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Vanessa Bell and her brother Thoby Stephen, 1900
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top songs - october 2024
Brillante // Repion
Aratan n Azawad // Terakaft
Leila // Reynmen
Позови меня с собой // Палина
Kothbiro // Ayub Ogada
Only for You // Heartless Bastards
Odoje Pasleptas // Flash Voyage
Nothing Feels Better // Pink Sweat$
Estate // Negramaro
Eden // Sevaliza
Nettat // Jubantouja
Živim na Balkanu // S.A.R.S.
Antologi Rasa // Pijar
Como los olivos // Bebe
Saayndhu Saayndhu - Rendition // Sanah Moidutty
Ana // Romeo
Mary // Gemelli Diversi
Quando Bate Aquela Saudade // Rubel
Джай // Ирина Кайратовна; Hiro
Meftunum Sana // Gaye Su Akyol
De Selby (Part 1) // Hozier
ŠVELNUMAS // Gabrielė Vilkickytė, Domantas Starkauskas
Qongqothwane // Pilani Bubu
Gelmiyorsun // Ezginin Günlügü
Pueblo // makko
Mborayhu Asy // Tekove
Ikuntjinya // Running Water
IVAN // Subcarpaţi, Rusalka
Until I Found You (with Em Beihold) - Em Beihold Version // Stephen Sanchez, Em Beihold
Gurbet // Özdemir Erdoğan
Gordosti // Ragapop
Kısasa Kısas // Altin Gün
Rano Ranila // Trio Mopmu
Aš Nieko Nežinau // Kamanių šilelis
Leave It All Behind // Bumpy
Naxwazim / Şirin Cane // Berfin Aktay
Čija Si // Toše Proeski
Mish Mishta'a // Ghazall
Tamara // Bajaga & Instruktori
Cave // Muse
Ne Isteisiń? // Yenlik
Keren Chave // Ando Drom
Pomawsuwinuwok Wonakiyawolotuwok // Jeremy Dutcher
Mo Yaro // Lass
Így szólt hozzám a dédapám // Skorpio
風的季節 // Paula Tsui
Nwe Iet Met Htee // Linn Linn
但願人長久 // Teresa Teng
Tri Mestá // Tolstoys
Papirossn // Nizza Thobi
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Virginia Woolf: raccontare la vita
La donna che cambiò l’arte dello scrivere del Novecento inglese… Adeline Virginia Stephen nacque a Londra il 25 gennaio 1882, da Sir Leslie Stephen, critico, e Julia Prinsep-Stephen, una modella. Virginia e la sorella Vanessa furono istruite in casa, mentre i fratelli studiarono a scuola e presso l'università di Cambridge. La giovane a vent’anni divenne una scrittrice molto stimata, che collaborava con il Times Litterary Supplement e insegnava storia nel Collegio di Morley. Nel 1904, dopo la morte del padre, la scrittrice, insieme al fratello Thoby e alla sorella Vanessa, lasciò la casa natale per trasferirsi nel quartiere di Bloomsbury. In quell'anno Virginia prese parte alla fondazione del Bloomsbury set, un gruppo di intellettuali che dominarono la vita culturale inglese per circa un trentennio. Gli incontri tra gli intellettuali inglesi si tenevano ogni giovedì sera per discutere di politica, arte e storia. Nel 1912 Virginia sposò Leonard Woolf, teorico politico ma, nonostante la sua grandezza letteraria e la stesura del suo primo romanzo, The Voyage Out, fu colpita da una grande depressione da cui faticò a riprendersi. La scrittrice nel 1917 fondò la casa editrice Hogarth Press con cui pubblicò le opere di nuovi talenti letterari come Katherine Mansfield e T. S. Eliot. Due anni dopo Virginia pubblicò Notte e giorno, accolto con grande entusiasmo dalla critica letteraria londinese. Nel 1925 scrisse uno dei suoi principali capolavori La signora Dalloway, sulla figura di Clarissa Dalloway, che cerca di realizzare una festa, in parallelo alla vicenda di Septimus Warren Smith, un reduce della prima guerra mondiale, provato psicologicamente. La Woolf nel 1927 pubblicò Gita al faro, considerato dalla critica come uno dei suoi romanzi più belli, dove i sette protagonisti del libro sembrano rappresentare Virginia e i suoi fratelli alle prese con le vicende quotidiane. Un anno dopo scrisse "Orlando, dedicata all’amica Victoria Sackville-West e nel 1929 pubblicò Una stanza tutta per sé, sulla discriminazione femminile attraverso donne come Jane Austen, le sorelle Brontë, Aphra Ben e George Eliot, che sono riuscite a emanciparsi dai pregiudizi sociali dell'epoca. L'attività letteraria di Virginia proseguì tra il 1931 e il 1938, con la stesura dell'opera The Waves, seguita da The Years e Le tre ghinee, con una struttura epistolare in cui la Woolf dava risposte in merito ad argomenti politici, etici e culturali. L'ultima opera realizzata e pubblicata da Virginia, scritta durante il secondo conflitto mondiale, fu Tra un atto e l'altro. Colpita ancora una volta dalle sue crisi depressive, che erano via via più acute, a 59 anni, il 28 marzo 1941 la Woolf pose fine alla sua esistenza, suicidandosi nel fiume Ouse, non lontano dalla sua abitazione. Read the full article
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Per il compleanno di Virginia.
Quando Virginia Woolf lesse l'Ulysses di Joyce dichiarò la propria irritazione nei confronti di un'opera che reputava volgare, terra terra, che non sapeva sferrare alcun colpo fatale al lettore. Una lettura, diceva, senza attrattive. Non si spiegava il motivo dell'entusiasmo di tanti suoi amici del Bloomsbury Group - del quale, per intenderci, facevano parte nomi del calibro di Lytton Strachey, John Maynard Keynes, Edward Morgan Foster e Roger Fry - non sapeva come affrontarli per spiegar loro che avevano preso un abbaglio.
Di Joyce e dell'Ulysses ha scritto nel suo diario:
"e poi sono rimasta confusa, annoiata, irritata e delusa da questo studente a disagio, che si gratta i foruncoli. E Tom, il grande Tom, lo mette sullo stesso piano di Guerra e pace! Per me è un libro ignorante, plebeo; il libro di un operaio autodidatta, e sappiamo tutti quanto sono disperanti, quanto egocentrici, assillanti, rozzi, declamatori e in sommo grado nauseanti. Se si può avere la carne cotta, perché mangiarla cruda?" (Tom-Thomas Stearns Eliot)"
A lettura ultimata, la sua opinione è stata persino più sferzante:
"Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario. Uno scrittore di classe, voglio dire, rispetta troppo la scrittura per ammettere le trovate, le sorprese, le bravure. Mi ricorda continuamente un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma talmente conscio di sé, talmente egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, desta pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia; e si spera che gli anni lo guariscano; ma poiché Joyce ne ha quaranta sembra poco probabile. Non l'ho letto con molta attenzione; e una sola volta; ed è molto oscuro, sicché non dubito di averne misconosciuto i pregi più di quanto sia lecito. Sento che miriadi di minuscole pallottole picchiettano e tamburellano il lettore; ma un colpo mortale in piena faccia non lo ricevi..."
Il giudizio di valore che Woolf attribuiva a Joyce oscillò sempre tra il riconoscimento del genio e la certezza che l'Ulysses fosse un colpo mancato.
Woolf e Joyce provenivano da pianeti appartenenti a due galassie sociali diverse e, per molti versi, opposte. Lei era borghese, ricca e snob: lui pieno di debiti, gran bevitore, per molto tempo è riuscito a mantenere uno stile di vita dignitoso solo grazie alla generosità dei suoi amici.
Woolf fu per tutta la vita perseguitata da una depressione letale, e da una sindrome bipolare con tratti, alla fine, psicotici. A lei e alla sorella Vanessa non fu mai concesso di frequentare l'università, a differenza dei fratelli Thoby e Adrian: erano donne e l'Inghilterra vittoriana faceva ancora valere i suoi pregiudizi, malgrado il padre di Virginia Woolf, Leslie Stephen, fosse un celebre saggista, filosofo e critico letterario.
A Joyce, invece, malgrado anche suo padre fosse un alcolista, fu concesso di studiare nelle migliori scuole cattoliche di Dublino, e si laureò allo University College in Lingue Straniere.
Faticò sempre molto a pubblicare i suoi libri: fu solo grazie a Ezra Pound (ancora lui, il miglior fabbro) che riuscì a trovare un editore per The Dubliners (alla cui pubblicazione contribuì lo stesso Joyce acquistando un buon numero di copie, in sintesi: autopubblicandosi). L'Ulysses, scritto nel 1922, fu pubblicato da Sylvia Beach di Shakespeare and Company dopo essere stato rifiutato da tutti gli editori per oscenità. Joyce tentava di mantenersi insegnando inglese, cosa che fece anche alla Berlitz di Trieste.
Woolf e Joyce sono i due maggiori scrittori del Primo Novecento, forse due dei più geniali di sempre. Entrambi intervennero sulla gestione del tempo reale, applicando il concetto di "durée" alle loro opere. Entrambi si affidarono alle epifanie, che per Joyce erano "moments of sudden insight", momenti di improvvisa rivelazione, mentre per Woolf erano "moments of being" - momenti di essere.
L'unica cosa che sollevava Virginia Woolf dal dolore della sua esistenza era scrivere. In A Room of One's Own, scrive: "Se vuole scrivere romanzi, una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé." consapevole che una donna senza mezzi, schiacciata dal bisogno, ha altre priorità che mettersi a scrivere, e spesso è costretta a rinunciare alle proprie ambizioni per aderire alle volontà altrui.
Joyce ha problemi alla vista e una figlia, Lucia Anna, schizofrenica. Nel 1939 scrive forse la più oscura delle sue opere: "Finnegans Wake", che ottenne critiche feroci. Sia per questo motivo che per l'invasione nazista di Parigi, Joyce si trasferì a Zurigo, malato di una depressione sempre più potente. Di sé disse che era "escluso dal banchetto della vita". I problemi alla vista peggiorarono, viene operato di ulcera e due giorni dopo muore.
Woolf si suicida mettendosi nelle tasche delle pietre e buttandosi nel fiume. Nel suo ultimo biglietto al marito Leonard scrive:
"‘Carissimo,
sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi."
Virginia Woolf, nata il 25 gennaio.
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He says the simple things that clever people don't say; I find him the best of critics for that reason.
- Virginia Woolf on E.M. Forster in her private diaries
Although historians disagree on who was part of the “in crowd” and who was not (there was never an official list), many agree that among the founding individuals were Clive Bell, Vanessa Bell, Roger Fry, Duncan Grant, Virginia Woolf, Leonard Woolf, John Maynard Keynes, Lytton Strachey, and especially E.M. Forster who carved out an academic life at Cambridge alongside his novel writing.
Several of the men were educated together at Cambridge where they met Thoby Stephen and his siblings: Adrian, Vanessa (later Bell), and Virginia (later Woolf). The Stephens began to host regular but informal gatherings at their residence in the Bloomsbury neighborhood of London. These “Friday Club” and “Thursday Evening” meetings were the soil out of which the Bloomsbury Group grew. Thoby’s early death in 1906 brought the group of friends closer together and spurred them onward.
Other members were Desmond Macarthy, Arthur Waley, Saxon Sidney-Turner, Robert Trevelyan, Francis Birrell, J.T. Sheppard (later provost of King’s College), and the critic Raymond Mortimer and the sculptor Stephen Tomlin, both Oxford men. Bertrand Russell, Aldous Huxley, and T.S. Eliot were sometimes associated with the group, as was the economist Gerald Shove.
The group survived World War I but by the early 1930s had ceased to exist in its original form, having by that time merged with the general intellectual life of London, Oxford, and Cambridge. Although its members shared certain ideas and values, the Bloomsbury group did not constitute a school. Its significance lies in the extraordinary number of talented persons associated with it.
**E.M. Forster in his college rooms at Kings College, Cambridge.
#woolf#virginia woolf#quote#em forster#forster#literature#culture#aesthetics#bloomsbury#cambridge#university#society#england#britain#history
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Biographical Fiction ft. Complex Characters: Book Recs
More Miracle Than Bird by Alice Miller
On the eve of World War I, twenty-one-year-old Georgie Hyde-Lees—on her own for the first time—is introduced to the acclaimed poet W. B. Yeats at a soirée in London. Although Yeats is famously eccentric and many years her senior, Georgie is drawn to him, and when he extends a cryptic invitation to a secret society, her life is forever changed. A shadow falls over London as zeppelins stalk overhead and bombs bloom against the skyline. Amidst the chaos, Georgie finds purpose tending to injured soldiers in a makeshift hospital, befriending the wounded and heartbroken Lieutenant Pike, who might need more from her than she is able to give. At night with Yeats, she escapes these realities into an even darker world, becoming immersed in The Order, a clandestine society where ritual, magic, and the conjuring of spirits is practiced and pursued. As forces—both of this world and the next—pull Yeats and Georgie closer together and then apart again, Georgie uncovers a secret that threatens to undo it all.
Vanessa and Her Sister by Priya Parmar
London, 1905: The city is alight with change, and the Stephen siblings are at the forefront. Vanessa, Virginia, Thoby, and Adrian are leaving behind their childhood home and taking a house in the leafy heart of avant-garde Bloomsbury. There they bring together a glittering circle of bright, outrageous artistic friends who will grow into legend and come to be known as the Bloomsbury Group. And at the center of this charmed circle are the devoted, gifted sisters: Vanessa, the painter, and Virginia, the writer. Each member of the group will go on to earn fame and success, but so far Vanessa Bell has never sold a painting. Virginia Woolf’s book review has just been turned down by The Times. Lytton Strachey has not published anything. E. M. Forster has finished his first novel but does not like the title. Leonard Woolf is still a civil servant in Ceylon, and John Maynard Keynes is looking for a job. Together, this sparkling coterie of artists and intellectuals throw away convention and embrace the wild freedom of being young, single bohemians in London. But the landscape shifts when Vanessa unexpectedly falls in love and her sister feels dangerously abandoned. Eerily possessive, charismatic, manipulative, and brilliant, Virginia has always lived in the shelter of Vanessa’s constant attention and encouragement. Without it, she careens toward self-destruction and madness. As tragedy and betrayal threaten to destroy the family, Vanessa must decide if it is finally time to protect her own happiness above all else.
Twain & Stanley Enter Paradise by Oscar Hijuelos
Hijuelos was fascinated by the Twain-Stanley connection and eventually began researching and writing a novel that used the scant historical record of their relationship as a starting point for a more detailed fictional account. It was a labor of love for Hijuelos, who worked on the project for more than ten years, publishing other novels along the way but always returning to Twain and Stanley; indeed, he was still revising the manuscript the day before his sudden passing in 2013.
The resulting novel is a richly woven tapestry of people and events that is unique among the author's works, both in theme and structure. Hijuelos ingeniously blends correspondence, memoir, and third-person omniscience to explore the intersection of these Victorian giants in a long vanished world.
From their early days as journalists in the American West, to their admiration and support of each other's writing, their mutual hatred of slavery, their social life together in the dazzling literary circles of the period, and even a mysterious journey to Cuba to search for Stanley's adoptive father, TWAIN & STANLEY ENTER PARADISE superbly channels two vibrant but very different figures. It is also a study of Twain's complex bond with Mrs. Stanley, the bohemian portrait artist Dorothy Tennant, who introduces Twain and his wife to the world of séances and mediums after the tragic death of their daughter. A compelling and deeply felt historical fantasia that utilizes the full range of Hijuelos' gifts, TWAIN & STANLEY ENTER PARADISE stands as an unforgettable coda to a brilliant writing career.
The Personal Librarian by Marie Benedict, Victoria Christopher Murray
In her twenties, Belle da Costa Greene is hired by J. P. Morgan to curate a collection of rare manuscripts, books, and artwork for his newly built Pierpont Morgan Library. Belle becomes a fixture on the New York society scene and one of the most powerful people in the art and book world, known for her impeccable taste and shrewd negotiating for critical works as she helps build a world-class collection. But Belle has a secret, one she must protect at all costs. She was born not Belle da Costa Greene but Belle Marion Greener. She is the daughter of Richard Greener, the first Black graduate of Harvard and a well-known advocate for equality. Belle's complexion isn't dark because of her alleged Portuguese heritage that lets her pass as white--her complexion is dark because she is African American. The Personal Librarian tells the story of an extraordinary woman, famous for her intellect, style, and wit, and shares the lengths to which she must go--for the protection of her family and her legacy--to preserve her carefully crafted white identity in the racist world in which she lives.
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Georgia O'keeffe & Virginia Woolf
De niña Virginia Woolf era una gran aficionada a cazar mariposas y polillas. Con ayuda de su hermana y hermanos, solía embadurnar los troncos de los árboles con melaza para atraer y capturar a los insectos y clavar después sus cuerpos sin vida en planchas de corcho, con las alas extendidas y sujetos por alfileres. Su interés no decayó con la madurez y cuando descubrió que también a mí me gustaba cazar insectos, insistió en que saliéramos juntos de expedición por los campos de Long Barn, la casa que mi familia tenía en Kent, a tres kilómetros de Knole, donde había nacido mi madre. Yo tenía nueve años. Una tarde de verano mientras peinábamos las altas hierbas con nuestras redes sin atrapar nada, Virginia se detuvo de pronto, y apoyándose en su bastón de bambú como un salvaje descansaría sobre su azagaya, me preguntó: «¿Cómo es ser niño?». Yo, sorprendido, repuse: «Bueno, Virginia, ya lo sabes. Tú también has sido niña. Yo no sé cómo es ser tú, porque nunca he sido mayor». Fue la única ocasión en que conseguí sacar lo mejor de ella, dialécticamente. Creo que intentaba reunir información para el retrato de James en Al faro, que estaba escribiendo en aquel momento, puesto que James era más o menos de mi edad. Me explicó que no le resultaba de gran utilidad rememorar su propia infancia porque las niñas no son como los niños. «Pero ¿de niña eras feliz?», pregunté. He olvidado lo que me contestó, pero creo que ahora sé la respuesta, ya que su infancia y juventud son casi las más documentadas que conocemos. Más que infeliz, tuvo una infancia problemática. Su madre murió cuando Virginia tenía trece años y su hermanastra cuando tenía quince. A los veintidós perdió a su padre y dos años después a su hermano Thoby. Otra hermanastra suya estaba trastornada. La propia Virginia, ya desde bastante joven, sufrió períodos de depresión aguda e incluso enajenación mental. Sus hermanastros abusaron sexualmente de ella cuando todavía era demasiado joven para entender lo que ocurría. Sufrió, pues, una serie de calamidades que podrían haber conducido a una juventud profundamente traumática. Pero Virginia era valiente, con una fuerte capacidad de recuperación y una gran iniciativa. Tal como muestran sus primeras cartas y diarios, mejor que otras recopilaciones posteriores, Virginia se desarrolló de forma bastante normal y aunque no le importaba el éxito social, tenía facilidad para hacer amigos y desde edad muy temprana demostró el impulso de recoger por escrito todas sus experiencias. El mismo día que salimos a cazar mariposas me dijo: «En realidad nada ocurre hasta que se describe. Así que tienes que escribirles muchas cartas a tu familia y amigos y llevar un diario». El dolor se aliviaba yel placer se intensificaba al dejar constancia escrita de ellos.
Virginia nació en Londres el 25 de enero de 1882; era la tercera hija de Leslie y Julia Stephen. Tanto su padre como su madre habían estado casados antes y ambos aportaron a la unión hijos del matrimonio anterior. Las personas más importantes para ella durante la infancia fueron sus padres, su hermana Vanessa y su hermano mayor Thoby. Julia era hija de John Jackson, que ejerció gran parte de su carrera como médico en Calcuta, y Maria Pattle. Como su madre, Julia fue una de las mujeres más bellas de su tiempo .De joven posó para Watts, Burne-Jones y su tía la fotógrafa Julia Margaret Cameron, a quien debemos una imagen de Julia claramente prerrafaelita, a menudo de una contención trágica y, como Virginia, siempre bella pero nunca bonita. Lo que más llama la atención de estos retratos es la serenidad de la mirada, como si la vida fuera una constante prueba de carácter que ella superara triunfalmente, pero tal vez esta impresión responda a la inmovilidad que exigía la fotografía en sus comienzos: no se puede mantener una sonrisa más de un instante sin que parezca falsa.
- Nigel Nicolson, Virginia Woolf. MONDADORI, 2002. Traducción: Cruz Rodriguez Juiz
- Eagle Claw and Bean Necklace
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Which British artist was the sister of Virginia Woolf?
Vanessa Bell (née Stephen; 1879-1961) was an English painter and the older sister of Virginia Woolf, an English modernist writer, essayist and feminist. In 1904, following the deaths of their parents, Vanessa and Virginia moved to Bloomsbury, London, with their brothers, Thoby and Adrian. Here, they began socialising with artists, writers and intellectuals, with whom they formed the Bloomsbury Group. The group regularly met at Vanessa's house.
In 1907, Vanessa married the art critic Clive Bell, with whom she had two sons. Both husband and wife conducted numerous affairs, even going as far as to invite their lovers to stay at their family home.
Vanessa started working as an artist in 1906. She designed the book jackets for all her sister's books and exhibited her paintings in London and Paris. Most of Vanessa's paintings were fairly abstract, yet she also painted portraits of her sister, and the writers Aldous Huxley and David Garnett.
Vanessa Bell died after a brief illness in 1961. She outlived her younger sister by 20 years. Virginia Woolf, who married Leonard Woolf in 1912, suffered from Bipolar Disorder. Despite her success as a writer, Virginia drowned herself in the River Ouse in 1941.
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Jacques-Emile Blanche — Julia Stephen, 1889.
Painting: oil on canvas, 90 x 72.5 cm. Government Art Collection.
The French artist Jacques-Emile Blanche painted this portrait after a photograph of Julia Stephen taken by her aunt, Julia Margaret Cameron (the celebrated photographer and Pre-Raphaelite model), between 1864 and 1867. The sitter is famous in her own right for being the mother of writer Virginia Woolf, painter Vanessa Bell, and the founder of the Bloomsbury group, Thoby Stephen.
Female Portraits
Famous Friends
1880s
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How Virginia Woolf Kept Her Brother Alive in Letters
For Virginia Woolf, correspondence became a way to transcend a climate of illness—to envision a future she couldn’t see.
"Hours after watching her twenty-six-year-old brother die, Virginia Stephen wrote a letter to one of her dearest friends. In that letter, written on November 20, 1906, she did not utter a word about her brother’s death; she did not so much as mention his name. Virginia was twenty-four—six years from marrying and becoming Virginia Woolf, nine years from publishing her first novel. She and her three siblings had just returned from a trip to Greece and Turkey, which had ended in disaster. Thoby Stephen, Virginia’s eldest brother, had been infected with typhoid. ..."
New Yorker
2019 April: Bloomsbury Group, 2019 April: Feminize Your Canon: Violet Trefusis
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Vanessa Bell and her brother Thoby Stephen sitting under a tree, on holiday at Fritham House, Hampshire
1900
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Virginia Woolf tentou ‘curar’ sua loucura pelo suicídio
Na manhã de sexta-feira, 28 de março de 1941, um dia claro, luminoso e frio, Virginia foi como de costume ao seu estúdio no jardim. Lá, escreveu duas cartas e atravessou os prados até o rio. Deixando a bengala na margem, ela esforçou-se para pôr uma grande pedra no bolso do casaco. Depois encaminhou-se para a morte.
Na manhã de sexta-feira, 28 de março de 1941, um dia claro, luminoso e frio, Virginia foi como de costume ao seu estúdio no jardim. Lá, escreveu duas cartas e atravessou os prados até o rio. Deixando a bengala na margem, ela esforçou-se para pôr uma grande pedra no bolso do casaco. Depois encaminhou-se para a morte
Em 28 de março 2020 completou 79 anos que a escritora inglesa Virginia Woolf se matou. Virginia, que hoje tende a ser comparada (desfavoravelmente) a James Joyce, que ela considerava (invejosamente) um operário autodidata, morreu aos 59 anos, jogando-se no Rio Ouse, em 1941.
A obra de Virginia permanece gerando polêmica. Para alguns, ainda é inovadora. Para outros, teria envelhecido. A revolução de Virginia estaria obscurecida pela revolução de Joyce. Talvez o mais justo seja não comparar os dois autores, percebendo, antes, que há diferenças, apesar de estarem próximos (literalmente), entre eles.
Sobre sua vida, é possível saber alguma ou muita coisa, principalmente depois da sensível e abrangente biografia de Quentin Bell. Infelizmente, a autobiografia de Leonard Woolf ainda não foi traduzida para o português. Leonard foi a pessoa que mais entendeu Virginia. É provável que ela tenha escrito a maioria de suas obras porque teve o apoio firme do marido e amigo. Leonard sacrificou-se pelo talento de Virginia. Trata-se do sacrifício do menor talento pela afirmação do maior talento. O casamento sequer lhe proporcionou prazer sexual.
“Virginia Woolf — Uma Biografia” (1882-1941), do escritor Quentin Bell, sobrinho de Virginia e filho de Vanessa e Clive Bell, é um livro belíssimo e traz fotografias excelentes. O meu texto é uma p��lida síntese da esplêndida obra de Quentin Bell — publicada no Brasil pela Editora Guanabara, com tradução de Lya Luft. O único senão é a revisão, catastrófica, como de hábito no “nosso” doce Bananão.
Para sorte dos leitores, a biografia, embora esgotada, pode ser encontrada em sebos. Um detalhe relevante para os preguiçosos leitores brasileiros, filhos diletos da televisão: a biografia tem 614 páginas. É um cartapácio. Um detalhe convidativo: o texto de Quentin Bell é agradável e não tem ranços acadêmicos.
Como disse, meu texto é uma pálida síntese do livro de Quentin Bell. Há histórias interessantíssimas sobre Virginia, que tinha o apelido de “Cabrita” , mas, se fosse contar todas, precisaria de mil páginas e o leitor não leria o livro. Registrarei mais o “crescimento” efetivo e literário de Virginia.
Os familiares de Virginia, por parte de pai, eram todos escritores. Eram da alta classe média inglesa. Virginia Stephen nasceu no dia 25 de janeiro de 1882. Só aprendeu a falar depois dos 3 anos. Aos 6 anos, falava bem e contava estórias deliciosas. Era uma espécie de Hemingway de saias. Mas nada sacava de aritmética.
Ainda jovenzinha, foi bolinada pelo meio-irmão George. Pode ter sido a causa de sua permanente frigidez sexual. Antes dos 13 anos, depois de várias leituras, buscando sem conseguir um estilo próprio, começou a copiar Nathaniel Hawthorne. Aos 16 anos, apaixona-se por uma mulher, Madge. Nada de sexo. Puro amor. Afeto. Paixão adolescente.
Virginia era uma leitora compulsiva. Queria compensar, em tempo recorde, o fato de não ter educação formal, universitária. Os irmãos Thoby e Adrian estudaram em Cambridge. Ela não pôde estudar lá. Ficou ressentida a vida inteira. A saída foi ler bastante, aprender sozinha ou com o pai, Leslie Stephen, um homem sábio mas de personalidade frágil e difícil.
Depois da morte do pai, em 1904, Virginia tenta se matar, pulando de uma janela, mas não consegue. A janela era baixa e ela se machucou muito pouco. Mas a alma estava profundamente ferida. A garota estava tão maluca que ouvia os pássaros cantando em grego. E já estava apaixonada por outra mulher — Violet Dickinson. De novo, nada de sexo. É o que diz o informadíssimo Quentin Bell. Seu sobrinho, vale ressaltar.
Entretanto, apesar de parente, Quentin aparentemente não esconde fatos, o que pode ser comprovado lendo outras biografias de Virginia. O autor é franco e claro, embora Lya Luft, a tradutora, procure termos mais suaves para falar do “lado” lésbico de Virginia e do homossexualismo dos amigos da escritora. Safismo e sodomita são palavras que estão registradas nos dicionários brasileiros, mas não no vocabulário do nosso leitor médio. No lugar de sodomita, para ficar mais claro, a tradutora poderia ter ousado e escrito “viado” (com i) ou, pelo menos, “homossexual”. Mas isso não importa tanto. São detalhes de nenhuma importância.
Em 1904, por interferência de Violet, Virgínia começa a escrever críticas (não assinadas) para o “The Guardian”. Em 1905, Thoby começa as noites de quinta-feira, no famoso bairro de Bloomsbury, com a presença de Saxon Sydney-Tuner, Leonard Woolf, Lytton Strachey (irmão do grande tradutor de Freud, James Strachey), Clive Bell e Desmond MacCarthy. Jack Pollock, E. M. Forster, Bertrand Russell e John Maynard Keynes também participavam da “farra” intelectual.
Henry James, amigo do pai de Virginia, não gostou do grupo de Bloomsbury, que achava de baixo nível. Rebelde, o grupo usava roupas esdrúxulas e falava palavrão. Vanessa, pintora, mãe de Quentin Bell, também participava das reuniões e era adepta do “sexo livre”. Ela própria era chifrada por Clive Bell e chifrava o marido. Nenhum dos dois, porém, gostava das chifradas. O liberalismo na prática é uma piada.
As reuniões de Bloomsbury ajudaram imensamente na formação da “inculta” Virginia. Os participantes eram intelectuais, alguns em formação e, outros, com alto preparo. Ela absorvia, “antenada” e “babando”, tudo que eles falavam ou sugeriam. Mas a morte de Thoby, o irmão e amigo adoradíssimo, bagunça a família Stephen, que nunca fora muito ajustada. Vanessa, desesperada, se casa com o garanhão come-tudo Clive Bell. Virginia não gostou do casamento. No início. Ela e Adrian, o mais moço dos irmãos e o mais atrapalhado, vão morar juntos.
Os amigos e parentes declaram: “Virginia precisa casar”. Queriam arrumar uma pessoa para cuidar da “incuidável” Virginia. Irritada, Virginia escreveu à amiga Violet: “Eu queria que todo mundo não me ficasse repetindo que devo casar. Será uma irrupção da rude natureza humana? Eu acho repulsivo”. Apesar de sua ira, os amigos e parentes continuaram insistindo para que ela se casasse.
Entre 1907 e 1908, Virginia começa a escrever “Melymbrosia”, mais tarde publicado como “The Voyage Out” (este primeiro romance de Virginia foi editado no Brasil sob o título de “A Viagem”). Exigente, Virginia queimou sete versões de “The Voyage Out”. Ela não publicou ficção até os 33 anos.
“Seu laconismo literário era em parte resultado de timidez; ainda ficava aterrorizada com o mundo, aterrorizada de se expor. Mas unia-se a isso outra emoção, mais nobre — um alto conceito de seriedade de sua própria profissão. Para produzir algo que atingisse seus critérios particulares, era necessário ler vorazmente, escrever e reescrever continuamente, e, sem dúvida, se não estava escrevendo na hora, agitar as ideias que expressava em sua mente”, nota Quentin Bell.
No plano afetivo, a vida de Virginia continuava difícil. Lytton Strachey quis se casar com ela, mas não deu certo. Outro amigo de Virginia, o competente e célebre economista John Maynard Keynes, embora tenha se casado com uma bailarina, também era sodomita (palavra bastante usada por Quentin Bell). Keynes morou na casa de Virginia e Adrian.
Em 1912, Leonard Woolf e Virginia se casam. Leonard se apaixonou por Virginia. Doce e perdidamente. O casamento foi um grande “negócio” para Virginia. A união com Leonard aumentou o seu equilíbrio emocional e a sua segurança como escritora. O curioso é que a família Stephen não avisou Leonard dos problemas de saúde de Virginia. Tudo indica que a família procurou esconder que Virginia era “meio louca” com medo que Leonard desistisse do casamento. O casamento não agradou Clive Bell. Clive andou tirando umas casquinhas de Virginia. Mas sossegue: o vigoroso marido de Vanessa não conseguiu papar Virginia. Só tirou casquinhas. Virginia, diga-se, gostava do atrevimento de Clive.
Leonard adorava Virginia, sua capacidade intelectual, e não se preocupava com a frigidez sexual dela. Quentin Bell, um biógrafo às vezes discreto, sugere que Virginia “considerava o sexo não tanto com horror, mas com incompreensão; havia em sua personalidade e em sua arte uma qualidade estranhamente etérea, e, quando as necessidades literárias a compeliam a considerar o prazer sexual, ela se afastava ou nos revelava algo tão distante de bolinas e empolgações quanto a chama de uma vela é distante de seu sebo”.
Virginia conclui “The Voyage Out” e o entrega à editora. Doente, pensa que a libertação (a cura) está no suicídio. Toma 6,5 gramas de veronal e quase morre. Quentin Bell registra que até 1913, data da tentativa de suicídio, Freud era pouco conhecido na Inglaterra. “Ernest Jones começou a praticar em Londres em 1913”, informa Quentin. Virginia não se interessava muito por Freud. Mas Leonard achava que o conhecimento das ideias de Freud poderia ser útil no seu tratamento.
“The Voyage Out” foi publicado em março de 1915. Os amigos de Virginia e a crítica gostaram. Edward Morgan Forster (autor de “Passagem Para a Índia”, mais conhecido no Brasil pelo bom filme de David Lean), que também era gay renitente, elogiou o livro de Virginia no “Daily News”: “Eis finalmente um livro que chega ao mesmo patamar de ‘O Morro dos Ventos Uivantes’, embora por um caminho diferente”. A critica era esperada ansiosamente por Virginia. Queria ver se seu talento era confirmado.
“Virginia”, escreve Quentin Bell, “estava sempre imaginando que, para o mundo exterior, [seus romances] pudessem parecer simplesmente doidos ou, pior ainda, fossem realmente doidos, seu horror à zombaria rude do mundo continha o medo mais profundo de que sua arte, e por isso ela mesma, fosse uma espécie de impostura, um sonho imbecil sem valor para os outros. Por isso, para ela, uma nota favorável valia mais que o mero elogio; era uma espécie de certificado de sua sanidade mental”.
“O problema”, continua Quentin, “deve estar presente quando pensamos em sua extrema sensibilidade à crítica, uma sensibilidade que podemos considerar mórbida e que realmente, em certo sentido, era mórbida, pois nascia de um estado enfermiço. Os ataques e açoites da crítica, que seriam facilmente enfrentados por um organismo mais robusto, no caso dela podiam reabrir feridas que jamais se tinham curado inteiramente e que nunca deixariam de ser muitíssimo delicadas”.
Quentin Bell nota que a saúde de Virginia melhorou em 1915 por causa das criticas favoráveis. Virginia, temendo a crítica, escreveu: “Imagine acordar e descobrir que se é uma fraude. Esse horror era parte da minha loucura”.
Em 1917, um tanto ranzinza mas admirada, Virginia escreveu à adorada e protetora irmã Vanessa: “Tive um breve encontro com Katherine Mansfield; que me parece um caráter desagradável mas enérgico e absolutamente inescrupuloso”.
Quentin Bell explica bem: “Elas [Virginia e Mansfield] sempre tendiam a discordar, mas na verdade nunca discordariam. Unidas pela devoção à literatura e divididas na sua rivalidade como escritoras, achavam uma à outra sobremodo atraentes, mas muito irritantes. Ou pelo menos eram esses os sentimentos de Virginia. Ela admirava Mansfield; também estava fascinada por aquele lado da vida de Katherine que ficava além da sua própria capacidade emocional”.
“Katherine”, revela Quentin, “andara pelo mundo, ficara magoada; dera vazão a todos os instintos da fêmea, dormira com todo tipo de homens; tornara-se objeto de admiração — e piedade. Era interessante, vulnerável, talentosa, encantadora. Mas também se vestia e se portava como uma prostituta. Penso que Katherine Mansfield retribuía a admiração de Virginia e também sua animosidade. Virginia com certeza apreciava bastante o talento de Katherine, a ponto de querer editar um de seus contos”.
É provável que Virginia tenha lançado um olhar masculino em Katherine Mansfield. O homem em geral deprecia a mulher inteligente e diferente, mas também a cobiça sexualmente. Outra coisa: Virginia não gostava de elogiar escritores vivos. Só deu importância a D.H. Lawrence, o autor de “Mulheres Apaixonadas”, depois que ele morreu. Os vivos eram seus concorrentes.
Junto com Leonard Woolf, Virginia foi dona da Hogarth Press, que editou grandes escritores e poetas, como Katherine Mansfield e T.S. Eliot, além do psicanalista Freud. Quentin Bell e os outros biógrafos revelam algo curioso: Virginia escrevia um romance vigoroso (como “As Ondas”) e, em seguida, um romance mais leve e fácil (como “Os Anos”). Parece que tal artifício visava tranquilizar os seus nervos e, ao mesmo tempo, testar novos caminhos para o romance. “O romance peso-pesado é sucedido por um livro peso-pluma — que ela chamava uma piada”, só que Quentin Bell não acha que “Noite e Dia” seja uma piada. Não acha o livro bom. Mas não concorda que seja totalmente ruim.
O manuscrito de “Ulysses”, de James Joyce, foi oferecido à editora de Virginia, que não pôde ou não quis publicá-lo. Quentin Bell tenta explicar: “Era uma obra que Virginia não podia rejeitar nem aceitar. O poder e a sutileza da obra eram evidentes o bastante para despertar a admiração dela e, sem dúvida, inveja. Parecia-lhe ter uma espécie de beleza, mas também um brilho rude, arguto, de sala de fumantes. Joyce usava instrumentos parecidos com os dela, e isso era doloroso, pois era como se a pena, sua própria pena, tivesse sido arrancada de suas mãos e alguém rabiscasse com ela a palavra “foda” no assento de um vaso sanitário”.
Virginia “também sentia”, segundo Quentin, “que Joyce escrevia para um pequeno grupo, e, quando se refere a ele, escreve ‘essa gente’ — como se o classificasse tal qual Ezra Pound e não sei que outras figuras do ‘submundo’. A reação dela talvez seja significativa; a rudeza gratuita e impudente de Joyce fazia-a sentir-se, súbito, desesperadamente ‘uma dama’. Mesmo assim foi perspicaz o bastante para ver que era algo digno de ser publicado; era claro, também, que estava absolutamente além da capacidade técnica da Hogarth Press”. Para mim, era o lado mundano de Joyce que não agradava Virginia. Ao contrário de Joyce e de Proust, não sacava muito do lado “sujo” da vida.
O leitor pode ler mais sobre o assunto na admirável biografia de James Joyce escrita pelo americano Richard Ellmann. “Os Woolfs disseram-lhe (à emissária de Joyce) que não poderiam imprimir (‘Ulysses’) porque levaria dois anos na sua impressora manual, embora dissessem que estavam muito interessados nos quatro primeiros episódios que leram. Na verdade parecem tê-lo considerado ‘vulgar’, embora Katherine Mansfield, que deu uma olhada no manuscrito certo dia enquanto os visitara, tenha começado ridicularizando-o e depois de repente tenha dito: ‘Mas há qualquer coisa nisso: uma cena que deveria figurar, suponho, na história da literatura’.”
A história de Virginia Woolf escritora é tão interessante como a de Virginia Woolf editora. T.S. Eliot foi amigo de Virginia e a Hogarth Press editou seus primeiros poemas e o mais famoso, “A Terra Estéril”. Virginia tentou tirar T.S. Eliot do emprego em um banco. Mas não conseguiu. Mais tarde, ficou irada porque Eliot se tornou editor de uma casa rival, The Criterion.
Em 1919, Virginia publica “Noite e Dia”. A crítica não gostou. E.M. Forster (1879-1970) e Katherine Mansfield (1888-1923) odiaram. Mas Forster, amigo, foi elegante e discreto. Disse que o livro não era melhor que “The Voyage Out”. (Forster mais tarde ficou chateado com algumas críticas ferinas de Virginia.) Mansfield foi dura: “Noite e Dia” era “uma mentira da alma. Falando sobre esnobismo intelectual — o livro dela fede a isso. (Mas não posso dizê-lo.) É muito longo e cansativo”. Virginia, que não sabia assimilar criticas, ficou abalada.
Mas Virginia se curava dos petardos da crítica de um modo extraordinário: no lugar de ficar bloqueada, produzia mais, e melhor. Se o romance anterior fosse considerado ruim, até pelos amigos que adorava, como Forster, procurava escrever outro melhor, mais inventivo. Foi o que ocorreu depois de “Noite e Dia”. Em 1922, publicou pela Hogarth Press “O Quarto de Jacob”. T.S. Eliot festejou: “Você se libertou de qualquer compromisso com o romance tradicional e seu talento original. Parece-me que construiu uma ponte sobre certa lacuna que existia entre seus outros romances e a prosa experimental de ‘Monday or tuesday’, conseguindo um sucesso notável”.
“O Quarto de Jacob”, para Quentin Bell, marca o inicio de sua maturidade e fama. Em 1925 Virginia publicou “Mrs. Dalloway”, que agradou à crítica. Forster elogiou “Mrs. Dolloway”. Thomas Hardy leu “The Commom Reader” com prazer. Virginia ficou maravilhada.
Entre 1925 e 1928, Virginia lança “Passeio ao Farol” e concebe “As Ondas”. Nesse período ela conhece Vita, a sua grande paixão. Vita era lésbica, mas casada, como Virginia. Quentin Bell é discreto e diz pouco sobre o assunto. Tudo indica que as duas não chegaram a ter um caso no sentido moderníssimo. Vita escreveu para Virginia: Você gosta mais das pessoas pelo cérebro do que pelo coração. Fosse hoje, o texto de Vita teria acréscimo: Você gosta mais das pessoas pelo cérebro do que pelo coração e pelo corpo.
Na verdade, Virginia era de uma carência extremada e todo mundo que lhe dava atenção recebia alguma esperança, de sexo ou afeto. Só que, afeto, tudo bem, sexo, nada. Pelo menos, a se acreditar na versão do sobrinho.
Quem leu “Orlando” sabe que Vita é Orlando. Para Quentin Bell, Orlando é o único dos romances de Virginia que se aproxima da emoção sexual, ou antes, homossexual; pois, enquanto o herói/heroína sofre uma transformação física, sendo no começo um esplêndido jovem e depois uma linda dama, a metamorfose psicológica é muito menos completa. O livro vendeu bem. Mas Orlando, sabia Virginia, não era um grande livro. Julgamento que os leitores de hoje não partilham, sobretudo por que as questões sexuais se tornaram mais importantes, na avaliação do romance, do que as literárias.
Em 1931, Virginia, a mulher que adorava charutos, publica “As Ondas”, para os críticos, sua obra-prima. Leonard Woolf, que sempre opinava, criticamente, sobre os livros de Virginia, disse: O livro é uma obra-prima, a melhor das suas obras. Ela adorou. Leonard era suspeito, até por que conhecia a fragilidade emocional de Virginia, mas era, ao mesmo tempo, prudente, justo e rigoroso.
O indefectível E. M. Forster escreveu que encontrara um clássico. A opinião dele era muito respeitada por Virginia. Um tinha inveja do outro. Mas, éticos, respeitavam as diferenças entre suas obras. Virginia gostava de conversar sobre homossexualismo com Forster, que adorava rapazes.
Virginia não gostava da crítica acadêmica, que achava estéril. Talvez fosse uma vingança por não ter obtido educação universitária. Talvez fosse pela percepção de que, como denuncia Gore Vidal, muitos teóricos da literatura querem substituir a literatura pela teoria literária.
Quentin Bell registra um aspecto curioso: Virginia adorava mexericos, fofoca, e dizia o que pensava, não importando as consequências. Outra coisa curiosa: como Joyce e outras, ela aproveitou a história de sua família e as relações com os amigos nos seus romances. Vida e obra, estetizadas, estão ligadíssimas e indissociáveis em Virginia. Mas é óbvio que a escritora não escreve biografias literárias e, claro, tinha uma imaginação poderosa.
Na década de 30, alguns críticos atacam Virginia, deixando-a desequilibrada emocionalmente. O mais virulento, Wyndham Lewis, escreve: Ela é sobremodo insignificante. Ninguém mais a leva a sério. Os críticos de esquerda não atacavam Virginia. Stephen Spender e Cecil Day-Lewis (pai de Daniel Day-Lewis, ator de “A Insustentável Leveza do Ser” e “Meu Pé Esquerdo”) gostavam de sua obra.
Em 1937, Virgínia pública “Os Anos” e sente a loucura chegando. Leonard achou o livro ruim, mas ficou calado, ou melhor, temendo que Virginia se matasse, mentiu: Acho que é extraordinariamente bom. Virginia sabia que o livro era ruim. O economista Keynes gostou do livro, de forma irrestrita. Em 1939, Virginia foi ver Freud, que estava exilado em Londres. Ele teria impressionado Virginia como um homem alerta. Mas torto, encarquilhado muito velho e a velha chama agora bruxuleante. Freud disse a Virginia e Leonard que seria necessária uma geração para eliminar aquele veneno [o nazismo de Hitler].
Por causa da Segunda Guerra Mundial, Leonard e Virginia Woolf chegaram a pensar em suicídio. Obtiveram até uma dose letal de morfina. Mas, com Londres bombardeada, Virginia deixou de falar em suicídio. Numa carta a Ethel Smyth, escreveu: … o que tocou e na verdade feriu o meu coração em Londres [durante os bombardeios dos nazistas] foi aquela velha mulher, suja de fuligem nos aposentos dos fundos, preparando-se, depois de um ataque aéreo, para enfrentar o próximo… E também a paixão da minha vida, a cidade de Londres — ver Londres em escombros, isso também atingiu meu coração.
No início de 1941, Virginia estava desesperada, louca. Mesmo assim tentou convencer a médica Octavia Wilberforce, uma amiga, de que não estava doente mentalmente. Mas confessou partes de seus medos. Medos de que o passado voltaria, de que nunca mais conseguiria escrever.
É triste e pungente como Quentin Bell fala do fim de sua tia escritora: “Na manhã de sexta-feira, 28 de março, um dia claro, luminoso e frio, Virginia foi como de costume ao seu estúdio no jardim. Lá, escreveu duas cartas, uma para Leonard e outra para Vanessa — as duas pessoas que mais amava. Nas duas cartas explicava que vinha ouvindo vozes e acreditava que nunca mais ficaria boa; não podia continuar estragando a vida de Leonard. Ela colocou o bilhete sobre a lareira da sala de estar, e cerca de 11h30 esgueirou-se para fora, levando sua bengala de passeio; e atravessou os prados até o rio. Leonard acreditava que ela já havia feito uma tentativa para se afogar: assim, teria aprendido com o fracasso, e estava decidida a não falhar de novo. Deixando a bengala na margem, ela esforçou-se para pôr uma grande pedra no bolso do casaco. Depois encaminhou-se para a morte, ‘a única experiência’, dissera um dia a Vita, ‘que nunca descreverei’”.
Última carta a Leonard Woolf
Querido, tenho certeza de que estou enlouquecendo de novo. Sinto que não podemos passar por outra daquelas terríveis fases. E desta vez não ficarei curada. Começo a ouvir vozes, e não posso me concentrar. Assim, estou fazendo o que me parece melhor. Você me deu a maior felicidade possível. Não creio que duas pessoas pudessem ser mais felizes até chegar esta doença terrível. Não consigo mais lutar. Sei que estou estragando a sua vida e que sem mim você poderá trabalhar. E você vai, eu sei. Está vendo, nem consigo mais escrever adequadamente.
Não consigo ler. O que quero dizer é que devo a você toda a felicidade da minha vida. Você foi absolutamente paciente comigo e incrivelmente bom. Quero dizer isso — e todo mundo sabe. Se alguém pudesse me salvar, teria sido você. Perdi tudo, menos a certeza da sua bondade. Não posso mais continuar estragando sua vida. Não creio que duas pessoas tenham sido mais felizes do que nós fomos.
Virginia Woolf tentou ‘curar’ sua loucura pelo suicídio publicado primeiro em https://www.revistabula.com
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JANUARY 25: Virginia Woolf (1882-1941)
Dear readers,
Today we will explore the life and affections of a favourite writer of mine - Virginia Woolf. This first post will be echoed by reviews of several of her books later this year, which is why we won’t linger too much on praising her literary genius.
To put you in the right mood, you can listen here to the only recording of her voice, first broadcast by the BBC on 29 April 1937 as part of a series called Words Fail Me.
British writer Virginia Woolf was born Adeline Virginia Stephen on January 25, 1882 in a stepfamily, to Julia Prinsep Jackson, who was Julia Margaret Cameron’s niece and a Pre-Raphaelite model, and to Sir Leslie Stephen, who was previously William Thackeray’s son-in-law, and a historian, critic and biographer. Such parents came with friends from Victorian literary circles such as Henry James, Lewes and Lowell who were regularly invited at their house in Kensington, London, and influenced the education of the Stephen children.
Virginia Stephen by George Charles Beresford, July 1902
Listing the family tragedies that occurred while Virginia was still young is heartbreaking. Her half-sister Laura was sent to an asylum when Virginia was 9. Then her mother died when she was 13, shortly followed by her other half-sister Stella. To top it all, Virginia and her sister Vanessa were sexually abused as children and teenagers by their adult half-brothers. (Thankfully their crime was acknowledged and denounced by both women later on!)
This left the remaining four children, Vanessa, Thoby, Virginia and Adrian to deal with a tyrannical, capricious father too occupied with his life’s work – editing the Dictionary of National Biographies. At that time, Virginia suffered (presumably as a result) several nervous breakdowns, and subsequent recurring depressive periods, for which doctors prescribed “Rest Cures” (ever read The Yellow Wallpaper by Charlotte Perkins Gilman?). Actually similar mood swings continued to torment her all her life, and partly led to her suicide in the River Ouse on March 28, 1941.
Vanessa et Virginia playing cricket at their family’s summer home in Cornwall, 1893 – a idyllic setting which inspired To the Lighthouse (1927) a vibrant homage to their mother.
While the boys were given a proper education and sent to Cambridge, that would have been inappropriate for the girls. At least, Virginia could educate herself thanks to her father’s huge private library – and, boy, did she read! Along with learning Ancient Greek, Latin, and German, she developed a yearning to write, starting with diaries, and a family newspaper, illustrated by Vanessa who took art classes. Furthermore, their brothers brought home their friends from Cambridge, which was the beginning of what we know as the Bloomsbury Group.
However it only officially became the Bloomsbury Group when the Stephen siblings actually left Kensington at their father’s death in 1902, and set up house in Bloomsbury, where they started to live a bohemian life and regularly welcomed Lytton Strachey, Duncan Grant, Roger Fry, John Maynard Keynes and others in their midst. They had so much fun (ever heard of the Dreadnought Hoax?) breaking the codes of Victorian society, in art, literature, but also in their social life – they had quite the progressive approach to sexuality. Though if homosexuality between men was accepted and even celebrated, as much as heterosexuality, that didn’t seem to include lesbianism – how progressive…
Socialising in the sun. From left to right, Angelica/Vanessa/Clive Bell, Virginia Woolf, Maynard Keynes. Photo from Virginia Woolf’s Monk’s House photo album, before 1939.
But then, Thoby died, and soon afterwards, her sister Vanessa, to whom Virginia was really close, married art critic Clive Bell. After a fake marriage proposal by Lytton, the latter urged his friend Leonard Woolf, who was abroad at the time, to marry Virginia. They met and indeed married in 1912. Critics often disagree on their relationship and Leonard’s role in Virginia’s life – the saviour, or the prison ward. On the one hand, he refused her a child, giving her mental instability as a pretext and influencing the doctors’ ultimate decision, and was often painted as the poor husband of a frigid Virginia in the latter’s first biographies – a portrait shaped by his perspective, which hides his own issues regarding sex and women. But on the other hand, he nurtured Virginia’s talent, tried to keep her stable by moving to the countryside, giving her a hobby (as prescribed by doctors) by creating the Hogarth Press, which published her own books, but also that of the members of the Bloomsbury Group, other contemporary writers, and the first English translation of Sigmund Freud’s work. At least, most critics agree to say that, without Leonard, Virginia probably wouldn’t have lived as long - and written as much - as she did.
“Virginia Woolf” (c.1912) portrait by Vanessa Bell. Vita Sackville-West as “Lady in a Red Hat” (1918) by William Strang
Nevertheless, Virginia’s affections were more often directed towards women – it started with her first crush, her cousin Madge, then with Violet Dickinson, 17 years her senior, who helped her through the death of her father. Later on, she intrigued and impressed the extravagant Ottoline Morrell, who developed a crush on her and often invited her to her salons, though Virginia would often ridicule her and mock her behind her back – aware of the power she yielded thanks to her words and wit, she always liked to hold court in society, where she gave satirical portrayals of everybody (while drinking champagne). Composer Ethel Smyth also fell for Virginia, and both women remained friends till the latter’s death.
Her most famous relationship though was with Vita Sackville West, whom she met in 1922. Their affair led Virginia to write to - and about - her lover. She described Vita as “pink glowing, grape clustered, pearl hung” and wrote to her “you only be a careful dolphin in your gambolling, or you’ll find Virginia’s soft crevices lined with hooks!” Their romance led to the writing of Orlando, qualified by Vita’s son as “the longest and most charming love letter in literature,” but also inspired other writers, such as Edna O’Brien, Eileen Atkins, Christine Orban…
Virginia was fascinated by bisexuality (as the fusion of both male and female identities in one person, not the modern understanding of the term) and experimented with the ideas of genders, and heterosexual and homosexual relationships in her writing. If you are interested in that reflection, I recommend the recent lesbian reading of her works (both fiction and non-fiction).
Want to know more? Here are some anecdotes about her...
- Lise
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London, 1905: The city is alight with change, and the Stephen siblings are at the forefront. Vanessa, Virginia, Thoby, and Adrian are leaving behind their childhood home and taking a house in the leafy heart of avant-garde Bloomsbury. There they bring together a glittering circle of bright, outrageous artistic friends who will grow into legend and come to be known as the Bloomsbury Group. And at the center of this charmed circle are the devoted, gifted sisters: Vanessa, the painter, and Virginia, the writer. But the landscape shifts when Vanessa unexpectedly falls in love and her sister feels dangerously abandoned. Eerily possessive, charismatic, manipulative, and brilliant, Virginia has always lived in the shelter of Vanessa’s constant attention and encouragement. Without it, she careens toward self-destruction and madness. As tragedy and betrayal threaten to destroy the family, Vanessa must decide if it is finally time to protect her own happiness above all else.
Call Number: F PAR
Also available in: large print, ebook, eaudiobook
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“Tutto quello che ti chiedo è di non far leggere queste lettere a nessuno”. Quando Virginia Woolf fece risorgere il fratello Thoby, morto di tifo
Alcune ore dopo aver assistito alla morte del fratello ventiseienne, Virginia Stephen scrisse una lettera a una delle amiche più care. Era il 20 novembre 1906 e in quella lettera non fece il minimo accenno alla morte del fratello, non lo nominò neppure. Virginia aveva ventiquattro anni: ne mancavano sei al matrimonio che le avrebbe dato il nome di Virginia Woolf e nove alla pubblicazione del suo primo romanzo. Lei e i tre fratelli erano appena tornati da un viaggio in Grecia e in Turchia, finito in tragedia. Thoby Stephen, il fratello maggiore, vi aveva contratto il tifo.
*
Thoby Stephen, il fratello di Virginia Woolf, muore nel 1906, a causa del tifo contratto in Grecia. Il primo nucleo del futuro Bloomsbury Group conta anche lui
La lettera scritta in quel giorno funesto da Virginia era destinata a Violet Dickinson, che aveva accompagnato gli Stephen in viaggio. Anche lei era rimasta contagiata. Da loro ritorno a Londra le due donne si erano scambiate svariate lettere, nelle quali predominava spesso l’ansia per la salute di Thoby e di Violet. È strano che Virginia abbia omesso di far parola con Violet della morte del fratello. Tuttavia, ancor più strana è la lettera inviata dopo due giorni: questa volta si parla di lui, ma solo per mentire in modo sconvolgente: “Date le circostanze, Thoby non sta poi tanto male. Non siamo in pensiero per lui”.
Virginia continuò a mentire all’amica per tutto il mese successivo. Nelle diciannove lettere inviate nell’arco di ventotto giorni, si inventò una storia colorita sulla lenta ripresa di Thoby. A tre giorni dalla morte: “La situazione è invariata. Nel pomeriggio ha avuto ancora la febbre sui 40, d’altro canto il polso è buono, e riesce a bere del latte”. Cinque giorni dopo: “Thoby sta alla grande”. Nove giorni: “Il nostro caro Thoby è ancora a letto, ma anche da sdraiato la sua vitalità non è da meno di quella di un sacco di gente che va in giro sulle proprie gambe”. Dodici giorni: “Disegna uccelli stando a letto”. Dopo due settimane, Virginia include se stessa nella narrazione: “Abbiamo iniziato a corteggiare le infermiere, le chiamiamo ‘mia signora’ e loro fanno a maglia delle cravattine celesti che gli promettono in dono se fa il bravo”. Dopo circa un mese dalla morte del fratello, Virginia non smetteva di parlare delle loro aspettative: “Sta facendo dei progressi, si parla di rimettersi in piedi, di andar via, e del futuro”.
*
Il futuro. Nella situazione in cui mi trovo a scrivere oggi, ben comprendo il desiderio di Virginia di lasciarsi alle spalle un’atmosfera di malattia, rimettersi in piedi e andarsene, lasciarsi portare verso un futuro che ancora non si intravede, e che potrebbe non arrivare. Desidero saltare in macchina e guidare senza sosta. Talvolta mi sorprendo a pensare che se arrivassi abbastanza lontano potrei raggiungere non solo un luogo diverso ma anche un altro tempo, affrancato dal dolore e dalla paura odierni. Una fantasia frammista a preoccupazione: forse noi, come Virginia, nei nostri infervorati discorsi riguardo a quello che faremo quando “tutto sarà finito” ci inganniamo l’un l’altro, oltre a ingannare noi stessi? Oppure, non potrebbero i nostri sogni di fuga sfociare altrove, sui mondi alternativi in cui vorremmo vivere ma che ancora non sappiamo descrivere? È possibile che il desiderio sia un modo di conoscere?
*
Mi attrae questa corrispondenza giovanile della Woolf – la sconcertante miscela di dolore e speranza, perdita e desiderio – poiché vi riconosco l’audace sperimentazione, da parte di un autore, del potenziale trasformativo dell’immaginazione. Per certi versi, tutte le lettere operano in questo modo: se io oggi ti scrivo una lettera, le mie parole saranno lette da te soltanto a giorni di distanza. La nostra amicizia dovrà estendersi per contenere questa asincronia. Sebbene il presente della mia lettera non esista per te al di fuori di queste pagine, la sutura del mio presente col tuo ci farà uscire entrambi dalle nostre vite, sia pure per un istante, per accedere a una temporalità astratta eppure condivisa. L’asincronia diventa, in campo epistolare, una forma peculiare di intimità. […]
All’epoca della morte di Thoby, Virginia Stephen e Violet Dickinson erano state in corrispondenza da circa cinque anni. Virginia aveva iniziato a scrivere a Violet all’età di venti anni (le lettere figurano tra le centinaia pubblicate nel primo volume delle Collected Letters della Woolf), all’epoca era stato da poco diagnosticato il cancro al padre. Violet ne aveva diciassette più di lei ed era anche più alta di circa trenta centimetri. “Vorrei che tu fossi un canguro”, le scriveva Virginia, in preda all’ansia e a una profonda tristezza a causa del declino del padre, “e che tu avessi una sacca per tenerci i cangurini”. Il desiderio di protezione materna è evidente in una fotografia di quel periodo che ritrae le due donne in piedi l’una accanto all’altra. Virginia si appoggia a Violet e la tiene per mano; vuole essere accolta e guarda l’obiettivo come per comunicare quel desiderio.
*
Le lettere diedero alle due donne un modo ulteriore di abbracciarsi. Virginia si definiva la “Sparrowy” di Violet (nomignolo derivato da sparrow, passerotto), e si offriva alla donna più anziana come se fosse un grazioso animale. Nel periodo in cui il padre si stava riprendendo da un intervento chirurgico, Virginia domandò a Violet “Vuoi davvero bene alla Sparrowy? Lei ti tiene tra le braccia piumate per farti sentire il cuore che le batte in petto”. La lettera diveniva il modo in cui Virginia poteva, non solo esprimere un desiderio ma, per così dire, metterlo in atto: serrava l’amica tra le braccia piumate, poi ripiegava il foglio di carta destinato a finire tra le mani di Violet. I supporti della scrittura – penna, inchiostro, carta – sostituivano il corpo distante di Violet. In un’altra lettera scriveva, “lo vedi come l’inchiostro diventa denso a questo punto… così all’improvviso”. Non sappiamo se il desiderio sessuale tra le due donne sia mai andato oltre la pagina: alcuni passi sembrano suggerirlo. “Ti assaporerò con tenerezza”, prometteva Virginia.
*
Durante il periodo della loro corrispondenza, due anni prima della morte di Thoby, Virginia aveva perso il padre. Aveva continuato a scrivere a Violet anche nei momenti peggiori. Le lettere si erano fatte più brevi: ragguagli quotidiani sulla febbre, l’umore del padre, aggiornamenti sulle prognosi. Ma notiamo che, in mezzo a quell’orrore, Virginia si rivolgeva a Violet per avere il conforto di una lettera. Mentre assisteva alle sofferenze del padre fino all’amara fine, Virginia scriveva: “Sembra davvero dura. La vita, ne sono certa, non gli dà alcun piacere – sarebbe stato lieto di morire una settimana fa – ma non ci si può fare niente. È così crudele dover aspettare e vederlo indebolirsi giorno dopo giorno. Ma sembra che siano queste le cose che ci tocca subire in questo mondo brutale”. Quindi, dopo aver riconosciuto l’orribile verità, chiedeva, in un poscritto, il balsamo che soltanto una lettera di Violet le avrebbe procurato: “Raccontami dei tuoi vestiti”, scriveva “e dei tuoi successi”.
Sprofondata nel dolore per la morte del padre, Virginia si abbandonava a un esaurimento nervoso. E, a tempo debito, si era lasciata andare tra le braccia di Violet, nella cui casa, a Welwyn, vicino a Londra, Virginia si stava riprendendo. In quel periodo non aveva tenuto alcuna corrispondenza, ma dopo tre mesi, quando si reputò che fosse in grado di riunirsi ai fratelli, scriveva a Violet: “Credo che finalmente il sangue torni ad affluirmi al cervello. È una sensazione davvero strana, come se una parte morta di me tornasse alla vita”. Riprendere a vivere, per Virginia, significava ritrovare la capacità di pensare. Come conseguenza immediata le era venuto un gran desiderio di scrivere: “Voglio cominciare a lavorare. Sono certa di saper scrivere, e un giorno di questi intendo scrivere un buon libro”.
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Le lettere scritte da Virginia a Violet durante la malattia del padre dimostrano il potere della corrispondenza di tenere compagnia, dare conforto, e persino amore. Tuttavia, nelle lettere scritte, due anni dopo, a seguito della morte di Thoby sembra che vi fosse dell’altro in atto. Se il destinatario di una lettera detiene un certo tipo di potere (quello di abitare il mondo di un altro, e di soffermarcisi), il mittente ne ha uno di altro genere, estremo quanto l’altro: il potere di mettere in scena, il potere di essere reticente, e persino quello di ingannare.
Violet apprese della morte di Thoby solo dopo un mese, quando fu menzionata in via incidentale nell’articolo di una rivista. Virginia le scrisse immediatamente: “Mi detesti per aver detto tante bugie? Lo sai bene che dovevamo fare così”. Lei doveva mentire, intende Virginia, allo scopo di proteggere Violet, che stava guarendo dalla malattia. Non vi è dubbio che Virginia si preoccupasse moltissimo per Violet; aveva avuto sotto gli occhi la drammatica prova di quanto poteva essere letale il tifo. Nelle lettere Virginia metteva di continuo in relazione i due casi. Il giorno prima della morte di Thoby – l’infezione gli aveva causato la perforazione dell’intestino e quindi una peritonite – Virginia aveva scritto a Violet: “Non so di che tipo siano le tue macchie. Thoby è sicuro di avere una febbre più alta della tua, e siamo entrambi un po’ sprezzanti del tifo dei Dickinson in confronto a quello degli Stephen”. L’umorismo macabro metteva in ombra la gravità dei sintomi di Thoby, come pure la pressante preoccupazione di Virginia per Violet. Nei giorni seguenti, evitando di ammetterne la morte, Virginia si servì del caso del fratello come elemento di confronto per comprendere più a fondo quello dell’amica: “Immagino che adesso tu ti trovi più o meno nel suo stadio della malattia, credo soltanto che lui abbia avuto una crisi molto più acuta”. Dieci giorni più tardi, Virginia, come una ventriloqua, dà la parola al fratello morto: “Lui vuole sapere se ti è permesso del cibo solido”. La resurrezione epistolare di Thoby messa in atto da Virginia le dava il modo di esprimere il fervido desiderio che Violet si salvasse e tornasse in buona salute. “Ora, cara Violet”, scriveva, dopo circa un mese di bugie elaborate, “prendi le medicine e pensa a me. Ci rivedremo mai?”.
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Tuttavia, la messa in scena di Virginia non fu soltanto a beneficio di Violet. In effetti, aveva anche trovato il modo di fingere, per se stessa, che suo fratello fosse sopravvissuto. Nella magistrale biografia della Woolf, Hermione Lee scrive che queste strane lettere “indicano l’inizio di una fase in cui lei manteneva Thoby in vita facendolo esistere in una fiction”. Negli anni la Woolf avrebbe riattivato questa forma mentale elegiaca, dandole forma compiuta nei romanzi; versioni di Thoby si ritrovano in Jacob’s Room e in The waves (1931), e versioni dei loro genitori in To the Lighthouse (1927). In A Sketch of the Past, un saggio autobiografico intrapreso verso il termine della vita, la Woolf spiegava che era stata la capacità di reagire a uno ‘shock’ a farla diventare una scrittrice. “Solo esprimendolo in parole [lo shock] sono riuscita a guarirlo, facendogli perdere il suo potere di ferirmi; riunire le parti recise mi dà allora una grande gioia, forse perché così facendo elimino il dolore. Questo è forse il piacere più grande che io conosca”.
Il trauma della morte di Thoby – un vero ‘shock’ – avrebbe senz’altro potuto distruggerla. Scrivere quelle lettere a Violet aveva dato a Virginia la possibilità di mantenere un contatto col fratello ormai perduto e di aggrapparsi a un’amica di cui temeva la perdita.
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Per certi versi, le sue menzogne non potevano certo reggere a lungo. Thoby era morto, e Violet lo avrebbe saputo ben presto. Tuttavia, offrendole una temporanea dilazione dalla realtà che incombeva, le bugie di Virginia – per quanto imbarazzanti, agghiaccianti, vergognose – additavano una fonte di sollievo più durevole di sé stesse. La scrittura sarebbe stata, per lei, uno stile di vita. Persino di fronte a una perdita traumatica, la scrittura era in grado di procurarle piacere. E la scrittura epistolare in particolar modo – col suo potere di far scaturire la presenza dall’assenza, di contrastare il corso ordinario del tempo – le avrebbe reso possibile non soltanto di testimoniare il passato ma anche di rianimarlo, farlo confluire nel presente, fargli spazio in un futuro che valesse la pena vivere. Un lavoro che l’avrebbe assorbita del tutto. Proprio nel bel mezzo del suo dolore per Thoby e delle bugie raccontate a Violet, Virginia produsse un’autodiagnosi in una lettera a un’altra amica, Nelly Cecil: “Mi rendo conto che più lavoro e meno parlo meglio è – o almeno il male minore – per tutti quanti al momento”.
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Tornando al periodo in cui Virginia stava a guardare con ansia il padre che si spegneva, disse a Violet che intendeva conservare le lettere ricevute da lei: “Non ho mai tenuto neppure una lettera in tutta la vita – ma dovrebbe restare una traccia della nostra affettuosa amicizia”. Eppure, Virginia non conservò le lettere di Violet, neppure una. Violet, dal canto suo, ricopiò a macchina le lettere di Virginia, rilegandole in alcuni volumi. Nel 1936, molti anni dopo che le due amiche si erano allontanate, in quello che Hermione Lee definisce “un bizzarro momento di rimprovero o di richiamo”, Violet le restituì le lettere. Virginia restò sconcertata dalla versione di sé che vi era sopravvissuta. “Ma ti piace quella ragazza?” domandava, in una lettera. “Io non ne sono affatto sicura”. Virginia Woolf, allora l’autrice cinquantaquattrenne di sette romanzi, implorò l’amica: “tutto quello che ti chiedo e di non far leggere quelle lettere a nessun altro”.
presumibile che la Woolf si sentisse imbarazzata dalle giovanili effusioni di quella ragazza; forse provava vergogna per le bugie che aveva ritenuto necessario raccontare. Doversi confrontare in età matura con la testimonianza scritta delle effusioni di un affetto giovanile equivale a dover rispondere alla domanda da capogiro su chi si è veramente, su quale relazione sussiste con la persona che eravamo; si devono rimettere insieme le diverse identità che si sono succedute nel tempo. Rileggendo le lettere scritte a Violet, Virginia deve essersi resa conto che Thoby non avrebbe mai avuto la possibilità di rimettersi in discussione.
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Dalla morte del fratello qualcosa si era alterato nella vita della Woolf. Nel 1929, il giorno successivo al Natale, scrive nel diario di percepire l’incombere della sua presenza; “L’ombra di Thoby indugia… spettro stravagante”. Eppure, nello stesso tempo, sembra che la attenda nel futuro. Lo immagina ad aspettarla, da qualche parte, al termine della vita.: “Talvolta penso alla morte come al punto d’arrivo di una gita nella quale mi sono avventurata quando lui è morto. Come se al mio arrivo gli dicessi: bene eccoti qua”. Come se la sua scomparsa l’avesse messa in cammino verso la propria morte. Come se la sua non fosse altro che una lettera, e Thoby il destinatario. Come se ogni versione di se stessa – persino la ragazza ventenne, o la donna morta che presto sarebbe stata – potessero in qualche modo restare in vita tra le sue pieghe. Ed era là che lei si trovava.
Kamran Javadizadeh
*Questo articolo è stato pubblicato in forma più estesa sul “New Yorker”; la traduzione è di Anna Rocchi
**In copertina: Virginia Woolf con il padre, Leslie Stephen
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Mary Norris, Greek to Me (2019)
A few years ago, in the Frankfurt airport on the way home from Greece, I bought a copy of Virginia Woolf’s “The Common Reader,” which includes her essay “On Not Knowing Greek.” I already had the book at home, but I was impressed that anything by Woolf was considered airport reading. When I was about ten years old, my father, a pragmatic man, had refused to let me study Latin, and for some reason I assumed that “On Not Knowing Greek” was about how Woolf’s father, too, had prevented his daughter from studying a dead language. I pictured young Virginia Stephen sulking in a room of her own, an indecipherable alphabet streaming through her consciousness, while her father and her brother, downstairs in the library, feasted on Plato and Aristotle.
Well, apparently I had read only the title of the essay. Of course Virginia Woolf knew Greek. She started studying ancient Greek for fun, at home, when she was about fifteen, later taking classes at King’s College London while her brother Thoby was studying at Cambridge. Though she did not enter the academy, she had private tutorials for several years with Miss Janet Case, who, as a student at Cambridge, had played Athena in an 1885 production of “The Eumenides” of Aeschylus. For Woolf, “not knowing Greek” meant that it was impossible truly to know what the playwright meant, partly because we don’t know what the ancient language sounded like. “We can never hope to get the whole fling of a sentence in Greek as we do in English,” she writes. In Aeschylus’ “Agamemnon,” for instance, the first utterance of Cassandra—the seer brought to Mycenae from Troy as war booty, fated never to be believed—is not just untranslatable but unintelligible: ὀτοτοτοτοι̑ is not even a word, just inarticulate syllables that represent the barbarian princess’s howl of despair. “The naked cry,” Woolf calls it. Both the chorus and Clytemnestra compare Cassandra’s lament to birdsong. The best an English translation can do is to transliterate the Greek letters—“Ototototoi”—or go with something like “Woe is me!” or “Alas!” For these reasons, Woolf writes, reading Greek in translation is “useless.” Woolf did not know Greek the way bees do not know pollen.
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