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#verità giuridica
iotivedoalbuio · 1 year
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M O N D I D I S T A N T I - CAPITOLO TRAVERSO #??"Gioco non a somma zero" (on Wattpad) https://www.wattpad.com/1343276814-m-o-n-d-i-d-i-s-t-a-n-t-i-capitolo-traverso-gioco?utm_source=web&utm_medium=tumblr&utm_content=share_reading&wp_uname=iotivedoalbuio&wp_originator=V7k5mxF9n9D0XizBP%2BSjki3YjPbvo%2BaZK09EVs%2BFhlUdD7wg%2FAqoOjiJRf4kFVh1097LVicsi%2BA%2FdBxue0xrYu17AYcNCdEkJ4IXNhRgPevMhn2%2FHYY4KwQZPaMU9R2E "Consapevole della responsabilità [im]morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità (per quanto voi possiate crederci o meno) e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza su ciò che è accaduto, accade, accadrà. Tribolavo nell'attesa di farlo, Signor Giudice e miei cari membri della giuria, preparate i pop corn, perché vi mangerete le mani cuticole dalla sete di conoscenza"
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schizografia · 2 years
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Rimetti a noi i nostri debiti
La preghiera per eccellenza – quella che Gesù stesso ci ha dettato («pregate così») – contiene un passo che il nostro tempo s’ingegna a ogni costo di contraddire e che sarà bene pertanto ricordare, proprio oggi che tutto sembra ridursi all’unica feroce legge a due facce: credito/debito. Dimitte nobis debita nostra… «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». L’originale greco è ancora più perentorio: aphes emin ta opheilemata emon, «lascia andare, rimuovi da noi i nostri debiti». Riflettendo nel 1941, in piena guerra mondiale, su queste parole, un grande giurista italiano, Francesco Carnelutti, osservava che, se è una verità del mondo fisico che non si può cancellare ciò che è avvenuto, lo stesso non può dirsi per il mondo morale, che si definisce appunto attraverso la possibilità di rimettere e perdonare.
Occorre innanzitutto sfatare il pregiudizio che in questione nel debito sia una legge genuinamente economica. Anche prescindendo dal problema di che cosa s’intenda quando si parla di una «legge» economica, una sommaria inchiesta genealogica mostra che l’origine del concetto di debito non è economica, ma giuridica e religiosa – due dimensioni che quanto più si retrocede verso la preistoria tanto più tendono a confondersi. Se, come ha mostrato Carl Schmitt, la nozione di Schuld, che in tedesco significa tanto debito che colpa, è alla base dell’edificio del diritto, non meno convincente è l’intuizione di un grande storico delle religioni, David Flüsser. Mentre un giorno stava riflettendo in una piazza di Atene sul significato della parola pistis, che è il termine che nei Vangeli significa «fede», vide davanti a sé la scritta a caratteri cubitali trapeza tes pisteos. Non gli ci volle molto a rendersi conto che si trovava di fronte all’insegna di una banca (Banco di credito) e nello stesso istante comprese che il significato della parola su cui rifletteva da anni aveva a che fare col credito – il credito di cui godiamo presso Dio e di cui Dio gode presso di noi, dal momento che crediamo in lui. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che «la fede è sostanza di cose sperate»: essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un credito esiste solo nella misura in cui la nostra fede riesce a dargli sostanza.
Il mondo in cui oggi viviamo si è appropriato di questo concetto giuridico e religioso e lo ha trasformato in un dispositivo letale e implacabile, di fronte al quale ogni esigenza umana deve inchinarsi. Questo dispositivo, in cui è stata catturata tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede, è il denaro, inteso come la forma stessa del credito/debito. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che l’emergenza vuole sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
La cosiddetta emergenza che stiamo attraversando – ma ciò che si chiama emergenza, questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo – è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l’organo principale – funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini.
Se oggi un governo – in Italia come altrove – vuole davvero muoversi in una direzione diversa da quella che si cerca ovunque di imporre, è innanzitutto il dispositivo denaro/credito/debito che deve mettere risolutamente in questione come sistema di governo. Solo in questo modo una politica diventerà nuovamente possibile – una politica che non accetti di farsi strozzare dal falso dogma – pseudoreligioso e non economico – del debito universale e irrevocabile e restituisca agli uomini la memoria e la fede nelle parole che hanno tante volte recitato da bambini: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
28 settembre 2022
Giorgio Agamben
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giancarlonicoli · 10 months
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21 nov 2023 18:38
URLARE AL “PATRIARCATO” È IL MODO PIÙ SBRIGATIVO E SBAGLIATO PER AFFRONTARE IL CASO DI GIULIA CECCHETTIN – LA PSICOTERAPEUTA ELISA CAPONETTI: “DIETRO AGLI EPISODI SEMPRE PIÙ FREQUENTI DI VIOLENZA E RABBIA TRA I GIOVANI C'È LA VOLONTÀ DI APPARIRE PERFETTI, CAUSATO DAI SOCIAL, E L’ASSOLUTA MANCANZA DI RESPONSABILIZZAZIONE” – LA NEUROPSICHIATRA MARIOLINA CERIOTTI: “AL CENTRO DI QUESTI FENOMENI C’È LA CADUTA DELLA STRUTTURA FAMILIARE COME SISTEMA EDUCATIVO BUONO. SVALORIZZARE IL RUOLO PATERNO È PERICOLOSO” -
1 - «NON È SOLO PATRIARCATO L’INDIVIDUALISMO SOCIAL NON TOLLERA I FALLIMENTI»
Estratto dell’articolo di Lorena Loiacono per “il Messaggero”
Elisa Caponetti, psicoterapeuta, psicologa giuridica e criminologa. Un'altra donna massacrata: che cosa sta accadendo?
«C'è stata una profonda trasformazione sociale, culturale e familiare, viviamo una forte crisi. In un lasso temporale abbastanza ristretto, abbiamo assistito impotenti a una fortissima accelerazione che ci ha condotto al cataclisma che stiamo vivendo.
Vedo sempre più giovani, ma anche adulti, vivere momenti di rabbia e violenza dovuti alle frustrazioni ed alle fragilità personali. Questi gesti così violenti nascono spesso dall'incapacità di gestire la frustrazione ma anche dall'incapacità di cogliere le conseguenze che i propri comportamenti hanno».
Non è una questione di patriarcato?
«Il problema è molto più complesso. Le cause sono molteplici e riguardano diversi aspetti della vita sociale: si va dalla volontà di apparire perfetti fino alla mancanza di una vera educazione affettiva. Ma non solo: io affronterei anche il problema della assoluta mancanza di responsabilizzazione dei giovani e spesso anche degli adulti».
Non considerano le conseguenze dei loro gesti?
«No, non hanno limiti e pensano che per far valere il proprio io possono arrivare dove vogliono. È come se non si mettessero mai davanti alle loro responsabilità. Abbiamo assistito a violenze di ogni genere, dagli stupri di gruppo all'uccisione di animali, tutti ripresi nei video e inviati agli amici: qui subentra anche il ruolo delle famiglie, spesso assenti, dei social e dei media».
Cosa significa che non sanno reggere la frustrazione?
«Un ragazzo abituato ad avere tutto, ad essere sempre giustificato in ogni sua azione, non accetta il fallimento. Ormai i ragazzi hanno un modello collettivo e di condotta in cui prevale l'individualismo. Pensiamo ad esempio ai social: volersi mostrare infallibile, invincibile significa puntare ad una iper realizzazione di sé. Quando la perfezione viene meno, scatta la rabbia. Si tratta di personalità fragili, incapaci di avere slanci emozionali ed affettivi, neanche verso chi dicono di amare». […]
2 - MARIOLINA CERIOTTI MIGLIARESE: «L’IMMATURITÀ AFFETTIVA NEI RAGAZZI DERIVA DALLO SQUILIBRIO DELLA FAMIGLIA»
Estratto dell’articolo di Francesco Borgonovo per “la Verità”
Mariolina Ceriotti Migliarese è neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta e autrice di numerosi libri (pubblicati dalle edizioni Ares) sulla famiglia e i rapporti tra i sessi.
Dottoressa, possiamo dire che se avvengono omicidi terribili come quello di Giulia Cecchettin è colpa di una cultura patriarcale profondamente radicata?
«No, io credo che questi argomenti meritino un allargamento del discorso e non possiamo limitare la riflessione al tema del patriarcato o della violenza di genere. Credo che si debba ragionare su che cosa sia un rapporto sano tra uomo donna. Che cos’è, come nasce, cosa chiede e, soprattutto, sul fatto che oggi ci troviamo di fronte a una grande immaturità affettiva dei ragazzi e degli adulti».
Che cosa richiede, dunque, un rapporto sano tra uomo e donna?
«Richiede una capacità di maturità affettiva che si forma attraverso un percorso che richiede del tempo. Essa si matura in un contesto educativo che deve essere adeguato. Situazioni come quella che stiamo commentando fanno pensare a una lettura non buona della relazione uomo-donna che però nasce da una cattiva maturità affettiva».
Che cos’è la maturità affettiva di un adulto sano che costruisce una buona relazione?
«È la capacità di essere sé stessi, quindi di saper stare anche sulle proprie gambe, di avere una propria identità ben definita e di riconoscere l’altro come un’altra persona che ha, a sua volta, una propria identità definita. Un altro che non fa parte di noi e va pienamente rispettato in quanto altro. Ciò che mi colpisce di questa vicenda gira intorno a una frase che mi sembra sia stata pronunciata dal padre di Filippo: “Il ragazzo mi ha detto che quando Giulia l’ha lasciato, lui voleva morire”».
Che cosa ne deduce?
«La frase “Senza di te non posso vivere” fa pensare a una persona che è ancora implicata in uno schema relazionale molto più simile a quello del bambino con l’adulto, del bambino con la mamma e che, dunque, non a una competenza relazionale di tipo adulto».
Che cosa impedisce, secondo lei, a un ragazzo di ottenere questo tipo di maturità, anche se ha una famiglia apparentemente solida che gli vuol bene, che lo ama?
«È chiaro che entrare troppo nel merito della vicenda personale vorrebbe dire dare dei giudizi su qualcosa che non conosciamo nei dettagli. Posso dire questo: la relazione padre-madre-figlio deve svolgersi dentro un triangolo ben equilibrato, in cui il figlio non è mai nella posizione centrale delle relazioni familiari, ma viene abituato a stare in una posizione tale per cui il padre gli possa mostrare che diventare uomo vuol dire diventare come lui, che un uomo ama e rispetta le donne».
E la madre?
«La madre deve fargli capire e sentire che diventare uomo vuol dire lasciare la posizione di bambino protetto, centrale nella vita affettiva della sua famiglia, per poter andare verso un’altra donna diversa dalla madre, con rispetto. Si tratta un percorso lungo e complesso che oggi non è così facile trovare anche nelle famiglie normali. Un buon equilibrio tra la figura paterna e quella materna e una buona e sana posizione del bambino messo nelle relazioni non è semplice da ottenere. Questo potrebbe sembrare un giudizio sulle figure genitoriali di questo ragazzo, ma non lo è: non mi permetterei perché non le conosco».
[…]
Però si discute molto di «rieducazione» dei maschi, anche nelle scuole.
«Io non ho niente in contrario all’idea di mettere a tema queste cose dentro la scuola, perché l’educazione ha bisogno di parole, ha bisogno di esempi di riflessione, però non è sufficiente se non si riflette su come vengono fondate oggi le relazioni. Quindi sulla fiducia che si può avere l’uno nell’altro, sul rispetto, a partire dalla situazione dalla coppia genitoriale che, nel rispetto reciproco e nella fedeltà reciproca, coglie la nascita di un bambino e lo fa crescere. Non bastano solo le parole per far maturare una persona».
Forse, però, la ripetizione di formule come «patriarcato» o «oppressione maschile» rischiano addirittura di peggiorare la situazione.
«Il padre è una figura che presiede nella famiglia anche al tema della cura e del rispetto per le persone. Se è svalorizzato il ruolo paterno, più facilmente si giunge a queste derive».
Oggi si tende a dire che sia appunto la cultura patriarcale, che sia il maschile in quanto tale a produrre certi orrori. Come se il maschio - ogni maschio - avesse una sorta di bestia dentro di sé che bisogna costantemente controllare.
«Il maschile è tante cose: è una potenza buona di cura e di generosità e di protezione della prole e della famiglia. Dall’altra parte, questo potere buono nelle sue derive può diventare anche prepotenza. Ma è una deriva di una posizione buona, non è la caratteristica principale del maschile. E più si toglie all’uomo la sua posizione buona più lo si spinge verso una dimensione patologica».
Il ministro Valditara ha detto che esiste una cultura del dominio e della sopraffazione maschile. E l’idea che si veicola è che questa cultura abbia dominato per decenni nella nostra società...
«Per i cristiani l’idea del padre non è di certo l’idea del violento sopraffattore, cioè il cristiano vede il padre come colui che genera, che crea e che protegge, che ha cura di ciò che genera. Questo è il paterno buono. A partire da questo possono esserci, poi, delle situazioni patologiche e ci sono state delle figure di sopraffazione, ma non sono insite nel tema del paterno, sono piuttosto una deriva di questa parte buona. Così come quando parliamo della madre possiamo parlare della madre come figura che genera, accoglie e accudisce, oppure della figura della madre come persona che, nella sua deriva patologica, schiaccia e uccide il frutto del suo grembo perché se ne appropria. Ribadisco: queste sono delle derive patologiche che si hanno quando non si tengono in equilibrio tra loro le diverse figure, quando cioè il padre e la madre insieme non riescono a mantenere l’equilibrio della situazione».
Che cosa avviene in una situazione di equilibrio?
«Che lo strapotere del padre viene calmierato dalla madre e il fatto che la madre sia in possesso dei figli viene calmierato dal padre. E oggi la nostra società è molto squilibrata: al centro non ci sono né il padre né la madre, ma c’è il figlio e i genitori sono sbilanciati su di lui. Quindi credo che questi discorsi sul patriarcato e sul genere siano molto parziali nella lettura di un fenomeno grave e complesso che è la caduta della struttura familiare come sistema educativo buono. Quello che a me disturba sono queste semplificazioni che non aiutano a comprendere e a ripartire da dove si deve ripartire, cioè da buon equilibrio della relazione familiare».
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trying2understandw · 11 months
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È questa la verità? In politica, beh, dipende.
That's The Truth? In politics, well, it depends.
AURELIEN
4 OTT 2023
Sono state dette così tante sciocchezze sull'uso dell'informazione e dei "fatti" nelle argomentazioni politiche, che ho pensato potesse essere utile fare un modesto tentativo di chiarire alcune cose, in modo da ridurre la confusione e spiegare come funzionano effettivamente le cose. Mi occuperò di due questioni: in primo luogo, come possiamo pensare alla "verità" in politica e, in secondo luogo, come i governi gestiscono le informazioni e le questioni legali e politiche che le circondano. Cercherò di essere il più concreto possibile, senza entrare in polemiche.
La prima cosa da ricordare è che stiamo parlando di politica e non di filosofia. I concetti di "verità" e il relativo vocabolario di "insabbiamento", "menzogna", "disinformazione" e quant'altro, sono armi politiche, non termini tecnici, e non hanno un significato fisso al di fuori della persona che li usa, del contesto in cui sono usati e degli scopi politici che perseguono. Dobbiamo quindi distinguere sempre tra il contenuto di un'informazione (ciò che dice) e l'uso che ne viene fatto (ciò che fa).
Alcuni trovano inquietante questo tipo di approccio, ma, come ho sostenuto in precedenza, non ce n'è bisogno. In teoria, forse, la verità assoluta e la conoscenza completamente affidabile sono disponibili, su un altro piano di esistenza. Ma nella vita reale, i concetti di verità (e ce ne sono molti) sono approssimativi e incompleti, e la maggior parte di noi se la cava abbastanza bene con questa comprensione. Sappiamo che la verità giuridica, per esempio, è ciò che i giudici decidono in base a un elaborato gioco tecnico con regole complesse, e può essere ribaltata in pochi minuti se emergono nuove prove. Sappiamo che la verità scientifica è provvisoria e soggetta a perfezionamento e, se si crede a Popper, anche a falsificazione. (Le verità scientifiche di un secolo fa sono state modificate o addirittura abbandonate oggi). E sappiamo che la verità religiosa si basa sulla rivelazione e sull'autorità divina e non può essere confutata. Quindi, a meno che non siamo attratti dall'Idealismo come filosofia personale e guida pratica alla vita, dobbiamo accettare che, in realtà, la Verità Assoluta su qualsiasi cosa importante non potrà mai essere conosciuta e dovremmo smettere di preoccuparcene. In particolare, non dobbiamo confondere il fatto banale che tutte le verità sono parziali e incomplete con l'idea che si possa avere qualsiasi verità e che tutte siano ugualmente valide - una posizione che nessun pensatore serio ha mai preso, per quanto ne so.
Gran parte della nostra esperienza personale lo conferma. Giornalisti seri e rispettabili (nella misura in cui esistono ancora) possono produrre versioni molto diverse della stessa storia di base, semplicemente enfatizzandone elementi diversi. Qualsiasi episodio storico sufficientemente complesso può essere legittimamente presentato in diversi modi da studiosi affidabili: ecco perché esistono le controversie storiche. Se avete mai scritto anche solo un breve articolo di storia, per non parlare di un libro, sarete scomodamente consapevoli del fatto che la semplice selezione del materiale può modificare in modo sostanziale l'impostazione della vostra argomentazione. Lo stesso vale per le biografie di qualsiasi persona ragionevolmente interessante. Sarebbe bizzarro se chiedessimo "la verità", ad esempio, sulla battaglia di Kursk del 1943, attualmente di moda, o se ci lamentassimo che l'ultima biografia di Winston Churchill non è "la verità". D'altra parte, è legittimo lamentarsi se alcuni dei presunti "fatti" non sono in pratica veri, o non sono comprovati, o sostenere che la selezione complessiva dei fatti, anche se singolarmente veri, fornisce comunque una prospettiva sbilanciata o addirittura falsa. Tornerò su questa distinzione tra poco.
Le cose sono diverse nel discorso politico, che in effetti sta diventando sempre più chiuso e sempre più lontano dai discorsi della vita quotidiana e dai discorsi specialistici di cui ho dato esempi sopra. Il discorso politico della verità è un discorso di assoluti, ma assoluti che non hanno alcun contenuto empirico. Cosa intendo con questa affermazione un po' gnomica? In parole povere, nella sfera politica più ampia (che comprende i media, i vari opinionisti e i presunti esperti) la Verità è un'etichetta che attribuiamo a presunti fatti politicamente utili per noi, o che chiediamo agli altri di attribuire alle affermazioni che possiamo fare. Naturalmente, le nostre affermazioni possono avere una base fattuale e i nostri presunti fatti possono rivelarsi veri, ma non è questo il punto. Ne consegue che, a fini politici pratici, ciò che è ritenuto "vero" è ciò che è conveniente per noi, e ciò che è "falso" è ciò che è scomodo per noi. È possibile, naturalmente, che dopo un po' di tempo ci si accorga che queste etichette devono essere cambiate, perché cambia la nostra necessità che le cose siano vere o false. Ma resta il fatto che in nessuna fase della politica c'è una ricerca deliberata e disinteressata della Verità.
Naturalmente, in realtà nessun discorso come questo può mai essere completamente chiuso e autosufficiente. Gli eventi possono intervenire brutalmente, come stanno facendo per esempio sull'Ucraina, e costringere a qualche modifica. Inoltre, i governi non sono stupidi (beh, per lo più non sono stupidi) e non danno ostaggi alla fortuna se possono evitarlo. Quindi, se a un governo viene chiesto, ad esempio, se riconoscerà il regime talebano in Afghanistan, non dirà "mai, mai". Risponderà "non abbiamo intenzione di farlo", il che è una rappresentazione corretta della situazione, ma lascia anche un certo margine di manovra, se in futuro la situazione dovesse cambiare in modo irriconoscibile. È per questo che bisogna sempre leggere con molta attenzione le parole delle dichiarazioni dei governi, ed è anche per questo che i governi occidentali si trovano ora in un tale pasticcio riguardo all'Ucraina, dove hanno fatto dichiarazioni estreme e incondizionate di cui ora potrebbero pentirsi. In generale, però, i governi cercano di esprimersi in modo tale da poter far fronte a qualsiasi cambiamento previsto, e in seguito insistono sul fatto che qualunque sia l'esito o la decisione finale, essa è coerente con quanto affermato in precedenza (naturalmente, le forze dell'opposizione denunceranno ritualmente la mancanza di chiarezza, adducendo equivoci e così via, ma questo fa parte del gioco).
È anche banalmente vero che ci sono molti esempi in politica in cui una data situazione può supportare tutta una serie di interpretazioni e persino di "verità" diverse, tutte in contrasto tra loro. Le statistiche sono un caso classico. Sebbene non possano essere usate letteralmente per "dimostrare qualcosa", possono essere usate, e spesso lo sono, per sostenere argomenti completamente opposti. Supponiamo che un governo venga criticato perché i dati sulla criminalità sono in aumento. Il crimine è aumentato del 5% nell'ultimo anno, dicono i titoli dei giornali. Sì, dice il governo, ma la maggior parte è dovuta a nuove leggi e ricategorizzazioni, e a campagne che chiedono alla gente di denunciare i crimini. I crimini violenti, infatti, sono in calo e la maggior parte dell'aumento riguarda reati come il taccheggio e le infrazioni al codice della strada. No, dice l'opposizione. Gli omicidi e le rapine a mano armata sono entrambi aumentati. Sì, dice il governo, ma entrambe le cifre sono aumentate di poco e rappresentano una parte molto piccola del crimine complessivo. In ogni caso, ci sono meno omicidi oggi rispetto all'ultima volta che l'opposizione era al potere. E così via. Prese singolarmente, ognuna di queste affermazioni può essere vera, e da molto tempo ormai parte del discorso politico consiste nel selezionare e mettere insieme cose singolarmente vere, per trasmettere il messaggio che si vuole trasmettere.
I governi naturalmente vogliono dare la migliore interpretazione possibile agli eventi, proprio come facciamo noi nella nostra vita privata, e non c'è nulla di scandaloso in questo, così come non c'è nulla di scandaloso in chi si oppone ai governi che danno la propria interpretazione agli stessi fatti. Tuttavia, è difficile evitare di notare il tono molto più aspro delle critiche rivolte al governo negli ultimi decenni. Si tratta, più che altro, di una caratteristica della competizione sui social media. Il "non credo che i dati supportino l'interpretazione che ne dà il governo" di cinquant'anni fa è diventato oggi "il governo sta mentendo e i responsabili dovrebbero dimettersi o essere perseguiti", semplicemente perché è sempre la voce più forte che si fa sentire. Inoltre, però, questo crescente stridore è anche legato a certi tipi di convinzioni politiche, a certi tipi di orientamenti psicologici e spesso a una presunzione di superiorità morale personale. Nella mia esperienza, gli individui si sentono spesso moralmente superiori ai governi e si ritengono autorizzati a far loro la morale e, nel gergo di questo curioso discorso, a "chiederne conto". Così, si può leggere che il governo "si è rifiutato di tagliare gli aiuti allo sviluppo al Paese X nonostante le critiche mosse dai gruppi per i diritti umani". Si potrebbe scrivere un breve saggio sui presupposti nascosti dietro tali affermazioni, ma in questo caso è sufficiente dire che i governi competenti in genere cercano di scoprire la verità di tali accuse, per quanto sia possibile stabilirla, e agiscono di conseguenza. Non si lasciano certo prendere in giro da un gruppo non eletto di avvocati per i diritti umani. Naturalmente, il rifiuto di agire in base a tali accuse (che gli accusatori avranno naturalmente previsto) porterà a sua volta ad accuse di "insabbiamento" e di "menzogna" che potranno essere portate avanti con profitto con l'aiuto di giornalisti simpatici per un bel po' di tempo. (Sarà interessante vedere se l'esperienza della copertura mediatica dell'Ucraina finirà per influenzare l'istintiva credulità dell'occidentale medio nel credere alle accuse di atrocità).
Oltre a individui e gruppi il cui modello di business dipende dal presupposto che i governi nascondano sempre qualcosa, ce ne sono altri le cui convinzioni sono così saldamente radicate che semplicemente non riescono ad accettare che il governo abbia ragione su qualche questione e loro torto. Un esempio estremo, ma in realtà piuttosto istruttivo, è che quando il governo britannico introdusse la legislazione sull'Open Government un paio di decenni fa, il maggior numero di richieste di accesso ai documenti proveniva da attivisti convinti che il governo stesse nascondendo dettagli sui contatti con razze aliene e oggetti volanti non identificati. Se ci si pensa un attimo, ci si rende conto di quanto la vita sarebbe enormemente giustificata ed eccitante se queste affermazioni fossero vere, e quanto sarebbe deprimente se non lo fossero. Così, naturalmente, quando i documenti resi noti si sono rivelati banali e scontati e non contenevano alcun segreto, l'unica reazione possibile è stata quella di sostenere che il governo stava ancora "nascondendo qualcosa" o che aveva distrutto i file incriminati, anche se, senza dubbio, continuava i suoi incontri trimestrali di collegamento con i rappresentanti alieni in un sito segreto sotterraneo nelle Highlands scozzesi o chissà dove.
Questo tipo di desiderio di realizzazione ("da qualche parte ci devono essere documenti segreti che dimostrano che ho ragione") si sovrappone a un cinismo superficiale che probabilmente ha le sue origini nei ricordi popolari delle esperienze del Vietnam e del Watergate negli Stati Uniti mezzo secolo fa, ma che ora è stato generalizzato a gran parte del mondo occidentale. È stato riassunto nella tanto citata osservazione del giornalista IF Stone secondo cui "tutti i governi mentono". Naturalmente Stone non poteva intenderlo letteralmente, poiché l'unico governo di cui aveva esperienza era quello degli Stati Uniti, e dal contesto sembra che non stesse suggerendo che anche il governo americano mentisse in continuazione. Ma da allora molte persone hanno creduto che fosse divertente, o intelligente, o audace dire queste cose, anche se in realtà significavano solo "non sono d'accordo con quello che dicono". E naturalmente, una volta acquisita una convinzione irrazionale di questo tipo, essa persiste di fatto per sempre.
Sembra probabile che questo tipo di convinzione nasca in ultima analisi dal ricordo che i nostri genitori ci hanno tenuto nascosto quando eravamo bambini e che c'erano cose di cui preferivano non parlare (Freud l'avrebbe senza dubbio messo in relazione con la Scena Primaria). Con l'avanzare dell'età, questi conflitti irrisolti con i nostri genitori vengono proiettati sugli altri e convertiti nell'idea che i sostituti dei genitori, comprese le figure di autorità e in ultima analisi il governo, ci nascondano a loro volta delle cose. Poiché i nostri genitori ci nascondevano davvero le cose, ovviamente questa convinzione è molto difficile da modificare.
In questo contesto, analizziamo ciò che accade in realtà con l'informazione e la politica, per quanto possa essere esposto in modo coerente. Il governo è in parte una questione di comunicazione da molto tempo ormai e negli ultimi decenni si potrebbe essere perdonati per aver pensato che non si trattasse d'altro. Quindi questo tipo di questioni di presentazione e interpretazione si sono spostate dalla relativa periferia al centro. Se fino a trent'anni fa, forse, le comunicazioni erano solo una parte della strategia di governo, ora sono arrivate a dominarla. In effetti, di questi tempi è saggio controllare con attenzione gli annunci governativi, perché a volte non hanno alcun contenuto oggettivo, ma sono solo un re-packaging o un re-messaging di politiche esistenti.
In queste circostanze, quindi, l'informazione (una parola migliore di "fatti") è più che mai un'arma nella lotta per il potere e l'influenza politica. Potrebbe valere la pena di esaminare come l'informazione viene utilizzata nella pratica, a partire dai governi.
Presumibilmente, tutti accettano che qualsiasi governo eletto abbia il diritto di governare e di esporre, spiegare e difendere le proprie politiche. Ora lo dico io, ma a pensarci bene qualcuno potrebbe considerare tale affermazione controversa, o quantomeno discutibile. L'assalto in piena regola all'idea stessa di governo da parte delle forze neoliberiste negli ultimi quarant'anni è stato purtroppo coadiuvato dalla moda della sfiducia e del cinismo vagamente anarchico nei confronti del governo, sia da sinistra che da destra, e da un'opinione diffusa, anche se raramente pienamente articolata, secondo cui il governo, per sua stessa natura, è sempre corrotto, pericoloso e dice bugie. Trattandosi di politica, questi rifiuti cinici e perentori si alternano a richieste pressanti affinché il governo faccia davvero qualcosa, che si tratti di combattere la Covida o di combattere le guerre, e a lamenti per il fatto che non sembra in grado di farlo.
Ma fondamentalmente, se un governo non ha il diritto di governare, anche usando l'informazione per fare e difendere le proprie ragioni, allora nessun sistema politico può durare, e in realtà, per quanto terribili possano essere i governi attuali, e per quanto disillusi possiamo essere nei confronti dei politici attuali, pochi di noi possono pensare a un'alternativa che sia praticamente realizzabile. E uno degli aspetti dell'essere al governo è che si ha accesso e controllo di grandi quantità di informazioni, mentre quando si è fuori dal governo si perde questo controllo. (Questo, tra l'altro, è il motivo per cui i partiti politici all'opposizione predicano sempre l'open government, per poi rendersi improvvisamente conto delle sue inaspettate carenze una volta al potere).
Il modo più semplice per affrontare la questione, forse, è il comune fraintendimento (o almeno l'eccessiva semplificazione) secondo cui i governi hanno qualcosa chiamato "segreti" che ci "nascondono" e che eroici giornalisti o blogger devono "scoprire" affinché il Bene trionfi. Nella realtà non è così, ovviamente. Vediamo quindi di spiegare in modo molto semplice qual è la situazione reale.
Il governo, come molte organizzazioni, ha informazioni che vuole tenere per sé. Ci sono ragioni molto pratiche che lo giustificano: se chiunque potesse vedere i documenti politici che si stanno sviluppando, per esempio, o le discussioni su come rispondere a una potenza straniera, allora qualsiasi tipo di governo sarebbe impossibile. Ma ci sono anche ragioni di principio: pochi di noi vorrebbero che le proprie cartelle cliniche o i dettagli dei propri affari fiscali fossero disponibili a chiunque. (Ironia della sorte, i governi vengono regolarmente criticati aspramente per aver lasciato trapelare tali informazioni: è un mondo strano). Infine, un governo eletto beneficia di leggi che riguardano la protezione delle informazioni governative, mentre chi non è al governo non ne beneficia.
Una volta abbandonato il modello giovanile dei governi che "ci nascondono i segreti", la protezione effettiva dei documenti governativi segue regole abbastanza semplici. Una quantità sorprendente di informazioni contenute negli archivi governativi (o nei computer governativi) non è realmente sensibile. Possono essere protette nella misura in cui si riferiscono a decisioni che devono ancora essere prese, a discussioni all'interno del governo o semplicemente ai dati personali dei membri del pubblico. Al di là di questo, la maggior parte dei governi ha schemi di classificazione formali, in parte per garantire che non si sprechino tempo e sforzi. Questo è importante da capire, perché termini come "confidenziale", "segreto" e così via sono frequentemente gettati in giro da media e commentatori che non hanno idea di cosa stiano parlando. Partiamo dall'inizio.
Esiste generalmente un livello di classificazione delle informazioni che è auspicabile mantenere discrete. Può essere chiamato Ufficiale, o Distribuzione Limitata, o qualcosa di simile. Successivamente, la maggior parte degli Stati ha una classificazione nota come Confidenziale, che è un gradino più in alto e generalmente indica informazioni di una certa sensibilità. Al di sopra di questa classificazione c'è quella di Secret, che in genere si riferisce a informazioni altamente sensibili e che nella maggior parte dei Paesi rappresenta il livello più alto di accesso consentito alle persone che non sono state sottoposte a speciali procedure di sicurezza. Inoltre, il materiale di livello Secret può essere compartimentato se si riferisce a qualcosa di dettagliato e particolarmente sensibile: tutte le potenze nucleari, ad esempio, sembrano avere un termine speciale, o più termini speciali, che limitano l'accesso a tale materiale a coloro che devono vederlo nell'ambito del loro lavoro. Infine, la categoria Top Secret o equivalente è riservata a una piccola parte di informazioni particolarmente sensibili e spesso è accompagnata da altri contrassegni che ne limitano ulteriormente la circolazione.
Ora, per un motivo o per l'altro, potreste pensare che questo processo sia sciocco o inutile, e che non dovrebbe avvenire. Ma è così, e succede praticamente in tutti i Paesi del mondo. Le informazioni sono quindi protette da classificazioni di sicurezza a diversi livelli, a seconda del contenuto, e questa è la prima cosa da capire.
La seconda cosa da capire è che ogni Paese ha leggi contro la divulgazione non autorizzata di documenti e informazioni. Lo ripeto: divulgazione non autorizzata di documenti e informazioni. Dato che questa parola ha creato molta confusione, permettetemi di parlarne un po', notando tra l'altro che il rilascio autorizzato non è la stessa cosa della declassificazione. Le classificazioni di sicurezza sono date dall'autore del documento, e l'organizzazione di questa persona, o la leadership politica, possono decidere che il documento può essere condiviso con persone esterne. Spesso si tratta di governi amici: Il Paese A potrebbe trasmettere i punti chiave della visita del Presidente del Paese B all'Ambasciata del Paese C, perché hanno un interesse comune. Lo stesso vale per le persone di fiducia del settore privato o bancario, dove possono essere coinvolte questioni finanziarie delicate. Un problema molto più grande è quello che riguarda i media.
Se si concede ai governi il semplice diritto di presentare e difendere le proprie politiche, è ovvio che essi dispongono di una grande quantità di informazioni che non possono essere rese pubbliche nei documenti e che magari contengono elementi che sarebbe difficile rendere di dominio pubblico, ma che sono comunque utili. Ciò che accade non è che il governo invii copie di documenti sensibili ai media, ma piuttosto che membri fidati dei media siano invitati a briefing "off-the-record", che nella maggior parte dei Paesi seguono regole di base. Non viene consegnato nulla, i giornalisti sono liberi di prendere appunti ma non devono attribuire nulla a singoli individui e devono rappresentare in modo corretto ciò che viene detto loro, attribuendo le dichiarazioni a "fonti governative" o qualcosa di simile. I giornalisti che non rispettano questa parte dell'accordo potrebbero non essere invitati a tornare. I giornalisti che useranno il materiale contro il governo non sono ovviamente invitati. Naturalmente si può obiettare a questo sistema, ma è utilizzato ovunque nelle democrazie rappresentative.
La pratica varia nei diversi Paesi, ma è anche possibile che a un singolo giornalista venga consegnato del materiale veramente sensibile in un contesto meno formale, ad esempio durante il pranzo, se c'è qualcosa di importante che il governo vuole rendere di dominio pubblico. In sistemi indisciplinati come quello statunitense, questo accade spesso quando diverse parti del governo vogliono informare l'una contro l'altra, cosa che la maggior parte delle persone considererebbe un abuso del sistema. Ma il sistema statunitense è diverso dalla norma in questo senso, come in tutti gli altri, e la sua natura altamente politicizzata fa sì che gli individui in posizioni di vertice non si facciano scrupolo di far trapelare informazioni per promuovere le loro agende professionali, o addirittura personali. Fortunatamente, questo non è normale nella maggior parte degli altri Paesi.
Tutte queste forme di divulgazione sono autorizzate da un governo, per aiutarlo nella lotta politica. (Ne consegue che la divulgazione non autorizzata di informazioni governative è un reato. Se pensate che "crimine" sia un giudizio di valore (e io non lo penso) potete sostituire "infrangere la legge" o un'espressione simile. Si noti che chi rilascia informazioni senza autorizzazione sta violando la legge anche se quelle informazioni aiutano effettivamente la posizione del governo.
I governi devono quindi valutare se indagare ed eventualmente perseguire. Molto spesso questo non viene fatto, a volte perché il colpevole non è evidente, a volte perché le informazioni sono solo di importanza transitoria e comunque non così sensibili. Un processo, dopo tutto, non farebbe altro che dare ancora più pubblicità al materiale trapelato. Spesso i governi si limitano ad aspettare che il polverone si spenga: in generale, i leaker, a prescindere dal motivo, sopravvalutano ampiamente l'effetto delle informazioni trapelate sul comportamento effettivo dei governi.
Ci si aspetterebbe, forse, che i leaker scoperti accettino la responsabilità morale e, se vogliamo, anche penale, di ciò che hanno fatto. Ma questo è sempre meno vero, e i leaker e coloro che li difendono sono inclini a sostenere, in vari modi, che non hanno commesso alcun crimine o che, se lo hanno fatto, è stato per uno scopo superiore che li assolve da qualsiasi responsabilità. Questo argomento ha un certo fascino seducente, perché, in fondo, tutti noi crediamo segretamente che solo le leggi che approviamo dovrebbero essere applicate, e solo nei casi che approviamo. Ma l'ovvia difficoltà è che se facciamo delle nostre opinioni morali personali il criterio per stabilire se la legge debba essere applicata o meno, ne risulterà il caos, poiché non ci sono due insiemi di valori morali uguali e anche come individui, le nostre opinioni morali sono raramente coerenti. In questi casi è sempre utile considerare come reagiremmo a questo tipo di argomentazione se fosse fatta da qualcuno con cui siamo profondamente in disaccordo. Negli ultimi decenni, nella maggior parte dei Paesi occidentali, la maggioranza della popolazione ha accettato la depenalizzazione dell'aborto e l'estensione del termine legalmente consentito. Ma questa opinione è tutt'altro che unanime e possiamo immaginare che, in un Paese in cui si sta valutando un significativo allentamento della legge, un dipendente del Ministero della Giustizia faccia trapelare i dettagli di un violento disaccordo all'interno del governo sulla strada migliore da seguire, con l'effetto di danneggiare la tesi del governo. La persona che ha fatto la soffiata, forse una fervente frequentatrice di chiese e madre di diversi figli, sosterrà che stava "salvando delle vite" e che questo giustificava il suo gesto. In realtà (e potete prendere qualsiasi esempio o controesempio che volete) una persona del genere si pone su un piano morale superiore a quello del governo, uno status che chiunque può rivendicare, ma che non c'è alcun modo oggettivo di dimostrare.
Ho detto che sarei tornato sulla questione dell'uso meno routinario e più discutibile dell'informazione a fini politici. Si tratta di un argomento su cui ci sono anche molti malintesi, ma su cui si possono fare alcune utili distinzioni. Come abbiamo visto, i media ricevono spesso informazioni non attribuibili, ma in generale scrivono storie che riconoscono che le loro fonti sono ufficiali. Una questione molto più complicata è se i giornalisti debbano scrivere storie sotto dettatura, o anche se sia legittimo creare un'agenzia o un sito Internet che sia un'operazione ufficiale del governo ma non sia riconosciuta come tale. L'unica risposta pragmatica, come spesso accade, è che, sebbene in linea di principio non sia una buona idea, alla fine "dipende".
Ho suggerito in precedenza che la vera distinzione non è qualcosa di semplice, tra "verità" e "falsità", ma più complessa, che ha a che fare con lo scopo di rilasciare o promuovere le informazioni in primo luogo. Come osservava George Orwell, tutta la propaganda è falsa, anche quando è vera, perché lo scopo della propaganda è persuadere, non informare. Orwell lavorava alla BBC in tempo di guerra, che si era fatta una buona reputazione per l'accuratezza dei servizi: censurava certe cose, ma non le inventava.
Ma già durante la Seconda guerra mondiale, l'Esecutivo per la guerra psicologica aveva iniziato a cercare di attaccare il "morale" tedesco attraverso trasmissioni di propaganda, compresa la creazione di stazioni di notizie false che trasmettevano messaggi disfattisti presumibilmente dall'interno della Germania. La tendenza è proseguita durante la Guerra Fredda e si differenzia dalla semplice propaganda in quanto i "fatti" sono inventati o fortemente distorti e la stazione stessa finge di essere qualcosa che non è.
Per quanto discutibile sia questo tipo di comportamento in generale, l'aspetto più discutibile è se abbia mai avuto un effetto misurabile. Di certo, non è possibile indicare alcun caso specifico nelle ultime generazioni in cui si possa dimostrare un effetto. Ma in realtà questo è solo un caso particolare della generale e comprovata inefficacia della propaganda nel suo complesso, ed è per questo che non dovremmo preoccuparci più di tanto, né dare facilmente per scontato che le persone possano essere "danneggiate". Per prendere un caso estremo, la propaganda di Joseph Goebbels era certamente pervasiva e inventiva e utilizzava le più moderne tecniche di ingegneria sociale, ma per tutta la reputazione di genio del male di Goebbels, ci sono poche prove che abbia avuto un effetto significativo sul popolo tedesco. La propaganda in generale sembra essere di dubbia efficacia anche se ciò che dice è effettivamente vero.
Vorrei infine affrontare il tema dell'uso e dell'abuso delle informazioni derivate dall'intelligence, poiché ha generato un'enorme quantità di controversie, generalmente provocate da persone che non hanno idea di cosa stiano parlando. Ricordiamo che l'intelligence è solo un tipo particolare di informazioni: in generale, informazioni sensibili che sono state rubate. ("sensibili" perché altrimenti non avrebbe senso fare lo sforzo di rubarle). In altre parole, il fatto che qualcosa sia etichettato come "intelligence" non dice nulla sul contenuto dell'informazione, ma solo sui mezzi con cui viene raccolta. Il fatto che il Presidente del Paese X si rechi in visita nel Paese Y per cercare di riparare le relazioni può essere annunciato apertamente, fatto deliberatamente trapelare ai giornali, comunicato solo ai Paesi amici, o tenuto talmente segreto che solo i metodi di intelligence erano in grado di scoprirlo. Ma in ogni caso, il contenuto dell'informazione è identico, ciò che differisce è la facilità con cui è stato scoperto.
L'intelligence non è intrinsecamente più (o meno) affidabile di altri tipi di informazioni raccolte in altri modi. Le fonti umane possono sbagliare, essere male informate o semplicemente mentire. Le fonti tecniche possono produrre informazioni sbagliate, non aggiornate o incomprensibili senza un contesto più ampio che a voi manca. L'intelligence deve quindi essere analizzata da esperti, valutata e commentata prima di essere diffusa. Se combinato e messo insieme ad altro materiale, il materiale di intelligence può essere utilizzato per fornire analisi generali, ma queste sono sempre provvisorie, basate sulle informazioni effettivamente disponibili. Per questo motivo, poche agenzie di intelligence pretendono di produrre tutta la verità su qualcosa. Se si esaminano le analisi di intelligence rese pubbliche, si noterà che gli autori usano frasi come "crediamo" o "valutiamo", che parlano di probabilità e possibilità, non di certezze.
Quindi l'idea popolare che le agenzie di intelligence "sappiano" le cose, è generalmente falsa, e un prodotto del wishful thinking e dei film di Hollywood. Ne consegue che gli articoli dei media che affermano che questo o quello è vero o falso dovrebbero essere trattati con sospetto, perché attribuire semplicemente alcune informazioni o alcuni giudizi a "fonti di intelligence" è di per sé privo di significato. Può riferirsi a qualsiasi cosa, da una singola informazione non corroborata su cui sono stati sollevati dubbi, fino a un'analisi dettagliata con personale altamente affidabile: non c'è modo di saperlo. Ora, ci sono casi in cui i governi hanno informazioni da fonti di intelligence che vogliono rendere di dominio pubblico, quando non possono ottenerle in altro modo. Un caso ovvio è che lo Stato Islamico non tiene conferenze stampa né diffonde indicazioni ai media su quando effettuerà il prossimo attacco in Europa, quindi qualsiasi informazione in merito, e qualsiasi giustificazione per chiedere alla popolazione di prendere precauzioni, può provenire solo da fonti di intelligence. Per ironia della sorte, ovviamente, se gli attacchi hanno luogo e i governi non hanno lanciato avvertimenti basati su materiale di intelligence, saranno criticati per non averlo fatto.
Ci sono anche una serie di motivi più ampi per cui i governi potrebbero volere che il materiale di intelligence venga reso noto: forse per influenzare i Paesi stranieri, per rafforzare la propria posizione nei confronti di uno di essi su una questione controversa. Un uso occasionale è la segnalazione: se si ha la certezza, ma non la certezza, che il proprio vicino sia dietro un attentato dinamitardo nel proprio Paese, allora una storia che attribuisce la conoscenza di questo fatto a "fonti di intelligence" è un modo per trasmettere messaggi al vicino sulla falsariga di "Lo sappiamo, non farlo più". E ci sono altre possibilità simili.
Come qualsiasi altra cosa, le informazioni di intelligence, o presunte tali, possono essere utilizzate in modo improprio, ma questo è solitamente il risultato del fallimento o della corruzione del sistema politico in questione, non delle agenzie di intelligence. Occasionalmente ci si imbatte in persone che sostengono che le agenzie di intelligence "mentono sempre" o addirittura che il loro lavoro consiste nell'ingannare il pubblico, il che sarebbe un uso quantomeno curioso di risorse costose e sensibili. Oltre alla presunzione popolare che nascondano segreti, questo atteggiamento generalizza, ancora una volta, un episodio storico specifico: l'uso improprio dell'intelligence nel periodo precedente la guerra in Iraq del 2002. L'argomentazione "ci hanno ingannato, quindi tutto ciò che dicono le agenzie di intelligence è una bugia" non solo è irrazionale, ma ignora il fatto che sono stati i governi statunitense e britannico, e non le loro agenzie di intelligence, a essere responsabili delle bugie deliberate che sono state dette, e hanno abusato delle agenzie di intelligence e della loro credibilità in modi inaccettabili in una democrazia.
Detto questo, i capi delle agenzie di intelligence sono funzionari del governo e il loro compito è quello di aiutare il governo a spiegare e difendere le sue politiche. Non ci si aspetterebbe che prendano una posizione diversa da quella del governo in una dichiarazione pubblica, a prescindere dalle loro opinioni personali: è così che funzionano i sistemi politici democratici. Ma si spera che abbiano abbastanza indipendenza da rifiutarsi di sostenere cose chiaramente non vere: nessun governo può costringere il suo personale a dire deliberatamente bugie, per esempio.
Tutto quanto sopra è vero. No, davvero.
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avvocatoreale · 1 year
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Anche a Giugno la scelta del libro, per la recensione letteraria del mese, è una garanzia: “Cena di Classe”, di Piero d’Ettorre e Alessandro Perissinotto
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Un’accoppiata vincente per un’opera da mettere in valigia e da leggere nelle prossime vacanze estive. Ce ne dà conto Sara Bonhgieri in questa recensione.
di Sara Boringhieri
“CENA DI CLASSE” di Piero d’Ettorre e Alessandro Perissinotto
 22 febbraio 2018, una mattina che all'avvocato Giacomo Meroni pare simile a tante altre, fredda e limpida, connotata dai rituali di sempre: la colazione con sua moglie Rossana, la quotidianità e il bacio prima che lei e la sua sedia a rotelle spariscano nel taxi che le porta a scuola. E quel bacio che racchiude due sapori: l'amaro per non aver ancora individuato il pirata della strada che ha investito Rossana l'11 settembre 2001, e il piccante di una donna che non ha perso la voglia di insegnare, di essere felice e di sciare.
Ma quella non è una mattina come tante, perché, dopo aver attraversato in bicicletta una Torino silenziosa e magica, Giacomo trova ad aspettarlo in studio una signora garbata e afflitta. Suo figlio, Riccardo Corbini, un ingegnere sulla cinquantina, è appena stato arrestato con un'accusa pesantissima: lo stupro e l'assassinio di una compagna di liceo durante una cena di classe nel lontano 1984.
Le indagini per il delitto si sono trascinate stancamente per un tempo interminabile, poi, come spesso accade nei cold case, all'improvviso è apparsa una nuova prova, quella che, secondo il PM, inchioda il cliente di Giacomo.
Ma Corbini è un colpevole al quale garantire un giusto processo o un innocente che deve essere salvato dall'errore giudiziario? Giacomo sa che il compito dell'avvocato non è stabilire la verità; eppure, per lui, scoprirla fa la differenza. Per questo si impegna in un'indagine difensiva che finirà per coinvolgere tutti i compagni di classe della vittima e dell'imputato, riportando a galla odi, amori e rancori mai sopiti.
“Cena di classe” è un romanzo giudiziario scritto a quattro mani da Alessandro Perissinotto, scrittore e professore di storytelling all’Università di Torino e Piero d’Ettorre, avvocato penalista torinese, e costituisce il primo volume di una serie che vedrà protagonista l’avvocato Meroni.
I due autori nella vita sono amici di lunga data e insieme danno vita ad un personaggio nuovo, un professionista che si trova ad affrontare un caso delicatissimo e a sviscerare norme e procedure per conseguire una difesa impeccabile: insieme all’avvocato Meroni prende così vita un viaggio nei meandri di Torino e della Giustizia, che accompagna i lettori attraverso gli eventi narrati.
Si tratta di un’opera scorrevole, con un ritmo incalzante che invoglia a voltare una pagina dopo l’altra per continuare la lettura e scoprire l’evolversi della trama. I personaggi sono ben delineati e chi legge viene attratto dalle loro personalità e dalle loro vicende, personali e non.
Riuscirà l’avvocato Meroni a difendere il suo assistito provandone l’innocenza e a ottenere così una sentenza favorevole? O Giacomo Corbini risulterà colpevole e si vedrà costretto ad affrontare la pena inflitta? Riuscirà l’avvocato Meroni a individuare il pirata della strada che ha investito sua moglie e a far luce su quanto successo?
Un ulteriore valore aggiunto è costituito dalla presentazione “a due voci” del libro ideata e interpretata dagli autori che, oltre ad un romanzo ben costruito, hanno saputo creare degli incontri vivaci e capaci di incuriosire ulteriormente i lettori. Insomma, Piero d’Ettorre e Alessandro Perissinotto si completano e creano armonia tra le due anime del romanzo: quella giuridica e quella letteraria.
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scienza-magia · 2 years
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Quanto l'amore di cui ha bisogno un figlio
Padri, madri e troppe ingiustizie. Ma un figlio di chi è figlio? Di chi è figlio un figlio? Non sembra neanche una domanda seria tanto la risposta è ovvia, per chi sa “come nascono i bambini”. Un uomo ha dato il suo seme vitale, una donna ha dato il suo ovulo vitale, e ha tenuto in grembo e partorito il figlio. Il figlio comune, nuova identità umana che è fusione delle due identità generanti. Così dice la natura, e la natura non dice bugie. Si viene al mondo così, e chiunque giunge alla spiaggia della vita vi giunge da figlio, generato da un padre e da una madre. Eppure la domanda “di chi è figlio un figlio” può far pensosa la risposta se si fa mente all’intenso significato relazionale della paternità e della maternità nel vissuto durevole, nonché al grande orizzonte concettuale della parola “generare”, non ridotta all’istante fusionale della prima scintilla, ma estesa alla crescita della vita, alla sua fioritura, alla sua maturità. È questo che integra la generazione “secondo il sangue” con la generazione “secondo il cuore”. Il luogo naturale dove ciò avviene è la famiglia.
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Non tutto, nella vita concreta, riesce come natura vorrebbe. A volte per sventura di cui nessuno ha colpa, come nei casi di orfanità precoce; a volte per conflitti familiari di cui i figli scontano il dolore, o per trascuranza o abbandono; in casi rari e gravi sono i giudici a toglierli ai genitori, e a cercare altri che facciano da genitori (adottivi) agli abbandonati. I quali dunque son chiamati ancora “figli”, e per la legge son figli eguali in tutto ai figli di sangue. Del resto, per la legge di famiglia la relazione tra figli e genitori, che secondo natura è univoca, per il diritto non è automatica: madre del figlio è colei che partorisce, ma una madre può partorire in segreto in un ospedale e chiedere di non essere nominata, e per la legge non diventa madre; padre del figlio è secondo norma l’uomo che lo riconosce, oppure l’uomo che non lo disconosce se è coniuge della madre partoriente. Ma vi sono mancati disconoscimenti, e riconoscimenti non veritieri, che dissociano lo status giuridico genitoriale dalla verità naturale. E poiché il figlio ha anche lui qualche diritto, sul punto del conoscere le proprie origini, sorgono talvolta controversie giudiziali di amaro sapore e dolore, per cucire un punto d’incontro tra la verità naturale e una realtà difforme ma consolidata. La Corte costituzionale, con la sentenza 127 del 2020, per un caso di falso riconoscimento di figlio poi ritrattato, ha detto che il giudice deve bilanciare il favor veritatis con l’interesse del figlio all’identità collegata anche ai «legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia». Ma c’è un’ipotesi in cui la sovrapposizione analogica fra genitorialità legale (anche non vera) e genitorialità naturale è impossibile: quella della coppia omosessuale. Pure ci sono nel mondo Paesi che l’ammettono, e per la coppia maschile danno accesso alla maternità surrogata. Da noi la ripugnanza etica e giuridica verso l’utero in affitto, una pratica che la Corte costituzionale ha definito intollerabile offesa alla dignità della donna e spesso occasione di abusi e di sfruttamento (sentenza n. 33/2021) non è rinunciabile. E si comprende perché la Corte suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, abbia escluso che un atto di nascita formato all’estero per un bambino nato da maternità surrogata e consegnato alla coppia dei committenti come figlio di entrambi, possa essere trascritto in Italia nei registri dello stato civile. In questi giorni, si ha notizia che il prefetto di Milano ha chiesto al sindaco Sala di cessare la iscrizione e trascrizione di atti di nascita indicanti genitori dello stesso sesso. Si è riferito non solo all’ipotesi di due maschi, ma anche a quella di due donne nei casi di parto in Italia, e con riserva di tornare in argomento per i parti all’estero. Si è così innescata una diatriba che ha venature surreali, perché se l’esclusione della doppia paternità ha il sigillo della Corte suprema, quello della doppia maternità naviga tra incertezze e contrastanti decisioni dei giudici. La necessità che una legge chiara indichi la soluzione giusta ai problemi aperti è affermata sia dalla Cassazione sia dalla Consulta, ma non sembra prevedibile a breve. Oggi il nocciolo della domanda di giustizia è per noi nel quesito: “Giusto per chi?”. Se la visuale è quella del diritto di una coppia gay o lesbica ad “avere” figli, è la volontà del desiderio impossibile. Se non a prezzo di una finzione che sottrarrà programmaticamente al figlio il diritto di avere un padre e una madre. È questa l’ingiustizia prima. Dopo non c’è che “la giustizia del giorno dopo”. Se il diritto del figlio ad avere un padre e una madre è già stato sacrificato, ed è stato messo al mondo così, e si ritrova una madre vera e la sua partner femmina, o un padre vero e il suo partner maschio, che hanno pagato la sua mamma e l’hanno staccato da lei, la giustizia possibile è quella residua, il minor male, o per lui, il figlio, il maggior bene che resta. Sicché potrebbe giovare una relazione giuridica con il partner del genitore vero, a somiglianza di quella, con carattere adottivo. Dunque, con intervento di garanzia giudiziale. Con un supplementare debito d’amore, se possibile. Read the full article
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samdelpapa · 2 years
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Gli USA sganciarono le bombe atomiche sul Giappone senza che ci fosse necessità, solo per dimostrare al mondo ciò che erano capaci di fare.
La vendetta giudiziaria su Julian Assange, fatta in spregio a qualsiasi norma giuridica e morale, ha lo stesso obbiettivo di intimidazione verso chi voglia dire la verità sui metodi che gli USA utilizzano per dominare e sfruttare il mondo.
I soliti metodi mafiosi degli USA colpiscono fisicamente Julian Assange, ma colpiscono la coscienza e danno un chiaro messaggio al resto del mondo: "non provate ad usare la verità contro la nostra narrazione mediatica su scala globale".
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Le Brigate Rosse non hanno MAI praticato TERRORISMO
Era lotta Armata,il terrorismo lo praticava lo stato,con le sue bombe e le sue stragi.
Non faccio apologia ad una verità ideologica quanto giudiziaria
A fine anni 70,nelle carceri italiane c'erano mille? O più detenuti politici appartamenti alle BR,per non parlare dei gruppi facenti parti all'universo della sinistra extra parlamentare
Di fronte a questa evidenza giuridica,cosa sarebbe successo se le Brigate Rosse avessero praticato TERRORISMO?
Avrebbero indubbiamente paralizzato l'Italia
Terrorista è chi mette una bomba senza colpire un RUOLO POLITICO ben preciso,ma a solo scopo di creare caos e tensione,chi sono le vittime di Terrorismo? Bambini di 10 anni,donne e uomini inermi e senza alcun ruolo politico o istituzionale
Si,lo so è drammatico dire "ti uccido per ciò che comporta e rappresenta il tuo ruolo" ma sarebbe genocida storicamente e culturalmente parlando,paragonare la lotta armata,avvalorata dal colpire il simbolo,o il ruolo,al terrorismo avvalorato da lasciare incustodita una borsa con dell'esplosivo dentro in pieno centro,oppure mettere bombe sui treni e nelle banche.
Chiaramente si vive un clima generalizzato di terrore,esiste ad esempio il terrorismo psicologico,ma POLITICAMENTE PARLANDO,questa definizione è totalmente inesatta,dietrologica e mistificatrice
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moonyvali · 2 years
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Gli esseri umani amano l’uguaglianza assai più della libertà, e della libertà spesso non gliene importa un bel nulla. Costa troppi sacrifici, troppa disciplina, e non è forse vero che si può essere uguali anche in stato di schiavitù? Quasi ciò non bastasse, il concetto di uguaglianza non lo comprendono. Per Uguaglianza la democrazia intende l’uguaglianza giuridica, l’uguaglianza che deriva dal sacro principio «la Legge è uguale per tutti».
Non l’uguaglianza mentale e morale, l’uguaglianza di valore e di merito. Non il pari merito d’una persona intelligente e di una persona stupida, il pari valore di una persona onesta e d’una persona disonesta. Quel tipo di uguaglianza non esiste. Se esistesse, non esisterebbe la Vita. Non esisterebbe l’individualità e saremmo tutti identici come automobili uscite da una catena di montaggio.
Il guaio è che la democrazia aiuta gli ignoranti e i presuntuosi a negare questa verità. Li aiuta con la demagogia e il populismo. Risultato, qualsiasi incapace può presentarsi candidato e venire eletto. Magari con una valanga di voti. E visto che molti esseri umani non sono Leonardo Da Vinci o San Francesco, a rappresentare l’elettorato sono spesso gli incapaci. Infatti chi, se non loro, è il primo responsabile della catastrofe che stiamo vivendo? Chi, se non loro, sta consegnando la nostra civiltà a una non-civiltà?
Oriana Fallaci
Professor X
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ma-pi-ma · 3 years
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Non vi sono alternative alla democrazia.
Se si rinuncia a quella, se muore quella, la libertà va a farsi friggere e come minimo ci ritroviamo in un gulag o in lager o in una foiba. Insomma in prigione o sottoterra. Ma quando ci riempiamo la bocca con la parola Democrazia sappiamo bene che la democrazia fa acqua da tutte le parti. Sappiamo bene che è un sistema disperatamente imperfetto e sotto alcuni aspetti bugiardo.
Sono due, secondo Tocqueville (che di Democrazia se ne intendeva), i concetti su cui si basa la democrazia: il concetto di Uguaglianza e il concetto di Libertà. Ma gli esseri umani amano l’uguaglianza assai più della libertà, e della libertà spesso non gliene importa un bel nulla. Costa troppi sacrifici, troppa disciplina, e non è forse vero che si può essere uguali anche in stato di schiavitù? Quasi ciò non bastasse, il concetto di uguaglianza non lo comprendono. O fingono di non comprenderlo. Infatti per Uguaglianza la democrazia intende l’uguaglianza giuridica, l’uguaglianza che deriva dal sacro principio «la Legge è uguale per tutti». Non l’uguaglianza mentale e morale, l’uguaglianza di valore e di merito. Non il pari merito d’una persona intelligente e di una persona stupida, il pari valore di una persona onesta e d’una persona disonesta. Quel tipo di uguaglianza non esiste. Se esistesse, non esisterebbe la Vita. Non esisterebbe l’individualità, non esisterebbe la competizione. Cosa che include anche le Olimpiadi, le gare, le partite di calcio cui gli italiani tengono tanto. E saremmo tutti identici come automobili uscite da una catena di montaggio. Il guaio è che la democrazia aiuta gli ignoranti e i presuntuosi a negare questa verità, questa evidenza. Li aiuta col voto che si conta ma non si pesa. Li aiuta con la retorica e la demagogia e il populismo. Risultato, qualsiasi incapace può presentarsi candidato e venire eletto. Magari con una valanga di voti. E visto che molti esseri umani non sono Leonardo Da Vinci o San Francesco, a rappresentare l’elettorato sono spesso gli incapaci. Infatti chi, se non loro, è il primo responsabile della catastrofe che stiamo vivendo? Chi, se non loro, sta consegnando la nostra civiltà a una non-civiltà?
Oriana Fallaci
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ma-come-mai · 2 years
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Non vi sono alternative alla democrazia. Se si rinuncia a quella, se muore quella, la libertà va a farsi friggere e come minimo ci ritroviamo in un gulag o in lager o in una foiba. Insomma in prigione o sottoterra. Ma quando ci riempiamo la bocca con la parola Democrazia sappiamo bene che la democrazia fa acqua da tutte le parti. Sappiamo bene che è un sistema disperatamente imperfetto e sotto alcuni aspetti bugiardo. Sono due, secondo Tocqueville (che di Democrazia se ne intendeva), i concetti su cui si basa la democrazia: il concetto di Uguaglianza e il concetto di Libertà. Ma gli esseri umani amano l’uguaglianza assai più della libertà, e della libertà spesso non gliene importa un bel nulla. Costa troppi sacrifici, troppa disciplina, e non è forse vero che si può essere uguali anche in stato di schiavitù? Quasi ciò non bastasse, il concetto di uguaglianza non lo comprendono. O fingono di non comprenderlo. Infatti per Uguaglianza la democrazia intende l’uguaglianza giuridica, l’uguaglianza che deriva dal sacro principio «la Legge è uguale per tutti». Non l’uguaglianza mentale e morale, l’uguaglianza di valore e di merito. Non il pari merito d’una persona intelligente e di una persona stupida, il pari valore di una persona onesta e d’una persona disonesta. Quel tipo di uguaglianza non esiste. Se esistesse, non esisterebbe la Vita. Non esisterebbe l’individualità, non esisterebbe la competizione. Cosa che include anche le Olimpiadi, le gare, le partite di calcio cui gli italiani tengono tanto. E saremmo tutti identici come automobili uscite da una catena di montaggio. Il guaio è che la democrazia aiuta gli ignoranti e i presuntuosi a negare questa verità, questa evidenza. Li aiuta col voto che si conta ma non si pesa. Li aiuta con la retorica e la demagogia e il populismo. Risultato, qualsiasi incapace può presentarsi candidato e venire eletto. Magari con una valanga di voti. E visto che molti esseri umani non sono Leonardo Da Vinci o San Francesco, a rappresentare l’elettorato sono spesso gli incapaci. Infatti chi, se non loro, è il primo responsabile della catastrofe che stiamo vivendo? Chi, se non loro, sta consegnando la nostra civiltà a una non-civiltà?
Oriana Fallaci
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gregor-samsung · 3 years
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“ Il governo USA non è mai stato un tenace sostenitore della giurisdizione universale, ma da quando singoli e gruppi hanno cominciato a utilizzare il diritto internazionale per contrastare determinate pratiche impiegate nella guerra globale al terrorismo, ha assunto una posizione apertamente avversa. Nel 1998 gli Stati Uniti si opposero all’approvazione dello Statuto di Roma che istituí la Corte Penale Internazionale (nel 2002) come tribunale permanente nei processi contro individui accusati di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Nel 2005, un rapporto del Pentagono commissionato da Donald Rumsfeld e intitolato La strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti d’America ammoniva che: “La nostra forza di Stato nazionale continuerà a essere messa in discussione da coloro che useranno la strategia dei deboli ricorrendo a forum internazionali, cause giudiziarie e terrorismo”. L’amministrazione Bush associava le minacce legali contro la violenza di Stato degli USA al terrorismo. Anche il governo israeliano ha cominciato a vedere con crescente preoccupazione l’impiego della guerra giuridica. Già nel 2001 Ariel Sharon, al tempo ministro degli Esteri israeliano, venne incriminato da un tribunale belga in relazione ai noti crimini di guerra commessi nel 1982 a Beirut contro i rifugiati palestinesi dei campi di Sabra e Shatila. Da allora, la stampa ha riferito che numerose cause sono state intentate contro politici israeliani, alti ufficiali dell’esercito e capi dei Servizi Segreti di diversi paesi. Benché nessuno di questi procedimenti si sia concluso con una condanna, il governo israeliano ha affiancato esperti in diritto internazionale ai propri reparti operativi e ha consigliato a ex politici e ufficiali di astenersi dal visitare determinati paesi europei. Inoltre, i funzionari governativi che hanno esaminato, insieme ad accademici ed esperti provenienti da vari think tank e ONG, le cause intentate contro cittadini israeliani, hanno riscontrato ovviamente che i rapporti pubblicati dalle ONG per i diritti umani sono spesso utilizzati come prove incriminanti. Scrivendo per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies (BESA Center) dell’Università di Bar-Ilan, un centro che si prefigge di portare avanti un “progetto sionista, conservatore e realistico, per raggiungere la sicurezza e la pace in Israele”, Elizabeth Samson, un avvocato specializzato in diritto internazionale e in diritto costituzionale, sostiene che coloro che ricorrono alla guerra giuridica “non stanno lottando contro un occupante o cercando di opporsi a un’incursione militare – ma stanno lottando contro le forze della libertà, stanno lottando contro la voce della ragione, e stanno attaccando coloro che hanno la libertà di parlare e agire alla luce del sole”. L’arma impiegata dal nemico, prosegue Samson, “l’abbiamo creata con le nostre mani – è lo Stato di diritto, un’arma pensata per sottomettere dittatori e tiranni che viene oggi abusata in loro favore, e viene manipolata per sovvertire la vera giustizia e la verità indiscutibile” [corsivo degli autori]. Il nemico cui fa riferimento questo passaggio sono le ONG progressiste per i diritti umani e la paura della guerra giuridica è la paura del rispecchiamento – tra progressisti e conservatori – e di una possibile inversione di significato assegnato alla storia della violenza. L’indignazione di Samson è ispirata a una precisa visione storica del diritto internazionale, che fin dal XVII e XVIII secolo è stato uno strumento al servizio degli stati sovrani e delle loro imprese imperiali. In una prospettiva storica, perciò, lo sforzo delle ONG per i diritti umani di utilizzare il diritto internazionale come un’arma contro gli stati sovrani, soprattutto se dominanti, è considerata una forma di appropriazione illegittima della legge, un tentativo di alterare un idioma preesistente che privilegia i paesi potenti cui viene riconosciuta l’autorevolezza morale di dichiarare la legittimità o meno del ricorso alla violenza. La legge diviene guerra giuridica, e i diritti umani una minaccia, nel momento in cui vengono rivolti contro gli stati dominanti e i loro esponenti. È in quel preciso istante che la legge diventa un’azione bellica e viene improvvisamente percepita – dagli stati sovrani, dai parlamenti e, in questo caso, anche dai centri studi come BESA e NGO Monitor – come una forza violenta e una minaccia. In quanto manifestazione attuale di ciò che secondo Edward Said è la “guerra semiotica” che avviluppa la questione palestinese, l’attacco alla minaccia della guerra giuridica dei diritti umani deve essere inteso come una lotta semiotica intorno alla legittimità della violenza israeliana di Stato e al significato dei diritti umani. Se [...] dopo la fondazione di Israele i diritti umani sono serviti da quadro interpretativo che ha contribuito a legittimare la dominazione e a proteggere lo Stato da una perpetua minaccia esistenziale, durante lo scorso decennio si è potuto osservare un crescente attacco ai diritti umani da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, perché l’attivismo per i diritti umani ha lottato per superare l’identificazione tra soggetto umano e soggetto nazionale. “
Nicola Perugini, Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, traduzione di Andrea Aureli, edizioni nottetempo (collana conache), 2016¹; pp. 98-101.
[Edizione originale: The Human Right to Dominate, Oxford University Press, 2015]
P.S.: Ringrazio @dentroilcerchio per avermi consigliato la lettura di questo saggio che esamina e denuncia l’uso strumentale dei diritti umani da parte dei gruppi dominanti.
P.P.S.: Internet può essere un posto bellissimo e sorprendente.
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una valanga si è innescata
io ne sono in verità rimasto spiazzato
evidentemente qualcosa sta iniziando a toccare a più livelli
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Il GREEN PACCO
di Marco Travaglio
"Qual è lo scopo della campagna anti-Covid: comprare più vaccini o avere meno contagi?"
«Da ultramaggiorenne, ultravaccinato e greenpassmunito, m’illudo di poter sollevare qualche legittimo dubbio sul pensiero unico che ci circonda senza venire iscritto d’ufficio al partito dei Negazionisti No Vax-No Pass e trascinato con loro sulla pira dei pirla.
1. Un anno fa (con zero vaccinati) avevamo un terzo di contagi e un ottavo di morti al giorno rispetto a oggi (con 2/3 della popolazione vaccinata). Il 13 agosto 2021 sono morti in 45 e il tasso di positività (rapporto tamponi/contagiati) era al 3,28%, contro i 6 e l’1,02 del 13 agosto 2020. L’altroieri i ricoverati in terapia intensiva erano +17 e nei reparti ordinari +58, contro i +2 e i +7 di un anno fa. I dati erano molto inferiori a oggi anche il 13 settembre, dopo l’estate folle delle discoteche aperte: 7 morti, positività all’1,6%, +5 in terapia intensiva. Bastano la variante Delta e il mancato lockdown nel 2021 a spiegare il terribile paradosso? O i vaccini (che continuiamo a raccomandare perché riducono i rischi di morte e di ricovero) sono molto meno efficaci e molto più perforabili di quanto si pensasse?
2. Ancora il 13 ottobre, quando Conte varò il primo Dpcm contro la seconda ondata, i morti erano meno dell’altroieri (41 contro 45). Eppure i giornaloni accusavano il governo di inerzia e gli esperti veri o presunti invocavano il lockdown: quanti morti servono ora perché qualcuno chieda a Draghi &C. almeno una parola chiara?
3. Più che della legittimità filosofico-giuridica del Green pass, bisognerebbe discutere della sua utilità pratica. Cosa risponde il governo a Crisanti che lo accusa di mentire spacciandolo per una misura sanitaria mentre non lo è? Se anche i vaccinati possono contagiarsi (stessa carica virale dei non vaccinati: Fauci dixit), contagiare e persino morire (sia pur in misura molto inferiore ai non vaccinati), che senso ha dividere i cittadini di serie A da quelli di serie B, alimentando per giunta l’illusione che i primi non siano contagiosi e che chi li avvicina non debba mantenere le distanze e le mascherine?
4. Siccome il Green pass non è revocabile, ogni giorno aumenta il rischio di incontrare contagiati-contagiosi muniti di carta verde e dunque travestiti da immuni: non sarebbe meglio mantenerlo come incentivo ai vaccini, ma smetterla di farne un passepartout e puntare a ridurre i contagi con tamponi gratuiti e il binomio distanziamento-mascherine nei luoghi affollati? La risposta è nota: ma così si scoraggiano i vaccini. Se però questi coprono le varianti solo fino a un certo punto, anzi le scatenano, qual è lo scopo della campagna anti-Covid: comprare più vaccini o avere meno contagi?
5. Chiunque sollevi qualche dubbio passa per un fottuto No Vax: ma siamo sicuri che le bugie e le omissioni, anziché ridurre i No Vax, non li moltiplichino?»
Da Il Fatto Quotidiano del 15/08
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autolesionistra · 3 years
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Terra (part II)
(segue da qui)
Dicevamo: cambiare il concetto di identità, nazione, patria. Una cosina da niente. Ma onestamente la credevo alla mia portata.
Voglio dire, ho quasi tutti i bollini della tessera: ho cantato stornelli d’esilio più volte di quanto riesca a ricordare, al reparto “ho amici che” ho toccato con mano l’esperienza di gente che ha fatto una mezza festa di matrimonio quando ha ricevuto la cittadinanza, da quelli che hanno lavorato e vissuto qui a quelli che ci sono nati e si son visti riconoscere la cittadinanza italiana a un paio di lustri di distanza, insomma sul piano razionale la vedo (incredibilmente) come Letta, che lo ius soli più che fantascienza è un modo di uscire dal medioevo.
Quindi il problema di ridefinire i termini della propria identità, dello straniero, della patria, è un problema di gente come Pillon, mica mio.
E invece.
Segue breve storia triste. Un giorno parlavo con un mio collega siciliano (persona saldamente attaccata alle sue origini ma più partecipe del tessuto sociale bolognese e informata sulla sua storia di quanto io non lo sia mai stato, come poi il 90% di chi vive a Bologna senza essere nato a Bologna), mi raccontava di suo figlio che a tavola chiamava la bottiglia di vino “la boccia”, e mi è uscita una frase del cazzo tipo “beh si è integrato bene” (non ricordo le parole precise ma il senso era quello), e lui si è fermato, mi ha guardato con la testa un po’ storta e con calma serafica come a spiegare le cose ad un cinno, dicendo “Danié, lui è bolognese. Qui è nato.”
Potrei tentare una qualche arrampicata sugli specchi per giustificare quel che ho detto, ma la verità è che mi sono vergognato come un cane; quell’uscità lì è  specchio di una pochezza che non viene da Pillon o dalla lega, viene direttamente dalla mia testa. E se ho delle tare, per quanto semi-inconsce, a considerare un concittadino come tale, figurati un connazionale.
E alla fine che Letta stia pestando tanto sullo ius soli per strategia o posizione puramente ideologica ha un’importanza relativa, c’è evidentemente bisogno di politici che ci martellino sopra e di giornalisti come Djarah Kan che puntino il faro su certe dinamiche perché la parte giuridica della questione, pur fondamentale, è solo la punta di un iceberg (almeno, evidentemente, per me).
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corallorosso · 3 years
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Mors tua, dose mea: ecco perché lo stop a Reithera dimostra che è in atto una guerra sui vaccini di Luca Telese Stop a Reithera. Con un atto formale della Corte dei Conti viene fermato il vaccino italiano. La notizia viene accolta con stupore (eufemismo) dalle istituzioni coinvolte nel progetto: la regione Lazio (che aveva contribuito in fase di ricerca), il Mise e la strutturale di Invitalia (che l’avevano finanziata con un accordo di sviluppo). (...) Questo in uno scenario che va raccontato per spiegare la gravità della scelta e le sue conseguenze: nel Lazio la campagna vaccinale si ferma e rallenta perché non ci sono più dosi di vaccini disponibili (e lo stesso accade in tante regioni italiane): proprio nello stesso giorno la Corte dei Conti con la sua decisione blocca i finanziamenti pubblici all’unico vaccino italiano. Avremmo bisogno di più dosi, e di più possibilità di scelta, proprio in queste ore nel nord si redistribuiscono le dosi che arrivano dal Sud recuperato dal generale Figliuolo (per non sprecarne nessuna), ma con un gesto simile ad un harakiri, un pezzo dello Stato ferma un altro pezzo dello Stato che ha scelto di finanziare un privato su un progetto di pubblica utilità. Dunque il risultato finale di questa scelta è che – invece di avere nuove dosi aggiuntive ad ottobre, come sarebbe accaduto dopo la fase di sperimentazione tre – l’Italia perderà tutto il lavoro di ricerca fatto fino ad oggi. Bel paradosso. Una istituzione dello stato italiano ferma l’unico vaccino italiano. La sperimentazione viene bloccata alla fase due, prima di essere conclusa, facendo sì che si rischi di perdere tutti gli investimenti messi in campo in questi mesi, lasciando a spasso i ricercatori e gli scienziati che hanno lavorato al progetto fino ad oggi. Il fatto davvero incredibile è questo: la Corte dei Conti (che come abbiamo già detto deve ancora pubblicare le motivazioni del suo pronunciamento) non può essere intervenuta sul merito sanitario della sperimentazione in atto, perché questa competenza non le appartiene. Quindi – date le possibilità di intervento della Corte – l’unica ipotesi è che abbia considerato illegittima, per qualsiasi motivazione, la delibera di spesa (o la modalità formale con cui quest’ultima è stata adottata). Una scelta non priva di conseguenze, nel bel mezzo di una Pandemia in cui tutti gli stati del mondo (con in testa la Germania e gli Stati Uniti) in un modo o nell’altro hanno favorito la ricerca e (giustamente) finanziato direttamente la produzione dei vaccini. (...) Ma poi – dopo la caduta di Conte – cambia il governo, cambia il ministro dell’Economia, se ne va il commissario Arcuri, in questo paese non esiste mai nessuno spirito di continuità istituzionale, il vaccino di Reithera aveva anche “il difetto” (si fa per dire) di agire per adenovirus (come AstraZeneca e Johnson & Johnson) e non per RNA messaggero: non è un vaccino “alla moda”. Oggi nessuno dei giornali che riporta questa notizia (anche con grande enfasi) commenta in qualsiasi modo la decisione della Corte. Come se in un confitto tra istituzioni fosse difficile prendere una posizione, qualunque essa sia. Come se il finanziamento di Stato a Reithera, fosse considerato una battaglia persa, o una scelta anacronistica (come ho appena ricordato è stata presa pochi mesi fa!). La verità è che anche questo episodio, sia pure nella sua inedita forma burocratico-giuridica ci conferma che è in atto una guerra commerciale sui vaccini, in cui forze e poteri enormi, industrie e Stati si combattono sopra la testa dei cittadini per spartirsi l’enorme torta del mercato vaccinale. Una guerra che su sul suolo europeo – come dimostra la battaglia fra Pfizer e AstraZeneca – vale ancora di più, ed è una guerra allo stesso tempo sanitaria, economica, politica a geopolitica. L’eccezione italiana, rispetto a quello che abbiamo visto fino ad oggi è questa: per la prima volta un vaccino viene colpito da “fuoco amico”: non dal mercato, non dal autorità sanitarie, dunque, ma da un pezzo dello Stato che distrugge quello che l’altro ha fatto. Non è una guerra pulita, non ci sono motivazioni sempre cristalline, c’è una battaglia combattuto all’ultima fiala con la concorrenza: mors tua, dose mea. E ogni commessa è parte di una guerra di egemonia in cui il vincitore non è indifferente. Direbbe George Orwell: tutti i vaccini sono uguali. Ma alcuni sono più uguali.
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toscanoirriverente · 3 years
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Giustizia, il Paese senza memoria
di Angelo Panebianco
Forse la lettera a Il Foglio con cui, alcuni giorni fa, Luigi Di Maio ci metteva al corrente della sua svolta garantista è il frutto di una autentica conversione. Oppure di un astuto calcolo: magari non ci saranno veti sul suo nome quando, tra qualche mese o anno, si apriranno le consultazioni per la formazione del futuro governo. O forse è il frutto di entrambe le cose. Ma non è importante. Quella svolta merita comunque apprezzamento. È essenziale però non sopravvalutarne le possibili conseguenze. In un Paese senza memoria storica si fa presto a scambiare gli effetti per le cause: si fa presto,ad esempio, a credere che siano stati i 5 Stelle a imporre all’Italia la loro visione forcaiola della vita pubblica. Talché, se Di Maio riesce a convertirli alla civiltà (giuridica in questo caso), il gioco è fatto,i problemi sono risolti. Ma no. Per niente. I 5 Stelle non sono una causa, sono un effetto. È perché in ampi settori dell’opinione pubblica era radicata quella visione forcaiola che i 5 Stelle hanno avuto successo, sono diventati addirittura il primo partito alle ultime elezioni. Ignora la storia e scambierai le lucciole per lanterne, le cause per gli effetti. Qualcuno si ricorda ancora del caso di Enzo Tortora? All’epoca l’espressione circo mediatico-giudiziario non era ancora stata inventata. Tortora venne arrestato nel giugno del 1983 per (niente meno) associazione camorristica. Si scatenò contro di lui, rinchiuso in una cella, una sarabanda mediatica selvaggia, violenta, durata mesi e mesi. Poiché coloro che si occupavano del caso alla Procura di Napoli avevano deciso che Tortora fosse un capo della camorra, l’intero Paese, per un bel po’, accettò di credere, a scatola chiusa, a quella bufala. Cosa accadde ai responsabili, giudiziari e non, di quella vicenda? Le loro carriere vennero stroncate? Furono per lo meno danneggiate? No, non pagarono dazio. Non subirono alcuna sanzione. Il caso Tortora dimostrò a tutti che in questo Paese è possibile sequestrare un innocente, tentare di distruggerlo, presentarlo come un mostro sui mezzi di comunicazione, senza che ciò comporti il benché minimo danno per la carriera dei responsabili e dei loro complici. La verità è che, come il caso Tortora dimostrò, il principio (di civiltà) della presunzione di non colpevolezza non è mai stato davvero accettato in questo Paese. Poi arrivò Mani Pulite. Colpì la diffusa corruzione. Essa doveva essere colpita. Ma i modi in cui ciò avvenne non furono tutti irreprensibili. Pochi oggi negano che ci furono degli eccessi: altro che rispetto della presunzione di non colpevolezza. Si verificò, inoltre, un rovesciamento dei rapporti di forza fra magistratura e politica i cui effetti perdurano tutt’ora. Posso assicurare per esperienza che a quell’epoca criticare certi aspetti della «rivoluzione giudiziaria» allora in atto significava diventare il bersaglio degli insulti di quello che allora era chiamato «popolo dei fax», coloro che inneggiavano alle manette, che volevano il sangue. Per inciso, sarebbe interessante se qualche psicologo studiasse gli effetti che produsse sui bambini e gli adolescenti di allora sentir dire da tutte le televisioni dell’epoca che l’Italia è un «Paese di ladri». È cambiato qualcosa? È stato ripristinato, nella coscienza dei più, il principio della presunzione di non colpevolezza? Si è posto fine alle gogne mediatiche? No, non è mai cambiato niente. Le cause sono diverse. C’è certamente la circostanza che la politica ha alimentato queste tendenze: i politici sono garantisti quando oggetto di provvedimenti giudiziari sono loro o i loro amici, sono forcaioli quando vengono colpiti i loro avversari. Ciò è il frutto di un atteggiamento strumentale e opportunistico (di tanti italiani, non dei soli politici) nei confronti delle leggi. Vale ancora, anzi vale più che mai, quanto disse circa cento anni fa Giovanni Giolitti: «In Italia, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici». Vale anche il fatto che, causa dell’unità delle carriere dei magistrati, molti italiani non riescono a distinguere fra un giudice e un procuratore. E se un procuratore è chiamato giudice, questo non è un errore innocente. Ne deriva infatti che i suoi provvedimenti verranno scambiati per sentenze: l’indagato diventa così un colpevole il cui reato è stato provato. Il processo diventa superfluo, anzi un fastidioso onere per i contribuenti. Al fondo naturalmente giocano le nostre tradizioni illiberali. Intendiamoci: anche nei Paesi anglosassoni, nei quali i principi liberali sono più saldi e che per questo alcuni di noi ammirano, ci sono nella pubblica opinione tendenze forcaiole. Ma, per lo più, in quei Paesi sono garantiste le élite, è garantista la classe dirigente. Essa è pertanto in grado di fare muro, di impedire alle pulsioni illiberali di una parte del pubblico di fare gravi danni. In Italia, invece, ci sono segmenti delle élite (per esempio, intellettuali) che condividono il credo forcaiolo di una parte dell’opinione pubblica. Per questo in Italia non ci sono vere barriere. Si noti che tutto ciò non dipende dalla divisione fra guelfi e ghibellini, fra la destra e la sinistra. Si pensi a un grande vecchio, un protagonista della storia comunista, scomparso di recente: Emanuele Macaluso. Combinava una visione togliattiana della politica e una concezione liberale della giustizia. Non credo che Di Maio riuscirà davvero a convertire molti fra i 5Stelle. Dovrebbero rinunciare alla vera «ragione sociale» del loro movimento politico. Dovrebbero rinunciare anche all’alleanza di fatto che hanno stabilito con il settore più politicizzato e militante della magistratura. In ogni caso, si ricordi che le ragioni che spiegano la prevalenza in questo Paese di atteggiamenti illiberali in materia di giustizia, sono profonde, vengono da lontano. La pur meritoria dichiarazione di un politico non basta a cambiare le cose . Non può sostituire una lunga e faticosa opera di rieducazione del pubblico. Che dovrebbe cominciare a scuola. Basta metterla così per capire quanto possa essere ardua l’impresa.
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