Blog italiano di musica gestito da una sola persona, quindi per favore siate clementi e non vi arrabbiate se non posto ogni giorno. Buon ascolto e buona lettura a tutti!
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Il calabrone si può schiantare
Post breve (già, fare le cose come si deve non rientra nei piani).
Il singolo “Il calabrone” di Gabry Ponte è brutto. Grazie per l’attenzione.
#musica#darthreset#post21#ilcalabronesipuoschiantare#ilcalabrone#gabryponte#gabry#ponte#edoardobennato#edoardo#bennato#thomas
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“RIP Harambe”
Post breve.
La canzone di Elon Musk fa schifo. Che è esattamente (o almeno spero) il risultato sperato. E questo la rende una canzone riuscita.
Oppure potrei smetterla di fare il finto intellettuale e dire le cose come stanno. Cioè che fa schifo.
Fine del post che speravo fosse più breve.
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“You’re The Man”
Post breve.
E’ uscito il 29 marzo “You’re The Man”, album che Marvin Gaye aveva registrato nel 1972 ma che non era stato pubblicato per divergenze con il capo della Motown Berry Gorde. Ascoltatelo, è fantastico.
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Guerra di piattaforme
E’ notizia di due settimane fa che Spotify ha denunciato Apple alla Commissione Europea con l’accusa di concorrenza sleale. L’azienda svedese sostiene che la Mela giochi sporco e cerchi di favorire il proprio servizio Apple Music senza garantire ai rivali la possibilità di combattere ad armi pari. Se volete capire qualcosa in più della vicenda, destinata a protrarsi ancora per molto, sono qui per fare chiarezza. L’evoluzione del rapporto Spotify-Apple, secondo l’accusa, è il seguente.
2008 - Spotify diventa disponibile nell‘App Store.
2010-2011 - Apple inizia a cambiare le linee guida dell’App Store: qui non ci vengono date ulteriori spiegazioni su quali cambiamenti siano avvenuti.
Febbraio 2011 - Apple elimina la possibilità di scegliere il sistema di pagamento e impone una tassa del 30%, ma allo stesso tempo impedisce di mostrare metodi alternativi per pagare: Apple permette di usare il proprio sistema di pagamento in-app, ma per usufruirne, gli sviluppatori devono versare una “tassa” del 30% su ogni ricavo ottenuto da questo tipo di pagamenti. Inoltre, Apple non permette di inserire nell’app alcun link che rimandi a siti esterni o sistemi di pagamento alternativi.
2011 - Spotify ritiene la quota del 30% troppo elevata: non potendosi permettere di rinunciare al 30% dei ricavi, Spotify decide di non usufruire del pagamento in-app della Apple. Tuttavia, questo vuol dire che non è più possibile passare all’account Premium direttamente dall’app.
Ottobre 2011 - Siri debutta sull’iPhone, ma non dialoga con Spotify: e a quanto pare era vero allora come lo è oggi. Non ho un dispositivo Apple, ma su internet le persone che evidenziano il problema non mancano.
2011-2014 - Per tre anni, Spotify continua a ricevere pressioni da Apple per adottare il loro sistema di pagamento: non ci viene specificato di che pressioni si tratta né di come sono state esercitate.
Giugno 2014 - Spotify decide di adottare il sistema di pagamento Apple, con il conseguente versamento della tassa e con un forzato aumento del prezzo per passare all’account Premium: gli utenti possono finalmente passare a Premium dall’interno dell’app, ma il prezzo sale dai precedenti 9,99€ al mese a 12,99€ al mese.
Aprile 2015 - Spotify chiede di poter sviluppare una versione dell’app per Apple Watch, ma le viene negato: Spotify accusa i rivali di non averle dato la possibilità e il supporto tecnico necessario per sviluppare Spotify per Apple Watch; possibilità invece concessa ad altri sviluppatori. Ritengo che qui la polemica di Spotify sia giustificata a metà: avrebbero dovuto avere il diritto di sviluppare la propria app come hanno potuto fare altri, ma (a meno che non sia la prassi), non penso che Apple sarebbe stata costretta a collaborare in fase di sviluppo, se non per garantire la compatibilità.
Giugno 2015 - Viene lanciato Apple Music ad un prezzo fin troppo familiare per Spotify: Apple Music include il sistema di pagamento in-app Apple ma non viene applicata la tassa del 30%. Il costo dell’abbonamento? 9,99€ al mese, lo stesso prezzo di Spotify prima che fosse costretta ad alzarlo per limitare i danni imposti dalla tassa. Qui inizia il problema vero: fino a questo momento Apple si era limitata ad imporre delle proprie regole relative allo store, ma adesso è entrata in diretta competizione con un’app, beneficiando in maniera rilevante delle condizioni a cui gli altri devono sottostare. Una metafora che l’accusa ha usato spesso in questa vicenda è che Apple si comporta “sia da arbitro che da giocatore”. Il momento in cui questa metafora si realizza è questo. Finora era stato solo un arbitro antipatico, ma ora scende in campo e, comprensibilmente, arbitra a proprio favore. Ma attenzione: un comportamento comprensibile non è per forza giustificato. In questo caso, non lo è. E’ scorretto.
Maggio 2016 - Spotify rinuncia al sistema di pagamento Apple e quindi al rialzo forzato del prezzo: lo sgambetto della casa di Cupertino, che si trova adesso in una posizione di vantaggio vantando un abbonamento più economico, costringe Spotify a correre ai ripari: tornano al prezzo originale di 9,99€, ma per farlo assicurandosi comunque un guadagno, devono rinunciare al pagamento in-app. Per passare a Premium, bisogna di nuovo farlo in maniera “esterna”.
Maggio 2016 - Apple inizia ad ostacolare e rifiutare Spotify, minacciandola di rimuoverla dall’App Store: non so cosa si intenda con “rifiutare” in questo caso. Il succo della vicenda, tuttavia, pare essere che Apple cerchi di togliere visibilità alla concorrenza. L’accusa specifica che questo ostracismo sembrava coincidere con i momenti in cui Spotify proponeva promozioni e offerte. L’estremo si ha nel momento in cui Apple minaccia Spotify di farla sparire dallo store. Una sorta di dittatura in cui Apple rivela di avere ancora paura del rivale, e di volerlo eliminare piuttosto che affrontarlo. Lo può fare, perché non è solo giocatore: è anche arbitro.
Giugno 2016 - Apple restringe le linee guida: qui l’accusa aggiunge un dettaglio che prima non era stato chiarito sufficientemente, ed è strano che decidano di specificarlo solo ora: le linee guida di febbraio 2011 impedivano di includere link a pagine di info sui prodotti, sconti e promozioni anche se queste pagine non contenevano direttamente collegamenti a sistemi di pagamento alternativi. In poche parole non solo non poteva essere incluso un “clicca qui per pagare dal nostro sito”, ma neanche un “clicca qui per vedere come pagare” o “clicca qui per vedere in cosa consiste la nuova offerta”.
Settembre 2016 - Apple rifiuta una nuova proposta di Spotify per un’app per Apple Watch.
2016-2017 - Apple continua a rifiutare più frequentemente, inaspettatamente e ingiustificatamente gli aggiornamenti di Spotify: qui finalmente ci viene dato un esempio di una regola che è cambiata da un giorno all’altro: non si può neanche più includere un tasto “scopri di più”. L’accusa sostiene che in questo periodo sono arrivate le prime lamentele verso Apple, che tuttavia spesso non potevano essere argomentate adeguatamente, visto che le regole cambiavano di continuo.
Giugno 2017 - Le linee guida vengono ristrette di nuovo: le app rivali devono accettare di non “indirizzare, direttamente o indirettamente, gli utenti iOS verso un metodo di pagamento che non sia quello in-app, o scoraggiare l’uso del pagamento in-app”. Il virgolettato è riportato dall’accusa ed io l’ho solo tradotto. Questa può sembrare una semplice politica attuata da Apple, ma le implicazioni sono chiare: stanno cercando di forzare l’uso del proprio sistema per intascare il 30%, impedendo agli sviluppatori di avere un proprio guadagno con prezzi concorrenziali.
Novembre 2017 - Apple rifiuta di nuovo Spotify: in concomitanza con la promozione “3 mesi di Premium a 0,99€”, Apple blocca di nuovo l’app rivale a causa di un link verso una pagina che spiegava l’offerta ma non come/dove pagare. Spotify era andata sul sicuro, affidandosi ad una conversazione con il capo degli avvocati di Apple, che le aveva assicurato, un anno prima, che un link simile era consentito. Qui Apple gioca sporco due volte: non solo crea sempre più difficoltà per l’utente di usufruire di Spotify Premium in maniera semplice e ad un prezzo conveniente, ma contraddice anche quello che aveva garantito in precedenza.
Febbraio 2018 - Apple lancia l’HomePod senza supporto per Spotify: il discorso è lo stesso di Apple Watch: Spotify trova le porte chiuse, ma altri sviluppatori, non in diretta concorrenza con Apple, riescono a sviluppare per HomePod. Anche qui avrei preferito più chiarezza da parte dell’accusa e possibilmente qualche nome per capire chi invece abbia avuto strada libera.
Maggio 2018 - Spotify rifiutata di nuovo: per una ragione ridicola, stavolta: in uno degli screenshot dell’app nello store si vede la parola “gratis”. Le improvvise nuove linee guida lo proiiscono.
Settembre 2018 - Apple permette funzionalità migliorate per l’app di Spotify su Apple Watch: serve il WatchOS5 perché Spotify ottenga l’ok di Apple per sviluppare in maniera funzionale per Apple Watch.
Febbraio 2019 - Apple Music non rispetta le sue stesse regole: Apple Music invia notifiche e messaggi promozionali che ai rivali vengono negati. Qui c’è la sostanza della vicenda. Apple non solo arbitra e gioca, ma rompe anche le regole che lei stessa aveva imposto. E’ il classico caso del “bambino che ha portato il pallone”, che decide per tutti ma poi fa quello che vuole perché tanto può andarsene impedendo a tutti gli altri di giocare. Dopo l’esordio a prezzo slealmente concorrenziale, è questa la mossa che rivela l’ingiustizia del comportamento di Apple.
A marzo Spotify si rivolge alla Commissione Europea.
Parere personale: l’accusa è fondata: Apple ha tutto il diritto di stabilire delle regole per stare sullo store e cercare di spingere il proprio sistema di pagamento, ma quando si adotta un comportamento di supremazia tale da costringere gli sviluppatori a rinunciare alla propria concorrenzialità, inserendosi poi in quella fetta di mercato a condizioni diverse e più favorevoli, si passa dalla parte del torto. La tassa del 30% è lecita, ma cercare subdolamente di impedire il pagamento con altri sistemi oltre a quello Apple è sleale. Qui non si parla di invogliare ad adottare il pagamento in-app. Si parla di penalizzare chi non vuole farlo. Ridurre la visibilità di Spotify poi è stata una mossa da codardi consapevoli del potere dei rivali nel mondo dello streaming.
Spotify chiede di giocare in maniera corretta, Apple ritiene che l’accusa voglia solo ottenere vantaggi piuttosto che una vera concorrenza.
Io sto dalla parte di Spotify, e voi?
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Salvare per non perdere
Oserei dire che è uno degli album del momento: pubblicato l’8 marzo 2019, si tratta di “Everything Not Saved Will Be Lost - Part 1″, quinto album degli inglesi Foals.
La copertina è un’opera dell’artista ecuadoriano VIcente Munoz: una foto realizzata con una tecnica che permette di creare un contrasto cromatico tra gli elementi naturali e quelli artificiali. Quello che si vede è quindi un palazzo in bianco e nero con davanti alberi e piante innaturalmente colorati di rosso.
La prima canzone dell’album è “Moonlight”, introdotta da un coro che sembra quasi essere sintetizzato, a cui si sovrappongono poi la chitarra e la voce sicura di Yannis Philippakis. Arrivano la tastiera e le percussioni filtrate, pseudo-digitali. E’ un inizio piuttosto elettronico, che termina fin troppo presto, quasi di botto, senza dare al pezzo la possibilità di svilupparsi ulteriormente, dopo una prima fase in evoluzione. E’ un po’ un peccato, ma come brano d’apertura ci siamo.
La seconda traccia è “Exits”, primo singolo. Più ritmica, meno artificiale, più calda e umana. Il testo però contrasta con queste sensazioni, riempiendoci di pessimismo e brutte prospettive parlando di un mondo sottosopra e città sottoterra. Ho molto apprezzato la lunga coda del brano, due minuti abbondanti che iniziano con un assolo di chitarra sopra le tastiere, seguiti da vocalizzi e ripetizioni di alcune frasi del testo mentre gli strumenti diventano ripetitivi ma non noiosi, che è sempre una cosa difficilissima
Traccia numero tre: “White Onions”.Mi piace molto la parte strumentale all’inizio, soprattutto la batteria (ottimo Jack Bevan). Quando arriva, la voce di Philippakis è rabbiosa e ben si addice allo spirito del brano più rock fino a questo momento. Forse proprio perché più “classico”, più debole dei precedenti. Poco altro da dire: buona canzone, ma non spicca.
“In Degrees” è la quarta traccia. Guidata da synth e voce in apertura, viaggia su binari quasi dance. Anche qui in evidenza la batteria di Bevan e il basso (Edwin Congreave). Testo d’amore, il brano non presenta significanti variazioni, ad eccezione per un bridge sottotono che serve a rilanciare il finale dance/funk. Posso vedere delle persone ballare e divertirsi ascoltando questo brano, che si chiude con la ripetizione ossessiva delle parole “Am I wasting my time? / I could not persevere” mentre la base rimane ultra-godibile. Gran finale.
C’è il rischio di rimanere quasi smarriti quando arriva “Syrups”, tale è il cambio di atmosfera: cupa, profonda, un’onda nera in mezzo alla pista da ballo. Tuttavia è una sensazione che dura poco, ci si abitua subito al cambio di mood, grazie soprattutto alla linea vocale, non bassa quanto quella strumentale. Chitarre e suoni digitali si fondono insieme in maniera ottima, per un altro pezzo che funziona sin dalle battute iniziali. Intorno ai tre minuti avviene un cambio di ritmo gestito da un’ottima transizione in cui la parte elettronica fa da ponte. Anche la parte vocale cambia radicalmente, diventando paradossalmente più profonda ora, conservando quindi il senso generale di negatività che la canzone si porta dietro dall’inizio. E’ una bella canzone, non c’è altro modo per dirlo. Finisce con la reiterazione della melodia di tastiera che viene poi troncata di botto.
“On The Luna”, oltre a essere la sesta traccia, è anche il secondo singolo. Brano dalle sonorità più standard, più “da singolo”, comprensibilmente scelta per la rotazione radiofonica e la promozione dell’album. Come nel caso di “White Onions”, questo suo essere più “nei canoni” la rende meno interessante, anche se non si può negare che sia comunque un buon brano, in cui le chitarre attaccano, la batteria sostiene, il synth rafforza.
“Cafe D’Athens” ha generato diversi paragoni con i Radiohead di cui non discuterò. E’ un brano dalle forti tinte sperimentali, sincopato, affidato a voce (in falsetto), percussioni ed elettronica. Non ci prova neanche ad essere rock, ma preferisce navigare nelle acque della psichedelia digitale (non so neanche io che sto dicendo). Va preso per quello che è, un esercizio musicale venuto fuori benissimo, ambientale e immersivo.
“Surf Pt. 1″ è un interludio di quarantacinque secondi che più o meno segue la linea tracciata dal brano che lo precede.
Nona canzone dell’album, “Sunday”, terzo singolo. E’ un brano indie rock abbastanza standard, in cui le capacità del gruppo vengono ancora mostrate senza però risaltare in maniera particolare. Convincente la performance di Philippakis alla voce, è lui che rende il tutto interessante, accompagnato discretamente dagli strumenti, che a metà brano decidono che è meglio cambiare marcia, accelerando il brano senza tuttavia migliorarlo particolarmente. Il finale torna sulla ritmica iniziale e viene evidenziato da un ottimo canto. Bella la struttura, bella la parte vocale, nella media tutto il resto. Non il miglior brano dell’album.
In chiusura troviamo “I’m Done With The World (& It’s Done With Me)”, melanconicamente aperta dal piano su cui viene cantata una piovosa scena autunnale. Dopo l’esagerazione vocale del brano precedente, si sente il bisogno di pace e tranquillità, e mentre il cielo promette di rischiararsi, suoni digitali sospesi circondano quello che c’era. E’ come essere presi per mano ed accompagnati verso l’uscita. Grazie, è stata una bella serata.
Giudizio complessivo: gran bell’album, suonato benissimo, coadiuvato da produzione e mixaggio all’altezza. Non avevo mai ascoltato i Foals, ma questa prima esperienza mi porterà dritto verso i loro precedenti album, sperando che mi piacciano quanto questo. La critica specializzata è generalmente soddisfatta del disco, anche se un paio di testate si sono espresse negativamente. Di contro, il 5/5 di alcuni giornalisti mi pare eccessivo: non è un album perfetto, brani come “White Onions” e “On The Luna” sono un po’ generici e non presentano l’interessante sound esplorativo di altri brani. Se potete, ascoltate quest’album. E’ bello.
Classifica di gradimento dei brani (escluso “Surf Pt. 1″, interludio piacevole ma ingiudicabile).
9) “Sunday” - 8) “On The Luna” - 7) “Cafe D’Athens” - 6) “White Onions” - 5) “Moonlight” - 4) “Exits” - 3) “I’m Done With The World (& It’s Done With Me)” - 2) “Syrups” - 1) “In Degrees”
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Musica Inuit
C’è tanta musica che ancora non conosco e che sono ansioso di ascoltare: ogni volta che trovo qualcosa di nuovo è sempre un piacere, e la possibilità di espandere la mia cultura è ciò che di meglio mi possa accadere. In aggiunta a questo, c’è il mio modo di essere stramboide e l’interesse particolare per ciò che è inusuale, quasi sconosciuto e difficilmente apprezzabile o comprensibile. Date le premesse, venire a conoscenza di Tanya Tagaq (e nello specifico del suo EP “Toothsayer”, uscito ad inizio mese) ha comportato obbligatoriamente un ascolto di cui non mi sono pentito, anzi. Ne sono entusiasta.
Tanya Tagaq è una cantante canadese, precisamente del territorio del Nunavut, patria del popolo Inuit. Ed è proprio alla cultura Inuit che si ispira la musica di Tagaq, che si esprime attraverso una tecnica tradizionale chiamata katajjaq, che solitamente viene praticata da due donne posizionate una di fronte all’altra, ma che la cantante ha adattato alle sue esigenze da solista.
“Toothsayer” ha accompagnato la mostra “Polar Worlds” al Museo Marittimo di Greenwich, dedicata alle esplorazioni e popolazioni dell’Artide e dell’Antartide. In quanto parte di quelle popolazioni, la scelta di Tagaq si è rivelata azzeccata, sia per coerenza tematica, sia perché la cantante ha tirato fuori cinque pezzi favolosi.
Non ho intenzione di recensire l’EP, perché qui non c’è da fare una valutazione qualitativa: c’è da imparare cos’è la musica per gli altri e come questa può essere resa più accessibile. “Toothsayer” non è una raccolta di canti tradizionali: alla voce si accompagnano arrangiamenti elettronici (”Icebreaker”, “Toothsayer”, “Hypothermia”), orchestrali (”Snowblind”) e rock (”Submerged”). La fusione tra i generi funziona benissimo: il canto, a volte acuto come un fischio e a volte gutturale, fa quasi sentire il freddo, suona lontano e straniante. Gli arrangiamenti, sebbene derivanti dalla cultura musicale a noi più vicina, in questo contesto non contribuiscono a ridurre le distanze, ma le amplificano. E’ qualcosa che non abbiamo mai sentito. E’ nuovo, ma esiste da sempre. E’ emozionante ed emozionato: c’è dolore, sofferenza, rabbia. C’è tutto un popolo dentro. C’è il pericolo di vedere una tradizione sparire, e insieme a lei tutto un territorio. Non c’è più il freddo e il ghiaccio di quando questi canti sono nati. Il mondo è cambiato, e con lui anche le persone. Ma il desiderio di esprimersi e trasmettere ciò che si è e si ha non è mai sparito, e continua a manifestarsi. Questo è un esempio. Uno dei migliori. Oggi ho scoperto qualcosa di fantastico, che mi ha ricordato anche perché questo blog si chiama “odissea”: è davvero tutto un viaggio, e la fermata di oggi mi ha dato tanto. Riparto con convinzione, sperando di visitare altri posti meravigliosi e pieni di suoni.
Appuntamento alla prossima tappa della nostra odissea musicale!
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“Natura Viva” più che mai
Volevo postare un Random Song Generator tutto dedicato alla musica italiana, ma mentre cercavo delle canzoni interessanti mi sono imbattuto in quest’album, uscito il 1° marzo 2019 e che ha esordito in quindicesima posizione nella classifica settimanale della FIMI. Sto parlando di “Natura Viva”, terzo album degli Eugenio in Via Di Gioia.
In copertina è disegnata una donna con delle foglie come capelli, tra cui spuntano fiori e bacche. Un’immagine calzante per il titolo.
L’album si apre con “Lettera Al Prossimo”, che si sviluppa in maniera molto interiorizzante, come una specie di sconfitta in cui si cerca qualcosa che si salvi. L’atmosfera generale è malinconica ma lascia spazio alla possibilità di riprendersi. Un dolore passato e che ci porta adesso a guardare avanti. Come se il “prossimo” del titolo non fosse quello che ci sta accanto ma ciò che verrà.
“Inizia A Respirare” parla di libertà, e lo fa in maniera chiara e dichiarata, a partire dagli esempi di un uccellino in gabbia e un leone in uno zoo. Ci viene chiesto cosa faremmo noi per essere liberi, e il testo si sviluppa poi in una direzione critica su come i soldi dominino il mondo e ci impediscano di goderci pienamente la vita. Un altro esempio che viene portato è quello di Re Mida, che per avere l’oro ha perso tutto. Il significato del brano è stato anche spiegato dalla band stessa su Facebook. Molto interessante anche l’arrangiamento, parecchio ritmico, quasi sudamericano.
Il singolo di lancio, “Altrove”, è la terza traccia. Una ballata che sembra diretta verso il futuro, quando i giovani saranno vecchi e ognuno di noi non sarà più quello di oggi, sarà fuori corso, e allora sarà meglio andarsene, sparire, e lasciare succedere quello che deve, magari sperando di essere ancora importanti per qualcuno che venga a cercarci.
La quarta traccia è una di quelle che trovo maggiormente interessanti: si intitola “Albero” e parla… di un albero. Ma che c’è da dire su un albero? Il testo nasconde un secondo significato: l’albero è ognuno di noi, e a evidenziarlo sono le strofe, in cui per descriverlo vengono utilizzate parole riferite al corpo umano. E’ una canzone che parla di crescita e di superamento delle difficoltà. Davvero piacevole, ben riuscita sia strumentalmente che vocalmente.
Secondo singolo, “Cerchi”, un testo in cui si parla di domande su se stessi e di comprensione di ciò che ci circonda. Sono domande spesso senza risposta. Ma l’importante è continuare a cercare, anche se la soluzione non la capiremo mai. Ottimo il lavoro di chitarra e percussioni che accompagna il brano. La prima metà dell’album è ottima, finora tutto bello.
La seconda parte si apre con “Pace All’Anima”, con protagonisti Adamo, Eva e il cambiamento dei tempi, con gesti che hanno perso il loro significato simbolico, e la mela come indicatore di come nulla sia come prima. Se questo sia un bene o un male non ci è dato saperlo, anche se ascoltando il gruppo sembra che per loro la cosa sia negativa, e suona come la denuncia della perdita di alcuni valori in un mondo in cui tutto è concesso, anche troppo.
“Camera Mia” è il terzo singolo. Tutto parte dal presupposto che la casa è una stazione. Da qui si passa al viaggio, ai piccoli gesti, le conversazioni, i pensieri che ci accomunano quasi tutti mentre ci spostiamo, che sia in treno, in autobus, a piedi. E tutto diventa una metafora tra il viaggio e gli accadimenti quotidiani.
“Il Tuo Amico Il Tuo Nemico Tu” sembra un momento di pausa in mezzo all’album. Una pausa per raccontarsi una storia, una storia vera e propria che coinvolge te, il tuo amico e il tuo nemico. Testo bellissimo, costruito benissimo. Altra canzone che funziona sotto tutti i punti di vista.
“Il Fine E La Luna” è più intricata: circondata da ironia, le figure chiave sono il saggio, lo stolto e, ovviamente, la luna. Ormai le persone danno importanza a cose irrilevanti, e se qualcosa non va non si cerca più di migliorarsi, ma si cerca subito il colpevole: il saggio non indica più la luna, ma lo stolto. Ed ora come si fa ad andare avanti, senza che qualcuno ci indichi qual è la meta, senza avere un’ispirazione? “Inventerò la luna” risponde il gruppo, ponendo l’accento sulle infinite possibilità messe a disposizione dalla creatività, anche a costo di inventarsela sbagliata, e invitandoci implicitamente a smettere di affidarci a qualcuno che ci guidi a tutti costi, e invece seguire le nostre ambizioni, anche se questo vuol dire che noi saremo lo stolto che viene indicato dal saggio. Uno dei migliori testi dell’album.
Chiude l’album (e fin qui è stato bellissimo) “La Misura Delle Cose”, un’altra critica su come si stiano tralasciando le cose veramente importanti per puntare verso qualcosa che in realtà non ci aiuta e non ci soddisfa, il tutto con un tocco ambientalista e preoccupato per il futuro di questo nostro pianeta morente. Chiusura eccellente, all’altezza degli altri brani.
Un’osservazione che mi viene subito da fare è che la scelta dei singoli poteva essere migliore: sono brani che funzionano, orecchiabili, ma di certo non fra i migliori tra quelli che il disco offre. Tema ricorrente è come il passare del tempo abbia cambiato la società e le persone, ormai frivole e superficiali, che hanno pers di visto ciò che conta davvero. Ci sono un paio di momenti più personali, ma comunque tutti all’insegna della creatività, sia come argomento che come mezzo di espressione. E’ un album veramente valido e non posso fare altro che giudicarlo positivamente. Avrete notato che rispetto al solito ho parlato meno della parte strumentale: questo perché i testi mi sono sembrati più rilevanti, ma questo non toglie che anche le musiche siano orecchiabilissime, indie, pop, senza sembrare mai già sentite. I miei complimenti agli “Eugenii”, e a voi che leggete la raccomandazione di provare a dare un ascolto a questo ottimo lavoro.
Ed ora i brani in ordine di gradimento, dal “peggiore” (che è comunque più che soddisfacente) al migliore.
10) “Altrove” - 9) “Camera Mia” - 8) "Lettera Al Prossimo” - 7) “Il Fine E La Luna” - 6) “La Misura Delle Cose” - 5) “Pace All’Anima” - 4) “Inizia A Respirare” - 3) “Cerchi” - 2) “Il Tuo Amico Il Tuo Nemico Tu” - 1) “Albero”
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Effetto Oscar
Non ho scritto un post dedicato agli Oscar, e ne approfitto ora per fare i complimenti a Ludwig Goransson che dopo il Grammy si è portato a casa anche l’Academy Award per il lavoro svolto per “Black Panther”, e, ovviamente, a Lady Gaga, Mark Ronson e tutti coloro che hanno lavorato a “Shallow”, che ha ottenuto lo stesso risultato. Guardando la classifica americana di questa settimana si vede che gli Oscar hanno effettivamente contribuito a cambiare alcune posizioni: il brano cantato da Gaga e Cooper è salito al numero 1 guadagnando venti posizioni rispetto alla settimana scorsa, a scapito di Ariana Grande. Poco più giù (al quarto posto) troviamo un altro brano collegato agli Oscar: si tratta di “Sunflower” di Post Malone e Swae Lee, dalla colonna sonora di “Spider-Man - Un Nuovo Universo”, che ha vinto la statuetta per il Miglior film d’animazione. In questo caso, tuttavia, il brano non è salito in classifica, anzi, ha perso la terza posizione. Come mai? Cosa c’è di diverso? In primo luogo il fatto che il premio sia andato al film e non alla canzone, che quindi ha ricevuto minor risalto; e poi la mancata esibizione di Malone durante la cerimonia: non bisogna dimenticare che “Sunflower” non era nemmeno candidata, quindi non avrebbe avuto senso chiamare gli artisti per esibirsi, e sono convinto che un’eventuale candidatura più esibizione avrebbe aiutato il brano almeno a mantenere il suo terzo posto. Perché diciamocelo, “Shallow” è risalita non per la vittoria in sé, ma per l’esibizione strappalacrime che ha mostrato una sintonia profonda tra Gaga e Cooper, facendo partire anche gossip più o meno approfonditi. Sommando quindi la vittoria, l’esibizione, i rumors, era ovvio che il brano si sarebbe ritrovato in cima. “Sunflower” dalla sua ha solo un premio vinto, peraltro “indirettamente” per tramite del film, ed ecco perché è in discesa. Guardando il resto della classifica che si trova? Come già detto, Ariana Grande è stata detronizzata, e “7 Rings” (brano mediocre, a mio parere) ora è al numero 2. Sul gradino più basso del podio c’è inaspettatamente Halsey con “Without Me”, brano che secondo me rende meglio live che nella versione studio, come dimostrano le esibizioni agli MTV EMA e durante il Victoria’s Secret Fashion Show. Dopo il quarto posto di Posty, troviamo “Middle Child” di J. Cole, “Happier” di Marshmello & Bastille alla ventottesima settimana in classifica, di nuovo Ariana con la decisamente migliore “Thank U, Next”, di nuovo Malone con “Wow.”, “Thotiana” di Blueface e, a chiudere la top 10, quel gran pezzo che è “Sicko Mode” (trenta settimane in classifica ormai).
Appuntamento alla prossima tappa della nostra odissea musicale!
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Random Song Generator #2
“Sleep to Dream” - Fiona Apple
“Comfortable” - Lauv
“Mean To Me - Cardinal Sessions” - Stella Donnelly
“Now U See Me” - gloomy
“Never Going Back” - Hoodie Allen
“Under Your Spell” - Annie Taylor
“Mad World” - Tears For Fears
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Grammy 2019
Ed eccomi, con il solito ritardo che mi contraddistingue, a cercare di non essere noioso e soporifero parlando dei Grammy due settimane dopo la loro assegnazione. Non potrò parlare di tutte le categorie ma discuterò solo delle principali/quelle che credo possano essere più interessanti.
RECORD OF THE YEAR - “This Is America” - Childish Gambino: si sapeva che fosse tra i favoriti, complice l’importante messaggio sociale della canzone. Tuttavia questo premio va al brano con la miglior produzione, quindi riguarda più l’ambito tecnico, e questo rende, a mio parere, un po’ discutibile quest’assegnazione. Per fare due nomi, “God’s Plan” e “Rockstar” secondo me avrebbero meritato di più.
ALBUM OF THE YEAR - “Golden Hour” - Kacey Musgraves: dire che è stato spiazzante è riduttivo. Dire che è stato un errore è sbagliato. Album acclamatissimo dalla critica, inserito in tutte le classifiche di fine anno ai primi posti, vincitore di tutti i Grammy a sua disposizione (questo, Best Country Album e altri due premi per i suoi singoli), merita un ascolto anche da chi solitamente non ascolta musica country: è piacevolissimo.
SONG OF THE YEAR - “This Is America” - Childish Gambino: questo lo capisco: questo premio è assegnato agli autori per la scrittura del brano, e su questo aspetto Donald Glover e soci hanno fatto centro.
BEST NEW ARTIST - Dua Lipa: quanto sono felice. Possiamo dibattere sulla definizione di Dua Lipa come “new artist” dato che il suo primo singolo è del 2015, ma nell’ultimo anno è definitivamente entrata nel gruppo delle grandi popstar mondiali. Non ha sbagliato un colpo in tutto l’anno, e il sostanzioso numero di premi vinti tra il 2018 e il 2019 lo dimostra.
BEST POP SOLO PERFORMANCE - “Joanne (Where Do You Think You're Goin'?) - Lady Gaga: sono convinto che si fosse presentata ai Grammy solo per ricevere gli ovvi premi che sarebbero stati assegnati a “Shallow” (e che poi ha effettivamente vinto), ma questo per “Joanne” viene quasi dal nulla: terzo singolo dall’album omonimo, rilasciato ad inizio 2018, non avrei scommesso un centesimo sulla sua vittoria contro mega-hit come “Havana” e “God Is A Woman”. Ma quando Gaga decide di scrivere una canzone di qualità, lo fa e basta. Complimenti a lei, che riesce ogni volta a reinventarsi, risultando sempre tra le prime della classe.
BEST POP DUO/GROUP PERFORMANCE - “Shallow” - Lady Gaga & Bradley Cooper: appunto. Questa vittoria era prevista e prevedibile, visto l’enorme successo del brano e il favore della critica. Destinato a vincere, non ha deluso, forse anche per mancanza di alternative che potessero avvicinarsi a quel livello.
BEST POP VOCAL ALBUM - “Sweetener” - Ariana Grande: Ariana ha confezionato un buon album in cui tutto, dalla voce alla produzione, funziona come dovrebbe. Viene premiata di conseguenza in una delle categorie più in evidenza e contro sfidanti del calibro di Camila Cabello, Shawn Mendes, P!nk e Taylor Swift. Fino all’anno prossimo potrà vantarsi di essere la principessa del pop.
BEST DANCE RECORDING - “Electricity” - Silk City & Dua Lipa Featuring Diplo & Mark Ronson: questa canzone fa ballare come matti? Sì. Questo basta per assegnarle il premio? Sì. La produzione di Diplo e Ronson è ottima, quello che ci si aspetterebbe da questi due, e Dua è convincente come ci ha abituati. Il brano fa quello che deve portando l’ascoltatore a tenere il tempo, alzarsi, scuotersi e trovarsi alla fine a saltare in giro senza sapere come. Molti hanno criticato la scelta di non assegnare il premio a Virtual Self solo per non essere abbastanza pop, ma la vera ragione è che “Electricity” è un pezzo ben costruito e che ha meritato il successo ricevuto.
BEST DANCE/ELECTRONIC ALBUM - “Woman Worldwide” - Justice: no. No e no. No e no e no. La loro peggiore versione di tutti i loro brani (anche quelli già deboli in partenza, e sto parlando della quasi totalità di “Woman”) non può ricevere il premio come miglior album dance/elettronico. Di tutto quello che si trova in questo disco, si salvano solo un paio di cose. Sostengo quello che sostengono i loro fan. La loro carriera è in continuo peggioramento da un album all’altro. Rischiano di diventare irrilevanti. In questa categoria c’era SOPHIE che avrebbe sicuramente meritato maggiormente il premio.
BEST ROCK PERFORMANCE - “When Bad Does Good” - Chris Cornell: un premio alla memoria per un artista apprezzato moltissimo dai colleghi e le cui capacità sono state spesso riconosciute anche dalla critica. Ci mancherà.
BEST ROCK SONG - “Masseduction” - St. Vincent: di tutte le canzoni candidate, è quella con meno views su YouTube. Stavolta all’Academy non hanno guardato i numeri ma hanno ascoltato: un brano di qualità da un album di qualità per sovvertire tutte le aspettative.
BEST ROCK ALBUM - “From The Fires” - Greta Van Fleet: discutissimi per essere soltanto dei copioni dei Led Zeppelin, possono alzare il dito medio ed essere soddisfatti per il premio portato a casa. E’ un riconoscimento del buon lavoro fatto ma non fermerà le critiche.
BEST ALTERNATIVE MUSIC ALBUM - “Colors” - Beck: per essere un album registrato in quattro anni è brevino e non ha colpito il 100% della critica. Tuttavia viene apprezzato dalla giuria dei Grammy, e questo è quello che conta. Complimenti a Beck, che se la doveva vedere con gente non proprio qualunque: Arctic Monkeys, Bjork, David Byrne, St. Vincent.
BEST R&B PERFORMANCE - “Best Part” - H.E.R. Featuring Daniel Caesar: era tra le favorite per il premio e non ha deluso le aspettative. Dopo questa cerimonia la sua carriera è definitivamente decollata e le aspettative per lei si alzano.
BEST URBAN CONTEMPORARY ALBUM - “Everything Is Love” - The Carters: la supercoppia Beyoncé/Jay-Z si porta a casa il premio che forse conta di più tra i tre per cui sono stati nominati. L’album è piaciuto (non a tutti, a dire il vero) ed ha avuto successo. Sottolineati soprattutto i testi, completamente autoreferenziali e che rivelano come questo sia un album che i due hanno scritto soprattutto per loro stessi.
BEST R&B ALBUM - “H.E.R.” - H.E.R.: valgono le considerazioni fatte sopra: era la favorita ma ora non ci accontentiamo e vogliamo sentire le sue prossime uscite nella speranza che siano buone quanto quello che ci ha fatto ascoltare finora.
BEST RAP PERFORMANCE - “King’s Dead” - Kendrick Lamar, Jay Rock, Future & James Blake / “Bubblin” - Anderson .Paak: ex-aequo per questi due brani. Il primo proviene dalla colonna sonora di “Black Panther”; il secondo è un ottimo esempio di come Anderson .Paak stia acquisendo visibilità, parzialmente testimoniata dal favore del suo ultimo album. In un certo senso erano considerabili come gli outsider della categoria, dovendosi scontrare con Cardi B, Drake e Travis Scott.
BEST RAP SONG - “God’s Plan” - Drake: brano fortissimo e dominatore di classifiche, le vendite hanno sicuramente fatto la loro parte per indirizzare questo premio verso Drake, e non penso che qualcuno possa lamentarsene.
BEST RAP ALBUM - “Invasion Of Privacy” - Cardi B: grandissimo successo per lei, il suo album e i suoi singoli, riconosciuto dall’Academy con il premio. Ora è in cima al mondo con il suo album di debutto ed è una delle maggiori star musicali del momento. E’ una nuova diva, un nome di punta, e adesso l’obiettivo è non cadere. Ma sono convinto che lei sappia perfettamente come fare per rimanere in cima alle classifiche. Il suo 2018 non può essere stato un caso.
BEST COUNTRY ALBUM - “Golden Hour” - Kacey Musgraves: ci tengo a ribadire che quest’album è magnifico, e il riconoscimento come miglior album non solo nel suo genere, ma in assoluto, deve essere un invito per tutti ad ascoltarlo. Consigliato, e Kacey Musgraves vincitrice assoluta di questi Grammy.
BEST COMPILATION SOUNDTRACK FOR VISUAL MEDIA - “The Greatest Showman”: abbiamo già visto come questa colonna sonora sia riuscita ad arrivare nella top 5 degli album più venduti negli USA, ora arriva anche il riconoscimento per la sua qualità.
BEST SCORE SOUNDTRACK FOR VISUAL MEDIA - “Black Panther” - Ludwig Goransson: la colonna sonora del film Marvel ha ricevuto molti pareri positivi, confermati da questo premio che funge da ottimo biglietto da visita per gli Oscar.
BEST SONG WRITTEN FOR VISUAL MEDIA - “Shallow” - Lady Gaga, Mark Ronson, Anthony Rossomando & Andrew Wyatt: premio per gli autori del brano, una delle assegnazioni più prevedibili, e proprio per questo particolarmente meritata.
BEST RECORDING PACKAGE - “Masseduction” - Willo Perron: premio puramente estetico per come si presenta l’album. Premio discutibile, a mio parere, anche se le alternative non erano chissà cosa.
PRODUCER OF THE YEAR, NON CLASSICAL - Pharrell Williams: cosa non ha fatto quest’anno. The Carters e Ariana Grande sono passati dalle sue mani, e mi sento di dire che quasi tutto quello che tocca diventa oro.
BEST MUSIC VIDEO - “This Is America” - Childish Gambino: prevedibile e meritatissimo, un video bello e impegnato, tra i migliori degli ultimi anni.
Da me, questo è tutto. Spero che la lettura non sia stata faticosa, anche se capisco che passare in rassegna questo elenco di premiati e non avere a che fare con un testo scorrevole può essere fastidioso. Visto che non lo dico da molto tempo, appuntamento alla prossima tappa della nostra odissea musicale!
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Sanremo 2019, serate 4-5
Quante cose da dire. Ho deciso di accorpare le ultime due serate perché non credevo che un post dedicato esclusivamente alla finale sarebbe stato utile, considerando che i brani li ho ascoltati tutti diverse volte e quindi ho un’opinione ben chiara di tutti i partecipanti. Ci tenevo però a dire la mia sui duetti e sulla classifica finale, quindi: presenterò gli artisti in ordine di arrivo, darò un commento finale sul loro Festival con un breve accenno al duetto e poi vi dirò dove si piazzano nella mia classifica personale con un numero tra parentesi.
24) Nino D’Angelo e Livio Cori: il brano era sicuramente debole e l’ostacolo linguistico italiano-napoletano non ha facilitato le cose. Il duetto con i Sottotono ha leggermente migliorato le cose, donando modernità al pezzo. (23°)
23) Einar: anche questo pronosticabile, quasi annunciato. Brano spento e prevedibile, tenuto a galla da Sergio Sylvestre nella serata dei duetti. (21°)
22) Anna Tatangelo: canzone banalmente sanremese, anche se ben eseguita sul palco e che nel duetto con Syria guadagna molti punti. (22°)
21) Patty Pravo con Briga: anche qui era facile pronosticare la brutta posizione: i cantanti non hanno mai mostrato armonia o complicità e il brano era semplicemente attempato. Giovanni Caccamo nella quarta serata non ha migliorato lo scenario. (24°)
20) Negrita: credo sia banale dire che da loro ci si aspettava di più, anche se era chiaro che difficilmente sarebbero arrivati in posizioni di rilievo. Ma la loro musica è interessante, e quindi forse era lecito aspettarsi di vederli almeno nella prima metà della classifica. Bene Enrico Ruggeri la quarta serata, ma veramente ottimo Roy Paci. Il pezzo paga un’inconsistenza complessiva. (14°)
19) Nek: uscito più che sconfitto da un Festival da cui chiedeva poco e niente, destinato (come hanno detto tutti incluso me stesso) a spopolare alla radio i prossimi giorni. E’ stato un piacere ascoltare la sua canzone, personalmente parlando, anche se non condivido la scelta di rallentarla nel duetto con Neri Marcorè. (10°)
18) Federica Carta e Shade: se possibile, dopo le prime sere, sembravano destinati ad arrivare ancora più in basso. Il duetto con Cristina D’Avena sembrava non avergli fatto bene. Non saprei dire se possano dirsi soddisfatti o meno. Nelle sue interviste Shade sembrava contento, va detto. Sta crescendo come artista e a quanto pare va bene così. Brava anche Federica, mi è piaciuta, anche se mi ci è voluto un po’ per farmi apprezzare il loro brano. (11°)
17) The Zen Circus: insensato immaginare che il palco sanremese si sarebbe dimostrato adatto alla loro musica, hanno comunque ricevuto diversi complimenti sul web. Considero molto valida la loro esperienza sanremese, peccato per la serata duetti in cui la presenza di Brunori Sas, a mio parere, non ha accresciuto il valore del loro brano, di per sé coraggioso e affascinante. (5°)
16) Paola Turci: la prima parola che mi viene in mente è: “deludente”. Dopo l’ottimo brano del 2017 era lecito aspettarsi di più, ma purtroppo non è ciò che abbiamo ottenuto. Nella serata duetti, però, con Beppe Fiorello la performance è stata ottima. Tuttavia il brano era debole in partenza e quindi una sola buona esibizione non può bastare. (18°)
15) Francesco Renga: anche lui banalmente sanremese, le sue performance lo distaccano da Anna Tatangelo, la sua curiosa uscita al Dopofestival sulla bellezza delle voci maschili e femminili ha suscitato non poche perplessità. Il duetto con Bungaro non è male, migliora la canzone ma non abbastanza. (19°)
14) Motta: vincitore (discusso e discutibile) del premio come miglior duetto, ha presentato un brano che cattura dopo diversi ascolti. E’ sicuramente un artista di talento, ma personalmente sia da solo che con Nada non mi ha impressionato abbastanza. (12°)
13) Ex-Otago: circondati quasi dall’indifferenza, non mi aspettavo di trovarli qui, ma più in basso. Il loro pezzo non è brutto, ma passa inosservato, e l’intervento di Jack Savoretti non lo ha migliorato. (16°)
12) Ghemon: ci son rimasto male, ritengo che il suo fosse un pezzo valido e meritasse un piazzamento migliore. Si tratta di un incontro tra generi interessante e fresco, mi dispiace sia finito nell’ombra. La sua performance con Diodato ed i Calibro 35 è stata probabilmente una delle mie preferite di tutto il Festival. (2°)
11) Boomdabash: giudizio sospeso fino a giugno. Solo allora verificheremo il vero successo di questo brano. I Boomdabash hanno il merito di aver portato atmosfere nuove a Sanremo. Bene con Rocco Hunt e i Musici Cantori di Milano. (15°)
10) Enrico Nigiotti: molto cantautorale, molto sanremese, molto personale, anche troppo, il suo brano sembra più adatto ad essere cantato in solitudine con la propria chitarra che “di fronte” a dieci milioni di persone. Paolo Jannacci e Massimo Ottoni aggiungono qualcosa al brano, ma non molto. Ha vinto il Premio Lunezia per il valore musical-letterario del brano. (20°)
9) Achille Lauro: lo dico, lo ammetto, lo confesso: avrei preferito vederlo più in alto. Il suo è uno dei pezzi più discussi del Festival, se parli di droga, di auto, se sia una nuova “Vita spericolata”, se sia il simbolo della trasgressione delle nuove generazioni, se sia l’ingresso all’Ariston dell’onda trash che va per la maggiore qui in Italia da un anno a questa parte. Io penso che sia solo una bella canzone rock cantata da un ragazzo con personalità e che non ha paura di esporsi. L’ho davvero apprezzato, e l’esibizione fuori di testa insieme a Morgan è sul podio dei migliori momenti del Festival. (8°)
8) Arisa: molto brava e alternativa nel portare un brano così scanzonato e leggero. Ci voleva, ed è una scelta che alla fine a Sanremo paga, se non altro perché permette di sfuggire dai soliti canoni. Davvero molto bella l’esibizione con Tony Hadley. (9°)
7) Irama: sembrava potesse arrivare sul podio. Aveva grande seguito tra il pubblico, il suo brano era bello e trattava un tema importante. Bravissima Noemi nel duetto, ma dove c’era lei è mancato lui. Peccato. Comunque deve ritenersi soddisfatto, la sua canzone ha fatto breccia nel cuore di molti. (7°)
6) Daniele Silvestri: mi dispiace Daniele, non ce l’abbiamo fatta. Il suo brano, l’ho detto già, era il mio favorito: intelligente, moderno, cupo, ben eseguito. L’aggiunta di Manuel Agnelli (presente nella versione ufficiale) non sono sicuro giovi alla dinamicità e ritmicità della canzone, anche se la rende ancora più scura e dolorosa. Anche in questo caso, ottimo il riscontro di pubblico, con la speranza che ora tutti possano conoscere Rancore, che molti amanti del rap non esitano a definire il miglior esponente italiano del genere. Si è portato a casa diversi premi: Premio Sergio Bardotti per il miglior testo, Premio della Critica Mia Martini, Premio Sala Stampa Lucio Dalla. (1°)
5) Simone Cristicchi: teoricamente da questo punto in poi dovrei essere sempre insoddisfatto perché tutti gli artisti si sono piazzati meglio del mio preferito, ma non è così. Ce ne sono diversi per i quali capisco il miglior piazzamento. Cristicchi è uno di questi. La sua poesia in musica è un piacere per le orecchie e il cuore, e le sue esibizioni con gli occhi lucidi hanno commosso quasi tutti. Scegliere Ermal Meta per il duetto è stata una mossa giusta, visto che entrambi sono sembrati perfettamente a loro agio nell’interpretazione del brano. Ha vinto il Premio Giancarlo Bigazzi alla miglior composizione musicale (assegnato dall’orchestra) e il Premio Sergio Endrigo alla miglior interpretazione. (6°)
4) Loredana Bertè: tra le proteste del pubblico (giustificabili) Loredana è finita fuori dal podio. Questo non toglie che la sua carica e la sua forza siano state tra le caratteristiche che hanno contraddistinto questo Festival. Molti avrebbero voluto vederla premiata come riconoscimento alla carriera, ma lei ha detto che questi giorni sono stati bellissimi lo stesso. Lo sono stati anche per noi che l’abbiamo ascoltata, sia da sola che con Irene Grandi. (4°)
3) Il Volo: e chi l’avrebbe mai detto? Si sa che hanno un gruppo di ammiratori piuttosto specifico, ma non sembrava dovessero arrivare lontano, complice l’aver portato un brano troppo simile a quello con cui avevano vinto nel 2015. Quando è stato rivelato che erano sul podio si è diffuso il panico: erano la variabile impazzita, i preferiti di coloro che giudicano come prima cosa il “bel canto”. Non hanno vinto, l’hanno presa bene. Complimenti per il podio, grazie per aver partecipato. In questo Festival non si giocavano niente, ma sono riusciti a stabilire il loro ruolo di esponenti di spicco della musica italiana soprattutto all’estero. Decisamente interessante il duetto con Alessandro Quarta. (13°)
2) Ultimo: tempo per me di beccarmi l’odio delle appassionatissime fan del giovane romano. La sua ballata farà nascere tantissime coppie nei prossimi mesi, e in generale le sue canzoni saranno la colonna sonora di molte storie d’amore negli anni a venire. Ha fatto ciò che sa fare e lo ha indirizzato a chi sapeva lo avrebbe apprezzato. Stradominatore del televoto, dato per favorito da chiunque, dai bookmakers ai giornalisti alla gente in mezzo alla strada, neanche potevo crederci quando ho sentito che il vincitore non era lui. Non che sperassi nel suo annunciato trionfo, non faccio parte della demografica a cui si rivolge, ma è stata una sorpresa di grandi proporzioni. Il suo brano si è fatto apprezzare poco per volta, per quanto mi riguarda. Fabrizio Moro ha rischiato di buttare tutto all’aria cantando nella sua solita terribile maniera, ma il pubblico pare non essersene accorto. Sicuramente non era la mia canzone preferita, ma vederla in cima come sembrava ovvio dovesse succedere non mi avrebbe dato fastidio. Parentesi sulla conferenza stampa post-serata: sono convinto che Ultimo non volesse mancare di rispetto a Mahmood e sia stato ingenuo a cadere nella provocazione dei giornalisti che volevano chiaramente una polemica da cavalcare. Ulteriore appunto: rispetto tantissimo lui e la sua musica, ma la sua fanbase morbosa e appiccicata mi irrita, nello stesso modo in cui lo faceva quella degli One Direction qualche anno fa. Ha vinto il Premio TIMmusic (per il maggior numero di streaming, ulteriore prova che da casa preferivano lui). Direi che è arrivato il momento di considerarlo ufficialmente un artista di qualità e un nome importante della musica italiana almeno per il prossimo pugno di anni, fino a quando il cuore dei suoi sostenitori non verrà rubato da qualcun altro. (17°)
1) Mahmood: posso dirmi contento, e mi levo subito il peso di menzionare anche gli altri riconoscimenti che ha avuto: Premio Enzo Jannacci alla migliore interpretazione e Baglioni d’oro durante il Dopfestival, premio consegnato all’artista più apprezzato dagli altri partecipanti alla gara. Che dire di lui e della sua canzone? E’ probabilmente quella che guarda più avanti di tutte, ha il suono del 2019, è allineata con quelle che sono le sonorità di questo periodo. Il mix di influenze è una marcia in più, così come lo è il testo. Tra le cose migliori del Festival annovero l’orchestra che esegue i clap durante il ritornello (idea di Dardust, come rivelato in conferenza stampa), che mi ha ricordato l’edizione 2017 in cui i Professori intonavano “alé” durante “Occidentali’s Karma”. Mi è sempre piaciuta l’idea dell’orchestra che prende parte al brano in maniera alternativa dal normale accompagnamento. Quando l’hanno proclamato vincitore non ci credeva neanche lui, e probabilmente gli ci vorrà qualche giorno per capire tutto. Essere ospitato in ogni trasmissione durante la prossima settimana non lo aiuterà. La sua vittoria (merito soprattutto delle giurie, che hanno sovvertito quanto risultava dal televoto, in cui era terzo) è una buona cosa anche in prospettiva Eurovision: difficilmente avremmo potuto proporre un brano più adatto alla manifestazione continentale. Era tra i miei prediletti, ma già vederlo arrivare alla fase a tre è stato bizzarro. Sono felice per lui, ma da adesso in poi viene il difficile. “Vincitore di Sanremo” è una grossa etichetta da tenere, nel corso della carriera. Una critica che gli muovo è aver scelto Guè Pequeno nella serata dei duetti: sembrava assente e poco coinvolto durante l’esibizione. Ha vinto la modernità, ha vinto l’alternativa al classico brano da Sanremo, ha vinto la creatività. Ha vinto Mahmood. *clap clap* (3°)
#musica#darthreset#post11#sanremo2019serate45#sanremo2019#sanremo#mahmood#ultimo#ilvolo#danielesilvestri
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Sanremo 2019, serate 2-3
Sarà un post breve, parlerò di come le mie impressioni su alcune delle canzoni siano cambiate dopo la seconda esibizione di tutti gli artisti.
Federica Carta e Shade: rivalutata in positivo, se non altro per ovviare ad una mia incongruenza, cioè aver premiato altri artisti per la radiofonicità delle loro canzoni e aver criticato questa coppia per la stessa ragione. La loro canzone è simpaticamente orecchiabile e su internet è fra le più ascoltate.
Einar: dopo il secondo giro mi sento di dire che la sua è una delle canzoni peggiori.
Boomdabash: rivalutati in positivo, hanno creato una canzone dai suoni caldi ed estivi. Presentarla fuori stagione un po’ li penalizza, ma ascoltarla d’estate non sarebbe una tortura come lo sono stati altri tormentoni gli anni passati.
Nino D’Angelo e Livio Cori: rivalutati in negativo, pezzo lento, difficile da capire e poco adatto all’anno 2019.
Patty Pravo con Briga: tra i peggiori.
Il Volo: rivalutati in positivo, anche se, come già detto, non escono dal loro schemino classico. Ma se ci sono le voci (buone) e c’è la musica (buona) non posso dire che sia un brutto brano.
Paola Turci: giudizio ancora sospeso perché ha cantato meglio della prima sera, ma comunque non bene. Continuo ad avere fiducia nelle potenzialità del brano ma se alla prossima non mi convince allora dovrò dire che è una brutta canzone.
Motta: rivalutato in positivo, il suo brano è piuttosto interessante sotto diversi punti di vista, anche se il testo mi sfugge ancora un po’. Non so cosa avevo in mente per giudicarlo male come avevo fatto la prima volta.
The Zen Circus: il mio giudizio verso di loro era sicuramente positivo, ma avevo bisogno di riascoltarli per farmi un’idea precisa ed ora me la sono fatta: la loro canzone mi piace.
Achille Lauro: rivalutato in positivo, brano energico e accattivante.
Arisa: rivalutata in positivo, bastava abituarsi alla struttura del suo pezzo.
Loredana Bertè: rivalutata in positivo, canzone bella tosta per i canoni sanremesi e la solita personalità grintosa sul palco.
Daniele Silvestri: lo confermo, la canzone migliore l’hanno portata lui e Rancore.
Ultimo: rivalutato in positivo, ha una canzone che funziona anche se non priva di punti deboli. In ogni caso sarà tra i brani più di successo del Festival.
Tutti gli altri: valgono le considerazioni fatte nel post precedente.
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Sanremo 2019, serata 1
Non ho intenzione di commentare la trasmissione in generale o la conduzione, ma solo le canzoni in gara. Le vedremo divise in tre zone in base alla classifica provvisoria: rossa per quelle più in basso, gialla per quelle a metà e blu per quelle più in alto. All’interno di ogni zona presenterò gli artisti in ordine alfabetico. Iniziamo.
ZONA ROSSA
Achille Lauro: ha ricevuto un sacco di complimenti al Dopofestival, mentre sui social la gente si chiedeva confusa se avesse ascoltato la canzone sbagliata. No, la canzone è quella, “Rolls Royce”, ed è una canzone valida, sufficientemente lontana dai noiosi canoni sanremesi e allo stesso tempo non eccessivamente sovversiva: carica di energia, moderna, non capisco lo sdegno di gran parte del pubblico. Non sarà un pezzo memorabile e destinato a rimanere negli annali, ma non ha nulla di brutto.
Einar: arrivato da Sanremo Giovani, c’era curiosità intorno a lui e al suo brano che, ahimè, non basta. Aveva una grande occasione per cavalcare il suo successo dopo la vittoria tra i giovani, ma non ha mantenuto le aspettative: pezzo insufficiente, poco incisivo, senza momenti degni di nota. Concordo con il suo posizionamento nella zona rossa.
Ex-Otago: classificati come gruppo indie anche se poi loro stessi durante il Dopofestival chiedono ironicamente “che cazzo è l’indie”, presentano “Solo una canzone”, brano dotato di una buona ritmica ma senza particolare rilevanza sotto altri aspetti. Non il brano peggiore della manifestazione, avrebbero meritato la zona gialla.
Ghemon: si comincia a notare uno schema: tutti gli artisti nominati finora si sono esibiti nella seconda metà della serata. E’ chiaro che il momento dell’esibizione ha fatto la sua parte. Trovare Ghemon nella zona rossa è stata una grande sorpresa: a me il suo brano è piaciuto molto. Si è discusso su internet riguardo alcune sue imperfezioni vocali, e posso anche essere d’accordo, ma questo non toglie che l’impressione generale che ho ricavato dalla sua esibizione è molto positiva. Lui per me è una sorpresa, mi dispiace vederlo così in basso. Spero che la sala stampa e il pubblico da casa abbiano riconosciuto il suo potenziale, e che le prossime serate con un diverso ordine di esibizione possano rendergli giustizia.
Mahmood: la sua è stata l’ultima esibizione ed una delle migliori. Anche lui penalizzatissimo dalla scaletta, fa molto meglio del suo collega Einar, entrambi vincitori di Sanremo Giovani. La canzone di Mahmood coinvolge e trascina, con un ritornello che entra in testa grazie ai clap e alla sua voce unica. Arrangiamento efficace, non esagerato e non banale, testo intelligente, esattamente come Ghemon meritava di più.
Motta: questo Sanremo non parla ai giovani finora: l’elenco degli artisti etichettati prima della manifestazione con un “e questi chi sono?” sono in fondo, anche se in questo caso forse è una scelta giusta. La canzone di Motta non è brutta, ma è intangibile, senza un’identità precisa, incapace di incastrarsi nelle menti degli spettatori. Non si nota, ma si sente che è una canzone che con un paio di accorgimenti può emergere. Non un granché finora, penalizzata anche da un testo non eccellente.
Nino D’Angelo e Livio Cori: anche qui sono d’accordo con la zona rossa. Il loro brano è più vicino ai canoni classici di Sanremo, con l’aggravante che ormai la canzone napoletana non suscita più l’effetto di prima, anche se sperimentata con un confronto tra generazioni come questo. Mediocre, tollerabile, ma giustamente tra le peggiori.
The Zen Circus: nella schiera dei “e questi chi sono?”, provano a portare sonorità inusuali per il Festival, che funzionano a metà. Interessante come il pezzo cresce e aumenta d’intensità, questo potrebbe essere anche ciò che per ora li sta condannando: l’assenza di un vero e proprio ritornello gli impedisce di entrare in testa all’ascoltatore, e si sa che una canzone che richieda un po’ più di attenzione per essere apprezzata e non si basi sulla ripetizione del titolo di tanto in tanto, a Sanremo non fa strada. E’ un peccato perché è un pezzo valido ed energico, che non merita di stare in fondo alla classifica.
ZONA GIALLA
Arisa: ecco la solita Arisa, con la sua canzone lenta di archi e pianofo… No, aspettate, cosa? Il pezzo fa un’inversione completa e diventa una hit pop orecchiabilissima e movimentatissima. Incredibilmente sorprendente. Testo non eccelso, canzone in generale non stellare ma guadagna moltissimi punti per l’effetto sorpresa. Non avrei scommesso un Euro su una canzone di questo tipo, e sicuramente non da Arisa. Mi piace, mi piace tantissimo, mette allegria e ti fa muov… Ehi, perché è tornata alla classica canzone “alla Arisa”?
Boomdabash: premessa: non mi piace il reggae, quindi nella mia graduatoria personale non sono piazzati tra i primi. La loro canzone comunque è ok, simpatica, sembra pronta e confezionata per essere cantata con gli amici. Mette il buonumore, ma non splende. Di certo non tra le peggiori, ma, anche a causa dei miei gusti, non riesco ad apprezzarla fino in fondo.
Federica Carta e Shade: in un certo senso anche loro penalizzati dal piazzamento (hanno cantato subito dopo una delle mie esibizioni preferite), riascoltandoli ora il loro brano forse non è così negativo come mi era parso inizialmente, tuttavia non è abbastanza per scalare nella mia classifica personale. Testo non memorabile, arrangiamento decente, voci ok. Nella media, direi. Nei prossimi giorni la mia opinione di loro potrebbe cambiare. Vedremo, per il momento non hanno lasciato il segno (eccezion fatta per il freestyle di Shade al Dopofestival, piacevolissimo).
Negrita: l’avvio della canzone mi ha fatto drizzare le antenne, ma poi una parte vocale poco interessante e un brutto sviluppo della parte strumentale le hanno fatto perdere punti. Ottimo anche il finale che richiama l’intro, cercherò una versione da venti secondi (i primi dieci e gli ultimi dieci). Posso dire che mi aspettavo qualcosa in più da loro, ma purtroppo l’ambiente sanremese li ha un po’ spenti. Punti bonus per le movenze di Pau.
Enrico Nigiotti: unico membro della truppa di XFactor in questo Festival, non tiene alto il nome del suo talent di provenienza: è la classica canzone alla Nigiotti, con l’aggiunta del tocco sanremese che peggiora qualcosa di già brutto in partenza. Non mi è mai piaciuto, e non è questa canzone a farmi cambiare idea. Sarebbe potuto andare benissimo in zona rossa. Specifico però una cosa: il suo brano non è il peggiore.
Patty Pravo con Briga: il loro potrebbe esserlo: Patty Pravo sempre meno capace di articolare le parole (ed è un peccato, perché si sente che la voce c’è) e Briga inconsistente. Tipica canzone sanremese, non ho altri commenti da fare.
Anna Tatangelo: anche la sua è una canzone che potrebbe trovarsi in zona rossa senza scandali. Il discorso è simile a quello di sopra: è esattamente ciò che ci si aspetterebbe da una canzone di Anna Tatangelo a Sanremo: se vi piace il genere, questa sarà di vostro gradimento; altrimenti la ignorerete senza rimpianti. Nota: diversi giornalisti hanno detto che quella di stasera è stata la migliore esibizione della Tatangelo. Non so se sono riuscito a incuriosirvi, ma sappiate che se non l’ascoltate non vi perdete niente.
Paola Turci: la sua canzone rimane in testa: riascoltandola ora mentre scrivo, mi sono reso conto che la sola intro mi fa tornare in mente il ritornello che si è insediato nella mia mente dal primo momento. Non è un brano all’altezza di quello presentato alla sua ultima apparizione a Sanremo, due anni fa, ma è comunque un pezzo valido. Si sente che potrebbe diventare una costante per radio nei prossimi giorni. Il giudizio su questa canzone tuttavia è influenzato da una performance vocale insufficiente. Evidentemente per il momento questo problemino è passato inosservato e ha permesso al brano di mostrare dove può arrivare. Se la voce di Paola Turci migliorerà nelle prossime serate, il pezzo potrebbe guadagnare nuovi consensi, probabilmente meritati. Giudizio sospeso, intanto si piazza nel limbo della zona gialla.
ZONA BLU
Loredana Bertè: non me l’aspettavo. Nel senso che non mi aspettavo di trovarla nella zona blu e non mi aspettavo di non avere nulla in contrario: energia, forza, potenza, la Loredana che volevamo. Non c’è tanto altro da dire: testo nella media, arrangiamento piacevolmente rock, e voce urlata come si deve. In molti temevano che si sarebbe sfociati in un momento trash sia musicalmente che televisivamente, e invece ci siamo trovati ad ascoltare una bella canzone che ha ricevuto il riconoscimento che merita.
Simone Cristicchi: ha fatto piangere mezza Italia. Non è la sua canzone migliore, ma è sentitissima. Semplice, leggera, efficace, con un testo che è un gioiello. C’è poco da commentare, tale è l’essenzialità di questo brano. Va ascoltato e basta, bisogna sentirsi partecipi di quelle emozioni. Non è una canzone che posso descrivervi, scusate. Ha ricevuto un sacco di complimenti sui social, potrebbe essere tra i tre più votati dal pubblico a casa.
Il Volo: perché? Io voglio sapere perché. Dopo aver ascoltato la loro canzone vincente nel 2015 avete ascoltato il 95% della loro discografia e delle loro capacità vocali. Che altro c’è da ascoltare? Cosa portano di nuovo a questo Festival? Che abbiano delle belle voci lo sappiamo, ma non c’è diversificazione, sono sempre uguali a se stessi: sempre banali nei testi, sempre accompagnati da strumentazione che invita alla tragedia, sempre mediocri. Mai terribili, mai ottimi, la zona gialla sarebbe stata più adatta. Sembrano ricevere tantissimi complimenti all’estero da chi li vorrebbe all’Eurovision. Non facciamoci ingannare, non vincerebbero.
Irama: la parte migliore della sua canzone è il testo, con cui racconta una toccante storia che tiene sospeso l’ascoltatore nell’attesa del finale e nella speranza che tutto vada a finire bene. Strumentalmente segue gli standard sanremesi adattandoli al rap. Punti bonus per il coro gospel che lo ha accompagnato. Veramente bravo, meritatamente tra i migliori.
Nek: probabilmente aiutato dal piazzamento tra i primi in scaletta, ha avuto il merito di dare la scossa ad un Festival fino a quel momento troppo classico. Nek ha portato il rock e l’energia con quel suo essere sempre giovanissimo da oltre vent’anni. Assicurati i passaggi in radio, testo “alla Nek”, riff di chitarra in primo piano, brano orecchiabilissimo, sono felice che sia in zona blu. Bene, molto bene.
Francesco Renga: ha aperto il Festival, e ci ha fatto subito sentire a casa con la canzone più sanremese possibile, sia nei testi che nelle musiche. Sufficiente ma niente di più: rispetta il contesto in cui si trova e si regola di conseguenza, e questo lo tiene a galla, ma non osa e questo non lo premia. Banale, zona blu immeritata.
Daniele Silvestri: tempo di esporsi: il brano migliore di tutti, con grande distacco. Testo intelligentissimo, attualissimo, che parla ai giovani, arrangiamento che lo sposa perfettamente nella sua rabbia adolescenziale. Silvestri si presenta sul palco accompagnato da Rancore, e l’intesa è perfetta. Il rapper incastra perfettamente i suoi versi nel testo del cantante romano, e tutto funziona fin troppo bene. E’ la classica canzone che ti assorbe e che vorresti cantare, vorresti addirittura aver scritto perché è esattamente quello che anche tu vorresti dire. Ritmo serrato, tensione continua, nulla che non vada. Se non siamo alla perfezione non ci siamo lontani, uno dei migliori lavori di Silvestri senza dubbio, nonostante tante altre sue canzoni che potrebbero fargli concorrenza. Numero 1.
Ultimo: ed ora è arrivato il momento di attirarsi un po’ di odio: per me è da zona rossa ma quasi sicuramente dominerà il televoto. La sua canzone si riassume in una frase del testo: “se solamente Dio inventasse delle nuove parole potrei scrivere per te nuove canzoni d’amore e cantartele qui”. Se per voi questa frase è poesia e meriterebbe di entrare nei libri scolastici allora adorerete anche il resto della canzone, altrimenti la troverete di un piattume infinito. Non è la canzone più inascoltabile di Sanremo, ma è chiaro che Ultimo ha una sua demografica molto precisa, ed io non ne faccio parte. Coerentemente, non ritengo i suoi brani dei lavori di qualità. Amen.
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Sinfonia Macchina
Ciò che voglio fare con questo blog non è solo parlare delle ultime uscite o commentare le ultime notizie: voglio soprattutto mettervi al corrente dell’esistenza di tanta buona musica sconosciuta ai più, per esempio “Automatica”, album di musica elettronica rilasciato da Nigel Stanford il 15 settembre 2017. E’ un album in cui convivono brani più vicini al mondo dance, ed altri più da “ascolto da fermi”.
La copertina raffigura un uomo e un robot visti di spalle che camminano affiancati in un corridoio delimitato da grosse strutture di ferro sotto un cielo notturno in cui trovano posto anche tre meteoriti. E’ una scena alienante e suggestiva allo stesso tempo.
L’album è aperto dalla title track, che è stata anche singolo di lancio dell’album con un videoclip pazzesco, in cui la canzone veniva suonata da robot solitamente impegnati in stabilimenti industriali. La canzone inizia con un giro di basso a cui si aggiungono pianoforte e batteria, prima che il suono viri verso il mondo digitale grazie ad un synth. Il pezzo si carica per un minuto e mezzo abbondante prima di dare sfogo a tutta la sua energia scatenante. Intermezzo di nuovo affidato ai soli pianoforte e batteria, aggiunta del synth, e secondo drop bello pronto, stavolta anche con la chitarra elettrica a completare questo sfogo meccanico e robotico. Solo la prima traccia e già sembra di essere nel mezzo della festa.
Seconda traccia, singolo anche questo, “One Hundred Hunters”. Tastiera e basso guidano il brano mentre altri suoni digitali e una voce processata crescono d’intensità. La canzone si prende un po’ di calma e torna a crescere dalle parti vocali. E’ un brano da ascoltare più che da ballare, e porta con sé un senso di tranquillità e pace grazie alla linea di tastiera essenziale che non lascia mai il brano. Il video mostra immagini lunari, e la sensazione di rilassamento che si prova con il brano è la stessa che si prova nella solitudine, in come possiamo immaginare il vuoto dello spazio noi che non l’abbiamo mai vissuto.
Tocca ora a “If I Go Down”, in collaborazione con la cantante Catey Shaw. Dai primi secondi la canzone sembra dirigersi verso un suono dance molto elementare, molto radiofonico. La voce di Catey funziona, e la parte strumentale le offre un’ottima base. Testo non degno di nota, finora il pezzo più debole ma comunque sufficiente. Il mondo dance pop ci ha fatto sentire molto di peggio: sentire questa per radio sarebbe un momento di sollievo.
Traccia 4, “Everything Changed” in featuring con Dallin Applebaum. Il pezzo si sviluppa con suoni più subdoli, meno sparati in superficie. Anche la voce di Dallin, soprattutto con l’effetto riverbero nel ritornello, sembra spuntare dall’ombra. Il testo, piuttosto banale, parla di come tutto sia cambiato in una relazione. Il mio giudizio su questo brano è molto positivo, merito sia della parte strumentale che di quella vocale, molto evocative e immersive. Credo che il momento migliore per ascoltarla sia al buio, sentendosi circondati dai suoni ombrosi e dal beat secco. Ottimi i momenti affidati al pianoforte, adattissimo a trasmettere ancora di più il cambiamento che c’è stato e ha fatto male.
Segue “Icarus”, cantata da Elizaveta, canzone da subito più incisiva e rapida. Beat regolare, si aspetta solo che si arricchisca e cominci a farci muovere. Interviene una linea melodica, e poi la voce della cantante. Il pezzo provoca da subito almeno uno scuotimento di spalle, rivelandosi piuttosto catchy già dal primo minuto. Perfetta da ballare con gli amici addossandosi gli uni agli altri: non si presta a semplici saltelli con il braccio che si muove a tempo: sembra chiedere più impegno e più movimento. Delle piccole variazioni nei suoni ma non nella melodia assicurano che la canzone non annoi mai e non cambi troppo da un momento all’altro. La sua genesi pensata per la pista da ballo viene rivelata dalla durata di sette minuti, di puro godimento. Il testo parla della voglia di brillare e volare. Come Icaro, magari con una fine migliore. Pezzo trascinante, ottimo compagno per chi ha energie per agitarsi.
Sesta traccia, “Gravity Waves”, puramente strumentale, anche questa più vicina al lato dance, anche se senza personalità. E’ un brano che passa inosservato e che non suscita tante osservazioni, anche se comincia a mutare intorno ai due minuti, senza tuttavia migliorare in maniera decisa. L’aggiunta di suoni atmosferici non arricchisce e non aggiunge informazioni utili, e il tentativo di accelerare il beat non riesce a trasportare l’ascoltatore e invitarlo a scuotersi. Sicuramente costruita con criterio, non è una canzone che riesce nel suo scopo.
Ancora sul versante più semplice si trova “Talk to Your Lover”, con di nuovo Catey Shaw alla voce. Valgono le stesse considerazioni fatte per la terza traccia: funziona nelle sue singole parti, ma è complessivamente una canzone “da radio”, lontana dalle idee di altre canzoni dell’album. Piuttosto, che fine ha fatto la ricerca del suono: Nigel Stanford ha quasi l’approccio di uno scienziato, sia nella parte musicale che in quella visiva. Dove sono finiti gli esperimenti?
Spero di trovarli nell’ottavo brano, che dalle prime note di pianoforte sembra interessante. E’ uno strumentale, e si intitola “Dead Pixels in the Sky”. E’ immersivo, avvolgente, strutturalmente non complesso. E’ come una quiete che si rompe dopo due minuti, quando il beat diventa più pesante e un sample che parrebbe essere una voce crea una linea melodica che sa di viaggio con i piedi staccati dal suolo, di volo in un cielo rotto e che cade a pezzi. A volte sono solo certi tipi di immagine che ti permettono di trasmettere come una canzone ti fa sentire. La calma torna nella seconda parte della canzone, quando il viaggio è finito, siamo tornati giù, e sappiamo che è stato favoloso. Brano riuscito.
Viene ora “Stay with Me Tonight”, terza collaborazione dell’album con Shaw. Lo schema è quello già visto: un pezzo orecchiabile, non elaborato, adatto a platee più vaste rispetto alle tracce più sperimentali e ricercate. Non è neanche il caso di parlare del testo, è esattamente ciò che vi aspettereste da una canzone con questo titolo. Comunque buon lavoro da parte di entrambi ancora una volta, ma rimane in secondo piano rispetto al resto dell’album.
“The Sixth Axis” (titolo bellissimo secondo me) è la traccia numero 10: parte ritmica e chitarra in apertura portano il brano verso i suoni digitali che poi riempiranno il brano, senza tuttavia mai escludere un colpo di chitarra ogni quattro battute. I suoni digitali se ne vanno momentaneamente, lasciando la chitarra da sola fino a quando altri strumenti intervengono e... Non sto descrivendo bene questo brano. Forse anche gli altri mi sono venuti male, ma questo di più. Sarà perché si muove in territori imprevedibili, perché cambia spesso senza però farti mai sentire abbandonato, perché ti fa rimanere in attesa di cosa verrà dopo mentre ti godi quello che c’è adesso. Le migliori canzoni di quest’album sono così: difficili da spiegare, facilissime da immaginare. Portano con sé una componente visiva che si trova però solo nella testa, ed è diversa da persona a persona. Però è piacevole, e ti lascia nella consapevolezza che anche gli altri che hanno ascoltato questa traccia prima di te hanno visto scenari e mondi riservati solo a loro. E credo sia fantastico.
“Cymatics” ci accompagna verso la fine: è la penultima traccia dell’album, ed è una collaborazione con il rapper Noah Caine. L’inizio del brano lascia presagire che la musica sia solo un accompagnamento per la voce di Caine, ma poi accade quasi l’inverso: sono i sample ricavati dalle parti vocali che diventano strumenti e si aggiungono e arricchiscono il brano, che compie il definitivo salto nei suoni elettrici dopo più o meno due minuti. Il flow di Caine e il beat funzionano bene insieme. Il finale del brano è un invito a ballare, con un drop entusiasmante e convincente. La canzone ci lascia con un sorriso.
Chiude l’album “Wind it up”, un brano senza alcuna pretesa di essere esagerato, ma che al contempo non lascia completamente immobili: ritmato, scorrevole, rilassante. Poi cambia personalità e si fa avvolgere dal rumore, entrando nel mondo del caos senza controllo. Scratch e sample vari compongono la terza parte del brano, che poi si riallaccia ai bei suoni della prima, divergendo qui e là verso un groove più orientato verso la dance. Una voce ripete “wind it up” mentre ci avviciniamo alla fine, suggellata da una piccola complicazione nel beat che ci abbandona poi ad un silenzio improvviso dopo esserci goduti un interessante viaggio a base di robot, pezzi di cielo e desideri di volo.
In conclusione, album davvero interessante e dalla doppia personalità: io preferisco i brani più ricercati e particolari, ma anche le canzoni dall’ascolto più facile sono molto godibili, se vi piace l’elettronica pop. Un bel lavoro da parte di Nigel, la cui ultima release è il singolo dell’anno scorso “Forever”. E ora le 12 tracce in ordine di gradimento, da quella che mi piace di meno alla mia preferita.
12) “If I Go Down” - 11) “Talk to Your Lover” - 10) “Gravity Waves” - 9) “Stay with Me Tonight” - 8) “Cymatics” - 7) “Wind it up” - 6) “Dead Pixels in the Sky” - 5) “One Hundred Hunters” - 4) “Everything Changed” - 3) “The Sixth Axis” - 2) "Automatica” - 1) “Icarus”
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Random Song Generator #1
“Romance” - Ex:Re
“Bridges” - Erthlings
“Clean Eyes” - SYML
“Tell Me” - Afrosamuraiist
“Old Hotels” - The Adjective
“All 2 U” - Manila Killa
“Clouds” - Sunrise
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Menta energetica
La prima difficoltà portata da questo post è che non so come scriverlo: potrei ascoltare e riflettere per qualche giorno, ma preferisco un approccio più immediato, cercando di trascrivere subito quello che mi viene in mente per poi apportare qualche ritocco dopo diversi altri ascolti. Perché una prima impressione su un album te la fai subito. E oggi, in quello che vuole essere il primo tentativo di portare contenuti utili appena possibile, mi occuperò di “Mint”, l’album di esordio di Alice Merton uscito il 18 gennaio 2019. Recensire un disco pop (anche se con tendenze rock come in questo caso) è difficile, perché bisogna scrivere righe su qualcosa di semplice e senza grosse pretese, dagli arrangiamenti non ricercati ma semplicemente piacevoli, almeno nelle intenzioni. Quando è stata annunicata la tracklist ho un po’ storto il naso, perché degli undici brani totali, quattro erano stati già pubblicati, e il numero è poi salito a cinque. Le canzoni veramente inedite sono allora metà del disco, un po’ pochino per i miei gusti.
Cominciamo dalla copertina, che adoro: è un primo piano di Alice Merton con una foglia di menta in bocca e una barra nera che le copre gli occhi e su cui campeggia il titolo dell’album. E’ una copertina estremamente semplice, e mi piace per questo. Ma ora passiamo alla musica.
Ad aprire c’è “Learn To Live”, di cui è stato rilasciato un video il giorno prima dell’uscita dell’album. La canzone è basata su chitarre convinte e solide, su cui Alice ci dice che non è disposta a stare in un angolo e stare a sentire chi le dice di arrendersi. Il ritornello è pieno di energia e semplice: “I want to learn how to live without the consequences”, affiancato un coro che nei concerti del già annunciato tour coinvolgerà tutti e impreziosito da piccoli tocchi di tastiera. Un pezzo di apertura carico e che introduce subito nell’atmosfera dell’album, un energy drink per iniziare e fare festa matta fin da subito.
Il secondo pezzo è “2 Kids”, dedicato sicuramente ad una persona speciale, che è uno dei due metaforici bambini del titolo. L’altro è Alice stessa. Il testo parla di come i due bambini siano pronti ad affrontare ciò che c’è davanti a loro e a sostenersi a vicenda. La canzone suona meno carica proprio perché tratta di un rapporto stretto tra due persone, risultando un brano intimo e sentito. Non è un pezzo memorabile, e “annega” nell’energia e nell’entusiasmo del brano precedente e del successivo, finendo per passare inosservato. Rappresenta quel brano che salti quando stai ascoltando l’album.
La traccia numero 3 non necessita di presentazione: è “No Roots”, singolo rilasciato nel 2016 ma esploso solo dopo un anno. Semplice nell’arrangiamento all’inizio, di solo basso, gli strumenti a poco a poco si aggiungono, arrivando all’ultimo ritornello trascinati da chitarra e tastiera, che trasformano un pezzo in partenza minimalistico in una hit dalle sfumature quasi dance. E’ proprio il finale sempre più ricco e costruito da prima dell’ultimo ritornello a rendere questa canzone un vero e proprio tarlo nella testa. Nell’economia dell’album riporta l’entusiasmo che con la traccia precedente si era un po’ perso. Il testo tratta di come la cantante, tedesca con passaporto canadese e inglese, non abbia una vera propria casa, delle radici piantate in un posto specifico. Brano trascinante fino allo stremo.
Arriva ora “Funny Business”, anche questa resa accessibile a tutti prima dell’uscita del disco, segue la scia di energia della canzone che la precede, alleggerendola leggermente. Inizia guidata dal basso e dai clap, acquisisce strati strumentali fino al ritornello, piacevolissimo e candidato ad essere futuro “compagno di docce”. Nel testo Alice chiede fiducia, perché non è sua abitudine spezzare cuori e sa quanto possa essere spaventoso temere di essere stati traditi. Può essere considerata una canzone standard, che rispecchia perfettamente il sound generale dell’album e la struttura di gran parte delle sue canzoni. E’ orecchiabilissima e, cosa più importante, non annoia, lasciando l’ascoltatore a tenere il tempo senza sapere neanche come e, se proprio vi prende, a canticchiare.
La quinta traccia è “Homesick”, canzone esplicitamente d’amore (”I said I'd never write a love song cause they always end, but you've caught me off guard”). Si differenzia subito da ogni altra canzone esordendo con il pianoforte e rivelando immediatamente la sua natura. La chitarra accompagna, rendendo il brano un valido candidato ad essere eseguito in versione acustica, considerata la sua estrema semplicità e il testo riservato. Il ritornello ha un gusto più puramente pop, che a mio parere non funziona troppo bene nel contesto di tutta la traccia.
Brano 6, altro singolo: la potente “Lash Out”, guidata da basso e chitarra nella maniera più rock concessa ad un’artista che fa anche pop. Si riesce proprio ad immaginare tutta la band a scuotersi ed agitarsi durante la registrazione, che è esattamente quello che si ritrova a fare chi ascolta Alice spiegare che a volte proprio non riesce a trattenersi dallo sfogarsi anche se non è da lei. Il ritornello ha una carica esplosiva, ma è una dose di energia che scorre in realtà per tutti i tre minuti abbondanti della canzone. Vi consiglio di guardare anche il videoclip della canzone perché cattura perfettamente la sensazione di sfogo trasmessa dal brano. Energia allo stato puro, ottima.
Dopo viene “Speak Your Mind”, che si presenta come una canzone di calma dopo la tempesta della canzone precedente. Come in altri brani, l’inizio prevede solo basso e batteria, con la chitarra che arriva dopo la prima strofa, quando Alice comincia a cantare le parole del titolo, invitando il destinatario a dire ciò che pensa e a spiegare cosa non c’è. Nella voce c’è dolcezza e delusione, mentre la chitarra nel finale aumenta il senso di dramma (sempre energico, mai depresso) per queste tanto cercate parole che non arrivano. Siamo arrivati a metà album, e questa canzone è solo la prima di un trittico dai ritmi lenti, necessario per prendere fiato in mezzo a tanti brani agitati, una vera e propria “sezione lenta” dell’album. Se volete un po’ di tristezza e canzoni sospese tra due persone, è qui che dovete cercare.
“I Don’t Hold A Grudge“ è la traccia numero 8, introdotta da tastiera e sussurri che si caricano per poi sparire ed essere sostituiti da basso e batteria, a rimarcare la struttura tipica delle canzoni dell’album. Vengono poi raggiunti dalla voce e dagli altri strumenti. Alice canta di come un’amica sia stata assente quando ce n’era bisogno ed è tornata per scusarsi. E’ una canzone filler, di riflessione su cosa fare: accettare le scuse e ripartire o rifugiarsi nell’orgoglio. Passa inosservata nell’album, non intensa quanto la precedente, non potente quanto i brani puramente pop. Presa singolarmente tuttavia, riesce ad essere catchy pure lei, a modo suo. Interessante inoltre come finisca praticamente di botto.
“Honeymoon Heartbreak” è la canzone più triste e malinconica delle undici. Rievoca un brutto ricordo, una relazione finita che ha lasciato solo un vuoto e la speranza che questo venga riempito. L’attacco, affidato alla tastiera, è sommesso e delicato, e le stesse qualità ha la voce di Alice, vibrante, tremante e sofferente, portatrice di grande intensità soprattutto nel finale, più ricco nell’arrangiamento rispetto all’inizio grazie all’ingresso della batteria e della chitarra dopo il primo ritornello. La purezza di sensazioni che porta questo brano è incredibile, e immagino che trovarsi nella situazione descritta dal brano possa renderla davvero commovente. Non mi stupirebbe sapere che c’è gente che piange ascoltandola. Migliora ad ogni ascolto, incredibile.
Si torna al pop ritmico delle prime tracce con “Trouble In Paradise”, in cui la voce diventa anche strumento per legare le varie parti del testo. La canzone acquista potenza nella seconda parte, quando fa il suo ingresso la chitarra che accompagna poi Alice nel suo falsetto durante il ritornello, in cui spiega che nel momento migliore qualcosa è andato storto e l’unica soluzione per venirne a capo era sfuggire alle regole. Si sente che siamo nella seconda parte dell’album perché questo pezzo non è di certo il più brillante, un tentativo di scatenarsi quando la festa è agli sgoccioli e le energie per saltare ancora sono scarse e tenute da parte nella speranza di un finale a bomba. Rimane un brano valido, che ha tutto il diritto di stare in quest’album che, ormai posso dirlo, mi piace.
Siamo all’ultima traccia, il singolo “Why So Serious”, che aggiunge poco a quanto già ascoltato, risultando una traccia di chiusura coerente, movimentata, allegra, che invita ad abbandonare le preoccupazioni perché c’è un lato positivo in ogni cosa. Introdotta, come da prassi, dalla parte ritmica e da una melodia scarna e minimale, acquista energia nel ritornello in cui Alice ci chiede perché siamo così seri. Permette di terminare l’album soddisfatti per quest’ultima scarica, che chiude il disco nella maniera più adatta.
Un tratto che emerge dell’album è la struttura che va a complicarsi durante la maggior parte delle canzoni, che vengono avviate solo dalla parte ritmica, e acquisiscono una melodia grazie alla voce, alla chitarra e alla tastiera soprattutto durante i ritornelli, che portano con sé anche la dose di energia giusta e necessaria per un lavoro pop che chiaramente punta alle vendite tra i giovani. Alice Merton ha evidenziato che l’album ha richiesto tre anni di lavoro in cui ha avuto diversi dubbi se fosse giusto esporre così tanto i suoi pensieri e le sue emozioni, ma ne è valsa la pena. I testi sono sentiti e supportati benissimo dalla cantante e dalla produzione in generale, guidata da Nick Rebscher. Se il 2019 si apre così, sono soddisfatto. Spero che il resto dell’anno porti tanti altri album interessanti e validi come questo. Considerando che questo è un debutto, Alice può solo crescere e migliorare, e sta percorrendo la strada giusta per riuscirci.
Ne approfitto per introdurre quella che cercherò di far diventare una caratteristica ricorrente delle mie recensioni, classificando i brani in base al mio gradimento, dall’ultimo al primo, considerando che da “Why So Serious” sono tutte canzoni che ascolterei con piacere anche occasionalmente.
11) Homesick - 10) 2 Kids - 9) I Don’t Hold A Grudge - 8) Why So Serious - 7) Trouble In Paradise - 6) Funny Business - 5) Speak Your Mind - 4) Honeymoon Heartbreak - 3) Learn To Live - 2) No Roots - 1) Lash Out
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Il 2018 secondo Billboard (parte 2)
La scelta di rimandare questo post al 2019 è volontaria: ho deciso di lasciare questo lavoro in sospeso in modo che prima o poi sentissi il bisogno di completarlo, e il momento migliore per farlo è adesso. Se avessi concluso questo doppio post nel 2018 avrei rischiato di non trovare motivazioni per ricominciare a scrivere quest’anno. Invece questa costrizione auto-imposta spero mi dia la spinta a postare con costanza. Detto questo, riprendiamo.
TOP ARTISTS:
1) Drake: non fingerò di essere sorpreso. E’ quasi un’ovvietà, e lo abbiamo visto nella parte 1: “God’s Plan” è stata la canzone più venduta dell’anno e “Scorpion” è secondo nella classifica degli album. Gli highlights del suo 2018 vedono anche l’EP “Scary Hours”, i singoli “Nice for What” e “In My Feelings” e l’acclamata collaborazione con Travis Scott nella sua “Sicko Mode”. Un anno da dominatore.
2) Post Malone: anche lui presente in entrambe le classifiche della parte 1, deve il suo successo a “beerbongs & bentleys”, e come già detto la scorsa volta, ai singoli che hanno lanciato l’album, permettendogli di stare nella classifica dei migliori artisti praticamente già da maggio. Ad ottobre ha rilasciato “Sunflower”, che fa parte della colonna sonora di “Spider-Man - Un Nuovo Universo” ed il mese successivo ha confermato di essere al lavoro per il suo terzo album. Sono curioso di vedere se riuscirà a bissare le mega-vendite del precedente.
3) Ed Sheeran: anche lui tra i monopolizzatori del 2018, la statistica incredibile è che tutte le sue vendite del 2018 sono solo un’eco di ciò che ha fatto nel 2017, anno di uscita di “(Divide)”: l’album e i singoli ad esso associati non si sono ancora fermati, e forse non lo faranno fino al prossimo disco, che comunque non dovrebbe arrivare prima della fine del tour in corso, con date programmate fino ad agosto. Se dovessi fare una previsione direi che vedrà la luce solo nel 2020, seguendo la regolarità di tre anni che finora sono sempre trascorsi tra un album e l’altro.
4) Taylor Swift: lei si trova solo in una delle classifiche della parte 1, perché i singoli e l’album sono stati rilasciati nel 2017 e seguìti nel 2018 da una manciata di singoli di scarsa rilevanza commerciale. Ciò che l’ha fatta veramente brillare è stato il tour da record che l’ha portata negli stadi di tutto il mondo facendole vincere diversi premi. Il suo anno si è chiuso con la notizia di un nuovo contratto con la Universal. Probabilmente il 2019 sarà un anno di pausa, dopo 18 mesi intensi e archiviati di sicuro nella sezione “successo”.
5) Cardi B: oh, ecco un nome nuovo. Il suo è stato un grande anno, iniziato con la collaborazione con Bruno Mars in “Finesse”, e proseguito con il singolo “Be Careful” a lanciare il suo album di debutto, “Invasion of Privacy”. L’album ha unito critica e pubblico in un unico grande consenso, testimoniato dalle vendite e dalla prima posizione raggiunta in classifica nella prima settimana. Il singolo pubblicato a luglio “I Like It” non ha avuto problemi ad ottenere lo stesso risultato, mentre la collaborazione con i Maroon 5 in “Girls Like You” è risultata nel video più visto su YouTube nel 2018, sfondando il miliardo e mezzo di visualizzazioni. Altri highlights del suo 2018 sono stati i singoli “Money” e “Taki Taki” (di DJ Snake).
TOP NEW ARTISTS:
1) Cardi B: ne abbiamo parlato appena sopra. Il fatto che una nuova artista sia nella top 5 generale dimostra ulteriormente il suo valore. Gli occhi del mondo sono su di lei.
2) XXXTENTACION: nome d’arte di Jahseh Onfroy, il primo singolo del suo 2018 è stato “Shining Like the Northstar” a febbraio, seguito il mese dopo da “Sad!” e “Changes”, che hanno anticipato l’album “?”, piombato subito in prima posizione e che ha consentito ad Onfroy di firmare un contratto da dieci milioni di dollari. Il 18 giugno XXXTENTACION viene ucciso, ma questo non ferma il successo della sua musica. Molti singoli vengono rilasciati postumi, oltre all’album “Skins”, conquistatore di classifiche e prova di cosa Onfroy avrebbe potuto ancora fare se non se ne fosse andato troppo presto.
3) Juice WRLD: il 2018 è stato l’anno del suo esordio discografico: l’album “Goodbye & Good Riddance” è stato anticipato dai singoli “All Girls Are the Same”, “Lucid Dreams” e “Lean Wit Me” e seguito da “Wasted” e “Armed and Dangerous”. Ha pubblicato un EP intitolato “Too Soon…”, dedicato ai colleghi Lil Peep e XXXTENTACION, ed un mixtape insieme a Future. Nel suo 2019 ci sarà un mixtape con Ski Mask the Slump God, annunciato a dicembre e al momento senza data di uscita prevista.
4) Dua Lipa: le prime tre posizioni sono andate ad artisti rap/hip hop che in Italia sono passati inosservati, anche a causa della barriera linguistica, particolarmente ostica quando si tratta di questo genere. Forse Cardi B rappresenta un’eccezione parziale, ma è comunque poco rispetto a quanto successo ha avuto Dua Lipa qui da noi. A gennaio ha portato a casa il Brit Award come miglior British Female Solo Artist e miglior British Breakthrough Act. Ad aprile si è ritrovata in cima alle classifiche di mezza Europa grazie a “One Kiss” insieme a Calvin Harris. La canzone è stata tra le più sentite durante l’ultima estate, e credo che su questo possiate essere d’accordo con me. A settembre, poi, è di nuovo finita in tutte le radio con “Electricity”, prodotta da Diplo e Mark Ronson. Per il 2019 è in programma il suo secondo album, e questo ci assicura almeno un altro anno di singoli da parte sua, sperando che riesca a mantenere la sua tendenza ad andare in cima alle classifiche e a sentirsi dappertutto, che in certi momenti non guasta.
5) 6ix9ine: un altro rapper che da noi si è sentito poco. Il suo primo singolo del 2018 è stato “Keke”, e il mese dopo ha rilasciato il mixtape “Day69″, da cui è stato estratto il discreto singolo “Billy”. Protagonista di controversie nella parte centrale dell’anno, ha pubblicato “Tati” a giugno e “Fefe” in collaborazione con Nicki Minaj il mese dopo. Altri singoli sono “Bebe” e “Stoopid”. A novembre è uscito “Dummy Boy”, il suo primo album, stroncato dalla critica ma che ha venduto abbastanza da permettergli di entrare in questa classifica.
TOP ROCK ALBUMS:
1) “Evolve” - Imagine Dragons: non è la prima volta che vendono tanto, ma questa volta il loro successo ha fatto sorgere diverse domande, che vanno dal semplice valore della band a cosa sia il rock al giorno d’oggi. La risposta all’ultima domanda è semplice: oggi il rock è “Evolve”, un album che apre le porte del rock all’elettronica risultando estremamente moderno, ma non per questo freddo e spento. Sebbene rilasciato nel 2017 e mai in cima alle classifiche settimanali di Billboard, la scia di singoli che ha portato con sé gli ha consentito di mettersi in cima a questa top. L’album non è stato recepito benissimo dalla critica, che l’ha definito “una non-evoluzione”, “senza vita”, “roba da festival estivi”. Pare che il pubblico l’abbia recepito in maniera diversa, ed è giustificabile, perché anche se lascia tante domande dopo il suo ascolto, di certo non è un brutto album.
2) “Pray For The Wicked” - Panic! At The Disco: sesto album per il gruppo, preceduto dai singoli “Say Amen (Saturday Night)” e “High Hopes”, è stato apprezzato dalla critica, che l’ha descritto “frenetico, caotico il giusto, coerente ed eclettico”. Non ha però trovato il plauso di diversi estimatori degli album precedenti della band, che hanno visto in questo una tendenza esagerata al mondo dance e la voglia di essere “eccessivi” usando tanti suoni di cui si sarebbe potuto fare a meno. Ha raggiunto la prima posizione nella Billboard 200 ed è stato certificato Disco d’Oro negli USA e in Canada.
3) “Diamonds” - Elton John: il fatto che al terzo posto ci sia una raccolta pubblicata nel 2017 ci suggerisce che non sia stato un grande anno per il rock e le nuove idee che avrebbero potuto accompagnarlo. “Diamonds” raccoglie 34 brani (51 nella versione deluxe) che ricoprono più di quarantacinque anni di carriera a partire dal 1970. Segue di dieci anni il precedente greatest hits, “Rocket Man: The Definitive Hits” e di uno l’ultimo lavoro in studio, il trentesimo, “Wonderful Crazy Night”. Sono classici che saranno sicuramente amati dai fan di Elton John, e una buona occasione per tutti gli altri per scoprire questo artista.
4) “Night Visions” - Imagine Dragons: rendiamoci conto. Il successo commerciale di “Evolve” ha riportato in alto anche il debutto degli Imagine Dragons, datato 2012. Questo è il sound che i critici si aspettano ancora di sentire dal gruppo, quando ancora era definito “rock” senza farsi troppe domande. Ascoltandolo subito dopo “Evolve” si capisce il senso del discorso, ma se presi singolarmente, i due album si rivelano molto forti senza doversi per forza escludere a vicenda. Trascinato da alcuni dei migliori singoli del gruppo (“Radioactive” e “Demons” su tutti) non ha mai raggiunto la prima posizione settimanale ma è finito in top 10 un po’ dappertutto. E’ stato seguito da un tour mondiale di 145 date e ha ricevuto lodi per le idee creative e la buona performance in studio del gruppo, anche se è stato detto che manca un po’ dell’adrenalina dei primi singoli.
5) “Greatest Hits” - Tom Petty And The Heartbreakers: una raccolta per celebrare il compianto Tom Petty, morto nel 2017, e la sua band che per oltre quarant’anni sono stati tra gli esponenti di punta del cosiddetto heartland rock, quello che va dritto alle radici e alla cultura americane. Non è proprio il genere di musica che riesce ad essere esportato con facilità, ma questa diventa comunque un’occasione per arricchirsi e scoprire anche ciò che da noi non arriva “andandoselo a cercare”. Io per primo dovrò acculturarmi di più su di loro, e forse una raccolta sarebbe il perfetto punto di partenza.
Per me questo è tutto. Ovviamente le categorie sono molte di più, ma sarebbe impossibile recuperarle tutte, quindi vi suggerisco di fare un salto sul sito di Billboard per vedere le altre. Io ho considerato solo alcune delle categorie principali, cercando di inquadrare le tendenze e “i vincitori” del 2018.
Appuntamento alla prossima tappa della nostra odissea musicale!
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