Seconda guerra in Italia. Il partigiano Johnny, Racconto d’autunno, Kaputt. La traduttrice era italiana, a insegnare lì, al capo opposto del nostro mondo, dopo un concorso vinto attraverso il Ministero degli Esteri. Immaginai storie di solitudine, superbia, lussuria – che non mi confermò.
*
L’ultimo capitolo di Kaputt s’intitola “Il sangue”. In Malaparte c’è qualcosa di biblico, ovunque. Egli pare il cronista che racconta l’eccidio Gerico, è l’oplita che varca l’ossario israelitico insieme ad Alessandro il Grande, è il satrapo che assiste allo sterminio di Sodoma, l’architetto che fa crollare Babele, lo scriba che a Babilonia tira a sorte condannati o redenti. “Quella parola suonava nuovamente come una parola divina”, scrive Malaparte a proposito della parola sangue. “Ero stanco, deluso, avvilito… Tutti fuggivano la disperazione, la miserabile e meravigliosa disperazione della guerra perduta, tutti correvano incontro alla speranza della fame finita, della paura finita, della guerra finita, incontro alla miserabile e meravigliosa speranza della guerra perduta. Tutti fuggivano l’Italia, andavano incontro all’Italia”.
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Secondo l’etimologia dettata da Malaparte, kaputt “proviene dall’ebraico kopparoth, che vuol dire vittima”. La Bibbia è “voce del sangue” e gli animali scelti come vittime – vitto al dio – sono dissanguati, eppure “non spargete il sangue” (Gn 37, 22): la pasta rubina è raccolta in prodigiosi catini. Nella guerra tutto è vittima; la scoperta di Malaparte, nelle viscere di Napoli, è la “sofferenza senza disperazione, una sofferenza illuminata da una grande, bellissima speranza, di fronte alla quale la mia povera e piccola disperazione non era che un sentimento gretto di cui avevo onta e pudore”. Già, ma il sangue di quelle vittime sul sagrato della guerra quale dio ha da sfamare? Kaputt termina così, “Eh, che volete, signore: hanno vinto le mosche!”. Mosche. Belzebù. Ronzio sinistro. Il Signore delle Mosche.
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Certo. È esasperante, patetico, esagerato, prodigo al grottesco, Malaparte. Si dissangua scrivendo, s’intrufola nella faida della Storia. È insopportabile – e necessario. Credo che in altri paesi ne farebbero un santo, l’agiografia della dissoluzione, sarebbe capitale romanzesco. Eppure. Che paradosso. Il suo Diario di uno straniero a Parigi, pubblicato nel 1966 da Vallecchi, postumo, per la cura di Enrico Falqui, è introvabile. Tocca leggerlo nella traduzione americana – Paris Journal, per mano di Stephen Twilley; in Francia La table ronde ha pubblicato il Journal d’un étranger à Paris nel 2018, che esiste pure in una versione olandese del 2014… – introdotta con devozione da Edmund White, scrittore di lusso (di suo, in Italia, leggete almeno La doppia vita di Rimbaud, Ritratto di Marcel Proust e Ladro di stile. Le diverse vite di Jean Genet).
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In un articolo di Gary Indiana, pubblicato su “Book Forum” nel 2006, intorno alla traduzione americana de La pelle. “Curzio Malaparte è stato il Proust del macello che ha sconvolto l’Europa”.
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Lo dicono Eccentric Italian, laggiù, Malaparte. Eccentrico rispetto a un centro centripeto al convenzionale. Concentrato in se stesso, piuttosto, messo all’angolo, Malaparte esercita la scrittura come martirio. È nudo, davanti a te, attende il pugnale, ne hai il coraggio? Al posto del sangue, dalle sue vene ventose, escono verbi, epigrammi, condanne. Si scrive ciò da cui si fugge, in memoria dell’inevitabile. (d.b.)
***
Curzio Malaparte, prima di tutto, è un costruttore di frasi – frasi sensuali, che restano impresse a lungo nell’immaginazione. Nonostante si ritenesse un pensatore – era piuttosto geloso della fama di Gide, Sartre e Camus – le sue dichiarazioni sui francesi (“La Francia è l’ultima patria dell’intelligenza”), sul comunismo, sull’esistenza e sulle donne, lo rendono spesso confuso, ripetitivo, banale, sregolato, mentre la scrittura di un aneddoto bizzarro, un ricordo, una sensazione sono sorretti da frasi pressoché infallibili.
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In realtà, fu un mitomane, un mentitore compulsivo che adorna la verità di aggettivi, non sempre per guadagno ma per una sfrenata necessità. Chiunque abbia letto i suoi capolavori sulla Seconda guerra, Kaputt o La pelle, non può dimenticare la scena, memorabile quanto improbabile, dei napoletani affamati che servono agli americani una bambina bollita in maionese, con coda di pesce, sostenendo che si tratti una sirena; o la scena dei cavalli che precipitano in uno stagno, nel nord Europa, e si ghiacciano, dando ai visitatori l’idea di una giostra bloccata, agghiacciante… C’è un brano del libro in cui un ufficiale fascista apre una pentola ricca di ostriche sgusciate dichiarando che si tratta di 40 chili di occhi umani. Non dico che questi eventi non siano veri, ma è certo che Malaparte ha una particolare attenzione verso il grottesco. Vere o meno, queste scene rendono alla perfezione gli orrori della guerra.
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Dopo la guerra, Malaparte fu a Parigi: si attendeva un’accoglienza più calda di quella che ha ricevuto. Ha parlato e scritto in francese. Era socievole, ha coltivato molti amici parigini, era un sagace donnaiolo. Come risulta dal suo diario, in diversi lo evitavano, giudicandolo un fascista. A Parigi si vantava del suo esilio a Lipari, per cinque anni, per aver criticato Hitler; era stato agli arresti domiciliari nella lussuosa villa di Capri, diceva, per il suo assiduo antifascismo. In effetti, negli ultimi giorni del regime fu incarcerato per sottrazione indebita di fondi pubblici ad uso privato. Era stato membro del partito fascista e sostenitore di Mussolini. Fu messo agli arresti per aver attaccato verbalmente Italo Balbo, pilota ed eroe. Malaparte aveva scritto – per lo meno, firmato – un ritratto agiografico di Balbo. Il pilota non gradì e lo scrittore cominciò a calunniarlo. Malaparte era un uomo complesso, inquieto: alla fine della sua vita era un fervente cattolico e un membro del Partito Comunista.
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Di certo, fu un eccentrico. L’amore più grande della sua vita era il cane Febo. Quando scomparve, Malaparte lo cercò disperatamente per tutta Torino. Lo trovò da un vivisezionista. Malaparte nota che nessuno dei cani costretti alla tortura abbaiava: il medico gli spiega che il primo gesto compiuto in laboratorio è segare le corde vocali alle bestie. Malaparte, stremato dal dolore, convince lo scienziato a fare una iniezione letale a Febo, liberandolo dalle sofferenze. Di certo, si sentiva più vicino agli animali – innocenti, privi di innata malvagità – che agli uomini, Malaparte.
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È pieno di opinioni, su tutto, senza essere sinceramente interessato a nulla. Parla di Cartesio, ma forse non lo ha mai studiato, lo usa per dimostrare le ragioni dell’istinto sulla ragionevolezza. Lo esalta la distinzione tra Racine e Corneille; disprezza le donne tanto quanto ne ha bisogno, di una dice che “era piena di ovaie fino al collo”.
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In effetti, restò fuori luogo, un espatriato. In Francia non apparteneva agli esistenzialisti né ai comunisti, le due cabbale fondamentali; in Italia era stato eclissato da Alberto Moravia. In America fu denunciato da una rimarchevole donna che lo accusò di essere un rapace mentitore: “La verità in lui è una minuscola molecola sepolta da un gigantesco bozzolo di menzogne”.
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Per essere un anti-intellettuale Malaparte fu uomo dall’intelligenza sgargiante. Non fu un provinciale: conosceva l’Europa dell’Est, la Russia, la Finlandia, la Spagna, la Francia; poteva affezionarsi a chiunque, chiunque avrebbe potuto chiamarlo Mister Camaleonte. Come ha scritto il suo brillante biografo, Maurizio Serra, “Il camaleonte sa fare l’aristocratico con gli aristocratici, il diplomatico con i diplomatici, il soldato con i soldati”.
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Nel libro, prende il sopravvento lo sconcerto. Fa dei francesi i responsabili di Dachau. Quando continuano a chiedergli perché non abbia abbandonato le forze di Mussolini, esagera la domanda fino al grossolano. “Preferisco gli autentici collaboratori ai resistenti fasulli”. Racconta ai francesi quando fu convocato a Palazzo Venezia, da Mussolini, aveva vent’anni. Attende per ore, attraversa la stanza, silenziosamente, si approssima alla scrivania di Mussolini, nessuno lo riconosce. Alla fine Mussolini lo guarda, è stupito dalla sua giovinezza. Conosce tutto di lui. “La prego di non occuparsi più di me. Non amo i pettegolezzi e gli editoriali maliziosi”. Quando Malaparte gli chiede cosa lo abbia offeso, Mussolini risponde, “Due giorni fa al Caffè Aragno ha detto che indosso brutte cravatte”. Malaparte si scusa, viene allontanato. Poco prima di uscire, si volge verso Mussolini, gli dice: “Anche oggi, in effetti, indossa una brutta cravatta”. Mussolini ride, conquistato dalla sfacciataggine del giovane.
*
Oggi ridiamo ancora delle sue osservazioni oltraggiose, discutiamo della sua singolarità, ed è indiscutibile la bellezza della sua prosa quanto il fascino dell’uomo.
Edmund White
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Al caffè degli esistenzialisti
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Al caffè degli esistenzialisti
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Al caffè degli esistenzialisti di Sarah Bakewell: un romanzo filosofico tra Heidegger e Sartre
Al caffè degli esistenzialisti di Sarah Bakewell: un romanzo filosofico tra Heidegger e Sartre
Tra gli avventori del caffè parigino Bec-de-Graz in Rue de Montparnasse figurano tali Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Raymond Aron. Lì tutto nacque e nacque da un cocktail all’albicocca.
Al caffè degli esistenzialisti
Il romanzo filosofico di Sarah Bakewell Al caffè degli esistenzialisti (Fazi Editore, collana Campo dei Fiori, 2016, pp. 470, trad. Michele Zurlo) reca come sottotitolo Liber…
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#fazi editore#heidegger#tiziana topa#sarah bakewell#al caffe degli esistenzialisti#sarah bakewell recensione
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Al caffè degli esistenzialisti, Sarah Bakewell
Tormentato da questioni religiose e sentendosi separato dal resto dell'umanità, Kierkegaard condusse per molto tempo una vita solitaria. Si trovava in una posizione ideale per comprendere il disagio e la difficoltà dell'esistenza umana. «L'astrazione è disinteressata, mentre l'esistere è per il soggetto esistente il suo sommo interesse», scrisse. Per Nietzsche, tutta la filosofia poteva essere ridefinita come una sorta di psicologia, o di storia. Riteneva che ogni grande filosofo di fatto avesse scritto una «sorta di diario inconscio e involontario», piuttosto che aver condotto una ricerca impersonale della conoscenza. Nietzsche e Kierkegaard furono i precursori dell'esistenzialismo moderno; furono i pionieri di un sentire incline alla ribellione e all'insoddisfazione, crearono una nuova definizione dell'esistenza intesa come scelta, azione, e auto-affermazione, e studiarono l'angoscia e la difficoltà di vivere. Portarono avanti la propria opera convinti che la filosofia non fosse solo una professione. Questa era la vita stessa: la vita di un individuo.
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Al caffè degli esistenzialisti: la nostra recensione
Al caffè degli esistenzialisti: la nostra recensione
Al caffè degli esistenzialisti: uscito a fine Novembre nelle librerie italiane, il libro di Sarah Bakewell rende le grandi disquisizioni filosofiche del Novecento alla portata di tutti, dando concretezza con i fatti a concetti troppo spesso intesi solo in senso astratto.
Edito da Fazi Editore all’interno della collana Campo dei Fiori (che non a caso si propone il fine diprivilegiare la libertà…
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“Di ciò che pensa uno scrittore alla gente non importa un fico secco”. Francesco Consiglio dialoga con Massimiliano Nuzzolo
Gli scrittori sono scomparsi dalla televisione. Non li intervista più nessuno. Le uniche eccezioni sono Roberto Saviano, che non va mai di persona e preferisce mandare il gemello predicatore che non parla mai di scrittura, e Mauro Corona, solo perché si presta a interpretare il personaggio del montanaro burbero che somiglia a Dinamite Bla, il personaggio disneyano che odia la città e vive in isolamento da tutto e tutti. E infatti Corona ogni tanto sbotta, perché quel ruolo gli va stretto. “Ho dovuto creare un personaggio, e fare il pagliaccio, per poter vendere libri e far laureare i miei quattro figli e comprar loro una casa”. Corona a parte, i nuovi maître à penser sono i cantanti. Dai pulpiti televisivi, con frivola leggerezza si preferisce chiedere a Jovanotti cosa pensa del debito del terzo mondo, e agli italiani angosciati dagli sviluppi di una pandemia si offre il pensiero rock di Vasco Rossi, il quale, sia detto forte, non è mica uno scemotto. La sua capacità di sintonizzarsi con il sentimento popolare è invidiabile, ma è anche vero che una volta in tivù ci andava Pasolini.
Dove sono finiti gli scrittori? Sono tutti sul web: scrittori laureati, scrittori così così, aspiranti scrittori, scribacchini mestieranti. Ma ciò che mi fa rabbia, è la valanga buzzurra, quella dei recensori. Vi siete accorti di quante recensioni esistono sul web? Io faccio una recensione a te, tu fai una recensione a me. Se uno scrittore mi è antipatico, chiamo il mio amico fake e gli faccio fare una stroncatura anonima su Amazon. Signori, il catalogo è questo: recensioni sincere (poche), recensioni prezzolate, recensioni striscianti, vendicative, isteriche.
Qualcuno dei miei quattro lettori dirà che questo lungo preambolo assomiglia a uno sfogo? Sì, in parte lo è. Ma serve soprattutto a dire che, avendo letto un bel libro, L’ultimo disco dei Cure, volevo recensirlo, ma poi ho pensato che se mi fossi trovato insieme all’autore Massimiliano Nuzzolo, al tavolo di un bar, non l’avrei mica recensito. Avrei scambiato quattro chiacchiere sul nostro maledetto scrivere.
E questo ho fatto.
Robert Bresson ha detto che l’ispirazione è quel momento in cui “non sai quel che fai e quel che fai è il meglio”. C’è un aneddoto su John Lennon che riassume il senso dell’illuminazione che arriva come una trance involontaria. Si racconta che, dopo avere composto una canzone, fu preso da un attimo di stupore e si chiese, sinceramente: “Ma l’ho scritta davvero io?”. Esistono poi scrittori con una mentalità più pragmatica, empirici piuttosto che istintivi, alla Stephen King, che si alzano tutti i giorni alla stessa ora, siedono alla scrivania e cominciano a scrivere sapendo esattamente a che ora finiranno.
Dove sono finiti gli scrittori? Per ironizzare sulle tue parole, prendendo spunto dalla quarantena che ci costringe a casa da più di un mese, direi che in giro non se ne vedono più… Diciamo che si è reso sempre meno necessario intervistare gli scrittori. Per milioni di motivi sia chiaro, primo tra tutti quello che il più delle volte non hanno molto da dire. In tivù poi servono il sensazionalismo e l’immagine. Un po’ come per le recensioni fake che citi, quelle in cui i libri recensiti sono sempre tutti bellissimi se sei “amico” e tutti bruttissimi se sei “nemico”, altro che analisi critica di un testo. Se i post e i commenti in rete si pagassero avremmo molti più spazi vuoti, non trovi? La figura dell’intellettuale fino ai primi anni ’80 era diversa, e non dimentichiamoci del ruolo avuto dalla tivù nell’alfabetizzazione di un paese che nel dopoguerra vessava in condizioni critiche. Pasolini era sicuramente di un altro livello. Ora tutto è cambiato, prevale il taglio “commerciale”, l’educational è relegato ai canali tematici. Non mi pare di vedere molte persone in grado di dire qualcosa di interessante sia in tivù sia nella vita, anche perché, diciamocelo onestamente, gli scrittori (e con loro i libri) non contano nulla. Non voglio nemmeno pensare a quanto incidano sull’economia, ma posso ipotizzare un numero che si avvicina allo zero e questo è già un indicatore… Forse più di qualcuno si è messo in testa di essere vitale e illuminante, ma di ciò che pensa uno scrittore alla gente non importa un fico secco. È evidente. Perdona la schiettezza, ma la tivù, che non amo particolarmente, mi sembra l’ultimo dei problemi di uno scrittore e dell’editoria. Parliamo di approccio alla scrittura, mi tocca molto di più. Interessanti spunti i tuoi, ma potremmo citare le parole di chissà quanti altri tra i quali Hemingway, Carver, Foster Wallace, eccetera, e ancora non avremmo una “regola”… Certo l’ispirazione è fondamentale (senza entrare nella psicologia che è pane quotidiano qui in casa per cause di forza maggiore) è il fenomeno che fa nascere tutto. Ma poi è necessario mettersi alla scrivania. Lavorare sodo, leggere, rileggere, scrivere, riscrivere. E a volte stupirsi e commuoversi come Lennon di aver fatto qualcosa che appare sorprendente e coinvolgente.
Se pensiamo ai narratori puri, escludendo gli impiegati della parola scritta che collaborano con giornali e riviste o scrivono per la tivù, è plausibile affermare che in Italia ci sono più scrittori che vivono per scrivere di quanti invece scrivono per vivere. Il lavoro del romanziere, salvo rare eccezioni, è confinato nel recinto degli hobby. Le bocce, il giardinaggio, il bricolage, la scrittura, pari sono.
Bocce, giardinaggio e bricolage sono più utili in quanto attività rigeneranti. A parte chi scrive per giornali, riviste e tivù, per tutti gli altri, salvo eccezioni che è bene precisare esistono anche se non hanno troppa visibilità né probabilmente destano particolare interesse, scrivere è uno “status” da narrare con tutta la retorica di cui è stato caricato. Sarebbe utile cominciare ad analizzare i dati reali, spesso schiaccianti, ripartire da lì. Inevitabilmente perderebbe senso per chiunque pavoneggiarsi delle proprie pubblicazioni (tanto più che quei libri li leggeranno in pochi e probabilmente non resteranno nella storia. Lo dicono i dati, non io…). Sono certo che se lo scrivere diventasse un mestiere con una propria dignità lavorativa più di qualcosa potrebbe cambiare, anche nell’atteggiamento e nel modo di comunicare i libri.
Ti riconosci nel mito romantico dello scrittore curvo sulla scrivania e assorto nella contemplazione del foglio bianco? Allarghiamo il quadro e mettiamoci anche whisky e sigarette, una stufetta elettrica, un gatto. Pensa a quanti scrittori hanno avuto un gatto: Pablo Neruda gli dedicò un’ode, Baudelaire lo chiamava “il mio compagno di vita”, Bukowski, Kerouac. Poi, all’improvviso, il sacro fuoco dell’ispirazione tocca lo scrittore e gli regala trame e personaggi. O forse no. Tu non hai l’aspetto del bohémien. Sei uno di quegli scrittori che prima di iniziare un romanzo preparano una scaletta e sanno esattamente dove porteranno i loro personaggi?
Ho due gatti e due piccole belve che vampirizzano amorevolmente il mio tempo. Amo anche Baudelaire ma non vorrei diventare calvo come lui. Whisky non ne bevo da anni, sigarette e caffè in gran quantità invece. La stufetta mi crea un po’ d’ansia per le notizie che si sentono al Tg di tanto in tanto; preferisco quindi stanze calde e confortevoli. Con una buona dose di ironia sono erede degli esistenzialisti. Di un bohémien conservo la forma mentis e il caos sulla scrivania, invidio fortemente tutte le persone ordinatissime. Amo però lavorare con il quadro sufficientemente delineato davanti a me, anche perché non ho mai troppo tempo per farlo, la vita quotidiana ha spesso il sopravvento ed è necessaria una buona programmazione. Magari poi il quadro lo metto a rovescio, o di sbieco, e sperimento, ma ho dei rituali e delle metodologie per scrivere o iniziare a scrivere qualcosa. Sia chiaro, non so mai dove mi porterà un personaggio. Io cerco di indirizzarlo, ma spesso prende una vita propria e prorompente che rischia di influenzarmi e farmi cambiare punto di vista, anche se cerco di mantenermi fedele al progetto. È bene non dimenticare che lavoriamo su qualcosa di “vivo”. Vallo a spiegare a chi vuole andare in tivù a mostrare il suo libro…
C’è chi ritiene che sia vantaggioso far leggere i propri testi ad altri, prima di farli vedere a un editore. Conosco uno scrittore che paga un editor personale. Non saprebbe farne a meno. Una volta gli ho detto che farsi correggere i testi prima di sottoporli al giudizio di un editore è un sintomo di profonda insicurezza, e da allora fa l’offeso e non mi parla più. Tu faresti leggere un tuo testo a un altro scrittore? Lo ritieni profittevole? Io non lo faccio mai perché temo che ogni suggerimento, anche il più sincero, finirebbe per portarmi su una strada che non è quella che ho deciso di percorrere. Se proprio devo accettare un editor è solo dopo aver firmato un contratto.
Il punto di vista “esterno” sui propri testi è preziosissimo, meglio se di un professionista. Grazie ai miei editori negli anni ho lavorato alla pubblicazione dei romanzi con diversi editor. Alcuni sono nomi che non hanno bisogno di pubblicità (ti sarà facile scoprirli, uno l’hai pure intervistato), altri sono meno famosi ma bravi (mi permetto di citare la giovane Antonietta Rubino che ha lavorato egregiamente con me sul romanzo “La verità dei topi” e che mi sentirei di consigliare a qualsiasi editore e autore). Ognuno ha un proprio approccio ed è fantastico scoprire e fare proprie le loro tecniche. Nessuno è mai intervenuto sopra un mio testo facendomelo cambiare, questo tengo a dirlo per rassicurarti. Anzi, è stato assai stimolante permeare punti di vista differenti, il confronto per giungere a condivisioni profonde e vedere il testo crescere. Non temo mai di perdere la strada, quella ce l’ho ben chiara in testa. E allo stesso modo, mi piace farmi leggere da amici scrittori che stimo, discutere di un testo in lavorazione. È sempre molto prezioso avere pareri validi e non condizionati quando l’obiettivo è rendere buono un testo e confrontarsi con il mercato.
Un lettore spesso non ci fa caso, ma una pagina di romanzo ha una precipua e potenziale oralità che la rende simile a uno spartito musicale. Una successione di parole è una successione di suoni. Perciò credo che gli scrittori dovrebbero leggere ad alta voce i loro testi, per valutarne la scorrevolezza, per capire il grado di musicalità, al di là del contenuto. A volte mi capita di iniziare a leggere un libro, e ho quasi l’impressione di inciampare nelle parole. Non riesco ad andare avanti. Per me scrittura e musica devono essere caratterizzate da un flusso liscio, essere piacevoli all’orecchio.
Sono felice tu mi faccia questa domanda. Anche per me la musicalità della parola, della frase, il fluire sonoro sulla pagina sono fondamentali. La musica è una delle prime discipline a cui mi sono appassionato. Ho prodotto anche alcuni dischi e mi piace citare i Soluzione, augurandomi di pubblicare presto un loro nuovo lavoro. Sì, amo davvero la musica, la amo quanto la letteratura. D’altra parte, “L’ultimo disco dei Cure” il mio romanzo d’esordio ripubblicato qualche mese fa dalla storica Arcana editrice racconta una storia prendendo spunto proprio dalla mia passione sincera e profonda per la musica: certo, è un romanzo in piena regola di cui al lettore non sfuggiranno i riferimenti letterari e lo stile.
Francesco Consiglio
*Massimiliano Nuzzolo è nato a Mestre nel 1971. Ha esordito nel 2004 con il romanzo L’ultimo disco dei Cure ripubblicato da Arcana nel 2020. Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di poesie Tre metri sotto terra (Coniglio editore). Esperto di musica e di culture giovanili, ha curato la raccolta di racconti La musica è il mio radar (Mursia 2010). Con Italic Pequod, nel 2012, ha pubblicato Fratture, nel 2014 La felicità è facile. Del 2018 è il romanzo L’agenzia della buona morte. La verità dei topi è uscito alla fine del 2019 per Les Flaneurs.
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