Tumgik
#un esempio di come vorrei parlare di pittura
t-annhauser · 1 year
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Cimabue
L'ha detto il Vasari, che oltre a pittore fu anche uomo rinascimentale dai molti ingegni e primo storico della pittura "moderna" con Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, che tutto inizia con Cimabue, maestro di Giotto. Siamo nella seconda metà del ducento quando a Firenze tale Cenni di Pepo, questo il suo vero nome, inizia a innovare l'arte bizantina cercando di sfuggirne l'usuale fissità.
In particolare sui crocifissi, dicono, Cimabue diede saggio del suo nuovo stile: inarcò ancora di più la curva del corpo, definì meglio i muscoli attraverso un uso più sapiente della sfumatura, iniziò a far risaltare ancor di più i tratti drammatici del volto. Ecco un raffronto fra lo stile di Giunta Pisano (a sinistra) e quello di Cimabue (a destra).
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Lentamente la pittura si stava spostando verso un maggiore realismo della figura contro il simbolismo dell'arte bizantina classica, un realismo di cui fu riconosciuto come primo maestro Giotto (e Cimabue come suo precursore).
[nota: che la pittura andasse verso un maggiore realismo non significava che fosse conseguentemente migliore di quella precedente, come se il valore di un pittore si misurasse dall'abilità di copiare meglio la realtà. Si tratta semplicemente di un concetto nuovo che si svilupperà via via fino ai giorni nostri, almeno fino alla nuova rivoluzione dell'arte astratta]
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benzedrina · 4 years
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+19
Iniziare è difficile. Io inizio un sacco di cose. Le apprendo. Mi sento arrivato. Poi cambio. Lo faccio con molte cose. Settimana scorsa mi sono messo in testa di lavorare a maglia. Ho trovato un gomitolo rosso e dei ferri e ho iniziato a sferruzzare. A un certo punto ero talmente preso che la partita di calcio in sottofondo è finita e ne è cominciata un'altra. E questo mi succede spesso. Con la pirografia. Con la pittura. Con il disegno. Con il suonare qualche strumento. Con il doppiare. Con il leggere libri ad alta voce. Con la fotografia. Con la creazione di un sito da zero. Con una marea di cose. Mi piace l'idea, vedo qualche tutorial e mi butto. Poi la magia finisce e mi butto su altro. Io la chiamo noia. Una forma di iperattività che alberga le mie mani. Potrei farmi delle seghe. Potrei passare il tempo sui social. Lo faccio. Potrei uscire. Farmi un giro. Forse per via dello smart working ho molto tempo da spendere in queste cose. Questa mia attitudine piace alle persone. Mi danno del creativo. È una definizione che non ho mai indossato. So dentro di me che è per noia e che non eccello in nessuna di queste cose. L'unica "arte" costante è quella di scrivere. Qui. Sui fogli. Sul PC. Sul cellulare. Ovunque. Sono sommerso dalle mie parole. Ma sulla scrittura non mi sento arrivato. Tutto ciò che scrivo in qualche modo lo sento estraneo. Come se non fosse scritto da me. Mi sento sempre uno zero.
In un tutorial di una sciarpa (ne avessi trovato uno girato e montato bene e invece no, sembra che ti stiano facendo un favore a spiegarti il punto a coste inglese) a un certo punto la tizia definisce la sua sciarpa come "è una sciarpa simpatica". So che è un modo di dire. Lo usa spesso mia madre. Non capisco il senso. In una lingua così piena di vocaboli tu usi proprio la parola "simpatica" per definire una sciarpa. Ma nel senso che rende simpatica la persona che la indossa? Nel senso che ti fa ridere? Nel senso che ti rallegra la giornata? Bla bla bla. Alla fine era una sciarpa. Come nella scrittura della Kristof (Trilogia della città di K è un capolavoro, non lo dico solo io, lo dicono un po' tutti gli scrittori e soprattutto Gipi che ha messo molto della Kristof nella Terra dei figli), che scarnificava ogni aggettivo per la definizione di qualcosa. Era una sciarpa. Né simpatica né bella né grigia né lunga né morbida né intelligente né permalosa né esotica né astrale né carina. Era una sciarpa. Ecco uno dei miei svarioni per uno stupido tutorial. Poi mi lamento quando non vogliono ascoltarmi mentre siamo in giro.
Oggi L ha deciso di passare tutto il giorno con me. Mi ha portato la colazione. Ci siamo fatti un giro per prendere dei regali. Abbiamo mangiato qualcosa e poi una passeggiata in spiaggia. Il sole tramontava e le ho scattato qualche foto. Non pensi che io certe volte sia presuntuoso?, No Gi, almeno con me non lo sei mai stato, Con te no ma gli altri in passato mi dicevano che peccavo di presunzione, Al massimo pecchi di distaccamento emotivo, E allora perché definirmi presuntuoso?, Tu sei troppo fissato con le descrizioni e le definizioni, hanno usato presuntuoso ma forse volevano dire altro, non sono come te che fai ricadere ognuno di noi in categorie differenti, Non lo faccio per quello, lo faccio perché quando mi trovo un foglio bianco davanti e devo parlare, per esempio, di te, cosa scrivo? ecco perché ho bisogno di definire le cose, Si ma fai uno sforzo inutile, perché fare questo quando la gente intorno a te non si fa i tuoi stessi problemi?, Perché la gente intorno a me ha un vocabolario limitato, fanno ricadere la saccenza, la presunzione e il distaccamento sotto lo stesso termine, cazzo abbiamo mille termini diversi e usi solo uno?, Ecco, questo è uno di quei momenti in cui vorrei entrarti in testa e sfasciarti tutto, così, perché mi stai sul cazzo. L è un po' un randagio impaurito. Lì per lì potrebbe morderti o scappare ma se le dai il tempo di abituarsi alla tua presenza, ti fiuta, capisce le tue intenzioni e poi ti segue per tutta la strada fino ad arrivare a casa. A casa voleva farmi vedere dei vestiti che le ha donato sua zia. Molti erano vintage, altri erano acquisti sbagliati. Si vestiva e si spogliava con naturalezza. Come sto con questo cappello? E con questa giacca? E con questo maglione? Come al solito stava bene con tutto. Al momento di salutarci siamo rimasti inermi per 5 minuti. Io guardavo lei e lei guardava me. Bé vuoi andare?, Non so, non ci riesco, e tu vuoi andare?, Non ci riesco neanche io. Poi un messaggio. La linea si rompe e ci siamo salutati. Domani è il suo compleanno e ha scelto di passare questo giorno con me.
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hoilcollobloggato · 4 years
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la mia vita al tempo del COVID-19 (giorno 25)
Qualche giorno fa mi ha scritto Alice S. una giovane laureanda che sta preparando una tesi su:
IL CORPO DELLA DONNA TRA STEREOTIPI E CLICHÉ IN AMBITO PUBBLICITARIO E LA RAPPRESENTAZIONE NELL’AMBITO ARTISTICO CONTEMPORANEO.
“Gentile Andrea,
Le allego le domande per l’intervista che vorrei inserire all’interno della mia tesi di laurea magistrale; intervista con Lei concordata ...
Può rispondermi per mail con tutta calma, quando troverà un po’ di tempo da dedicarmi.
Nel frattempo La ringrazio infinitamente per la disponibilità e in anticipo per il tempo che mi dedicherà.
Cordiali saluti” Alice S.
Cara Alice, ho letto con attenzione le domande della tua intervista, e dal momento che non si prestano a lapalissiane risposte (complimenti), ho deciso di rispondervi in quiete… per questo motivo mi permetto di non seguire l’ordine (perdonami), in cui me le poni, mi atterrò a un mio personale disordine che mi consentirà alla fine di sviluppare un unico discorso in divenire.
“Qual è la Sua percezione del corpo femminile? Come avviene il passaggio dall’immagine immaginata di un corpo alla seguente trasposizione su tela? Quali sono i tratti femminili che vuoLe mettere in risalto?”
Prima di approfondire il discorso vorrei precisare che nella mia arte non c’è limite. La mia arte è il superamento del limite stesso. Anche quando scrivo (posso dare l’impressione di essere autobiografico anche quando parlo di una sogliola), in realtà il fine non è di raccontarsi, spiegare o peggio ancora di giustificare, ma il tentativo estremo di ridefinire.
Tu mi domandi della mia percezione e della seguente trasposizione del soggetto, del corpo femminile… Be’ devi sapere che spesso le mie figure vengono definite dalla critica con termini tipo: ambigue, adolescenziali, androgine… in realtà si tratta di una lettura epidermica, non esauriente ai fini dei contenuti. Io sento e vedo le mie figure, anche quelle maschili, come piccole isole alla deriva in un oceano donnesco. Muliebre. L’identità è qualcosa di sghembo per me che non si confronta e non è facilmente, comodamente riconducibile al senso di appartenenza di una persona al genere con il quale essa si identifica. Non è esplicitamente etero, ma nemmeno, LGBT non è intersessuale, non è asessuale e non si tratta nemmeno di sessualità fluida. Semplicemente non ha un costrutto. Piccole isole che nuotano, attraverso cicli di identità sovrapposti.
Può apparire maschile, poi diviene incorporea, poi decisamente femminile, eroticizzata, femminile in modo schiacciante. Capita così, e viceversa, nella mia pittura.
Una persona una volta mi ha detto: “ho sempre l’impressione che le donne trovino le tue opere più interessanti degli uomini”… si trattava di una donna… Credo di aver compreso cosa volesse dire, ma i miei dipinti sono gesti che riguardano uomini e donne; una volta percepiti (e non solo guardati), ci si rende conto che ciò che è femminile include anche ciò che è maschile, e viceversa. C’è qualcosa che impedisce di percepirli in modo distinto, opposto. Mi piace pensare che tutti possano tracciare la propria strada, la propria inclinazione di genere entrando nei miei quadri.
Non so se nel mio approccio, nel mio tipo di lavoro si possa parlare di veri e propri “tratti” che amo mettere in risalto rispetto ad altri. Il mio modo di intendere la nudità, ad esempio… La nudità, sia maschile che femminile ci induce a pensare in termini elementari: NUDO = sprovvisto di abiti. Ma per quanto concerne il mio concetto, il mio modo di concepire e poi di mettere su tela un corpo nudo, c’è sempre tutto un guardaroba che affolla i miei pensieri. Qui, nella mia testa. Il guardaroba per me, è uno strumento concettuale e psicologico. Il guardaroba dei miei soggetti può comprendere, una scarpa, una bottiglietta di profumo, un frutto o la luna piena …mi viene in mente una raffigurazione della dea Shiva in cui è rappresentata completamente nuda, o per meglio dire: vestita solo di una luna tra i capelli…
Per spiegarti meglio cosa intendo per psicologia del guardaroba a proposito dei miei soggetti dipinti ti farò un esempio che a che fare con la mia quotidianeità. Spesso, anzi, praticamente sempre, io non mi vesto pensando al mio aspetto, tenendo conto della praticità o della mera estetica di ciò che vado ad indossare. A volte non mi vesto nemmeno a seconda delle stagioni, del meteo… questa mattina sono andato a prendere le sigarette in ciabatte, nonostante la neve. Io mi vesto a seconda di come mi sento. La stessa cosa accade quando dipingo una figura. La nudità dei miei soggetti non è mai un tratto “in risalto”, esibito, ma pretende di mostrare all’osservatore uno Stimmung, una disposizione d’animo. Uno stato d’essere. Nelle tradizioni contemplative anche il corpo è considerato un vestito, un indumento che dovrebbe essere messo al momento appropriato.
Qualcosa che ha a che fare con la staticità e il movimento interiori… questa donna nuda che ho dipinto recentemente: plastica, statica, ma in un certo senso è come se costringesse lo spettatore a “muoversi”, a vestirla, appunto… per poterla realmente comprendere.
Si tratta di argomenti imprescindibili nel mio modo di concepire e intendere il corpo nudo dipinto. I miei corpi nudi devono essere la narrazione di un epopea, ispirazioni, citazioni e aspirazioni intime e letterarie, anche. Sono simboli. Un torso appoggiato al mare, un volo tra le stelle, un corpo purpureo nei riflessi dell’autunno, un singhiozzo di neve sulla neve… corpi femminili che emergono dall’ombra e dalla luce insieme, dal nero, dal blu, dal fuoco dei miei dipinti.
Mi fanno pensare a Dio. Per me, Dio è una donna.
Mi auguro di non esser stato oltremodo esuberante nel risponderti. Mi succede quando devo argomentare il mio lavoro artistico… la mia vita. In pittore che scrive è perseguitato dall’immaginazione, dal senso del teatro. Ama l’illusione, e prova un irrazionale affetto per il naufragio. È solo. Perché è più naufrago il naufrago che è più solo
Fine giorno25
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pangeanews · 5 years
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“La mia non è pittura della fine, è un risorgere dalle ceneri, è una pittura che guarda al futuro”: Giuliano Macca, in occasione della personale “Cuori di cristallo”, dialoga con Matteo Fais
Ciò che colpisce nella sua pittura è il tormento per qualcosa che continuamente sfugge, l’inquietudine di un soggetto ontologicamente alieno alla staticità, a quella fissità dell’immagine che inchioda a sé stessi. C’è una voce che si leva dai suoi ritratti e dice qualcosa di ancora più spaventoso del classico “io sono uno, nessuno e centomila”, spingendosi fino all’estremo del montaliano “solo questo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E ciò si vede immediatamente anche guardando, oltre la sua pittura, ai disegni fatti a penna, nei quali centinaia di linee si contorcono, incontrandosi, per costruire un soggetto.
Non si può non apprezzare l’opera di Giuliano Macca con quella sua attenzione così classica, quasi umanistica, verso l’uomo, ma declinata in chiave contemporanea. In previsione della sua mostra romana, curata da Michele Von Buren, che sarà aperta dal 16 al 17 maggio, siamo andati a sentire l’artista siciliano, nel tentativo di far conoscere al lettore anche un altro nome oltre quelli più noti da manuale – ovvero lì dove, tragicamente, si arrestano le conoscenze dei più.
La biografia di un artista è fatta prima di tutto dai suoi amori artistici. Ciò che siamo è sempre il frutto di ciò che abbiamo apprezzato nel tempo. Quali sono i pittori sui quali hai formato il tuo gusto e stile, e i motivi per cui li apprezzi?
Ovviamente amo tutta l’arte e tutti gli artisti, però ce ne sono alcuni, seppur molto distanti cronologicamente tra di loro, dei quali posso dire che mi hanno formato più di tutti gli altri: Goya, Alberto Sughi, Tranquillo Cremona, Guido Reni e Picasso. Il più importante per me è Tranquillo Cremona, per un fattore prima di tutto affettivo, direi. A casa di mio nonno c’era una copia di una sua opera. Il convivere con quel quadro da bambino, avendo fin da allora una propensione per l’arte, mi ha portato a sviluppare quel gusto delle pennellate nello stile della scapigliatura milanese (di cui Cremona era parte), in cui le figure sono prive di margini forti, dando quasi un senso di nebbia. Di Picasso apprezzo invece il processo evolutivo: il fatto di dipingere molto bene in adolescenza per poi andare a ricercare una scomposizione del volto che lo ha condotto alle soluzioni che tutti conosciamo, al cubismo e oltre. Per me lui è un esempio di vita perché è andato a ricercare non l’archetipo del bello, ma qualcosa di diverso, di più personale, abbandonando la tecnica classica. Goya per il sangue, gli scenari, quei cieli pazzeschi, il buio, questa notte che sembra quasi l’inconscio. Sughi semplicemente per la sua pulizia nella sporcizia, perché non è pulitissimo come artista ma la sua è una sporcizia molto raffinata. Adoro, inoltre, il modo in cui è riuscito a rendere la solitudine nel bar. Di Guido Reni, infine, adoro il rosso, il modo in cui lo usava.
C’è un’altra forma d’arte che per vie traverse abbia influenzato la tua pittura?
La musica. Io con la musica sbagliata non dipingo come dipingerei con quella giusta. Vivaldi, Chopin sono i miei punti di riferimento. Se ascolto le Quattro stagioni, anche se non ho una tela vicino, vorrei subito andare a dipingere perché colgo sempre qualcosa in quella musica che potrei trasporre su tela.
E un romanzo, o una poesia?
Le notti bianche di Dostoevskij. In quel libro ci vedo un’atmosfera nebbiosa, quei lunghi addii, il tempo che passa, le speranze vane nella ricerca dell’amore. Quel romanzo ha influenzato maggiormente i temi della mia pittura, dal senso di smarrimento al dualismo umano.
Nei tuoi ritratti, in cui il volto è sempre scomposto, mi pare predominare il senso di una identità sfuggente e tormentata, inafferrabile. Le facce si risolvono in una maschera indistinta che genera inquietudine nello spettatore. Il motivo?
Ci tengo a sottolineare che non amo parlare del mio lavoro. Lo faccio con te perché mi sento a mio agio… Non amo farlo, ma mi rendo conto che è giusto e necessario. Sai, molti aspetti sono dettati dall’inconscio. Calcolo molto poco di ciò che andrò a fare. C’è una idea di base che sviluppo, tramite la musica, il colore, i miei sentimenti e quello che mi vuole comunicare un certo volto, ma per il resto io la mia opera la sento, non la pianifico. Non sono machiavellico nella pittura. Tanto che molti miei lavori, come avrai notato, non sono graziosi ma crudi. Però la mia ricerca di base è quella di una identità sfuggente, come dici tu. Io rappresento una persona che nel tempo ha perso qualcosa, molto spesso sé stesso. Ecco spiegata l’atmosfera nebbiosa e il senso del tempo che passa. Pur conservando gli stessi tratti somatici, siamo diversi a livello morale perché il tempo ci ha cambiati; e gli occhi riflettono questo cambiamento. C’è la perdita di identità, quindi, e al contempo il tentativo costante di metterci a fuoco. Sono dubbi quelli che metto sulla tela: la lotta con noi stessi, il conoscere se stessi.
Se ti dovessero chiedere il motivo del tuo ostinarti con i pennelli sulla tela, cosa risponderesti: lo fai perché la vita è troppo bella e necessità di essere fermata, nel suo scorrere, in una rappresentazione, o perché è carente e bisogna cercare di compensare attraverso l’arte?
Opterei per la seconda ipotesi. Diciamo che faccio i conti con il contemporaneo e dipingo perché ne ho le palle piene della gente che non si rende conto del tempo che passa, che non gode di nulla, in un mondo così frenetico, dove non c’è più pazienza, in cui si vuole tutto e subito. Si è perso quel senso della conquista e della bellezza più misteriosa. Io dipingo per far capire che esiste ancora, anche se noi moderni ne stiamo perdendo il senso. Dipingo per ricordarlo e farlo ricordare. Io la vita la vivo profondamente: le notti, i rapporti umani, le gioie e i dolori. E, se colgo un sentimento, spesso sento il bisogno di correre a metterlo su tela.
Dei tuoi colleghi italiani ne apprezzi qualcuno in particolare?
Non voglio fare dei nomi, perché nel settore ci conosciamo tutti e non vorrei dimenticarne qualcuno. Permettimi, però, una considerazione generale: le avanguardie storiche magari litigavano, ma si confrontavano e così facendo si mettevano in discussione. Adesso siamo tutti un po’ chiusi nel nostro mondo, non c’è più la stessa volontà e voglia di condividere. Posso dirti, comunque, che la mia galleria ha artisti che io stimo.
Che cosa apprezzi di questi?
Il ritorno al figurativo. Da cinque anni a questa parte si sta riproponendo e ciò è un’ottima cosa. Perché, sì, va bene il paesaggio, che artisticamente è sempre intrigante, però nel rappresentare per esempio le emozioni di una donna tu ci puoi cogliere tanto da come è disturbata la visione dell’artista. Ecco diciamo che mi affascina vedere i diversi modi in cui può essere rappresentato l’umano. E mi affascina questo ritorno alla ritrattistica di cui noi italiani siamo maestri. Pensa ad Antonello da Messina…
Raccontami di questo movimento che stai creando.
Nasce da un’esigenza prettamente personale, per dare un indirizzo. L’arte deve avere disciplina, almeno nel momento in cui si crea, poi nella vita privata l’artista può fare come meglio crede. Personalmente non ritengo, per esempio, che sia vero quando si dice che Van Gogh dipingeva nella follia. Non credo che quegli effetti di colore siano un derivato della pazzia. Certo era folle, ma disciplinato nel momento in cui dipingeva. Il movimento nasce quindi per creare un collettivo trans artistico, non solo pittorico. All’inizio aveva preso il nome di Nuovo Romanticismo ma, siccome suonava già sentito, l’abbiamo mutato in Stradismo, da strada intesa come vita cruda. Io ho vissuto molto la strada, la notte soprattutto, le solitudini, l’alcol… Come possiamo non rappresentare tutto questo, non parlare degli amori che urlano per le strade?! Ci vuole un ritorno alla bellezza, al crudo. La vita è tale e noi vogliamo coniugare romanticismo e crudezza. In un periodo storico in cui vige la supremazia digitale, l’umanità fa passi avanti solo a livello tecnologico, ma non a livello umano. Ci stiamo perdendo. Di qui la necessità di un passo indietro, di rivivere il romanticismo e portarlo nel presente.
Qualcuno potrebbe dire che tu aborri il bello nel senso classico, che ne prendi le distanze. Tu pensi che questo, invece, sia presente nella tua produzione?
Sì. Mi dispiace se non arriva, ma io sono amante del bello e ricercatore di questo. Spesso parto dai grandi maestri, da quell’ideale di bellezza, su cui inserisco la crudezza che comunque non elimina necessariamente la prima. La mia non è pittura della fine di qualcosa. Casomai si tratta di un risorgere dalle ceneri, di una pittura che guarda al futuro. Solo, non avrebbe senso se mi limitassi a rifare i grandi.
Matteo Fais
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pangeanews · 6 years
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“Studio gli atti estremi per cercare di conoscermi”: dialogo con Andrea Tarabbia
In un altro contesto, tentando una lettura articolata del suo libro, livido e lirico, ho detto che è un “addestratore di Minotauri”. Poi ho scritto quello che penso: che Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019; eppure è brutta la copertina ed è spudorata la ‘quarta’, con la lista buona di quelli che hanno scritto di lui, da D’Avenia in giù: l’autore ha una spada nella spina dorsale, si regge benissimo da sé, senza stampelle giornalistiche) è un romanzo, finalmente, fieramente, con un Risiko narrativo riuscito, che a me ricorda Mario Pomilio – una lunga lettera in cui Igor Stravinskij ricalca, per il professor Glenn E. Watkins, una ignota e truce e barocca e stralunata e stravolta Cronaca della vita di Carlo Gesualdo Principe di Venosa – e una carica etica (tema di fondo: dal ‘mostro’ nasce il bello, dal gorgo del male scaturisce la forma perfetta) che inquieta, un tormento. Tarabbia, insomma, fa così: addomestica il Minotauro, stende i panni fra le sue corna, ne scandaglia la claustrale bellezza. Poi te lo scaglia addosso, affari tuoi. La storia di Gesualdo da Venosa, di per sé affascinante – fu straordinario madrigalista, un avanguardista della musica, nel 1590 uccise la moglie, la bellissima cugina Maria d’Avalos, sorpresa in flagrante tradimento con Fabrizio Carafa, accoppato pure lui, poi s’accoppia, misogino, demonico, a Eleonora d’Este – rinnovata da Stravinskij nel Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum (1960) e resa pop dalla coppia Battiato-Sgalambro nell’album L’ombrello e la macchina da cucire (1995), ha oscurità nervose da pittura della Controriforma. “Parla di musica, di bene, di male, di padri, di figli, di morte, di Dio, del diavolo, di malinconia, di omicidi ahimè dovuti, di cognomi, di Novecento, di demonietti, di carte (forse) ritrovate, di donne bellissime e forse fatali, di nani, di poeti folli e di streghe, infine di genio e talento. Insomma le solite cose”, scrive Tarabbia, abile a sfilettare le tenebre (Il demone a Beslan, 2011; Il giardino delle mosche, 2015) e soprattutto nel domare il mostro romanzesco senza che dilaghi nel grottesco, nell’horror. Di fatto, Madrigale senza suono è una decisa riflessione sull’atto spietato, spenta l’assoluzione, dell’arte. Pensai naturale, dopo aver scritto del libro, confrontarmi con l’autore. (d.b.)
Vorrei entrare nella tua testa romanzesca. Come è nato Madrigale senza suono? Intendo, la struttura formale, il gioco di far parlare Stravinskij, la voglia di sondare Gesualdo da Venosa.
Gesualdo da Venosa è un personaggio assolutamente fuori dall’ordinario, di cui in Italia sappiamo molto poco: bulimico, scontroso, solitario, geniale, devoto e demoniaco insieme. Ho incrociato la storia della sua vita e la sua opera circa cinque anni fa e ho subito capito che avrebbe potuto diventare un personaggio “mio”: nella sua parabola si sintetizzavano tutti i temi che io da sempre tratto nei miei libri – la colpa, il dolore, ma anche la creazione, l’idea della bellezza. Così ho cominciato a studiarlo, sono andato una prima volta a casa sua, a Gesualdo, in Irpinia, ho parlato di lui con alcuni suoi esegeti e con certi musicisti che si occupano di musica rinascimentale e barocca. Volevo conoscerlo, guardarlo da vicino per capire se davvero avrei potuto lavorare su di lui. Ora, quando si studia Gesualdo è inevitabile incappare in Stravinskij. È Stravinskij che l’ha riscoperto, a metà Novecento, è lui che lo ha rimusicato e che ne ha rivelato al mondo il genio. Ma non solo: ha fatto capire che esiste un legame stretto tra la musica di Gesualdo e un certo Novecento – ha detto che Stravinskij è “figlio” di Gesualdo. Questa cosa ha fatto scattare la scintilla definitiva: fino a quel momento, avevo in mano materiali per fare un romanzo biografico su un musicista di genio, uxoricida e stravagante; ora avevo i materiali per fare un romanzo che, oltre che raccontare la vita del principe, poteva parlare del Novecento, del suo rapporto con la modernità, e di concetti che mi sono vicini come il rapporto con il passato, la rielaborazione della tradizione e così via. All’inizio avevo una storia, straordinaria ma pur sempre solo una storia; adesso avevo una storia e un grande tema, una sfida possibile. Così ho cominciato a immaginarla e ho capito che la forma del libro, in qualche modo, doveva rispecchiare alcuni concetti fondamentali: per esempio, ci dovevano essere molte voci, molti “io narranti”, perché i madrigali gesualdiani hanno cinque, a volte sei o sette voci; ma soprattutto, bisognava fare con la letteratura del passato ciò che Stravinskij aveva fatto con la musica di Gesualdo rimusicandola: vale a dire prendere temi e modi della tradizione e giocarci, rimetterli in modo, investigarli e renderli contemporanei. Così, Madrigale senza suono fa i conti con la tradizione cominciando con il ritrovamento di un manoscritto, e poi riproponendo la forma epistolare e diaristica. Ma il romanzo non prende di peso questi cliché letterari: li mette in dubbio, ne fa la parodia (in senso etimologico), li immerge – o almeno prova a farlo – in quello che qualcuno, una volta, ha chiamato “il vapore della modernità”.
Che rapporto c’è (estrapolo concetti che mi abbagliano dal tuo romanzo) tra crudeltà e purezza, tra male e arte, tra perdizione e dedizione, tra etica ed estetica, insomma? Lo chiedo a te attraversando lo specchio del romanzo.
Io me lo chiedo attraverso Stravinskij. A un certo punto, lavorando su Gesualdo e leggendo la cronaca apocrifa della sua vita, Stravinskij comincia ad avere dei dubbi: come è possibile, si chiede, che io, uomo razionale, regolare, addirittura freddo quando compone, mi innamori di un autodidatta tutto estro, tutto istinto? E soprattutto: come è possibile che io mi scopra figlio, artisticamente parlando, di un essere ributtante, dionisiaco e omicida? Insomma: Stravinskij trova la bellezza nel suo contrario e non sa cosa pensare: ha più di 70 anni, è il musicista più importante del Novecento e lo sa, eppure segue la storia gotica di un matto vissuto quasi 400 anni prima di lui e si riconosce in lui. Questo è un tema forte, per me, è una cosa che sento molto, che mi spinge a visitare le case degli scrittori, a guardare fuori dalle loro finestre, a immaginarmi la loro vita quotidiana. Thomas Mann è più Thomas Mann se lo guardi da dentro la stanza dove si lavava la faccia. Tutto questo per dire che c’è un rapporto diretto tra la grandezza e la vita spicciola, tra la bellezza e l’orrore. Io cerco di mettere in scena questa relazione nei miei libri, ma mi è molto difficile spiegarla razionalmente: forse il male e il bello sono la fronte e la schiena dello stesso essere, e noi se vogliamo descriverlo dobbiamo guardarlo da entrambi i lati. Nei miei libri fin qui mi sono occupato di figure borderline, capaci di grandezze e di infinite bassezze – come l’uomo del sottosuolo – perché mi pare che, se guardiamo alle manifestazioni dell’umano quando raggiunge o oltrepassa i suoi limiti (etici, morali, fisici, psicologici ecc.), quello che vediamo è una versione tirata allo spasimo di quello che siamo.
Il ‘mostro’ che valore ha nei tuoi libri? Anche lo scrittore, forse, quando mostra il mostruoso è egli stesso mostro.
Credo di aver in parte risposto nella domanda precedente. Non mi interessa il mostro in sé, ma il mostro che, nella sua mostruosità e in virtù di essa, dice qualcosa di me. Credo di poter ragionevolmente affermare che io, nella mia vita, non ucciderò mai nessuno: eppure so di possedere, in dosi ragionevoli, quell’istinto di sopraffazione, la rabbia e la capacità di distruggere che, drogati, possono portare a compiere atti estremi. Ecco, studio gli atti estremi per cercare di conoscermi.
Cosa hai letto per arrivare al Madrigale? Intendo, come prepari i tuoi libri, con quale impeto di studio? (In calce: dimmi che letture ti hanno formato, per così dire).
Molti libri di musicologia, e tutto quello che ho trovato su Gesualdo; molti libri di e su Stravinskij; libri sull’alchimia, sulla stregoneria, sulla licantropia, manuali di storia moderna e di storia del Meridione, libri di pittura e architettura; guide turistiche dell’Irpinia; libri su Ferrara e su Venezia; programmi di sala storici della Fenice, del Metropolitan e della Royal Albert Hall; carteggi vari tra Stravinskij e chiunque; ho riletto Giordano Bruno, Cardano, Cusano; vecchi romanzi su Gesualdo scomparsi perfino dai remainders; e poi ci sono i libri che ho tenuto sul tavolo mentre scrivevo: Dostoevskij (lui c’è sempre), Bulgakov, Sebald, Pomilio (Madrigale è debitore del Quinto evangelio, che viene citato qua e là nelle parti stravinskiane), Malaparte, Piovene, Volponi, Parise – tutta quella generazione di giganti che ha scritto tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del secolo scorso e che ha creato quell’impasto di lingua in cui mi riconosco. Credo che l’elenco potrebbe continuare perché sai: da quando ho cominciato a pensare al libro a quando l’ho davvero finito sono trascorsi quattro anni e mezzo e tutto quello che ho letto in quest’arco di tempo l’ho letto con la consapevolezza che, forse, mi avrebbe potuto aiutare per una data scena, o per rendere più credibile un personaggio. Per le letture che mi hanno formato: sono figlio dei russi, di quella teoria di giganti che va da Gogol’ a Bulgakov (Dostoevskij più di Tolstoj, Andreev più di Pasternak, Čechov più di Turgenev); poi la grande letteratura mitteleuropea: i galiziani, i polacchi (una scoperta recente e straordinaria è Andrzej Szczypiorski), i tedeschi del secondo dopoguerra, degli italiani ti ho detto sopra.
Ti interessa la narrativa italiana contemporanea? Cosa, in particolare?
Certo, anche se ultimamente non ne ho letta molta. Mi interessa perché è l’ambiente in cui vivo e dove trovo alcuni maestri a cui posso telefonare (è un vantaggio, ma non sempre). Ma credo che tu voglia qualche nome. Eccolo: Filippo Tuena, per me un punto d’arrivo, Antonio Moresco – ho fatto su di lui la mia tesi di dottorato –, Laura Pariani (Se Dio non ama i bambini non è il romanzo italiano più bello degli anni zero è perché c’è Ultimo parallelo di Tuena). Ho letto recentemente Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio – che per certi versi è un libro parente di Madrigale e che fa un’operazione su cui chi, come me, lavora con il linguaggio dovrà prima o poi fare i conti.
Ho letto, in alcune tue riflessioni, che ritieni Madrigale la fine di un ciclo, la chiusura di un cerchio romanzesco. Questo significa che stai lavorando a qualcosa o che lasci lavorare il vuoto?
Significa che ho la sensazione di aver scritto tutto quello che potevo su certi temi e certe questioni letterarie. Ma ripeto, è una sensazione. Il prossimo libro – di qualunque cosa tratterà – dovrà per forza di cose discostarsi un po’ da quello che ho fatto finora, altrimenti non avrebbe senso: potrei riproporre temi e modi di Madrigale solo se avessi l’assoluta certezza di fare un lavoro migliore di questo e avessi da dire qualcosa di nuovo sull’argomento. Ma questa certezza non ce l’ho.
Esiste un libro che vorresti avere scritto? Preciso: l’invidia è anche uno dei temi sottili del tuo romanzo, che mi pare, in fondo, puoi contestarmi, una riflessione sul gesto artistico.
Non sono un invidioso. L’invidia è un sentimento limitato, perché si invidiano solo i vivi, mentre la letteratura ha duemila anni di storia da cui si può attingere. Voglio dire: non ha senso invidiare Senofonte, eppure lui ha scritto quella cosa pazzesca che è l’Anabasi. Provo fastidio quando vengono esaltati i mediocri (succede spessissimo): ma mi passa subito. In ogni caso, ci sono libri che vorrei aver scritto ma che sono contento di aver letto, perché mi hanno insegnato molte cose. Ci sono senza dubbio vite che vorrei aver vissuto, e sono sicuro che da quelle vite diverse dalla mia avrei tratto linfa per scrivere. Ma forse no.
Perché si scrive? Per indagare le oscurità, per snidare se stessi, per toccare quel grammo di candore, perché? 
È una domanda alla quale non so rispondere. Se avessi una risposta, non scriverei libri pieni di domande. In ogni caso, sono convinto di una cosa: benché mi capiti di sentire l’impulso irrefrenabile di prendere in mano la penna, scrivere non è la cosa fondamentale. La cosa fondamentale è leggere: posso stare anche due anni senza scrivere, ma non riesco a stare due giorni senza leggere. Divento nervoso, irascibile, e mi sembra di sprecare il mio tempo. Quello che mi tiene vivo sono i libri degli altri.
*In copertina, Andrea Tarabbia photo Fondazione Premio Campiello
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pangeanews · 6 years
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La più bella mostra dell’anno è questa! Camillo Langone ha ricondotto gli artisti a Dio. Ora bisogna trovare i vescovi…
Dovrebbe essere il tema ineluttabile dell’arte, Dio – ora, se va bene, visto che dissacrare è una moda démodé, non lo si considera, che bolgia di sconsiderati. In effetti, perfino la Chiesa, che troppo spesso scodinzola verso il mondo senza aderire all’altro mondo, s’è scordata che Dio, anzi tutto, è un artista, e l’artista è il suo profeta: gli edifici di culto sono anonimi polipi di cemento, la liturgia è disintegrata dal ronzio delle schitarrate e da cori sghembamente pop, da gambizzare. Per fortuna, dal deserto odierno, specie di profeta del vizio e del sacro – che sono lo stesso – sorta di Damasceno contro gli iconoclasti e gli iconolatri, si erge Camillo Langone, “cattolico praticante”, come si definisce, San Camillo dei poeti – che celebra quando può – e dei pittori – eccellente il progetto sugli Eccellenti Pittori, che fu libro, per Marsilio, nel 2013, ed è sito specifico, “Il diario della pittura italiana vivente”. Langone, a cavallo delle feste, si è inventato la mostra concettualmente – anche se i ‘concettuali’ gli fanno orrore, “perché Pollock consumava tutta quella vernice? Che problemi aveva? Se c’è qualcosa di comprensibile è la pittura italiana di questi ultimi anni. Perché è quasi tutta figurativa”, scrive – più interessante del corteo musivo italiano, che spero, oltre all’effetto virtuoso – che ha già – abbia un effetto virale e salutare in altre lande italiche. Insomma, presso il Palazzo dei Capitani del Popolo ad Ascoli Piceno, fino al 13 gennaio 2019, San Camillo si è inventato, sotto il titolo L’arte che protegge, un percorso che sancisce il legame rinnovato tra “Pittura contemporanea e Sacro” (catalogo Silvana Editoriale). Solleticati – e sollevati – da Davide Frisoni e Omar Galliani, Tommaso Ottieri e Luca Pignatelli, Enrico Robusti e Nicola Samorì, il messaggio subliminale è sublime: se non c’è più la Chiesa a dettare agli artisti il soggetto divino, il divino invade, in forma di ispirazione soggettiva e suggestiva, l’artista. Il tema spalancato da Langone è una stimmate: neppure la declamata morte di Dio ha ucciso Dio dal divino delirio dell’arte. Resta, a Langone, l’arte di radunare la legione di artisti, al di là della mostra, per dar vita a una nuova ‘fabbrica di San Pietro’ che rinnovi il volto dell’arte, dell’uomo, di Dio. Ce la farà. (d.b.)
Camillo Langone fotografato da Lorenzo Cicconi Massi
Da tempo Dio e l’arte non dialogano più. Dove sta il problema? Nella Chiesa che non ha più gusto o negli artisti che sono disgustati dal divino?
È una storia talmente vecchia, già vecchia quando Paolo VI disse che bisognava ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Era il 1964 e, nonostante il sincero impegno di quel Papa, la relazione non è stata riallacciata. Escluderei problemi di gusto. I problemi sono di natura teologica da una parte, di natura estetica dall’altra: ostacoli alti. Ma la posta in gioco è ancora più alta, è la fede nell’Incarnazione, e dunque bisogna continuare a impegnarsi. La mia mostra dimostra, scusa il gioco di parole, che nulla è perduto: nonostante il clima profano gli artisti sono attratti dal sacro e spesso dipingono Santi, Madonne, Gesù Crocifissi senza bisogno di sollecitazioni ecclesiastiche.
Tu parli di ‘arte sacra’, ma ‘arte sacra’ è quella – chessò, Giotto, Mantegna, Bellini – di fronte a cui ti inginocchi e preghi. Intendo: non basta dipingere un Cristo perché sia ‘sacro’, è ‘arte’ e stop.
No, ormai nell’Europa occidentale anche Giotto, Mantegna e Bellini sono soltanto arte. Solo nell’Europa orientale, ossia ortodossa, può succedere che i visitatori di un museo si inginocchino davanti a un’icona. Ad esempio accade in museo di Mosca davanti all’icona della Trinità di Andrej Rublev. Difficile non pensare che questi diversi comportamenti rappresentino diversi livelli di apostasia delle rispettive società: da noi elevatissimo, chiaro.
In effetti, il titolo della rassegna è “L’arte che protegge”. Spiegami il titolo e spiegami la sacralità dell’arte che hai messo in mostra. 
Dice Jean Clair che l’immagine è protezione, e ad Ascoli, nel Palazzo dei Capitani del Popolo, di immagini ce ne sono molte, anche di protettori in senso stretto. C’è ad esempio un bellissimo quadro dedicato a Sant’Emidio, patrono della città che ci ospita, realizzato appositamente. Non ci sono opere dissacranti, il che trattandosi di arte contemporanea mi sembra già un discreto risultato. E ci sono parecchie opere che in uno spazio sacro, in una chiesa, in una cappella, svolgerebbero egregiamente la loro funzione religiosa.
In fondo, la tua è anche una difesa del figurativo contro il concettuale, del carnale contro il disincarnato. È così?
Ti assicuro che il figurativo non ha nessun bisogno di essere difeso, in giro per il mondo se la passa benissimo, basta guardare cosa funziona nelle aste e nelle mostre. È il non figurativo a passarsela male. L’arte è in piena disintermediazione, grazie a Instagram il pisciatoio di Duchamp sta tornando un pisciatoio punto e basta, la gente clicca solo sulle opere d’arte che somigliano a opere d’arte, il concettuale agonizza nelle accademie. La Rete e la Strada esigono un’arte che, per i miei gusti tutto sommato centristi, è anticoncettuale anche troppo, e lo penso guardando i muri pieni di murali ossia di illustrazioni.
Dove va l’arte italiana, oggi?
In teoria non dovrebbe andare da nessuna parte, siccome senza soldi non si canta messa. E in Italia i soldi per l’arte sono finiti e strafiniti. In pratica ogni anno spuntano nuovi pittori, segno che la pittura è un bisogno innanzitutto interiore, incomprimibile.
Giovanni Gasparro, “Amoris laetitia. San Giovanni Battista ammonisce l’adulterio di Erode Antipa ed Erodiade”, 2017
Per altro, la tua mostra apre un problema gigantesco. La letteratura italiana non dice più Dio, ha timore di confrontarsi con la Bibbia, anzi, la ignora proprio; la musica nelle parrocchie, idem. Dove si ‘vede’ oggi Dio, dove lo vedi?
Io sono un uomo semplice, a Natale ho visto Dio nel presepe, l’ho percepito nella preghiera, l’ho ascoltato nel suono dell’organo… Certo, nella letteratura italiana Dio è assente, è morto pure Ceronetti che non era cattolico ma era comunque un mistico…
Ti dichiari a più riprese “cattolico praticante”: è necessario essere cattolico e praticante per parlare di arte sacra? Chi ha sconfitto l’iconoclastia, per altro, il Damasceno, era un arabo, fu monaco e fine conoscitore dell’islam. 
Per parlare di arte sacra cattolica essere cattolici è condizione necessaria ma non sufficiente. Lo dimostra il Cubo di Fuksas a Foligno: i committenti della Cei, sebbene con la loro commissione abbiano allontanato le persone dalla pratica religiosa, non credo fossero tutti atei. Ho citato un edificio che è il vertice della nuova iconoclastia, per battere la quale ci vorrebbe appunto un nuovo San Giovanni Damasceno.
A questo punto dovresti mettere insieme una nuova ‘fabbrica di S. Pietro’, arruolare gli artisti di oggi a decorare le chiese di domani. Forse lo farai. Nel frattempo, cosa fai?, che altra mostra vorresti inventare?
Sì, dovrei farlo: gli artisti ci sono, a questo punto devo soltanto trovare i vescovi… Sento il bisogno di insistere sull’arte sacra e vorrei proporre declinazioni locali della mostra di Ascoli, qualcosa tipo “L’arte che protegge Bologna”, “L’arte che protegge Firenze”, “L’arte che protegge Vicenza”, eccetera. Per Milano ho un titolo specifico che mi piace moltissimo: “O mia bella Madonnina”.
*In copertina: Omar Galliani, “Agnus Dei”, 2016
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pangeanews · 6 years
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“L’arte nasce dalla paura – e l’opera ti liquida sempre con un sorriso, tra felicità e inquietudine”: dialogo sperimentale con tre artisti, Thomas Lange, Luigi Carboni, Cosimo Casoni
Di recente mi è capitato un lavoro difficile, perciò affascinante. Federico Piccari, guida e stratega di Fondazione 107, galleria d’arte contemporanea a Torino – uno spazio nudo, quasi spirituale, ricavato in un capannone industriale degli anni Cinquanta – ha ideato una mostra, Vivace Sostenuto Andante, che mette in dialogo tre artisti molto diversi per impeto, progetto, biografia pittorica: il tedesco Thomas Lange – nato nell’alveo dei Nuovi Selvaggi, sorto dal gesto di Baselitz e Kiefer; in copertina l’immagine di un suo lavoro –, Luigi Carboni, tra i grandi astrattisti della sua generazione – ha esposto da New York a Hosaka – e Cosimo Casoni, il più giovane, che unisce una ricerca pittorica tradizionale – i macchiaioli, ad esempio – alle evoluzioni dello skate (ha già vinto un Premio Arte Mondadori). In forma preliminare, a predisporre il lavoro esegetico, ho preteso di parlare con gli artisti. Ne è nato un colloquio, organizzato intorno a quattro grandi questioni, tentando “una cartografia della personalità”, che qui riproduco. La mostra, inaugurata il 4 ottobre scorso, sarà alla Fondazione 107 fino al 2 dicembre. (d.b.)
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L’esperimento è semplice e parte da un presupposto. Gli artisti sanno scrivere, sanno, con la grammatica, capirsi e mettersi in difficoltà. Gli esempi, da Michelangelo e Vasari in qua, sono innumeri. Da Matisse a Munch, da Gauguin a Van Gogh, da Paul Klee a Kandinsky, Modigliani, Giacometti, Sironi, Morandi… L’intenzione dell’artista non risolve l’opera – che è tale perché sfugge a ogni volontà – ma è il principio, il blocco di partenza da cui partire, agonisticamente, per tentare una interpretazione dell’opera. Di solito, gli artisti vengono cannibalizzati dai critici d’arte. Oppure, annegano nel narcisismo. In questo caso, l’esperimento è semplice e desto. A Luigi Carboni, Cosimo Casoni e Thomas Lange ho posto le stesse domande, pretendendo una risposta scritta. Queste sono le domande:
a) Qual è il suo sguardo davanti alla tela bianca, candida: da che cosa, in principio, si lascia muovere, da una idea, dall’ispirazione, dalla sua storia (o concezione) artistica?
b) Cosa accade durante il lavoro? Intendo: è solito tornare sulla tela e sul tema, elaborarla, disintegrarla, oppure procede secondo una idea nitida, fino in fondo? Come è cambiato nel tempo il suo approccio nell’affrontare la tela?
c) Quali sono le ‘fonti’ ancestrali, cioè, la pittura (o le letture) di cui continuamente si nutre?
d) Che valore ha – se lo ha – la musica nel suo gesto pittorico? Ogni artista ha un ‘ritmo’ che modula il suo gesto pittorico: qual è il suo?
Il tono con cui ciascun artista ha risposto alle domande è già la cartografia della personalità, è già uno ‘stile’.
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Un’opera di Luigi Carboni, ‘Senza titolo’, 2016
Luigi Carboni
a) Chi è oggi l’artista visivo? Un testimone del suo tempo, un tecnico specializzato o un poeta universale? In realtà non ho mai avuto il tempo di pensarci, forse per farlo non bisogna pensare all’arte, non credo in un processo creativo rigido, non credo in un modo dominante di osservare la realtà. Nell’opera cerco una misura ideale, nell’oscillazione tra il diritto alla felicità e la ricerca dell’inquietudine, tra la bellezza dell’esistenza e la malinconia del quotidiano, tra l’orgoglio della storia e il gusto dell’attualità, tra l’irritazione civile e la calma ritualità, tra l’aspetto metafisico e quello pratico. In questa continua ricerca di una dialettica tra entità opposte troviamo le istanze dell’arte e del vivere quotidiano. Contraddizioni? Certo è un segno dei tempi.
b) L’arte è uno stato di necessità, un problema di gerarchie di urgenze. Scelgo un programma per ogni dipinto, ma l’esito risulta una sorpresa, che sono costretto ad accettare. L’opera mi liquida sempre con un sorriso. Quando dipingo tutto ciò che è di fronte a me è ordine, il resto alle mie spalle è scompiglio. Molte dispute e gerarchie del passato nell’arte contemporanea sono cadute, i generi sono decaduti, esiste solo una storia dell’arte dell’intensità e sulla base di questa ‘intensità’ mi auguro di costruire la mia poetica.
c) L’apprendista pittore è orfano, deve attraversare la tradizione come un nuotatore attraversa un fiume, senza affogare. Un viaggio dove le categorie del passato e del presente non sono spartite fra loro: gli artisti cercano sempre quello che sembra mancare o essere andato perduto nell’esperienza culturale del momento. La ricerca di un artista è la ripresa del discorso dell’arte, a partire da un punto in cui questa prospettiva si è interrotta, secondo il suo punto di vista.
d) Queste opere sono una proposta di silenzio; non che non abbia fiducia nella musica o nelle parole ma desidero proporre e dipingere opere che si offrono al silenzio. Vorrei dipingere immagini splendide ma sciupate.
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Un lavoro di Cosimo Casoni, esposto alla Fondazione 107 di Torino
Cosimo Casoni
a) Direi dall’insieme di queste cose. Negli ultimi anni i miei lavori sono sempre più condizionati dalla “daily life”. Ho sempre uno sguardo attento a ció che mi circonda: dai muri dei palazzi nelle strade, al paesaggio dove vivo, e a tutto quello che la vita di skateboarder ancora attivo mi propone. L’influenza dello skateboarding in questo momento della mia carriera copre un ruolo importante, al di là degli “etichettamenti”, mi sono reso conto delle grandi possibilità che esso mi offre. L’architettura cittadina ha una funzione indispensabile nella Skate culture: muretti, scalinate, corrimano e tutto l’arredamento urbano viene vissuto dallo skater in maniera molto creativa, divengono gli “spots” su cui sperimentare manovre (“tricks”). In qualsiasi posto mi trovo, quando esco per una sketata, soffermo spesso l’attenzione sui segni che gli skater lasciano sopra pareti o altre strutture con i loro passaggi e tricks; rimango sedotto da quei segni, dalla texture di quelle sgommate sporche che le ruote lasciano a testimonianza del loro passaggio, generando pittura allo stato puro. Ho maturato nel tempo che questo aspetto fosse il punto di partenza per una nuova ricerca pittorica. A questo fondamentale aspetto che caratterizza questo periodo, si aggiunge l’esperienza pregressa, gli studi passati, la street culture, la storia dell’arte, i ricordi di un infanzia e adolescenza passata tra la maremma e la campagna fiorentina. Assorbo come una spugna più stimoli possibili, raccolgo ed archivio ogni tipo di informazione visiva che mi interessa prima di passare in studio e costruire l’opera.
b) Parto sempre da un idea mai del tutto nitida, un idea che poi nel working progress incontra deviazioni, cambi di programma, interruzioni, cancellazioni e nuove trascrizioni. Parto da dei fondi astratti, inspirandomi alle campiture piatte e i colori dei muri della città; successivamente registro sulla tela le tracce di skate. In questa fase, la tela è sempre staccata dal telaio e installata su superfici diverse, come rampe, funbox o altre strutture che si trovano in uno skatepark. Procedo facendovi passare sopra sia me che i miei amici muniti di skates, dirigendo l’azione. Oppure utilizzando la tavola come pennello. Sono due approcci fisici sulla tela. Il primo più casuale il secondo più controllato. Mi interessa trasmettere una certa eleganza e raffinatezza attraverso azioni “ruvide” e brusche. Solo successivamente procedo contaminando questi fondi segnati con elementi figurativi, dipinti ad olio (esempio stickers di uno skateboard brand, nature morte, paesaggi), alla ricerca di nuove geometrie e geografie formali. Sono sempre stato affascinato dall’interazione tra figurazione ed astrazione. Lavoro a “Layers”: ogni livello rappresenta un soggetto o tecnica diversa che si sovrappongono e a volte intersecano, anche le cancellazioni creano ulteriori piani, che lascio cancellati o diventano delle basi per ulteriori livelli di pittura. Il lavoro finisce solo quando sento di aver trovato il giusto equilibrio formale lasciando spesso al risultato uno spiraglio di incompletezza, di irrisolto.Il contrasto di tecniche e significati è puramente evocativo e visionario e lasciato libero ad interpretazioni e chiavi di lettura. Procedo in direzioni opposte, opero attraverso intenzioni contrarie, non mi delineo in correnti specifiche. Elegante/ruvido, lento/veloce, natura/urbano, geometrico/informale, figurativo/astratto.
c) La più grande fonte sono le mie passioni e l’esperienza quotidiana. Una ringhiera segnata dai “grind” degli skaters può ispirarmi quanto un ramo di quercia in giardino. Ho studiato molta pittura, soprattutto negli anni seguenti al mio diploma in accademia, dove ho cominciato a lavorare molto sulla composizione di immagini a “layers”; metodo in parte ereditato dalla New Leipzig school (Neo rauch, Matthiasweischer, e altri esponenti). Questi pittori sono stati i primi ad avermi stimolato e spinto ad indagare sempre nuove possibilità per la figurazione ancora oggi. L’utilizzo di tromp l’oeil, l’idea di finestra sulla finestra, il carattere sospeso ed enigmatico del mio lavoro trae le sue radici dal surrealismo di René Magritte; chiaramente con un altro immaginario, formalità e pretesti diversi. In realtà ci sono molti artisti, di cui ho studiato il lavoro, che anche solo in minima parte mi hanno influenzato. Negli ultimi anni vedo più mostre di pittura, contemporanea e non, rispetto ad altri linguaggi che seguo sempre ma in maniera più marginale. Per questa mostra ho dedicato una serie di lavori tra scultura e pittura inspirati a Jacopo Pontormo, da sempre affascinato alla pittura tra il Quattrocento e il Seicento. Dai vari social oggi si può seguire il lavoro di ogni artista possibile, soprattutto su instagram, purtroppo o per fortuna è la fonte più diretta e immediata per scoprire e seguire il lavoro degli artisti e delle istituzioni che gli ruotano attorno, li reputo inoltre piattaforme di confronto, nonostante questo non ne ho mai fatto un uso regolare.
d) La musica ha un forte impatto sul mio umore e sulla creatività, è inscindibile dal processo creativo, costituisce una vera e propria dipendenza psicologica. Ci sono diversi aspetti che legano la mia ricerca pittorica alla musica. La cultura skate, rappresenta una vera e propria sottocultura, nasce vicino al punk e al rock ma con il passare degli anni abbraccia sempre più generi come l’hip-hop, il rap (più classico), l’elettronica (elettronica sperimentale), la new wave, metal, drum n’bass…) e altre tendenze musicali underground. Allo stesso modo, pur avendo radici più vicine all’hip-hop, (da adolescente rappavo e facevo graffiti) mi sono aperto a quasi tutti i generi musicali, con una predilezione alla musica rap, al jazz, ed un certo tipo di elettronica underground. Considero questo momento storico in cui siamo saturi di nuove scoperte, un momento dove il musicista può appropriassi di più generi e creare un mash up attraverso sonorità diverse, anche opposte se vogliamo. Questa è una tendenza, una necessità che risente anche nella pittura. Mi sento come un mixer, un miscelatore non di suoni ma di forme e stili diversi, che collidono nello stesso spazio di rappresentazione.
Il tempo di azione durante la produzione non ha assolutamente un ritmo continuo. Ogni intervento possiede tempi diversi, ed associo generi musicali più consoni al tipo di azione che svolgo. Le azioni brusche, e ripetitive dello skate sulla tela vanno più a tempo con musica ad alto BPM come drum’n bass, Dubstep e altri tipi di elettronica. Quando mi trovo a dover cercare nuove soluzioni o cambiare direzioni all’opera necessito di musica più riflessiva, senza parole e possibilmente lenta. Durante le fasi meticolose del lavoro, ad esempio nei soggetti che dipingo ad olio, quando la mano comincia ad andare da sola mi accendo della la musica classica o del jazz fino a che non finisco. La sera quando sono stanco, amo sedermi di fronte all’opera accompagnato da musica psichedelica, che trovo adatta alla contemplazione e all’analisi dell’operato.
*
Thomas Lange
a) Esiste un tema prima! Quando vedo la tela (bianca) dimentico ogni pensiero e casco nel mondo di colori e strutture: la muffa nella cantina di Leonardo, gli affreschi (rovinati e sbiancati) di Pontormo nel chiostro della Certosa di Firenze o i Graffiti sulle mura di Kreuzberg a Berlino.
b) Voglio sorprendere me stesso e gli spettatori, creare un’immagine e pittura come se scaturisca da se stessa. La mia pittura non ha regole o sistemi (oltre le esperienze). Nelle mie opere governa l’emozione che combatte il contenuto (riconoscibile).
c) Musica! Tutta! Ma sempre di più Richard Wagner (Parsifal)!
d) Il rapporto tra musica e pittura è semplice e complicato nello stesso momento. La pittura contiene dentro se stessa un tono/clangore. (Non funziona quasi mai intervenire in una mostra di arte visiva con la musica). Se dovessi creare una gerarchia (assurda!) tra le discipline artistiche vincerebbe la musica (come espressione più ‘divina’). L’origine dell’arte è anche la paura. La vita potrebbe essere solo un esperimento che finisce con la morte. La speranza di liberare l’anima (che non si vede ma si sente) è la musica. La musica è in grado di visualizzare il miracolo. La trascendenza della musica ha bisogno della trasparenza della pittura che crea la riproduzione del volo della musica e realizza l’interno invisibile.  Vicino si trova la scultura, che stabilisce la fragilità di questa costruzione (poetica) con la terza dimensione. La vita è un’opera!
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pangeanews · 6 years
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“Un uomo si stava radendo. Poi si è buttato dalla finestra. Tutto comincia così”: dialogo estremo con Paolo Castronuovo, lo scrittore con 18 libri inediti nel PC
Se il buon giorno si vede dall’incipit. “Il rasoio nuovo scivola che è una meraviglia. Sto togliendo quella matassa infinita di barba insediata da polvere, tufo e gocce di pittura. Voglio restare pulito per compiere la mia opera migliore. La galleria è giusto un paio di isolati più in lì, farò due passi fumando l’ultimo sigaro, o meglio il primo dopo una lunga pausa per via di una faringite cronica. Ma stavolta bisogna festeggiare, prima che i vermi mi ricoprano le mani, la faccia, il corpo, e che s’insidino sotto i vestiti. Quest’opera mi taglierà in due, sarà tassidermica, forse un po’ spinta, un po’ macabra, ma di sicuro la mia maggiore di tutti i tempi. Vorrei fosse epocale”. Non male. Paolo Castronuovo, che ha già una attività editoriale intensa, da Labirinti (2009) a L’insonnia dei Corpi (2018), esce ora con il suo lavoro più complesso, La Falla Oscura (Castelvecchi, pp.90, euro 12,00), fluviale monologo, dissacrante distopia, evento linguistico che fa a fette pensiero e mente, tempo e spazio. Non mancano, in questo delirio dell’io compresso in imbuto, alcune granate in faccia al sistema editoriale odierno. “Non mi chiedo più nulla sull’editoria in generale, o su quella specifica per la poesia, piena di poeti, agenti, critici, giudici, direttori di collana. Sono sempre gli stessi nomi e gli stessi volti. Sette che tirano avanti il carro per sé stessi, che pubblicano e premiano poesie glitterate e poetesse tettone che non appiccicano due parole. Ormai so che è così, e questo mondo editoriale non cambierà mai”. Per la programmatica violenza nel rompere con le consuetudini della narrativa italiana, Castronuovo pare un nipotino di Antonio Moresco, l’avatar di Philip K. Dick in una fiction girata a Saigon. Caos, insomma.
Da quale intuizione arriva “La Falla Oscura”, quali sono state le ispirazioni? E… che senso ha, cosa vuoi dirci tramite quel romanzo?
Un uomo si sta radendo e all’improvviso si butta dalla finestra. È partito così. Accade sempre così, io apro un documento word e comincio a scrivere tutto ciò che mi passa per la testa. Proprio come per la poesia – il mondo da cui provengo – ho una scrittura automatica, surreale e pulsante. Penso subito a come un libro dovrebbe finire e scrivo subito il finale, poi passo all’inizio, e infine alla parte centrale, per dilatarla, ampliarla e conciliare i due estremi. Quindi più che ispirazione, a cui francamente non credo, c’è molta sudorazione, lavoro, tagli, cesure, cicatrici (non mi alzo dalla sedia fin quando non mi escono le emorroidi dalle ascelle. Tutto deve essere preciso. Senza incongruenze) e soprattutto un vissuto da raccontare. Con La Falla Oscura, ho “raccontato” una storia più lineare rispetto al mio precedente romanzo, in cui lasciavo divertire il lettore a collegare il tutto come in un puzzle. Ho pensato subito di mettermi a nudo con la mia biografia… un viaggio tortuoso nella psichiatria di cui solo ora rendo pubblico, ma alla fine, a chi interessa? Chi sono io, di così importante, da poter suscitare interesse raccontando la mia vita e il mio calvario con la depressione? Ce n’è fin troppa di questa roba, se non robaccia. E poi avrebbe davvero un senso? Allora l’ho impostata così: “Un autore comincia a scrivere di se stesso, della sua vita, prima di suicidarsi – anche se non lo rendo chiarissimo per i motivi che si leggeranno –, ma il suo Corpo e la sua Mente, che io chiamo Pensiero, si distaccano l’uno dall’altro. Il Corpo si occupa di arte contemporanea estrema – e su questo devo dire che mi aveva incuriosito la morte dell’artista Chiara Fumai, la performer trovata esanime nella sua galleria – e il Pensiero si occupa della scrittura, ma entrambi devono riconciliarsi, unirsi nuovamente, l’uno non può stare senza l’altro. Il Corpo è impulsivo, e il Pensiero è troppo razionale”. Il tutto poi sfocia nella seconda parte: Sconfinamento, dove il narratore che ha smesso di scrivere le sue memorie si accorge vedendo un notiziario che la Terra è ferma per via di una collisione asteroidale. Il Tempo non esiste più e lo Spazio sta scomparendo. Deve quindi trovare la sua redenzione, la sua pace, nonostante incontri sempre sui suoi passi un losco personaggio chiamato il Lercio, che tenta di ostacolare la sua missione. Missione infatti è il titolo della terza parte. La storia dell’asteroide che spazza il Tempo e lo Spazio annullando ogni forma di dimensione spaziotemporale, e di cronaca, su cui tutti i romanzi ormai si fondano, è l’analogia della perdizione, del distacco del vuoto in cui si vive. Come lo è anche il titolo, La Falla Oscura: il luogo inesplorato di ognuno. Il narratore si analizza, perlustra nel suo passato più profondo e fa di questa avventura una terapia. Mi piaceva l’idea di inserire una storia distopica. Una semplice storia biografica come un raccontino annoierebbe. Quindi quando mi chiedono di che parla il mio romanzo, mi risparmio tutta questa pappardella e dico che è una biografia distopica – a sfondo psicologico.
Scrittura in prima persona, in lucidità delirante: perché? Come scegli il linguaggio con cui rivestire i tuoi lavori?
La prima persona è fondamentale per me. Mi immerge meglio in un mondo/universo tutto mio, non mi distrae da terze persone o terzi elementi. In tutti i miei scritti compare sempre la prima persona per adesso, poi un domani si vedrà. La Falla Oscura dovrebbe essere l’inizio di una trilogia: La Trilogia Nulla. Dico sempre “dovrebbe” perché scrivendo in questa maniera non so quasi mai dove andrò ad approdare, o meglio, ho sempre un obiettivo, ma mi dilato molto nelle revisioni e nel cercare di rendere il tutto collegato perfettamente tramite i dettagli, com’è accaduto in precedenza e come accade.
Cosa leggi? Che giudizio hai sulla narrativa italiana di oggi, sul sistema editoriale italico?
Sono un lettore onnivoro, ma mi nutro soprattutto di Beat Generation, Surrealismo, Neoavanguardia, Postmodernismo e sperimentazioni letterarie. Sulla narrativa di oggi vorrei dire che è quasi tutta merda. Si confezionano libri a puntino. Basta vedere i più venduti, dall’illeggibile Sole, all’ovvietà di Gio Evan con le sue pugnettine per casalinghe che vogliono rimanere giovani, e adolescenti che nulla stanno facendo che suicidarsi in un baratro abissale più squallido della retorica. Non è tutto da buttare però, ci sono nuovi autori (quelli che come ambizione hanno solo scrivere) davvero bravi. Ad esempio Introna, che per il suo ultimo libro ha lavorato svariati anni, o anche Funetta con la sua prosa dissacrante e distopica, per non parlare di quel folle di Krauspenhaar da strangolare e abbracciare. I miei preferiti però, di tutti i tempi e geografie rimangono sempre Moresco – a mio avviso il miglior scrittore italiano, basta leggere la sua trilogia I Giochi dell’Eternità per capire il calibro infinito di quell’uomo – , Moravia, Bene, Burroughs, Wallace, Ginsberg, Cartarescu. Come vedi, Davide, spazio di infiniti “generi” e sempre meno italiani. Per il resto leggo moltissima poesia. Non potrei farne a meno, neanche di scriverla. Dire chi è il mio poeta preferito è troppo complicato.
Come si concilia la poesia con il romanzo, con la prosa?
Ecco, come accennato, Mircea Cartarescu sarebbe l’esempio lampante. Lui a mio avviso non scrive romanzi, ma poesie infinite, mastodontiche, eterne. La mia personale opinione è che rimangono due cose conciliabili solo tramite lo stesso autore. Un poeta può scrivere un buon romanzo. Uno scrittore scriverà poesie pessime. Questo si è visto e ripetuto più volte nella Storia. Basta pensare alle illeggibili poesie di James Joyce, e alla sua Divina prosa sperimentale. Che nessuno ha capito, e mai capirà. Basta pensare all’Ulisse: “Io Leopold mi accodo a un funerale, mia moglie mi tradisce e ne sono a conoscenza”. È questo il vero riassunto di quel librone. È non il cosa, ma il come dici qualcosa. Quanta dedizione ci metti. Come e dove riesci a collocarlo. C’è più poesia nella prosa di Joyce che nei suoi versi. Joyce, per dirne uno. Poi, ovviamente ci sono stati nella Storia della Letteratura casi lampanti, come Leopardi, D’annunzio.
C’è un legame, a tuo avviso, tra arte e politica, tra scrittura e potere? T’importa questa politica, quella di oggi?
La politica e l’arte devono ben distanziarsi. Sia nei contenuti che nel potere dei premi. Ungaretti, uno dei miei poeti preferiti in assoluto, ma estremamente distante a livello politico, non ha vinto il Nobel perché era di destra. Ma lo meritava più che di Montale. Per i premi, poi, oggi ce ne sono talmente tanti che ormai mi rifiuto di parteciparvi. Vedo i vincitori e sono sempre gli stessi. Questo però è un capitolo a parte menzionato anche nel mio romanzo. Ma ci si potrebbe scrivere un libro a parte. Per la politica nell’arte, anche gli “addetti alla cultura” dovrebbero metterla da parte. Altrimenti sporcherebbero tutto, e si troverebbero dinanzi un pubblico che gli sta dietro solo per convenienza, che gli dà ragione giusto perché deve (ma alla fine non vuole). Invece per la politica di oggi… Ah, abbiamo politici all’opera? Credevo avessero chiuso il Parlamento trasformandolo in un grande Bar.
Il libro della vita. Il libro che avresti voluto scrivere. Il libro che scriverai. Dimmi.
Come dicevo prima, come per i poeti preferiti, non c’è un mio libro preferito. Ma Canti del Caos di Moresco; Pasto Nudo di Burroughs; La Scopa del Sistema di Wallace; La Storia dell’Occhio di Bataille; e Kaddish di Ginsberg, e le poesie di Bréton, rimangono dei miei punti cardini. Per quanto riguarda il futuro credo di riscrivere il mio precedente romanzo, per adattarlo a questa fantomatica trilogia che ti dicevo. Ho già il nuovo titolo in mente, o meglio, sono obbligato a usare quello in quanto menzionato con un titolo fittizio ne La Falla Oscura. Accadrà comunque, ne sono certo, che la poesia prenderà il sopravvento e continuerò a scrivere, scrivere, scrivere… Ma mai, e guai, pubblicare tutto. Ho diciotto inediti sul PC, e rimarranno lì.
  L'articolo “Un uomo si stava radendo. Poi si è buttato dalla finestra. Tutto comincia così”: dialogo estremo con Paolo Castronuovo, lo scrittore con 18 libri inediti nel PC proviene da Pangea.
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pangeanews · 6 years
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“Non è stata una passeggiata, Bacon non lascia scampo”: dialogo con Fabrizio Coscia, quasi un pittore di icone
La devozione dice che basta inserire sotto la lingua il frammento di una icona per ottenere la salvezza. O essere deliziati dalla delirante visione di Dio. Proprio così. Icona come ostia. Il pittore di icone come devoto esecutore della Parola. Se il pittore perpetua la Parola, lo scrittore – che sul volto di quella Parola incastra altre parole – la smonta, la devia. Il pittore è fedele alla verità, lo scrittore propaga eresie. Rewind. Non conosco il pedigree di Fabrizio Coscia, non mi interessa. So che quando ho letto La bellezza che resta (2017), che è un grande libro sul mistero della sofferenza, ho pensato. Un grande scrittore. L’ho pensato pure per un dettaglio. La bellezza che resta è anche una delle più profonde – e inquiete – esegesi di Lev Tostoj mai tentate. E io mi dico. La grandezza di uno scrittore è sapere introdursi nell’opera di un altro, disintegrando l’ego. Gesto difficilissimo – perché di solito lo scrittore suppone di sapere tutto. Così. Coscia mi pare come il pittore di icone. Nel libro, Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon (Sillabe 2018, pp.76, euro 10,00), impone sul palato, con liturgica attenzione, pezzi di Francis Bacon. Con umiltà molteplice, non scrive l’ennesimo testo dello scrittore che pontifica se stesso sul cranio del sommo defunto. Dà voce a Bacon. Ritagliando – che memorabile devozione – alcune frasi decisive di Bacon, ad esempio. A me piace questa: “In fin dei conti ho avuto una vita molto sfortunata: tutte le persone cui ho voluto bene sono morte. E non si smette di pensare a loro; il tempo non guarisce”. Dalle inferriate dell’opera di Bacon – presentata per scelte sistematiche – Coscia tesse una scenografia narrativa, pone degli interrogativi, lavora – come gli è solito, da quello che ho capito – negli ‘indicibili’, nelle fratture, in ciò che non torna, nei dintorni inferi. Le riflessioni sulla parola, in questo, sono molto interessanti. Chi è che tradisce la verità e chi la trascina? Il pittore o lo scrittore? “Se la parola ci separa sempre da ciò che vogliamo, cosa resta alla scrittura se non una continua messinscena, una debole allusione a qualcosa che rester�� sempre inattingibile? Forse, fra tutti, Joyce è lo scrittore che ha osato spingersi più di tutti in questa direzione, superando ogni confine in quello strepitoso fallimento, spesso incomprensibile, a tratti di una struggente bellezza, che fu il suo Finnegans Wake. Ma dopo di lui che cosa rimane da dire per avvicinarsi quanto più possibile a ciò che Bacon chiamava «qualcosa di simile all’essenza delle cose», ovvero alla loro verità?”, scrive Coscia. La lotta per rivelare la realtà, la resistenza alla corruzione, l’impensabile della morte, l’argonautica foia e fobia del vivere. “Se l’obiettivo della pittura deve essere «rendere visibile» ciò che non lo è, ecco dunque che l’esito naturale e finale non può che essere questo: andare oltre l’uomo, o meglio, cogliere ciò che rimane dell’uomo dopo che la morte ha compiuto il suo lavoro. È questo che muove tutta l’arte di Bacon: rappresentare l’uomo nella sua disfatta finale, nella sua uscita di scena; rendere visibile ciò che lascia il suo passaggio, il suo fugace transito sulla terra”. Se l’icona mostra l’invincibile del Figlio, Bacon illustra come marciscono i figli.
Ti dico cosa mi è venuto in mente leggendo il tuo corpo a corpo con Bacon. Testori che scrive di Grünewald nei “Classici dell’arte” Rizzoli. Comunque, uno scontro reciproco con una ‘macelleria’ artistica. Come è nata la catabasi in Bacon? Che fonti hai valicato?
È esistita una tradizione letteraria italiana di reportage o di incursioni nell’arte che si è andata un po’ perdendo negli anni. Hai citato Testori, ma penso anche a Giovanni Comisso che scrive di De Pisis o agli scritti d’arte di Moravia. Il merito di questa collana diretta da Antonio Celano, ‘Le Parole dell’Arte’, della casa editrice Sillabe, è proprio il tentativo di far rivivere questa tradizione di reportage critico che mette insieme scrittura e arte. Per quanto mi riguarda, era già da qualche anno che inseguivo Bacon, ma lui non si lasciava afferrare. Ho provato a inserire qualcosa su di lui e sulla sua arte nei miei due libri precedenti, Soli eravamo e La bellezza che resta, ma alla fine in entrambi i casi ho rinunciato, sentivo che a quei miei tentativi mancava qualcosa, un approfondimento più coraggioso, uno spazio maggiore da dedicargli. Sentivo, in altre parole, che Bacon mi attirava e mi respingeva, e intuivo che la sua arte aveva a che fare con qualcosa di molto intimo, qualcosa di mio, di personale, che andava indagato senza “distrazioni”. Così quando l’amico Andrea Caterini mi ha proposto di inaugurare la collana di Sillabe con una breve monografia critica su un artista del Novecento ho subito pensato che potesse essere una buona occasione per affrontare finalmente Bacon come dovevo. Mi sono immerso allora nel ricordo dei suoi quadri (quelli che ho visto in giro per l’Europa e nelle mostre) e non a caso il tema della memoria (quella volontaria e quella involontaria, direi tanto per scomodare Proust) è stato il punto di partenza del libro e quello finale. Ho frequentato per giorni e giorni le riproduzioni dei suoi quadri, mettendomeli a studiare. Mi sono confrontato anche con le parole di Bacon: le parole raccolte nelle sue interviste (straordinarie quelle rilasciate a David Sylvester), sempre animate da un’intelligenza affilatissima e brillante, mai offuscate da una singola frase banale, ma sempre da interpretare, da prendere con le molle, per così dire. E naturalmente ho tenuto presente vari studi critici, ma soprattutto l’imprescindibile saggio di Gilles Deleuze, Logica della sensazione. Dopodiché ho iniziato il mio corpo a corpo con Bacon. Non è stata una passeggiata. Bacon non lascia scampo.
Mi colpisce la reiterata insistenza sulla morte, sul dolore. “istintivamente nell’artista un desiderio inconscio di infliggere un danno”, dice Bacon. E più chiaramente: “ho avuto una vita molto sfortunata: tutte le persone cui ho voluto bene sono morte. E non si smette di pensare a loro; il tempo non guarisce”. Artista e morte, artista e soffrire: è un rapporto inscindibile?
La morte è il tema che ho indagato anche in La bellezza che resta. Bacon mi ha dato la possibilità di approfondirlo, di scoprire soprattutto la dimensione filosofica di questo essere-per-la-morte. Ma Bacon ci mostra anche il legame inscindibile della morte con l’Eros, la risoluzione dell’uno nell’altra. In effetti sì, credo che le più grandi opere d’arte siano sempre, in fondo, una rappresentazione, una riflessione più o meno esplicita, più o meno radicale attorno al nostro essere «tutti delle potenziali carcasse», come dice Bacon, con una frase terribile ma estremamente veritiera. L’arte che non si interroga su questa nostra condizione di esseri fragili e condannati a uscire di scena è arte decorativa, è intrattenimento.
Fabrizio Coscia ha scritto, tra l’altro, “La bellezza che resta” (2017)
Del libro, per ovvie ragioni, mi affascina quando cerchi di capire perché un quadro di Bacon arrivi meglio alla ‘verità’ delle cose rispetto alla scrittura. Ti cito: “Le parabole di Kafka, la grande cattedrale di Proust, le sperimentazioni linguistiche di Joyce, il romanzo-saggio di Mann, sono forse ciò che più di ogni altra opera letteraria del secolo scorso si è allontanata dall’illustrativo, dalle trappole del racconto. Ma fino a dove può spingersi la scrittura oltre se stessa? Forse dovrebbe semplicemente rinunciare ai generi, farsi solo confessione, diario intimo, flusso di coscienza? Ma anche in questo caso, anche se volesse rifiutare il filtro della finzione, quella verità, nel momento in cui sarà espressa a parole, non dovrà per forza mascherarsi da racconto e dunque allontanarsi ancora una volta dal suo nucleo più vero e profondo, in quanto impronunciabile?”. Dunque: scrivere è una sconfitta. Forse. Dicci. 
Io credo che lo scrittore viva da sempre un complesso d’inferiorità rispetto ai pittori, se non una vera e propria invidia. Da qui la pratica dell’ecfrasi, quel genere di scrittura che consiste nella descrizione a parole di quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di Omero nel diciottesimo canto dell’Iliade, quando viene descritto lo scudo di Achille. Lo scrittore è costretto a ricorrere alle parole, alle metafore, a qualcosa che significa qualcos’altro, mentre il pittore lavora con l’immagine, e dunque evoca direttamente l’immaginario. Per quanto mi riguarda, ciò che di Bacon mi attirava era soprattutto la sua capacità di rappresentare la verità rifiutando la narrazione. Ecco, questo è qualcosa che mi affascina moltissimo e che io, come scrittore, vorrei imparare a fare. Sono stanco delle storie, credo che ne siamo tutti saturi. La politica non fa che parlare di “narrazioni”, il cinema, le serie tv, la pubblicità, tutti ci propinano storie. Di “storie” si parla anche su Facebook, che chiede a ogni utente di “aggiungere una storia”. È un’ubriacatura di storie, che hanno perso naturalmente tutto il loro potere mitopoietico, riducendosi a chiacchiera, a gioco superfluo. Quello che mi interessa invece è smontare le storie, disgregarle, destrutturarle, proprio come Bacon smontava i corpi, i volti, spaccandoli, deformandoli, aprendoli, per mostrarne le verità nascoste. Esiste un modo per rappresentare la verità senza storytelling, senza racconto, senza storie? Secondo me a questa domanda lo scrittore oggi dovrebbe rispondere, nel tentativo di cercare altre strade, altre modalità di scrittura. Certo, il rischio del fallimento è dietro l’angolo: forse il “romanzo” è condannato a essere narrativo o a non essere. Ma credo che oggi valga la pena tentare comunque di spingersi oltre, perché il rischio, in alternativa, è far girare a vuoto una macchina narrativa che ormai non produce più alcun senso profondo.
Legato alla morte, il dio Cronos, il tempo. “L’angoscia, l’orrore del tempo che ci precipita nella morte: non è questo che tortura e mette in croce? È, allora, il tempo il vero protagonista dell’arte di Bacon: tutto ciò che, invisibile, lascia una traccia visibile”. Se è per questo, la scrittura testimonia sempre altro da ciò che afferma, edifica un glaciale “altro tempo”, segna le rughe, per un attimo, sul viso del tempo. Cosa può l’arte contro la forza dissipatrice del tempo? 
Forse, più che un “altro tempo”, la scrittura è assenza di tempo, o meglio un tempo senza presente, senza inizio, senza svolgimento e senza conclusione. Ma che cosa è questa assenza di tempo se non proprio la morte da cui trae origine il linguaggio? Lo scrittore, ci ha spiegato Blanchot, per realizzare la sua opera deve annullarsi, annientarsi, e lasciar parlare la scrittura al suo posto: tutto nello spazio letterario è condannato a ricominciare all’infinito, a non concludersi mai. L’arte, dunque, non si oppone alla forza dissipatrice del tempo, credo, ma piuttosto si conserva in essa, ricreandosi instancabilmente. Ecco perché scrivere, ai livelli più alti, è sempre scrivere della morte e dalla morte.
Cosa dobbiamo vedere assolutamente di Bacon, perché? Dopo Bacon, di quale artista vorresti scrivere?
Potrei citare naturalmente i suoi quadri più famosi: la serie dei papi urlanti, le Crocifissioni, i ritratti di George Dyer o gli autoritratti. Ma ci sono due quadri che io amo particolarmente: Study from the Human Body, del 1949, dove una possente figura maschile nuda, vista da dietro, scosta un sipario di colore grigio, per entrare in uno spazio nero, ed è colta nell’attimo esatto in cui sta uscendo letteralmente di scena. È un quadro commovente: è commovente questo nudo michelangiolesco, che espone la sua voluttuosa potenza, la sua bellezza stranamente non deformata, ma allo stesso tempo anche la sua estrema vulnerabilità, la sua debolezza. Che cosa voleva rappresentare Bacon con questo quadro? L’uscita di scena dell’umano, credo. La traccia visibile che lascia nel momento in cui non è più visibile. Questo è un concetto cruciale in Bacon: l’umano, per quanto annichilito, per quanto bandito dal quadro, non è mai assente nella sua arte. Come nell’altro meraviglioso quadro che amo particolarmente: Landscape near Malabata, Tangier 1963, che ritrae il posto in cui fu sepolto Peter Lacy, il pilota da caccia violento e alcolizzato che fu il grande e tempestoso amore di Bacon negli anni Cinquanta. Il paesaggio è rappresentato con dense e confuse pennellate, come se fosse investito da una bufera di sabbia e vento, con un cielo nero, quello stesso nero che al centro del dipinto diventa un vortice da cui il nostro sguardo è come risucchiato. Proprio là, nel punto esatto della sepoltura, agisce questa forza distruttiva, che è anche un’energia capace di sommuovere il terreno di erba e sabbia, come se, pure dopo la morte, dopo la scomparsa di ogni traccia umana, continuasse ad agire quell’impeto, quella «forza operosa», che tutto avvolge. Dopo Bacon mi piacerebbe scrivere di due artisti lontanissimi da lui, ma che amo molto: Pierre Bonnard, prima di tutto. La sua arcadia nasconde abissi insondabili, il suo rifiuto dell’avanguardia cela in verità una tensione sperimentale audacissima. È stato un genio senza maestri e senza eredi. “Per dipingere – ha scritto – bisogna sempre essere un po’ innamorati. Bisogna che tutto ciò che la natura, i fiori, le donne, l’acqua e il cielo pensano e sussurrano passi attraverso il cuore prima di prendere posto nella tela”. Questo passaggio dal ‘cuore’ alla tela, per Bonnard, è anche un passaggio di tempo. Spesso, infatti, il pittore dipingeva non dal vivo, ma sulla memoria di ciò che aveva visto (e provato). Così è anche per la scrittura (almeno così è per me). Per scrivere occorre sempre essere un po’ innamorati: di un luogo, di una persona, di un’opera. E occorre coltivare la memoria di quel sentimento. Senza tali mouvements du coeur non si dà vita a nulla. Eros, si legge nel Simposio, è desiderio di generare nella bellezza. E poi George Seurat: i suoi quadri rappresentano per me ancora oggi un mistero, per la capacità di coniugare poesia e metodo scientifico. Quando penso che realizzò i suoi due capolavori – Une baignade à Asnières e Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande-Jatte – tra i 24 e i 26 anni, e che dopo gliene restavano da vivere appena altri sei; quando penso alla giovane vita di questo artista totalmente dedito allo studio, al lavoro, all’imitazione dei grandi, all’approfondimento teorico, alla sperimentazione dei colori, e considero i risultati sorprendenti cui giunse in così poco tempo (il dominio assoluto dei mezzi, l’armonia suprema della composizione, la capacità tecnica, la cura artigianale del dettaglio, la visione del mondo improntata a una serenità imperturbabile, e una visione dell’arte, di contro, concepita come etica dell’impegno), non posso fare a meno di pensare che senza questa dedizione ossessiva, questa vocazione al sacrificio, questa attitudine morale non può darsi opera d’arte.
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