#storia della scienza
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levysoft · 7 months ago
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Nato nel 1902 e morto novant’anni dopo, Günther Anders, “uomo di statura media con i capelli castani e gli occhi scuri […] spesso fotografato con gli occhiali e un completo elegante” (ChatGPT), cugino di Walter Benjamin, primo marito di Hannah Arendt, e amico di Stefan Zweig e Bertolt Brecht, ha attraversato tutti i drammi del Ventesimo secolo, traendone una filosofia inquieta che fa emergere la paura a principio di legittima realtà. Allievo di Heidegger, non condividerà mai totalmente la sua critica della modernità tecnica che avrebbe distrutto “la capacità dell’uomo di costruire e abitare nel campo dell’essenziale”. Tuttavia, in L’uomo è antiquato descriverà con finezza la nostra difficoltà a adattare l’immaginazione alle straordinarie produzioni tecniche nate per nostra mano: la tecnica mette soggezione e l’uomo, di fronte alla perfezione degli strumenti che ha creato, prova vergogna della propria contingenza e della propria finitezza. Questa sensazione di pericolo rispetto alla tecnica, quello che proviamo nel vedere ChatGPT scrivere in pochi decimi di secondo il progetto completo di un libro sulla termodinamica di Maxwell, sulla posta in gioco dell’invenzione dei fuochi d’artificio nella Cina imperiale della dinastia Tang, o nel rispondere in modo estremamente misurato a una domanda complessa (per esempio: “La Cina diventerà la prima potenza mondiale?”), questa sensazione Günther Anders ha proposto di chiamarla “vergogna prometeica”.
Se la formulazione è recente, il gioco di fascinazione-repulsione verso le macchine artificiali percorre tutta la nostra storia culturale. È la singolarità auspicata dal ciclo dei Terminator (1994-2019) che mette in scena la presa di possesso del mondo a opera di una IA globale e guerriera nella fase della singolarità tecnologica. Gli intensi dibattiti contemporanei sul divario tra l’essere vivente e la macchina, le nozioni di autonomia e di originalità, il modo in cui le intelligenze artificiali modificano il nostro rapporto con la memoria e la creazione, riformulano le nostre categorie filosofiche, etiche ed estetiche interpellando l’idea stessa di cultura, e sono da considerare a lunghissimo termine. L’IA è un insieme di tecnologie indissociabile dal sogno e dalla fantasia; le sue applicazioni sono l’esito di ideologie e valori remoti, e a volte molto vecchi: l’antichità greca meditava già sulle creature animate ispirate da animali o da esseri umani creati da Efesto, come Talo, il gigante di bronzo che secondo Apollodoro era stato incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola di Creta, o come quei primi androidi domestici descritti nel Libro diciottesimo dell’Iliade: “due ancelle d’oro sostenevano il loro padrone, simili a giovinette vive: esse avevano intelligenza [il famoso noos], voce e forza, erano esperte nei lavori delle dee immortali”. Forse questi miti sono nutriti di tecnologie oggi scomparse, come ha ipotizzato Adrienne Mayor in Gods and Robots […].
Nel mezzanino dell’ala Denon, il museo del Louvre conserva un’impressionante maschera totem meccanica, a immagine del dio Anubi con la testa di sciacallo, utilizzata per far parlare la divinità. Il primo trattato sugli automi, del matematico e meccanico greco Erone di Alessandria, risale al 125 d.C. e contribuisce a una fascinazione che attraversa i secoli e le culture – dal celebre uccello animato a vapore creato intorno al 380 a.C. da Archita di Taranto, un amico di Platone, al leone meccanico concepito da Leonardo da Vinci, senza dimenticare gli androidi cinesi della dinastia Zhou capaci di cantare, e la cameriera meccanica inventata dall’ingegnere arabo al-Jazari. Fascinazione che alimenta la fantasia sul potenziale magico delle macchine antropomorfe, di cui i robot contemporanei sono eredi, e che porta con sé sia il turbamento di uno sguardo esterno sulla condizione umana e la sua dimensione meccanica, sia il timore di una grande sostituzione con forme di vita autonome e superiori. La storia culturale alterna narrazioni dell’intelligenza artificiale protettrici (i soldati automatici che custodiscono le reliquie di Buddha evocati nel Lokapannatti indiano) e altre minacciose (il celebre Golem, figura d’argilla che si anima quando le si mette in bocca un foglio con su scritto il nome di Dio), ma che sfidano ovunque l’umanità dell’uomo con prodigi che continuano ad affascinare.
Le applicazioni dell’intelligenza artificiale sono l’esito di ideologie e valori remoti, e a volte molto vecchi.
[…] In realtà, come ha dimostrato Ellen Truitt in Medieval Robots, l’epoca dei cavalieri ha messo ossessivamente in scena gli automi: per fare solo qualche esempio, Lancillotto deve combattere contro degli automi di rame e armati di potenti spade create da “negromante”, e il santuario del Re pescatore dove si trova il Graal è custodito da villani anch’essi di rame. Le “meraviglie” costituite da cavalli di legno volanti o da “pesci-cavalieri” di ferro spaventano i lettori proprio come Biancifiore, la protagonista del romanzo eponimo, che, imprigionata in un giardino, scorge degli uccelli veri intenti a sedurre degli uccelli meccanici, perché ingannati dalla bellezza del loro canto. Ciò che l’inconscio elettronico di ChatGPT forse rimuove è la leggenda nera che circola a partire dal Quattordicesimo secolo secondo la quale Alberto il Grande, celebre filosofo scolastico soprannominato il “Dottore universale”, avrebbe costruito una testa di metallo che parlava e rispondeva alle domande che gli venivano poste. Il suo allievo, il futuro san Tommaso d’Aquino, “Dottore angelico”, si sarebbe spaventato e avrebbe distrutto quella prima intelligenza artificiale con un martello. La scolastica medievale condivideva con ChatGPT il gusto delle quodlibeta, vale a dire delle domande su qualsiasi argomento che dessero luogo a risposte contraddittorie, secondo un meccanismo ben lubrificato, la cui disumanizzazione era fonte di spavento.
La paura di una potenza invincibile e di un’intelligenza artificiale universale che tormenta le nostre distopie contemporanee è nutrita da tutta questa mitologia. Lungi dall’essere isolata dalla scienza, la fantasia vi è intrinsecamente legata, popolando l’immaginario degli ideatori e dei programmatori dell’IA. Yann LeCun, uno degli inventori delle reti convoluzionali, racconta l’influenza che ha avuto su di lui HAL 9000, il computer di fantasia di 2001: Odissea nello spazio, esperienza basilare per il giovane uomo che era e tramite per numerosi ricercatori di IA – come dimenticare il fatto che Norbert Wiener e Marvin Minsky, due padri fondatori dell’intelligenza artificiale, hanno scritto dei romanzi? Come ogni orizzonte di trasformazione radicale capace di sconvolgere le categorie fondamentali delle nostre rappresentazioni (la divisione tra il naturale e l’artificiale, l’animato e l’inanimato, e via dicendo) e le condizioni della nostra vita, promettendo di strappare l’essere umano alla sua solitudine metafisica e alla sua mortalità, e interrogando la nostra individualità e soggettività, l’IA è accompagnata da un’intera cultura della fantasia: pensiamo al cinema, da Metropolis di Fritz Lang (1927) a Ex Machina di Alex Garland, passando per 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville di Jean-Luc Godard, Blade Runner di Ridley Scott, A.I. – Intelligenza artificiale di Steven Spielberg, per citare le opere più significative.
Capaci di sviluppare personaggi di lunga durata permettendo di rielaborare il nostro approccio con l’ordinarietà, le serie tv hanno continuato su questa scia nel momento del trionfo industriale dell’IA: Battlestar Galactica, Raised by Wolves, Mr. Robot, Real Humans, o anche Almost Humans, e molti episodi di Black Mirror arrivano ad analizzarlo da vicino – tra questi in particolare il primo della seconda serie, intitolato “Be Right Back”, che mette in scena la sopravvivenza post-mortem di un giovane uomo grazie a una IA. In quale misura gli umani possono essere guidati da forme avanzate di psicologia sociale assistite dall’IA? Liberarsi della morte nel progetto postumanista non ha forse come contropartita robotizzare gli umani effettuando il loro personale upload? È la domanda posta senza mezzi termini dalla serie Westworld. Dove tutto è concesso.
Non solo la protagonista della serie, Maeve, arriva a prevedere le pulsioni dei suoi clienti e ad anticipare il loro comportamento leggendo dentro di loro alla stregua di una prostituta provetta (vedi stagione 1, episodio 6), ma il parco dei divertimenti è in realtà esso stesso un vasto esperimento di psicologia sociale. È il colpo di scena della prima stagione: la finalità del parco di attrazioni non è tanto insegnare ai robot a comportarsi come gli umani, ma registrare e analizzare una miriade di comportamenti umani individuali per controllarli in seguito attraverso delle IA (i cappelli da cowboy consegnati agli invitati sono in realtà scanner cerebrali). Nelle stagioni 2 e 3, la sfida, alla quale alcuni androidi collaborano con gli umani, sarà impedire che l’umanità finisca sotto il controllo di una IA centralizzata, Rehoboam, capace di prevedere la vita di ognuno e il divenire dell’umanità, identificando al volo gli individui che potrebbero ribellarsi. Il co-ideatore di Westworld, Jonathan Nolan, s’ispira qui tanto a Minority Reportquanto alla serie Person of Interest, da lui stesso creata nel 2011, che dipingeva un mondo di sorveglianza globale attraverso l’IA.
La paura di una potenza invincibile e di un’intelligenza artificiale universale che tormenta le nostre distopie contemporanee è nutrita da tutta questa mitologia.
L’orizzonte è il controllo dell’individuo, ridotto a un software (“un essere umano è solo un breve algoritmo, 10.247 righe di codice”, ci viene spiegato nella stagione 2), mediante un software superiore, quello dell’IA. L’utopia dell’umanizzazione dell’IA è accompagnata dalla distopia della datificazione e disumanizzazione degli uomini, dove avviene una prima forma di avvicinamento tra esseri umani e intelligenza artificiale: quella delle alienazioni. Così, nella fantascienza i temi della schiavitù dei robot, della loro rivolta prometeica e della guerra tra le specie sembrano consustanziali al tema dell’immaginazione delle creature artificiali, come il desiderio sessualizzato nei confronti di una donna artificiale. Ma se possiamo porre domande complesse che vanno al di là delle semplici reazioni di desiderio e di rigetto, lo dobbiamo precisamente a queste serie. La reversibilità della questione della differenza, l’intreccio di quesiti metafisici, le complicità e i complessi legami affettivi tra le specie, le nuove collaborazioni che possono instaurarsi tra loro riguardo a nemici o a progetti comuni, inducono a pensare a nuovi corpi freschi e a intelligenze artificiali al di fuori dei puri rapporti di forza dialettica.
Westworld, mettendo in scena donne vittime del razzismo e del determinismo di genere, è l’esempio stesso di questa convergenza di lotte che traspare fortemente anche in Real Humans. Così come la società di controllo dei racconti è denunciata dal mondo regolato dagli script degli androidi, i determinismi sociali negli umani e le regole del gioco sociale sono messi sotto accusa dalle camicie di forza algoritmiche degli androidi. Quando emergono l’idea di un aiuto reciproco possibile tra umani e non-umani per riconquistare i loro diritti reciproci e una visione della convivenza fondata sul riconoscimento delle differenze, alla questione metafisica della libertà subentra quella affettiva, e la problematica dell’autonomia lascia spazio a quella dell’interdipendenza.
[…] Mentre la gran parte dei francesi vede nell’IA solo una minaccia e gli usi impropri delle IA generative (per creare software pirata, immagini pedopornografiche personalizzate, fake news capaci d’influenzare il corso delle elezioni, e via dicendo) occupano le prime pagine dei giornali, è forse un bene difendere queste narrazioni della convivenza, dell’acclimatamento incrociato, della “diplomazia tra specie”, per impiegare il termine messo in circolazione da Baptiste Morizot a proposito di altri esseri viventi.
Un estratto da Vivere con ChatGPT. E se l’intelligenza artificiale ci rendesse più umani? di Alexandre Gefen (Treccani Libri, 2024). Treccani è l’editore di questa rivista.
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theactive-landscape · 5 years ago
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gregor-samsung · 5 years ago
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Negli ultimi decenni epidemiologi e microbiologi sono riusciti a comprendere perché certe epidemie possano manifestarsi e sopravvivere unicamente tra le grandi popolazioni umane. La spiegazione sta in alcuni tratti caratteristici delle patologie stesse: l’efficacia delle modalità di trasmissione, il decorso acuto, l’immunizzazione a vita dei soggetti che sopravvivono e la preferenza esclusiva per la specie umana. La trasmissione da una persona ammalata a una sana che si trovi nelle vicinanze avviene tramite propagazione dei microbi, espulsi attraverso vescicole essudanti, diffusi nell’aria da colpi di tosse e starnuti o immessi nelle acque attraverso le feci del soggetto ammalato. Le persone sane si infettano toccando il paziente o un oggetto da lui manipolato, respirandone il fiato oppure bevendo acqua contaminata. Poiché le affezioni hanno un decorso acuto, dopo alcune settimane dal contagio il paziente muore o si ristabilisce. L’efficacia delle modalità di trasmissione e il decorso acuto fanno sí che tutti gli individui di una certa popolazione locale siano esposti alla malattia in un arco di tempo relativamente breve, e poiché i sopravvissuti sono permanentemente immunizzati la malattia potrà tornare a manifestarsi soltanto a distanza di qualche anno, colpendo la nuova generazione di bambini non ancora esposti al contagio. Inoltre, poiché si tratta di affezioni umane specie-specifiche, queste malattie non possono sopravvivere allo stato latente in animali portatori o nel suolo: una volta esauritosi, il contagio non potrà manifestarsi nuovamente finché la zona non sarà raggiunta da una nuova epidemia proveniente da un’area lontana. Per tutti i motivi appena elencati queste patologie infettive colpiscono solo le grandi popolazioni umane, le uniche abbastanza numerose da garantirne la sopravvivenza: la malattia migra costantemente da un’area all’altra, esaurendosi in una certa zona ma sopravvivendo altrove in un diverso e piú distante sottogruppo di popolazione. Nel caso del morbillo sappiamo per esempio che la popolazione bersaglio deve contare come minimo alcune centinaia di migliaia di individui. Potremmo dunque definire queste malattie «patologie umane acute immunizzanti da affollamento con andamento epidemico» o, piú brevemente, malattie da affollamento. Prima della nascita dell’agricoltura, circa 11000 anni fa, le malattie da affollamento non esistevano: soltanto il forte aumento della popolazione favorito dall’agricoltura ha infatti permesso alle popolazioni di raggiungere la consistenza numerica necessaria alla loro diffusione. Con l’avvento dell’agricoltura, la trasformazione dei gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi in popolazioni stanziali permanentemente insediate in villaggi affollati e malsani e collegati gli uni agli altri da legami commerciali ha creato le condizioni ideali per la rapida trasmissione dei microbi. Alcuni recenti studi di biologia molecolare hanno dimostrato che i microrganismi responsabili di molte (probabilmente la maggior parte) delle malattie umane da affollamento oggi specie-specifiche discendono in realtà da germi che provocavano patologie analoghe in alcuni animali domestici, come bovini e maiali, con i quali abbiamo stabilito contatti regolari e ravvicinati soltanto agli inizi del processo di domesticazione, proprio circa 11000 anni or sono.
Jared Diamond, Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, Einaudi (traduzione di Anna Rusconi, collana Saggi), 2013.
[ Edizione originale: The World until Yesterday. What Can We Learn from Traditional Societies?, Viking Press, 2012 ]
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studio-polimaterico-blu · 7 years ago
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Musei virtuali di Storia della scienza
Musei virtuali di Storia della scienza
Musei virtuali di Storia della scienza ITALIA
Istituto e museo di Storia della Scienza di Firenze.(http://galileo.imss.firenze.it/imuseo.html)
Contiene delle esposizioni virtuali e un elenco di siti affini. E’ in Italiano e molto curato. Ad esempio puoi fare una visita virtuale della sala dedicata a Galileo, accedendo ad un ricco ipertesto che illustra gli oggetti ivi contenuti con moltissimi…
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evalosapeva · 9 years ago
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Ultimi pensieri
Jules Henri Poincaré
Non è un libro facile, ma è estremamente interessante per chi conosce già un poco la figura di Poincaré e desidera approfondirne lo studio. In parte trascrizioni di conferenze, in parte brevi saggi composti negli ultimi anni della sua vita, gli Ultimi Pensieri offrono uno scorcio particolare sulle idee di questo filosofo e matematico osannato in Francia ma non abbastanza conosciuto oltre i confini della madrepatria, senza il quale, chissà, forse la storia della scienza avrebbe seguito un corso diverso da quello che conosciamo. A cura di Vincenzo Barone.
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astronomicamens · 10 years ago
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La Scienza 'spiegata' da Steven Weinberg
La Scienza ‘spiegata’ da Steven Weinberg
Oggi mi piace segnalare il nuovo libro di Steven Weinberg, uno dei più grandi fisici viventi, considerato una sorta di leggenda del 20° secolo, che ha contribuito alla costruzione della struttura matematica che descrive la natura delle particelle elementari e delle interazioni fondamentali: stiamo parlando del modello standard. Intitolato “To Explain the World: The Discovery of Modern Science“,  …
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periferiagalattica · 11 years ago
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La scienza spiegata male - 96
Giordano Bruno fu il primo a dare un fondamento teorico al barbecue.
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giuseppemaimoneeditore-blog · 13 years ago
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La cultura scientifica nella Sicilia borbonica
a cura di Domenico Ligresti, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 2011 http://www.maimone.it/schedadinam1.asp?CodLib=201118 I termini ‘scienza’ e ‘scienziati’ sono usati nei saggi di questo volume con una larga accezione, in un periodo nel quale solo nella parte finale (dagli anni Trenta dell’Ottocento in poi) possono riferirsi a figure sociali e intellettuali assimilabili al loro uso contemporaneo. È infatti noto che per tutto il Settecento e per buona parte dell’Ottocento non esistevano settori scientifici specializzati, né – tranne per materie tradizionali quali matematica, medicina, botanica – cattedre universitarie indirizzate alla ricerca e alla trasmissione di una serie di discipline che solo gradualmente e nel corso del tempo hanno trovato collocazione accademica. Molti di questi personaggi operavano contemporaneamente in campi che spaziavano dalla zoologia alla botanica alla geologia, erano anche eruditi, antiquari, letterati funzionari, professionisti (medici, avvocati, ingegneri) che si autofinanziavano o erano finanziati non dallo Stato, ma da mecenati, enti religiosi e gruppi privati.
SOMMARIO Ringraziamenti 5 Domenico Ligresti Scienza e scienziati nella Sicilia borbonica: aspetti storiografici 9 Silvana Raffaele Gusto dell’antico e rinnovamento culturale nella Sicilia borbonica 31 Rosario Spampinato La produzione di zolfo in Sicilia ovvero i costi dell’arretratezza. 1830-1860 43 Paolo Militello La Sicilia delineata. Geografi e topografi tra XVIII e XIX secolo 63 Elena Frasca Avanguardia medica e medici all’avanguardia nella Sicilia borbonica 87 Lavinia Gazzé Ingegneri, architetti e agrimensori nella Sicilia Borbonica 103 Santa Pulvirenti La ‘monumentalità’ del Castagno dei cento cavalli nella trasformazione del paesaggio all’epoca del grand tour 119 Francesca M. Lo Faro Il chimico Cristoforo Muratori, “profetico cittadino” a fianco di Crispi, Garibaldi e Alexander Dumas 137 Luigi Sanfilippo Benedettino e scienziato: Giacomo Maggiore a San Nicolò l’Arena (1812-1848) 153 Giuseppe Baldacci Dall’unicità al policentrismo. L’Università degli Studi di Catania e le altre istituzioni universitarie della Sicilia borbonica 167 Antonio Patanè Le Accademie degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale: un percorso dalla cultura sacra e letteraria agli interessi scientifici 189 Mariaelena Costa Medici e promozione culturale del territorio siciliano in età borbonica 201 Vincenzo Piccione, Vincenzo Veneziano, Rachele Castro La banca dati degli scienziati della Sicilia borbonica 209
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levysoft · 7 months ago
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La dimostrazione dell'esistenza di Dio su basi razionali è un tema sul quale si sono cimentati giganti del pensiero, da Anselmo d'Aosta a Gödel, passando per Tommaso d'Aquino, Cartesio, Leibniz e Kant. Ma come è ben noto si tratta di argomenti non conclusivi. Non sorprende dunque che periodicamente si torni sopra questo vecchio problema, evidentemente mal posto.
Tra gli ultimi tentativi il libro di Bolloré e Bonnassies [1] sembra godere di un successo particolare. Pubblicato nel 2021, è stato tradotto in italiano nella primavera del 2024 e continuiamo a leggerne lodi senza riserve sulla stampa e sui media digitali. Il sottotitolo invoca «l’alba di una nuova rivoluzione». Ma c’è ancora qualcosa da dire su questo argomento? Ci sono novità dalla scienza in grado di colmare il vuoto dei tentativi precedenti? Benché il libro abbia venduto molto e attratto un certo interesse, non ci pare che ci siano novità reali rispetto ad Anselmo (morto all’inizio del XII secolo). Ci troviamo semmai solo un uso retorico e inappropriato di alcuni risultati scientifici, insieme a un errore logico comune a tutti gli argomenti a sostegno del cosiddetto “disegno intelligente”.
Qualche coordinata
Gli autori del libro sostengono come ormai, basandosi sulla scienza, sia possibile dimostrare in modo inequivocabile l’esistenza di una divinità creatrice. All’estremo opposto dello spettro c’è chi, come Daniel Dennett, afferma senza mezzi termini che la fede religiosa sia una varietà di malattia della mente [2]. A scanso di equivoci e inutili polemiche, non ci sembra che una tra queste due posizioni debba essere corretta. La religione, più in generale la spiritualità, costituisce sicuramente una dimensione importante per qualcuno, ma questo non ha bisogno di avere una base scientifica. Ed è certamente comprensibile che chi le ha a cuore entrambe trovi stimolante la sfida di giustificare la propria fede su base scientifica. Ma non sempre il mescolamento di fede e scienza produce risultati positivi. Un’osservazione dello psichiatra Giovanni Jervis ci sembra illustrare bene il punto generale: «La nostalgia dell’infinito è rispettabile, ma se non riesce a diventare poesia alta subito diventa qualcosa di più basso e banale, ossia sentimentalismo e retorica». [3]
Bolloré e Bonnassies insistono con una retorica tanto consolidata quanto inconcludente: perché esiste un lungo elenco di importanti scienziati credenti, dimostrare l’esistenza di una divinità creatrice su basi scientifiche è del tutto possibile. Inutile dire che da un punto di vista logico questo argomento non ha alcuna rilevanza. Le convinzioni personali di chi ha fatto la storia della scienza non hanno nulla a vedere con la razionalità. La scienza è un’attività umana, nata per diversi motivi e praticata da persone che hanno vissuto immerse nel loro periodo storico. E così, sfogliando gli annali della storia della scienza, troviamo che i grandi scienziati sono distribuiti su tutte le possibili tipologie umane: atei (Laplace), religiosi (Maxwell), bigotti (Cauchy), eretici (Newton), guerrafondai (von Neumann), pacifisti (Richardson), conservatori (Gauss), rivoluzionari (Landau) e, più vicino ai nostri tempi, anche razzisti e sessisti (categorie egregiamente rappresentate da Watson, ma purtroppo non solo).
Non si tratta però dell’unico argomento di Bolloré e Bonnassies che elaborano una linea di ragionamento da loro stessi etichettata come “rivoluzionaria”. Pur concedendo che per quasi cinque secoli si sono accumulate scoperte scientifiche che suggerivano la possibilità di spiegare l’Universo senza la necessità di un Dio creatore, notano che negli ultimi tempi le cose starebbero andando nella direzione opposta. Un ruolo particolare in questo viene assegnato alla scoperta della termodinamica, da cui segue che l’universo si sta degradando dirigendosi verso una morte termica. Questo è a detta loro un cambiamento radicale di prospettiva, da cui discenderebbe l’esistenza di una divinità creatrice. Anche senza entrare in dettagli di storia della fisica, è opportuno inquadrare certi risultati ben noti nel loro contesto storico: la termodinamica non è esattamente una scienza giovane. Nasce all’inizio dell’Ottocento e la sua completa formalizzazione risale alla fine del diciannovesimo secolo. Analogamente il tema della morte termica, che inizia con un fondamentale lavoro di Ludwig Boltzmann del 1872, è stato un tema discusso ampiamente da grandi scienziati, come Kelvin, già a fine Ottocento. La speranza che la termodinamica costituisca un game changer nelle prospettive di dimostrare l’esistenza della divinità creatrice su basi scientifiche sembra dunque mal riposta.
La prova scientifica non è uno strumento adatto alla teologia
Il problema non è limitato alla termodinamica o alle altre aree della ricerca scientifica menzionate da Bolloré e Bonnassies. Si tratta piuttosto del fatto che, per loro natura, la dimostrazione matematica e la prova scientifica non sono strumenti adatti a dimostrare l’esistenza del Dio che avrebbe creato l’oggetto di indagine della scienza stessa.
Ricordiamo innanzitutto che non esiste alcuna dimostrazione matematica o prova scientifica che non muova da qualche ipotesi la cui verità è data scontata. La bontà di una conclusione scientifica dipende quindi da due fattori: la correttezza del ragionamento e la plausibilità di ciò che si dà per scontato, ovvero le ipotesi. Per questo una parte fondamentale del lavoro scientifico riguarda la giustificazione delle ipotesi.
Nella dimostrazione matematica, si danno per scontate le definizioni e le regole di inferenza. Possiamo, per esempio, concludere con certezza che un numero è dispari (B) se sappiamo che non è pari (A), perché sappiamo che tutti i numeri sono pari oppure dispari (A oppure B). Ma perché lo sappiamo? Perché siamo noi a definire cosa significa per un numero essere pari. E per le stesse ragioni sappiamo anche che tutti i numeri sono pari oppure dispari (se ci mettiamo prima d’accordo su cosa sono i numeri). All’ulteriore domanda su cosa giustifichi quello che stiamo dando per scontato, rispondono millenni di matematica, e tutto ciò che con successo si basa su di essa.
Il ragionamento scientifico sperimentale è più complicato perché sulla verità delle premesse c’è sempre un grado di incertezza che qualsiasi prova scientifica trasmette alla propria conclusione. Quindi tra le molte cose che si danno per scontate nella prova scientifica c’è il concetto di certezza pratica, grazie a cui si compie una mossa apparentemente contraddittoria: assumere la veridicità dei dati raccolti pur sapendo che potrebbero non essere del tutto “veri”. Questo rende qualsiasi ragionamento sperimentale un ragionamento probabilistico.
Con queste premesse possiamo chiederci che forma avrebbero una dimostrazione matematica e una prova scientifica dell’esistenza della divinità creatrice, e cosa darebbero per scontato. Spoiler: darebbero per scontata l’esistenza di qualcosa che assomiglia moltissimo alla divinità (creatrice).
Dimostrazioni matematiche
Per quanto riguarda la prima, la fatica ci viene risparmiata dal più grande tra i logici moderni, Kurt Gödel. Nella sua rivisitazione matematica della prova ontologica di Anselmo troviamo una serie di ipotesi molto forti, tra cui una sulla necessità dell’esistenza di certe proprietà che, nel corso della dimostrazione, portano alla conclusione che esistono necessariamente proprietà del “tipo-divino”. Come tutte le conclusioni ottenute per dimostrazione matematica, anche quella di Gödel è persuasiva nella misura in cui lo è la verità delle sue premesse. A questo proposito lasciamo la parola a un altro logico, certamente meno famoso di Gödel ma tra i più brillanti che abbiamo avuto in Italia, Roberto Magari [2]: «In sostanza [...] Gödel deduce correttamente da certi assiomi la sua tesi (anche se bisogna mettersi d’accordo su che cosa possa significare ‘Dio’), ma non ci sono motivi di credere veri gli assiomi più di quanti ce ne siano per accettare direttamente la tesi».
Prove scientifiche
Quali caratteristiche avrebbe invece una prova scientifica dell’esistenza della divinità creatrice? Sediamoci ancora una volta sulle spalle dei giganti. Uno dei primi esempi di test statistico di un’ipotesi scientifica, oggi uno degli strumenti centrali nella cassetta degli attrezzi della metodologia sperimentale, è stato condotto da John Arbuthnot all’inizio del ‘700. Osservando il registro dei battesimi di Londra dal 1629 al 1710 notò che in tutti gli 82 anni erano stati registrati (e quindi, probabilmente, nati) più bambini che bambine. I dati apparivano in aperto conflitto con l’ipotesi che bimbi e bimbe nascessero con uguale probabilità, proprio come se il sesso fosse il risultato del lancio ripetuto (senza memoria) di una moneta equilibrata. Se diamo per scontate queste ipotesi, allora un calcolo elementare ci fa vedere che la probabilità di osservare più maschi che femmine consecutivamente per 82 anni è molto, molto, molto bassa, 1 su 282. Dunque, conclude correttamente Arbuthnot, è ragionevole assumere l’esistenza di uno squilibrio alla nascita che rende (leggermente, sappiamo ora) più probabile un maschio. Fino a qui tutto bene. Ma Arbuthnot va oltre e si chiede il perché di questo sbilanciamento. Trova la risposta in ciò a cui già crede: la provvidenza divina. Questa, immettendo nella comunità più maschi che femmine, consente (tra le altre cose) alle seconde di osservare il sacramento del matrimonio nonostante le ingenti perdite dei primi, che spesso non ritornano dalla guerra.
La negazione del caso
La riflessione di Arbuthnot, pubblicata su Philosophical Transactions della Royal Society - una delle prime riviste scientifiche moderne - contiene un errore logico che, a quattrocento anni di distanza, ritroviamo sostanzialmente immutato nel tipo di argomento creazionista noto come “disegno intelligente”, e che si ritrova in tutto il volume di Bolloré e Bonnassies. Lo schema è questo. Si parte da osservazioni sperimentali, che chiameremo DATI. Si formula un’ipotesi che cattura l’idea che non ci sia alcuna divinità creatrice, cioè che i DATI che osserviamo siano dovuti al CASO. Poi si calcola P(DATI | CASO), cioè la probabilità di osservare i DATI se è vera l’ipotesi del CASO. Supponiamo infine che sia molto piccola, cioè che è estremamente improbabile che le nostre osservazioni siano frutto della pura casualità. Fino a qui tutto bene, come nel caso di Arbuthnot.
Il problema nasce dal passo successivo, cioè nella scelta di un’ipotesi da intrattenere al posto del CASO per la spiegazione dei DATI. Dal punto di vista logico la risposta è semplice: la negazione del CASO. Ma dal punto di vista pratico-scientifico, non è affatto chiaro cosa significhi di preciso. Torniamo ad Arbuthnot. L’ipotesi CASO è tradotta con l’uguale probabilità di M e F. La sua negazione è data dall’infinita scelta di tutte le coppie di numeri reali non negativi diversi da ½ che sommano a 1. Poiché la probabilità prende valori tra 0 e 1, le scelte possibili sono tante quanti sono i punti della retta. In questa infinità troveremo letteralmente di tutto, e quindi anche la divinità creatrice. Ce lo dice una serie di risultati probabilistici fondamentali che rispondono alla domanda se il disordine può essere fonte di regolarità [5-8]. L'idea è che in una successione binaria che soddisfa una certa definizione precisa di “caso” ci sono, per ogni N, tutte le possibili successioni di lunghezza N di 0 e 1. Quindi se trascrivessimo la Divina Commedia, Guerra e Pace e L’Odissea in codice binario, nella successione a un certo punto apparirà la Divina Commedia seguita da Guerra e Pace, poi apparirà L’Odissea seguita dalla Divina Commedia, poi appariranno i versi alternati della Divina Commedia e de L’ Odissea, e così via attraverso il numero astronomico di tutte le combinazioni che possono venire in mente. La successione binaria associata a un numero a caso tra 0 e 1, quasi sicuramente, contiene più materiale della biblioteca di Babele di Borges, la storia del nostro Universo dal Big Bang ai nostri giorni, e anche tutto quello che succederà fino alla morte termica dell’universo.
L’errore di Arbuthnot, che si ritrova negli argomenti creazionisti fino a quello del libro di Bolloré e Bonnassies, è dunque il seguente. Rigettare un’ipotesi come “la vita è dovuta al caso” significa aprire a un’infinità di ipotesi alternative di cui non ha senso pensare che siano tutte scientificamente rilevanti. Tutt’altro. Giova ricordare che nel ragionamento scientifico la plausibilità delle ipotesi discende dalla fitta rete di fatti che a volte viene chiamata “teoria”. E quando questa non è sufficiente a delineare una spiegazione plausibile delle osservazioni, l’atteggiamento scientifico opportuno è quello di continuare con la ricerca scientifica, oppure sospendere il giudizio. Notiamo, per chiudere con Arbuthnot, che a oggi non c’è consenso su cosa spieghi i dati consolidati sul rapporto tra i sessi alla nascita. E forse la spiegazione potrebbe non esserci.
Improbabilità: usare con cautela
Le prove che fanno leva sull’improbabilità delle osservazioni alla luce dell’ipotesi che viene testata con i dati sperimentali sono alla base della costruzione della conoscenza scientifica. Ma vanno applicate con estrema cautela metodologica. Il loro uso inappropriato, termine con cui si copre tutto lo spettro che va da “con leggerezza” a “in modo fraudolento”, è l’oggetto dell’accesa discussione metodologica sulla significatività statistica [9,10]. Una buona regola euristica emerge però chiaramente. Gli argomenti basati sull’improbabilità dell’ipotesi che si vuole confutare sono tanto meno affidabili tanto più ci si allontana da asserzioni appartenenti ad aree quantitative della scienza. Questo è il motivo per cui in molti sistemi legali si dà opportunamente per scontata la cosiddetta presunzione di innocenza. L’onere della prova, cioè, è a carico dell’accusa e non della difesa. Purtroppo, esistono molti esempi in cui questa norma di civiltà è stata contravvenuta portando a condanne basate non sulla ragionevole probabilità di colpevolezza, ma sull’esigua probabilità di innocenza [7,8].
Riferimenti[1] M-Y Bolloré e O. Bonnassies. Dio. La scienza, le prove. (Ed. Sonda, 2024)
[2] D.C. Dennett. Rompere l’incantesimo (Raffaello Cortina, 2007)
[3] G. Jervis, intervista su Reset, settembre-ottobre 2007, pag.44
[4] Roberto Magari. Logica e teofilia in Kurt Gödel. In: “La prova matematica dell’esistenza di Dio”. 8Bollati Boringhieri Editore, 20069
[5] P. Diaconis and B. Skyrms. Ten Great Ideas About Chance (Princeton University Press, 2018)
[6] C.S. Calude and G. Longo. The deluge of spurious correlations in big data. Foundations of science 22, 595 (2017)
[7] A. Vulpiani. Caso, probabilità e complessità (Ediesse, 2014)
[8] H. Hosni. Probabilità: Come smettere di preoccuparsi e imparare ad amare l’incertezza (Carocci, 2018)
[9] V. Amrhein, S. Greenland, and B. McShane, “Retire statistical significance,” Nature, vol. 567, pp. 305–307, 2019
[10] D. J. Hand, “Trustworthiness of statistical inference,” J. R. Stat. Soc. Ser. A Stat. Soc., vol. 185, no. 1, pp. 329–347, 2022
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evalosapeva · 10 years ago
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L'equazione impossibile
Come un genio della matematica ha scoperto il linguaggio della simmetria
Mario Livio
Decisamente meno bello de "La Sezione aurea"; un po' affrettato, a volte privo di un vero e proprio filo conduttore che non sia quello della simmetria... Addirittura, spesso ho avuto l'impressione che tale concetto fosse usato in modo pretestuoso, e che alcuni argomenti fossero affrontati soltanto per esigenze di completezza. La storia intricata e affascinante di Evariste Galois, in compenso, è raccontata con dovizia di particolari, lasciando spazio alle varie ipotesi sulle cause della sua morte.
Tutto sommato, è un libro interessante, ricco di spunti di riflessione; lascia però il sapore di una grande occasione che l'autore non ha sfruttato appieno. Peccato!
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