#Sabra e Shatila
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Così, per la cronaca e memoria.
Morti di serie a e b, a seconda della convenienza storica, i nazisti sono sempre gli altri.
#memoria corta#nazismo#palestina#free palestina#memoria#cronaaca#sabra e shatila#palestinesi#eccidio#israele#israel#ebrei#nazisti
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Mi ha colpito molto questa foto di Gigi Riva presente ad un convegno del PCI in difesa del popolo palestinese massacrato nei campi profughi in Libano. Purtroppo non sono riuscita a risalire ad una data certa - potrebbe essere, immagino, in occasione del massacro di Sabra e Shatila nel 1982? - ma mi ha colpito per due motivi:
una delle tante reazioni alla condivisione di questa foto di repertorio non è tanto il classico "tenere fuori il calcio dalla politica" ma quanto il: "non si strumentalizzano i morti e questo è sciacallaggio". Solitamente sono argomentazioni da salotto portate avanti da chi non ha un minimo di coscienza non dico politica, ma almeno civile sulle questioni del mondo. Riva non era un politico e non credo che vi sia qualcuno che stia forzando questa chiave narrativa, ma condividere un'immagine del genere è semplicemente un pezzo secondo me molto bello che va a comporre il puzzle della persona che è stata e di quello che ha rappresentato fuori e dentro dal campo.
Di contro, ho visto come il Foglio qualche giorno fa si è prodigato in un articolo di giornale in cui si sottolinea la figura di un uomo che "non si è mai piegato alla politica" e che ha rifiutato candidature, approcci dai più disparati esponenti politici, da De Mita (DC) a Craxi (PSI) sino ad arrivare in tempi più recenti a Berlusconi. Ecco, questo è un articolo di demagogia, dove si fa il processo inverso, dove si sente l'esigenza di limare e rendere inoffensivo l'uomo che è stato. Non ne stanno davvero sottolineando il suo "spirito libero", l'intento è solo di contenere questa figura silenziosa ma sempre attenta alle questioni del mondo.
Sottolineare il suo spirito libero significherebbe invece raccontare che sì, Riva non ha mai prestato il suo volto ai partiti politici ovviamente. Davvero era libero in questo. Ma si è sempre schierato in favore degli ultimi, che fossero i minatori del Sulcis: (lo trovate in fondo, non aveva bisogno di sfilare in prima fila)
... o il popolo palestinese. Questo è qualcosa di profondamente politico, nell'ampia accezione del termine, ma credo che per certi giornali sia scomodo parlarne.
Viva Gigi Riva e Viva la Palestina Libera 🇵🇸
#gigi riva#mi fa straridere il foglio quando scrive: -non c'era posto per le divisioni. soprattutto quelle meschine della politica-#ecco il non piegarsi ai giochi politici non significa che non avesse certamente una coscienza di cosa certi partiti rappresentassero#e di quello che hanno fatto all'italia e in special modo al meridione e alla sardegna. Questo è tratteggiarlo da qualunquista#e certe correnti da salotto sono specialiste in questo
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SABRAESHATILA.“Celodisserolemosche”
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17 set 2020
Fisk, Israele, libano, Palestina, Sabra, Sharon, shatila
by Redazione
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Vogliamo ricordare Robert Fisk, scomparso il 30 ottobre, riproponendovi l’articolo che il grande giornalista scrisse quando tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dopo il massacro di migliaia di palestinesi nel settembre del 1982

di Robert Fisk – settembre 1982
Roma, 17 settembre 2020 Nena News – “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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Il massacro di Sabra e Shatila, avvenuto tra il 16 e il 18 settembre 1982 in Libano, rappresenta uno dei capitoli più tragici e dimenticati del conflitto arabo-israeliano. Durante questi tre giorni, milizie cristiane, con la presunta complicità israeliana, sterminarono fra 762 e 3.500 palestinesi, tra uomini, donne e bambini, senza distinzione di età o sesso. La narrazione di Mimmo Candito, un importante giornalista italiano, è un documento straziante di questi avvenimenti. Secondo le testimonianze, gli assalitori erano uomini del maggiore Saad Haddad e falangisti del partito Kataeb, che aveva circondato i campi profughi. Nonostante la presenza dell'esercito israeliano attorno ai campi, quest’ultimo negò ogni responsabilità, affermando di non essere a conoscenza della situazione. I campi erano stati il bastione della resistenza palestinese e la loro caduta, avvenuta a seguito dell’assassinio del presidente libanese Gemayel, aveva lasciato i civili vulnerabili. Le cronache del massacro descrivono scene terribili: i miliziani entravano nelle case, costringevano le persone contro i muri e le uccidevano. Testimonianze rivelano atti di violenza e brutalità inenarrabili, inclusi stupri e torture. I soccorritori, tra cui medici e infermieri, testimoniarono di corpi torturati e di fossa comuni create con bulldozer per nascondere la portata della strage. Molti sopravvissuti raccontarono di come i miliziani, in preda a un comportamento violento e irrazionale, operassero nel campo in un’atmosfera di totale impunità. Le loro parole descrivono la paura e il terrore che serpeggiavano tra i civili, costretti a vivere un incubo horror. Testimonianze diverse confermarono la presenza di uniformi israeliane tra i miliziani, insinuando un coinvolgimento diretto. Il bilancio dei cadaveri e la mancanza di aiuto per i sopravvissuti rivelano una verità agghiacciante. Ne nasce un quadro di desolazione e paura, in cui gli uomini rivisitano traumi imprigionati nella memoria collettiva. La visita dell'esercito libanese, dopo il massacro, provocò nuovo panico tra la popolazione. La guerra in Libano, e in particolare questo massacro, continuano a rappresentare una ferita aperta, una memoria dolorosa che ci ricorda orrori ancora presenti nella storia del conflitto mediorientale.
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Events 9.18 (after 1920)
1922 – The Kingdom of Hungary is admitted to the League of Nations. 1927 – The Columbia Broadcasting System goes on the air. 1928 – Juan de la Cierva makes the first Autogyro crossing of the English Channel. 1931 – Imperial Japan instigates the Mukden Incident as a pretext to invade and occupy Manchuria. 1934 – The Soviet Union is admitted to the League of Nations. 1939 – World War II: The Polish government of Ignacy Mościcki flees to Romania. 1939 – World War II: The radio show Germany Calling begins transmitting Nazi propaganda. 1943 – World War II: Adolf Hitler orders the deportation of Danish Jews. 1944 – World War II: The British submarine HMS Tradewind torpedoes Jun'yō Maru, killing 5,600, mostly slave labourers and POWs. 1944 – World War II: Operation Market Garden results in the liberation of Eindhoven. 1944 – World War II: The Battle of Arracourt begins. 1945 – General Douglas MacArthur moves his general headquarters from Manila to Tokyo. 1947 – The National Security Act reorganizes the United States government's military and intelligence services. 1948 – Operation Polo is terminated after the Indian Army accepts the surrender of the army of Hyderabad. 1948 – Margaret Chase Smith of Maine becomes the first woman elected to the United States Senate without completing another senator's term. 1954 – Finnish president J. K. Paasikivi becomes the first Western head of state to be awarded the highest honor of the Soviet Union, the Order of Lenin. 1960 – Fidel Castro arrives in New York City as the head of the Cuban delegation to the United Nations. 1961 – U.N. Secretary-General Dag Hammarskjöld dies in an air crash while attempting to negotiate peace in the Katanga region of the Democratic Republic of the Congo. 1962 – Burundi, Jamaica, Rwanda and Trinidad and Tobago are admitted to the United Nations. 1962 – Aeroflot Flight 213 crashes into a mountain near Chersky Airport, killing 32 people. 1964 – The wedding of Constantine II of Greece and Princess Anne-Marie of Denmark takes place in Athens. 1973 – The Bahamas, East Germany and West Germany are admitted to the United Nations. 1974 – Hurricane Fifi strikes Honduras with 110 mph winds, killing 5,000 people. 1977 – Voyager I takes the first distant photograph of the Earth and the Moon together. 1980 – Soyuz 38 carries two cosmonauts (including one Cuban) to the Salyut 6 space station. 1981 – The Assemblée Nationale votes to abolish capital punishment in France. 1982 – The Sabra and Shatila massacre in Lebanon comes to an end. 1984 – Joe Kittinger completes the first solo balloon crossing of the Atlantic. 1988 – The 8888 Uprising in Myanmar comes to an end. 1988 – General Henri Namphy, president of Haiti, is ousted from power in a coup d'état led by General Prosper Avril. 1990 – Liechtenstein becomes a member of the United Nations. 1992 – An explosion rocks Giant Mine at the height of a labor dispute, killing nine replacement workers in Yellowknife, Canada. 1997 – United States media magnate Ted Turner donates US$1 billion to the United Nations. 1997 – The Anti-Personnel Mine Ban Convention is adopted. 2001 – First mailing of anthrax letters from Trenton, New Jersey in the 2001 anthrax attacks. 2007 – Buddhist monks join anti-government protesters in Myanmar, starting what some call the Saffron Revolution. 2011 – The 2011 Sikkim earthquake is felt across northeastern India, Nepal, Bhutan, Bangladesh and southern Tibet. 2012 – Greater Manchester Police officers PC Nicola Hughes and PC Fiona Bone are murdered in a gun and grenade ambush attack in Greater Manchester, England. 2014 – Scotland votes against independence from the United Kingdom, by 55% to 45%. 2015 – Two security personnel, 17 worshippers in a mosque, and 13 militants are killed during a Tehrik-i-Taliban Pakistan attack on a Pakistan Air Force base on the outskirts of Peshawar. 2016 – The 2016 Uri attack in Jammu and Kashmir, India by terrorist group Jaish-e-Mohammed results in the deaths of nineteen Indian Army soldiers and all four attackers.
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IMAGENES Y DATOS INTERESANTES DEL 16 DE SEPTIEMBRE DE 2024
Día Internacional de la Capa de Ozono, Día Internacional de la Cardiología Intervencionista, Semana Europea de la Movilidad, Semana del Bienestar en las Américas, Año Internacional de los Camélidos.
Santa Ludmila, San Principio, San Rogelio, Santa Imelda, San Cipriano, San Cornelio, Santa Eufemia y Santa Edita.
Tal día como hoy en el año 2022
En Irán, dictadura teocrática, la "policía de la moral" detiene a la activista Masha Amini por no llevar el velo bien colocado sobre la cabeza. En el furgón policial le darán tal paliza que, trasladada a un centro de detención, sufrirá un desmayo que le provocará la muerte. Se convocarán protestas masivas por todo el país durante semanas. La represión del régimen será salvaje y dará lugar a más de 500 muertos y 22.000 personas, 7 de ellas serán sentenciadas a pena de muerte y ejecutadas. (Hace 2 años)
1987
Ante la gravedad de la destrucción de la capa de ozono por una serie de compuestos químicos que están devorando esta vital envoltura, en Montreal se firma el Protocolo del mismo nombre que prohibirá el consumo de numerosas sustancias que se ha estudiado que reaccionan con ella y se cree que son responsables del agotamiento de la misma. Entrará en vigor el 1 de enero de 1989 e irá mostrando su efectividad porque comenzará a regenerarse poco a poco. (Hace 37 años)
1982
En Beirut oriental y horas después de que las fuerzas israelitas hayan entrado en la capital libanesa, milicianos falangistas, aliados de Israel, con la excusa de buscar terroristas, inician una matanza de civiles palestinos en los campamentos de refugiados de Sabra y Shatila. En dos días de nauseabundo terror morirán friamente asesinadas 1.000 personas entre hombres, mujeres y niños. (Hace 42 años)
1975
Papúa Nueva Guinea obtiene la independencia de Australia. Cuenta con 22 provincias y su capital es Puerto Moresby. En 1977 se celebrarán elecciones que ganará Michael Somare quien, siendo presidente del gobierno autónomo, se convertirá en Primer Ministro siendo el primer jefe de gobierno del nuevo país. (Hace 49 años)
1955
En Córdoba, Argentina, el general de artillería retirado Eduardo Lonardi encabeza un levantamiento militar contra el gobierno constitucional de Juan Domingo Perón. El golpe se extiende a Buenos Aires y otras ciudades. El 19 de septiembre Perón renunciará pidiendo asilo en la embajada de Paraguay. Lonardi asume el poder como presidente provisional de lo que llama "Revolución Libertadora". (Hace 69 años)
1939
Con la victoria soviética concluye el enfrentamiento por la guerra fronteriza no declarada entre Japón y la Unión Soviética que permanece activo desde mayo. Los japoneses se retiran a Manchukuo (en China) y abandonan la idea de enfrentarse en solitario con la Unión Soviética sin apoyo alemán. (Hace 85 años)
1859
El misionero escocés David Livingstone alcanza el lago Nyasa (actual lago Malawi), con 560 kilómetros de longitud y 75 km. en su anchura máxima, cuyos contornos traza en un mapa. (Hace 165 años)
1850
Se inaugura solemnemente en Veracruz el primer tramo de vía ferroviaria en México. (Hace 174 años)
1840
En España, tras los sucesos revolucionarios de julio en Barcelona y una vez finalizada la guerra carlista, el general Fernández Espartero, de ideología progresista, asume la presidencia del consejo de ministros reemplazando a la reina gobernadora María Cristina, con la que mantiene una abierta hostilidad. (Hace 184 años)
1810
En México, Miguel Hidalgo y Costilla, párroco de la ciudad de Dolores, al enterarse de que se ha desmantelado una conspiración, tramada en Querétano, para derrocar a las autoridades coloniales, decide en este día proclamar la lucha abierta y desde el púlpito en la primera misa gritará: "¡Viva América y muera el mal gobierno! ¡Viva nuestra Santísima Madre de Guadalupe!". Con este "grito de Dolores" se inicia la insurrección de Querétaro. Hidalgo es nombrado capitán general del movimiento y se le unen la mayoría de los indios de la región. El día 28 tomarán la ciudad de Guanajuato y proclamará abolida la esclavitud y los tributos de los indios. Tras una serie de derrotas, Hidalgo será relevado de su puesto por impericia y capturado junto a otros jefes en marzo de 1811. Lo fusilarán en Chihuahua el 30 de julio de 1811. (Hace 214 años)
1804
El político y físico francés, Gay-Lussac, establece un récord de altura en globo, al alcanzar los 7.016 metros, en una ascensión para evaluar las modificaciones que se producen en la composición del aire con la altura. (Hace 220 años)
1492
Cuatro semanas antes de descubrir el Nuevo Mundo, en medio del Océano Atlántico, las tres carabelas de Cristobal Colón llegan a una amplia extensión cubierta de algas del género Sargassum, que más tarde será conocida como el Mar de los Sargazos. (Hace 532 años)
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27 gennaio 2023
Io vorrei una GIORNATA DELLA MEMORIA di SABRA e SHATILA
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Cara Alina, ho letto la tua lettera, sento il tuo dolore, sono disgustato dall’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, secondo me è un errore criminale, l’atto di un gangster, ci deve essere un cessate il fuoco immediato. Mi rammarico che i governi occidentali stiano alimentando il fuoco che distruggerà il vostro bel paese riversando armi in Ucraina, invece di impegnarsi nella diplomazia che sarà necessaria per fermare il massacro. Siate certi che se tutti i nostri leader non rifiutano la retorica e si impegnano in negoziati diplomatici, quando i combattimenti saranno finiti resterà ben poco dell’Ucraina. Una lunga insurrezione in Ucraina sarebbe grandiosa per i gangster di Washington, è ciò che sognano, “giocare”, come fanno, “con il coraggio di essere fuori portata” Spero disperatamente che il vostro Presidente non sia un anche lui un gangster e che farà ciò che è meglio per la sua gente, e chiederà agli americani che si mettano a un tavolo. Purtroppo, tuttavia, molti leader mondiali sono gangster e il mio disgusto per i gangster politici non è iniziato la scorsa settimana con Putin. Ero disgustato dai gangster Bush e Blair quando hanno invaso l’Iraq nel 2003, ero e sono ancora disgustato dal governo gangster dell’invasione israeliana della Palestina nel 1967 e dalla sua successiva occupazione che dura ormai da oltre cinquanta anni. Ero disgustato dai gangster Obama e Clinton che ordinavano i bombardamenti illegali della NATO sia in Libia che in Serbia. Sono disgustato dalla distruzione totale della Siria iniziata nel 2011 da ingerenze esterne nella causa del cambio di regime. Sono stato disgustato dall’invasione del Libano nel 1982, quando il gangster Shimon Peres si è unito alle milizie cristiane falangiste nell’assassinio di profughi palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila nel sud di quel paese. So quello che provi Alina e quello che provano tua madre e tuo padre e i tuoi zii e zie e fratelli e sorelle e cugini, ho perso sia mio padre Eric Fletcher Waters che mio nonno George Henry Waters nelle guerre che combattevano i tedeschi. Per favore, credimi quando ti dico che credo nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo firmata a Parigi nel 1948. Ho combattuto con tutto me stesso per promuovere e sostenere i diritti umani per tutti i miei fratelli e sorelle in tutto il mondo per tutto il tempo da quello che ricordo e sostengo te e i tuoi ora, con tutto il mio cuore. A proposito di gangster, devo dirti una cosa riguardo alla tua lettera, la tua convinzione del “200%” che non ci siano neonazisti nel tuo paese è quasi certamente sbagliata. Entrambi i battaglioni Azov nel tuo esercito, la milizia nazionale e il C14 sono ben noti gruppi neo-nazisti autoproclamati. Anche loro sono gangster. Inoltre, non ho taciuto sull’Ucraina, ho scritto un pezzo che è stato distribuito sei giorni fa da Globetrotter. Che altro dirti, Alina? Tutti noi in ogni paese del mondo, comprese Ucraina e Russia, possiamo combattere i gangster, possiamo dire loro che non faremo parte delle loro guerre oscene e mortali per ottenere potere e ricchezza a spese di altri, possiamo dire loro che le nostre famiglie, tutte le famiglie in tutto il mondo, significano per noi più di tutto il potere e il denaro del mondo. Dove vivo negli Stati Uniti possiamo unirci a Black Lives Matter o Code Pink o BDS o Veterans For Peace o una miriade di altre organizzazioni contro la guerra, a favore della legge, per la libertà e per i diritti umani. Farò tutto quello che posso per contribuire alla fine di questa terribile guerra nel vostro paese, tutto, tranne sventolare una bandiera per incoraggiare il massacro. Questo è ciò che vogliono i gangster, vogliono che sventoliamo bandiere. È così che ci dividono e ci controllano, incoraggiando lo sventolare delle bandiere per creare una cortina fumogena di inimicizia per renderci ciechi alla nostra innata capacità di entrare in empatia l’uno con l’altro, mentre saccheggiano e violentano il nostro fragile pianeta. Farò tutto ciò che è in mio potere per aiutare a riportare la pace a te, alla tua famiglia e al tuo bellissimo Paese. La lunga guerra/insurrezione che Hillary Clinton, Condoleezza Rice e il resto dei gangster di Washington stanno incoraggiando non è nel vostro interesse né nell’Ucraina. Ti auguro ogni bene Alina. Grazie per la tua lettera e se sceglierai di rispondermi. Stamperò quella risposta. Lo prometto. Love,
La bellissima lettera con cui Roger Waters si schiera sulla guerra in Ucraina
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“ Il governo USA non è mai stato un tenace sostenitore della giurisdizione universale, ma da quando singoli e gruppi hanno cominciato a utilizzare il diritto internazionale per contrastare determinate pratiche impiegate nella guerra globale al terrorismo, ha assunto una posizione apertamente avversa. Nel 1998 gli Stati Uniti si opposero all’approvazione dello Statuto di Roma che istituí la Corte Penale Internazionale (nel 2002) come tribunale permanente nei processi contro individui accusati di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Nel 2005, un rapporto del Pentagono commissionato da Donald Rumsfeld e intitolato La strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti d’America ammoniva che: “La nostra forza di Stato nazionale continuerà a essere messa in discussione da coloro che useranno la strategia dei deboli ricorrendo a forum internazionali, cause giudiziarie e terrorismo”. L’amministrazione Bush associava le minacce legali contro la violenza di Stato degli USA al terrorismo. Anche il governo israeliano ha cominciato a vedere con crescente preoccupazione l’impiego della guerra giuridica. Già nel 2001 Ariel Sharon, al tempo ministro degli Esteri israeliano, venne incriminato da un tribunale belga in relazione ai noti crimini di guerra commessi nel 1982 a Beirut contro i rifugiati palestinesi dei campi di Sabra e Shatila. Da allora, la stampa ha riferito che numerose cause sono state intentate contro politici israeliani, alti ufficiali dell’esercito e capi dei Servizi Segreti di diversi paesi. Benché nessuno di questi procedimenti si sia concluso con una condanna, il governo israeliano ha affiancato esperti in diritto internazionale ai propri reparti operativi e ha consigliato a ex politici e ufficiali di astenersi dal visitare determinati paesi europei. Inoltre, i funzionari governativi che hanno esaminato, insieme ad accademici ed esperti provenienti da vari think tank e ONG, le cause intentate contro cittadini israeliani, hanno riscontrato ovviamente che i rapporti pubblicati dalle ONG per i diritti umani sono spesso utilizzati come prove incriminanti. Scrivendo per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies (BESA Center) dell’Università di Bar-Ilan, un centro che si prefigge di portare avanti un “progetto sionista, conservatore e realistico, per raggiungere la sicurezza e la pace in Israele”, Elizabeth Samson, un avvocato specializzato in diritto internazionale e in diritto costituzionale, sostiene che coloro che ricorrono alla guerra giuridica “non stanno lottando contro un occupante o cercando di opporsi a un’incursione militare – ma stanno lottando contro le forze della libertà, stanno lottando contro la voce della ragione, e stanno attaccando coloro che hanno la libertà di parlare e agire alla luce del sole”. L’arma impiegata dal nemico, prosegue Samson, “l’abbiamo creata con le nostre mani – è lo Stato di diritto, un’arma pensata per sottomettere dittatori e tiranni che viene oggi abusata in loro favore, e viene manipolata per sovvertire la vera giustizia e la verità indiscutibile” [corsivo degli autori]. Il nemico cui fa riferimento questo passaggio sono le ONG progressiste per i diritti umani e la paura della guerra giuridica è la paura del rispecchiamento – tra progressisti e conservatori – e di una possibile inversione di significato assegnato alla storia della violenza. L’indignazione di Samson è ispirata a una precisa visione storica del diritto internazionale, che fin dal XVII e XVIII secolo è stato uno strumento al servizio degli stati sovrani e delle loro imprese imperiali. In una prospettiva storica, perciò, lo sforzo delle ONG per i diritti umani di utilizzare il diritto internazionale come un’arma contro gli stati sovrani, soprattutto se dominanti, è considerata una forma di appropriazione illegittima della legge, un tentativo di alterare un idioma preesistente che privilegia i paesi potenti cui viene riconosciuta l’autorevolezza morale di dichiarare la legittimità o meno del ricorso alla violenza. La legge diviene guerra giuridica, e i diritti umani una minaccia, nel momento in cui vengono rivolti contro gli stati dominanti e i loro esponenti. È in quel preciso istante che la legge diventa un’azione bellica e viene improvvisamente percepita – dagli stati sovrani, dai parlamenti e, in questo caso, anche dai centri studi come BESA e NGO Monitor – come una forza violenta e una minaccia. In quanto manifestazione attuale di ciò che secondo Edward Said è la “guerra semiotica” che avviluppa la questione palestinese, l’attacco alla minaccia della guerra giuridica dei diritti umani deve essere inteso come una lotta semiotica intorno alla legittimità della violenza israeliana di Stato e al significato dei diritti umani. Se [...] dopo la fondazione di Israele i diritti umani sono serviti da quadro interpretativo che ha contribuito a legittimare la dominazione e a proteggere lo Stato da una perpetua minaccia esistenziale, durante lo scorso decennio si è potuto osservare un crescente attacco ai diritti umani da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, perché l’attivismo per i diritti umani ha lottato per superare l’identificazione tra soggetto umano e soggetto nazionale. “
Nicola Perugini, Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, traduzione di Andrea Aureli, edizioni nottetempo (collana conache), 2016¹; pp. 98-101.
[Edizione originale: The Human Right to Dominate, Oxford University Press, 2015]
P.S.: Ringrazio @dentroilcerchio per avermi consigliato la lettura di questo saggio che esamina e denuncia l’uso strumentale dei diritti umani da parte dei gruppi dominanti.
P.P.S.: Internet può essere un posto bellissimo e sorprendente.
#Nicola Perugini#Neve Gordon#Il diritto umano di dominare#Corte Penale Internazionale#Statuto di Roma#libri#leggere#Donald Rumsfeld#genocidio#crimini contro l’umanità#saggi#diritto internazionale#crimini di guerra#Pentagono#citazioni#giurisdizione universale#Stati nazionali#letture#saggistica#questione israelo-palestinese#Medio Oriente#Israele#Gaza#Conflitto arabo-israeliano#cisgiordania#Ariel Sharon#Beirut#Sabra e Shatila#sionismo#imperialismo
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CE LO DISSERO LE MOSCHE 39 ANNI FA LA STRAGE DI SABRA E CHATILA di Robert Fisk “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera. All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto. Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento. Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.» Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra. Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote. Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? (...) Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria. In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato. Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto. Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta. Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore. (...) Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena. Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo. Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro. (...) . I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato. (...) Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa. Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato. Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi. Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile (...) (Occhi sul Mondo)
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Israele e Palestina.
Dove informarsi, libri, film, reportage seri per capire qualcosa tra chi dice che quelle terre sono degli ebrei perche gli arabi le hanno vendute e le abitavano solo come nomadi, e chi dice che gli ebrei si sono appropriati di quelle terre illegittimamente (al netto dei loro motivi religiosi).
Qual è la VERITÀ STORICA?
Qui faccio parlare il mio ragazzo laureato in storia con una tesi in Storia dei paesi Islamici e lui consiglia per quanto riguarda i libri:
Il conflitto israelo-palestinese di James L. Gelvin
Storia della Palestina modera; una terra, due popoli di Ilan Pappé
Il conflitto arabo-israeliano di Fraser Thomas G.
Breve storia dello stato di Israele 1948-2008 di Claudio Vercelli
Hamas: che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese
La guerra per la Palestina. Riscrivere la storia del 1948 di Avi Shlaim e Eugene Rogan
In tempo reale consiglia il subreddit: r/Palestine
Per i film:
Paradise Now di Hany Abu-Assad
e anche Valzer con Bashir di Ari Folman anche se parla dei conflitti Libano che culminarono nel massacro di Sabra e Shatila del 1982 (questo lo consiglio io, molto bello)
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Accadde Oggi: 16 Settembre
1973
Victor Jara, cantautore Cileno, viene assassinato all’Estadio Chile dalla repressione di Augusto Pinochet.
1982
A Sabra e Shatila, due campi di rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut (Libano), le milizie cristiane libanesi massacrano un numero imprecisato di arabi palestinesi in un’area direttamente controllata dall’esercito israeliano.
Continua su Aforismi di un pazzo.
#Accadde Oggi#16 Settembre#1973#Victor Jara#Estadio Chile#Augusto Pinochet#1982#Sabra#Shatila#Beirut#Libano#Aforismi di un pazzo#Stefano Zorba
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Luisa Morgantini
https://www.unadonnalgiorno.it/luisa-morgantini/
Luisa Morgantini è una politica italiana. È stata Vicepresidente del Parlamento Europeo con l’incarico delle politiche per l’Africa e per i diritti umani.
Nel corso di una lunga attività, si è battuta contro l’apartheid in Sudafrica, in difesa del popolo curdo contro la guerra nella ex Jugoslavia, per i diritti umani in Cina, Vietnam e Siria.
È tra le fondatrici delle Donne in Nero italiane, dell’Associazione per la pace e della rete internazionale di Donne contro la guerra.
Nata a Villadossola, in Piemonte, il 5 novembre 1940, era figlia di partigiani. A dieci anni già seguiva sua madre nell’occupazione della fabbrica, a undici era nei pionieri del Partito Comunista della sua zona.
A diciotto anni è scappata di casa per andare a Bologna, il suo primo impiego fu all’Inca Cgil. Abitava in una comune, leggeva Marx e era attiva nel partito da cui, quando aveva 26 anni, uscì.
Successivamente ha studiato e lavorato in Inghilterra per conoscere da vicino le lotte sindacali.
Tornata in Italia si è impiegata all’Umanitaria di Milano facendo formazione sindacale. Nella città meneghina ha vissuto fino al 1985, tranne un lungo periodo, nel 1980, passato in Irpinia dopo il terremoto. Era partita per stare una settimana e vi rimase un anno, vivendo in una roulotte. Lì si è data da fare in ogni modo, ha creato una cooperativa di donne e formato comitati popolari.
Già dagli anni ’70, anni di lotte potenti e indimenticabili, Luisa Morgantini aveva maturato una cultura della nonviolenza.
È stata la prima donna eletta alla segreteria della FLM di Milano (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) impegnata nei movimenti di liberazione in Africa e America Latina.
Dal 1982, dopo il massacro di Sabra e Chatila, è iniziato il suo profondo impegno con il popolo palestinese. Cinque anni dopo, da un’idea di Luciana Castellina, hanno dato vita all’Associazione per la Pace a Bari.
Nel 1988 in seguito alla prima Intifada è nato il gruppo delle Donne in nero, contro la violenza e contro le guerre, con donne israeliane e palestinesi.
Nel 1999 è stata eletta al Parlamento Europeo come indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista, vi è rimasta per dieci anni.
Nel 2007 è stata eletta Vicepresidente del Parlamento Europeo, per il quale ha organizzato e accompagnato molte delegazioni, viaggiando in zone di conflitto.
Ha fatto parte delle Commissioni per lo sviluppo, per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, Affari Costituzionali, Sottocommissione per i diritti dell’uomo. Ha fatto parte della Delegazione per le relazioni con il Consiglio legislativo palestinese; della Delegazione all’Assemblea parlamentare Euromediterranea; della Delegazione all’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE. È stata nel gruppo di lavoro per l’osservazione elettorale e Iniziative per la pace.
Fortemente impegnata per la pace e il riconoscimento di giustizia, diritti e libertà in Palestina, ha fondato ed è attualmente presidente dell’associazione AssoPacePalestina.
Ha ricevuto il premio per la pace delle donne in nero israeliane e il premio Colombe d’Oro per la Pace di Archivio disarmo, è tra le 1000 donne nel mondo che sono state candidate al Premio Nobel per la pace.
A Supino, in Ciociaria, ho dato vita al centro Bab al Shams, che vuol dire la Porta del sole, che è il titolo di un libro e il nome di un villaggio di tende – nato in una notte – grazie ai comitati popolari palestinesi nella valle del Giordano per impedire la crescita delle colonie, distrutto dai soldati israeliani sei giorni dopo.
Alcune case del paese danno ospitalità a bambini e giovani palestinesi e italiani e alla rete dei comitati popolari. Continua imperterrita a cercare di costruire comunità impegnate nella solidarietà e nella lotta contro le ingiustizie.
“Ebbi i primi contatti con i palestinesi nel 1982, durante il massacro di Sabra e Shatila. Fino a quel tempo, moltissime persone della sinistra e io eravamo molto puntati sulle rivoluzioni dell’America Latina; poi, improvvisamente, abbiamo scoperto che i profughi palestinesi, massacrati in Libano dai maroniti libanesi, in realtà venivano uccisi dall’invasione israeliana di Sharon. Per me è stato uno shock totale, così ho cominciato a guardare i palestinesi per capire chi fossero e quale fosse la loro tragedia. Sono andata per la prima volta in Palestina, nei territori occupati del ’67, insieme a un gruppo di lavoro che avevamo formato per fare un asilo. Da quel momento, la Palestina, i palestinesi e la profonda ingiustizia che subiscono mi sono entrati nel cuore, da lì non mi sono più mossa, se non per andare e tornare“.
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https://cebrapaz.org.br/2021/09/16/nos-39-anos-dos-massacres-em-sabra-e-shatila
Em uma visita à casa da senhora Metta Moustafa em Shatila, o super-lotado campo de refugiados palestinos em Beirute, no Líbano, a família, hoje reduzida à mãe e à filha, Aida, contava os sucessivos massacres a que sobreviveram. Depois da _Nakba_, são os de Tal al-Zaatar, de 1976, e o de Sabra e Shatila, de 16-18 de setembro de 1982, os que marcaram a vida em refúgio. *Por Moara Crivelente*
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Events 9.18 (after 1940)
1940 – World War II: The British liner SS City of Benares is sunk by German submarine U-48; those killed include 77 child refugees. 1943 – World War II: Adolf Hitler orders the deportation of Danish Jews. 1944 – World War II: The British submarine HMS Tradewind torpedoes Jun'yō Maru, killing 5,600, mostly slave labourers and POWs. 1944 – World War II: The Battle of Arracourt begins. 1945 – General Douglas MacArthur moves his general headquarters from Manila to Tokyo. 1947 – The National Security Act reorganizes the United States government's military and intelligence services. 1948 – Operation Polo is terminated after the Indian Army accepts the surrender of the army of Hyderabad. 1948 – Margaret Chase Smith of Maine becomes the first woman elected to the United States Senate without completing another senator's term. 1954 – Finnish president J. K. Paasikivi becomes the first Western head of state to be awarded the highest honor of the Soviet Union, the Order of Lenin. 1960 – Fidel Castro arrives in New York City as the head of the Cuban delegation to the United Nations. 1961 – U.N. Secretary-General Dag Hammarskjöld dies in an air crash while attempting to negotiate peace in the Katanga region of the Democratic Republic of the Congo. 1962 – Burundi, Jamaica, Rwanda and Trinidad and Tobago are admitted to the United Nations. 1962 – Aeroflot Flight 213 crashes into a mountain near Chersky Airport, killing 32 people. 1973 – The Bahamas, East Germany and West Germany are admitted to the United Nations. 1974 – Hurricane Fifi strikes Honduras with 110 mph winds, killing 5,000 people. 1977 – Voyager I takes the first distant photograph of the Earth and the Moon together. 1980 – Soyuz 38 carries two cosmonauts (including one Cuban) to the Salyut 6 space station. 1981 – The Assemblée Nationale votes to abolish capital punishment in France. 1982 – The Sabra and Shatila massacre in Lebanon comes to an end. 1984 – Joe Kittinger completes the first solo balloon crossing of the Atlantic. 1988 – The 8888 Uprising in Myanmar comes to an end. 1988 – General Henri Namphy, president of Haiti, is ousted from power in a coup d'état led by General Prosper Avril. 1990 – Liechtenstein becomes a member of the United Nations. 1992 – An explosion rocks Giant Mine at the height of a labor dispute, killing nine replacement workers in Yellowknife, Canada. 1997 – United States media magnate Ted Turner donates US$1 billion to the United Nations. 1997 – The Anti-Personnel Mine Ban Convention is adopted. 2001 – First mailing of anthrax letters from Trenton, New Jersey in the 2001 anthrax attacks. 2007 – Buddhist monks join anti-government protesters in Myanmar, starting what some call the Saffron Revolution. 2011 – The 2011 Sikkim earthquake is felt across northeastern India, Nepal, Bhutan, Bangladesh and southern Tibet. 2012 – Greater Manchester Police officers PC Nicola Hughes and PC Fiona Bone are murdered in a gun and grenade ambush attack in Greater Manchester, England. 2014 – Scotland votes against independence from the United Kingdom, by 55% to 45%. 2015 – Two security personnel, 17 worshippers in a mosque, and 13 militants are killed during a Tehrik-i-Taliban Pakistan attack on a Pakistan Air Force base on the outskirts of Peshawar. 2016 – The 2016 Uri attack in Jammu and Kashmir, India by terrorist group Jaish-e-Mohammed results in the deaths of nineteen Indian Army soldiers and all four attackers. 2021 – A ferry capsizes in Guizhou province, China due to bad weather, leaving ten people dead and five missing.
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