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#sono salentina prima di essere italiana
lamilanomagazine · 10 months
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Negramaro in concerto allo stadio Franco Scoglio di Messina
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Negramaro in concerto allo stadio Franco Scoglio di Messina "A grande richiesta, si aggiunge una nuova tappa al viaggio che i Negramaro faranno per l'estate 2024 negli stadi italiani: non poteva, infatti, mancare la Sicilia a cui la band è da sempre legatissima. L'appuntamento sarà allo stadio Franco Scoglio di Messina il prossimo 3 luglio". Al lancio dell'ufficialità dell'evento, a poco meno di un anno dall'esibizione della band salentina a piazza Duomo del 29 dicembre scorso, il sindaco Federico Basile commenta "accogliere nuovamente a Messina i Negramaro è motivo di grande soddisfazione. L'evento live allo stadio Franco Scoglio in programma per la prossima estate messinese rappresenta un ulteriore tassello per implementare la nostra visione strategica nell'ambito del piano promozionale Messina Città della Musica e degli Eventi, finalizzato a coniugare il valore della musica allo spirito di una Messina sempre più inclusiva, partecipativa e attrattore di pubblico". "L'annuncio di un nuovo concerto, quello dei Negramaro per l'estate 2024, dopo quello di Ultimo il 28 giugno e di Zucchero del 30 giugno prossimi, rappresenta - aggiunge l'assessore agli Spettacoli e Grandi Eventi Massimo Finocchiaro – la volontà di questa Amministrazione di programmare un percorso, nel contesto del brand Messina Città della Musica e degli Eventi, che tiene insieme cultura, turismo e attrattività della Città per ampliare il nostro ambito d'azione, creare un indotto economico per offrire al nostro territorio ricadute positive e sempre maggiore visibilità oltre lo Stretto". L'evento sarà realizzato da Puntoeacapo (con la direzione artistica di Nuccio La Ferlita), Friends & Partners e Magellano Concerti, in collaborazione con il Comune di Messina. Dopo due decenni di successi e trionfi musicali, i Negramaro sono pronti a scrivere un altro capitolo della loro storia, con nuovi imperdibili eventi live negli stadi per il 2024 che uniscono virtualmente il Sud e il Nord d'Italia. Tre stadi iconici: il 15 giugno allo Stadio Diego Armando Maradona di Napoli, il 22 giugno allo Stadio San Siro di Milano e il 3 luglio allo Stadio Franco Scoglio (San Filippo) di Messina. Dopo esser stata la prima band italiana ad aver varcato la soglia della "Scala del calcio", con il concerto-evento realizzato a San Siro nel 2008, e a distanza di sei anni dal precedente tour negli stadi italiani, la prossima estate i Negramaro torneranno dal vivo a San Siro, allo stadio Franco Scoglio di Messina e per la prima volta invece si esibiranno allo stadio napoletano Diego Armando Maradona. La band è reduce dal trionfo dei festeggiamenti del suo ventennale che l'ha vista impegnata nel lungo tour estivo N20, un sold out dopo l'altro in tutte le date, e con l'uscita del docufilm evento, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, "NEGRAMARO BACK HOME - ORA SO RESTARE", realizzato in occasione del N20 BACK HOME, la grande festa in musica sold out che si è tenuta lo scorso 12 agosto all'Aeroporto Fortunato Cesari di Galatina (Lecce) con gli amici che hanno accompagnato il loro viaggio artistico: Elisa, Fiorella Mannoia, Samuele Bersani, Niccolò Fabi, Diodato, Sangiovanni, Malika Ayane, Ermal Meta, Rosa Chemical, Ariete e Aiello che con performance inedite e spettacolari hanno ripercorso la storia del gruppo realizzando un'esperienza che ha valicato i confini del concerto. I biglietti per la nuova data del 3 luglio, saranno disponibili su TicketOne in presale per il fanclub a partire dalle ore 11 di mercoledì 22 novembre; e per tutti dalle ore 11 di giovedì 23 novembre, sempre su TicketOne. Radio Italia è la Radio Ufficiale di "Stadi 2024" dei Negramaro; Urban Vision Official Content Partner di "Stadi 2024" dei Negramaro; e Frecciarossa è Treno Ufficiale di "Stadi 2024" dei Negramaro.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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questouomono · 3 years
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Questo uomo no, #115 - Quello che perde la voce se la acquistano altr3
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Avevo evitato di commentare su questo blog le misere parole di Maggiani, che trovate linkate alla fine dell’articolo di Bettini cui mi riferisco qui. È stato fatto benissimo da altr3 persone, non c’è bisogno di ripetere nulla. Ecco che su Repubica - sempre morbosamente attenta a sbagliare tutto lo sbagliabile sulle questioni di genere, anche quando toccano altre discipline - ieri se ne esce con un altro capolavoro Maurizio Bettini, intitolando L’asterisco toglie voce all’italiano. Per motivi di copyright non posso riportarlo per intero, mi limiterò a gustare insieme a voi alcuni passi, dopo qualche premessa.
Premessa numero uno: il titolo dell’articolo può anche non averlo scelto l’autore dello stesso, ma certamente lo ha avallato e c’è sotto la sua firma. Quindi il responsabile dell’ignoranza espressa nel titolo è Bettini: l’asterisco non toglie voce a nessuno, anzi - come sa chi ne capisce di queste vicende - cerca di darla portando visibilità grafica a un problema sociale che si riflette ormai da parecchi anni nella nostra lingua. Titolare così è ignoranza o malafede - o entrambe.
Premessa numero due: il sottotitolo, In controtendenza con la storia dell’alfabeto lo schwa e gli altri segni grafici non hanno un corrispettivo fonetico, dice proprio una pesante inesattezza: la schwa è proprio un simbolo fonetico dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA) quindi se c’è una cosa sicura è che ha un suono. E se è vero che nessuna parola dell’italiano usa quel suono, è altrettanto vero che parecchi milioni di italiani conoscono quel suono, perché è sicuramente correntemente usato nei dialetti di area napoletana, barese, siciliana, salentina e anche del nord Italia - dei primi ho avuto conoscenza diretta, degli altri mi è stato riferito. Quindi la schwa ha un “corrispettivo fonetico” attualmente quotidianamente usato da decine di milioni di italiani. Quindi sottotitolare così è ignoranza o malafede - o entrambe.
Premessa numero 3: io uso il “3″ al posto del segno schwa, perché mi sta più comodo sulla tastiera. Questo scrivere così è pigrizia o provocazione - o entrambe. Vi prego di deciderlo alla fine di questo post.
Dunque l’articolo di Bettini già comincia malissimo, con due gravi inesattezze che non andrebbero lanciate al pubblico come verità incontrovertibili. Ma è solo l’inizio, il bello arriva dopo la descrizione sommaria dello sviluppo dell’alfabeto, che risparmio di commentare non perché non interessante ma perché ciascun3 può facilmente documentarsi da solo sulla strumentalità di quella ricostruzione storica, che apparirà comunque chiara tra poco. Dice poi Bettini:
Oggi si propone di ampliare il nostro alfabeto con due nuovi segni, lo schwa (il simbolo inclusivo della “e” rovesciata per rendere neutro il genere) o l’asterisco (*), che non rappresentano però suoni grammaticalmente esistenti nell’italiano standard.
Questo è semplicemente falso nella premessa, e aggiungerci una conclusione vera (vecchio furbone di Bettini, vuoi giocare ai sillogismi con un filosofo?) non rende quella premessa meno falsa. Nessun3 vuole proporre di ampliare l’alfabeto, le persone che si occupano di questi problemi, tra le quali molt3 linguist3 - ma ripeto quanto detto sopra, non sono problemi di origine linguistica, sono sociali, quelle linguistiche sono conseguenze di quei problemi - stanno dando voce (loro sì, e seriamente) a una istanza sociale di riconoscimento di soggettività in una lingua che pare non avere attualmente gli strumenti per farlo. Non avrebbe senso “ampliare l’alfabeto” senza che quei problemi sociali di rappresentazione e di soggettivazione fossero risolti socialmente. Quei segni sono nati e si stanno usando per dare voce (rappresentazione, spazio, possibilità, importanza, emergenza) a chi finora non ne ha avuta, e non per toglierla a qualcun altr3. Certo che non sono “suoni grammaticalmente esistenti nell’italiano standard”, e aggiungo una cosa: probabilmente manco lo vogliono essere. Vogliono essere una presenza disturbante che favorisca e provochi un dibattito pubblico sempre più allargato, e non essere la soluzione a qualcosa che - e sono tre - non è linguistico ma sociale, e che non si può risolvere con l’introduzione di due segni. Bettini, come altr3, non sono obbligati a interessarsi di problemi sociali, ma sarebbero gentilmente pregati di avere le capacità di riconoscerli quando li incontrano. Non è difficile, basterebbe documentarsi - di asterisco e schwa si parla da decenni, non da quando l’ha fatto Maggiani. Per non dire da quanto si parla, si studia, si documenta di una società italiana escludente e discriminante verso molte cosiddette “minoranze”. Prosegue Bettini:
Stiamo compiendo cioè un’operazione rovesciata rispetto al passato. Lungo i secoli infatti ci si è sforzati di creare segni capaci di catturare al meglio i suoni pronunciati in una data lingua; oggi invece si vuole introdurne dei nuovi i quali, con ogni probabilità, resteranno privi di un loro corrispettivo fonico reale.
Ecco, in quest’ultimo periodo, l’elefante nella stanza che ancora fa finta di mascherarsi da competenza linguistica. La “operazione” che non vede Bettini non è quella di creare segni per suoni - cosa importante ma che non c’entra nulla - ma di ostacolare la normale e normata pronuncia di alcune parole per far notare che esse possono diventare strumento di oppressione sociale, di sofferenza, di annichilimento di soggettività, per persone che non trovano un corrispettivo nella lingua per la loro umanità. Questo si fa con *, schwa e “3″. Del “corrispettivo fonico reale” a queste persone non importa nulla, attualmente; a loro importa il corrispettivo esistenziale simbolico, che per ora per le loro vite non c’è.
È tanto difficile da capire, Bettini, Maggiani, e tutt3 che ancora ciarlano della correttezza del sistema linguistico o del non voler subire costrizioni? Sì, è difficile. E allora, visto che è il vostro mestiere, studiate prima di dire e scrivere violente e ignoranti sciocchezze. Non è il materiale che manca, e neanche le voci; certo che, se ascoltate solo le vostre di voci, sarà difficile che ne capiate qualcosa.
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Uno sguardo alle prime scriptae salentine
di Giammarco Simone
Introduzione
Per introdurre il tema del presente articolo, vorrei partire dalla definizione di ‘linguaggio’ del vocabolario Treccani, secondo cui esso è “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici”.
Tra i segni grafici utilizzati dall’essere umano, la scrittura alfabetica diventa espressione culturale di un popolo che utilizza un sistema di lettere per comporre, comunicare e conservare per iscritto pensieri, racconti, leggende, canzoni e poesie.
La scrittura diventa testimonianza linguistica di una civiltà ed è affascinante conoscerne e studiarne le origini, in quanto custodisce le chiavi di accesso per comprendere l’attuale panorama linguistico. Il fine di questo viaggio attraverso i secoli è quello di riscoprire alcuni testi antichi che hanno fatto la storia del salentino e che si conservano nelle prestigiose biblioteche d’Italia (Padova, Milano, Firenze, Perugia e Roma, per citarne alcune) ma anche in quelle inglesi, francesi e austriache. Ho deciso di attingere le notizie dalle ricerche fatte negli anni dagli studiosi interessati all’argomento e, consapevole della quantità degli studi effettuati e dei ritrovamenti, per motivi di spazio ne ripropongo solo alcuni sotto forma di breve raccolta.
edizione degli Epigrammi del 1490 custodita nell’Archivio del governo di Aragona, in Spagna (immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marcial._Epigrammata._1490.jpg?uselang=it)
  Le prime scriptae salentine
Ancora prima dell’inizio del Medioevo, l’odierno Salento era abitato dapprima da tribù autoctone, come gli Iapigi, ed in seguito da popolazioni straniere provenienti dalla Grecia, ovvero i Messapi[1]. Posteriormente al dominio messapico, i Romani arrivarono da conquistatori nel I a.C. e vi rimasero fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., anno convenzionale per l’inizio del Medioevo.
  Dopo i Romani, la Terra d’Otranto fu desiderio di conquista da parte dell’Impero Romano d’Oriente, con i Bizantini che imposero la loro egemonia per molti secoli, soprattutto per l’importanza che ricopriva il Salento nelle rotte commerciali con l’Oriente. Di lì a poco, si susseguirono varie popolazioni e domini stranieri (Saraceni, Longobardi, Angioini, Aragonesi, Francesi) lasciando notevoli tracce del loro passaggio. In questo via vai di popoli, tradizioni, culture e lingue, il nostro idioma è andato formandosi assorbendo tratti e caratteristiche che nel corso dei secoli si sono modellate, fino a consolidarsi e a dar vita al salentino attuale.
Tuttavia, per conoscere le prime testimonianze scritte dobbiamo percorrere un viaggio a ritroso nei secoli quando ancora in Salento si parlava il volgare salentino, un parente non troppo lontano dell’attuale dialetto salentino, ma che con parole più tecniche si potrebbe definire un discendente strettissimo del latino volgare[2].
La documentazione dei testi in latino volgare è abbastanza esigua. Negli studi di storia della lingua italiana, l’esempio più conosciuto di testo dove compaiono forme in latino volgare è l’Appendix Probi (L’appendice di Probo) risalente al VI-V secolo a.C., contenente una lista di ben 227 parole scritte dal grammatico Probo, il quale riporta il corretto nome in latino classico affiancato dalla sua corrispettiva voce in volgare ritenuta ‘scorretta’. Una storia completamente diversa si ha per quanto riguarda le prime attestazioni in volgare italiano, con la maggior parte degli studiosi che concordano sul fatto che le sentenze giuridiche dei Placiti Campani, databili X secolo d.C., sono tra prime testimonianze sul territorio nazionale. Scritte in latino classico, contengono però stralci di italiano antico, in quanto le deposizioni dei testimoni (di madrelingua volgare) venivano riportate nella loro lingua parlata:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.[3]
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro que ki contene et trenta anni le possette[4].
Kella terra per kelle fini que bobe mostrai Sancte Marie e et trenta anni la posset parte sancte Marie[5].
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai trenta anni le possette parte Sancte Marie[6].
Se già a partire dal X secolo d.C. nel territorio nazionale si attestano in testi scritti espressioni e vocaboli in volgare italiano, si può dire lo stesso per il volgare salentino? La risposta è sì, seppur meritevole di qualche precisazione.
In passato, l’elaborazione e la stesura di libri e testi era compito solo di alcune persone erudite (gli amanuensi) che grazie alle loro conoscenze grafiche e linguistiche potevano scrivere e persino tradurre testi antichi di altri idiomi e volgarizzarli nella nuova lingua. Dalle attestazioni in volgare italiano si evince che la grafia utilizzata dagli eruditi fu quella latina, mentre per quanto riguarda le parlate regionali e locali (nel nostro caso il volgare salentino) assistiamo ad una lunga tradizione di testi redatti in alfabeti diversi dal latino, e cioè in ebraico e greco. La spiegazione di tale comportamento è da ricondurre alla situazione socio-linguistica del nostro territorio in quei secoli. Come affermato da Maggiore (2015)[7]:
Il primo elemento di specificità è legato alla presenza, in un arco di tempo che supera i confini cronologici del Medio Evo, di scritture redatte in alfabeti diversi da quello latino, segnatamente i caratteri israelitici e greci. La presenza dei primi è legata alle vicende storiche della comunità ebraica salentina, mentre la ricchezza dei secondi chiama direttamente in causa la durevole vitalità dell’esperienza culturale italo-greca di Terra d’Otranto, che pervenne anche a esprimere personalità letterarie di primissimo piano come quella di Nettario di Casole, poeta bizantino vissuto a Otranto tra il XII e il XIII secolo.
Casole presos Otranto
  La comunità ebraica si stabilì nel Salento già dai primissimi secoli successivi alla Diaspora Ebraica iniziata con la conquista dei Romani della Terra d’Israele intorno al VIII-VI secolo a.C. E’ proprio uno scritto in alfabeto ebraico, datato intorno al X secolo d.C., ad essere stato redatto in Terra d’Otranto. Si tratta di un importante trattato di farmacologia risalente al 965 d.C. scritto dall’astronomo, filosofo e medico ebreo (nato ad Oria nel 913 d.C.) Shabbetai Donnolo.
L’importanza di questo testo risiede nel fatto che, secondo Cuscito[8](2018), è “ritenuto il più antico testo farmacologico ebraico, se non il più antico testo medico scritto in questa lingua dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente”. Il Sèfer ha­–yaqar (Libro prezioso), così si intitola l’opera, nonostante sia un testo innovatore nel panorama medico e scientifico di quell’epoca, dal punto di vista linguistico fornisce esempi di salentino, in quanto ricco di toponimi meridionali e termini botanici greci, latini e volgari che sono arrivati fino ai giorni nostri. Un esempio è il cocomero asinino (scritto QWQWMRYNA secondo la traslitterazione di Treves)[9], che ritroviamo a Lecce con il nome di cucummaru sputacchiaru o riestu[10].
Sempre in alfabeto ebraico e con rilevanza linguistica ancora più notevole sono le 154 glosse ritrovate all’interno di un antico codice ebraico, il Mišnah, datato 1072 e studiato attentamente da Cuomo[11](1977), dove compaiono parole salentine pervenuteci fino ad oggi: lentikla nigra, meluni rutundi, iskarole salβateke, kukuzza longa, sciroccu, kornula, làuru e voci verbali come pulìgane, sepàrane, assuptìgliane.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C, e con l’arrivo dei Bizantini provenienti da Oriente, la tradizione scritta salentina si sviluppa anche in alfabeto greco. Infatti, si registra una attività greca molto forte tra il XIII e il XVI, che porta la lingua greca ad essere parlata e scritta nelle scuole e nelle case. Tale fu l’impatto greco-bizantino sul nostro territorio che ne conserviamo l’eredità linguistica (mi riferisco alla Grecia Salentina e al griko, un dialetto della lingua greca parlato nel Salento). Esempi in alfabeto greco sono due brevi liriche amorose databili tra un arco temporale che va dal 1200 al 1300. Di seguito, ripropongo la traslitterazione in grafia latina fatta da De Angelis[12](2010), a cui si deve anche l’importante studio linguistico che ne conferma la salentinità, nonostante a prima impressione il testo possa essere definito di tipo siciliano:
Amuri amuri
1. Αμουρι αμουρι δ’αμουρι λα μια [μ]ουρτί σε αλτρου ομου τε κουλ-
2. κόου λα ρουφιάνα κουτραρα β[4]σζαϊ λου βανου κόρε:-
3. πρέγαρὲ βόλλου λί μεϊ ουργανατούρι κούιστέ παρόλε δεϊσζα-
4. νου <μ>βεζαρε σζ’αννου<ν>ζου ε δαδρι όττα περ μιου αμόρε· ρουσζίερ
5. κου[35]β…
6. τα δέισζαλα καντάρε δε[ισ]ζα μανδάρε περ τόττα λα κου[ν]-
7. τράτα κούεϊστα βαλλάτὰ σζι ε φάττα νυβέλλα δα σζοι
8. σε αππέλλα νικολα δεττορε:-
9. λου δεττορε
1. amuri amuri d’amuri la mia murti se altru omu te
cul-
  2. cóu la rufiana quatrara b[vacat] ci hai lu vanu còre
3. pregare vogliu li mei urganaturi quiste parole diggia-
4. nu mbezzàre c’annunciu e dadri otta per miu amore;
  5. [†]
6. cierta (?) diggiala cantare diggia mandare per totta la cun-
7. trata quista ballata ci è fatta nuvella da ci
8. se appella Nicola Dettore
9. lu dettore
  In questo breve componimento, l’autore, un tale Nicola Dettore dice che, nel caso in cui la sua amata (v.2 la rufiana quatrara) lo tradisca (v.1 se altru omu te culcòu), egli morirà a causa del mal d’amuri. Per questo, si augura che i cantori (v.3 urganaturi) possano imparare queste sue parole (vv.3-4 quiste parole diggia-nu <m>bezzàre c’annu<n>ciu ) e che si diffondano per tutta la contrada (v.6 diggiala cantare diggiala mandare totta la cuntrata), affermando che la ballata è una novella (v.7 quista ballata ci è fatta nuvella) scritta proprio da colui che si chiama Nicola Dettore (vv.8-9 se appella Nicole Dettore).
 Bellu missere
01. ββέλλου μισσέρε ασσάι δουρμιστι
02. κουμμίκου νον γγαυδίστι ζζο
03. μι [ν]κρίσζι κα λ’αλβουρι αππα-
04. ρεισζε πάρτ<ε>τε αμουρι πρε[σ]του
05. α κουρτεσία ελλάλβουρι αππα-
06. ρεισζε ε κουι νο [σ]τάρε οννει
07. ββρίγα ε δουλενζια τι κου<μ>βένε
08. νον σίτι αμαντε δε δοννα ακουι-
09. σταρε νι ννα [δ]’αζζιρε ε νι δ’άβιρ[ε]
10. [δ]εποι κα νσζι βουλι[σ]τι α[δ]ουρμενταρε
11. σζε μι σζε[ρ]κάστι α μ[ε]ντ[ι]ρε π[ε]ρ
12. ομου σζι τενε ουνα ταλε σζο-
13. για σζε λλι αννογια.
01. bbellu missere assai durmisti
02. cummicu non gaudisti ciò
03. m’incrisci ca l’alburi appa-
04. risce partete amuri prestu
05. a curtesia e ll’alburi appa-
06. risce e qui no stare onni
07. bbriga e dulenzìa ti cunvene
08. non siti amante de donna acqui-
09. stare ni nn’a d’aggire e ni d’avire
10. depoi ca nci vulisti adurmentare
11. ce mi cercasti a mentire per
12. omu ci tene una tale gio-
13. ia ce gli annoia
  Il testo è considerato da Distilo (2007)[13] appartenente al genere di canzone di malamata, ovvero quei componimenti nei quali le donne raccontavano la loro insoddisfazione coniugale. Nel testo, la donna dice al suo uomo (v.1 bellu missere) che a causa del suo troppo dormire (v.1 assai durmisti) non si dilettò con lei (v.2 cummicu no gaudisti). Per questo, la donna si dispiace che sia già giorno (v.4 m’ncrisci ca l’alburi apparisce) e lo esorta ad andarsene (vv.4-5 partete amuri prestu, a curtesia) e a non rimandare le fatiche e le preoccupazioni del nuovo giorno che gli spetta (vv.6-7 e qui no stare onni bbriga e dulenzia ti cunvene). Poi accusa l’uomo di non saperla conquistare, né di saper agire né tantomeno tenerla a sé (vv.8-9 non siti amante de donna acquistare, ni nn’a d’aggire e ni d’avire) visto che preferisce addormentarsi (v.10 depoi ca nci vulisti adurmentare). La donna chiude il suo componimento quasi con una domanda dal sapore amaro, in quanto non capisce il comportamento dell’uomo che preferisce addormentarsi invece di godere dei piaceri da lei offerti (vv-12-13 per omu ci tene una tale gioia ce gli annoia).
Un altro importante ritrovamento, sempre in alfabeto greco, ma questa volta di lunghezza più estesa e di carattere religioso, è la Predica salentina risalente alla seconda metà del 1300. Si tratta di un commento alla Divina Liturgia di S.Giovanni Crisostomo, il testo liturgico utilizzato in quel tempo dai Cristiani d’Oriente. Il testo fu studiato da Parlangeli (1958)[14], il quale lo trascrisse in alfabeto latino. Ne presento uno stralcio[15]:
“Veniti addunca cun pagura de ddeu e cun fide e cun pace a rrecìpere lu corpiu de ristu secundu ammonisce e séumanda a Santu bbasiliu e sse alcun omu non ave cun se quiste tre cause chi avimu ditte, zzoè pagura de Ddeu, fede e ppitate, non dive venire sé ancostare a rrecìpere quistu prezziosu corpu, ca dice Santu Paulu: quillu chi mangia e bbive lu corpu e sangue de Gesu Cristu indignamente, si llu mangia e bbive a ggiudizziu ed a ccondannazione soa. Venimi addunca cun pagura, fede e ppitate e ppuramente recipimu da li spirduali patri nostri lu dittu corpu e ssangue de lu nostru signore Ggesu Cristu, azzò séchi sse fazza e ssia a nostra salvazione spirduale….”
Da quanto visto finora, le prime scriptae medievali in lingua salentina furono redatte in alfabeti diversi da quello latino, ed infatti, secondo Bernardini (2010) “dalle fine del IX secolo fino alla fine del XVI secolo, troviamo 400 codici greci contro i 30 latini risalenti allo stesso periodo”[16]. Lo studio dei documenti in caratteri ebraici e greci costituisce una fonte importante per studiare l’oralità di quell’antico salentino, in quanto, come afferma Maggiore (2013) “offrono spesso testimonianze linguisticamente più aderenti alla realtà del parlato rispetto a quanto avviene normalmente nella scripta in caratteri latini, maggiormente soggetta a fenomeni di conguaglio dei tratti diatopicamente marcati”[17].
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che anche l’alfabeto latino veniva utilizzato nella scrittura ma ciò in epoca più tardiva, ovvero a partire dal XV secolo, quando, secondo gli studiosi, il volgare salentino aumentò il suo status di lingua locale diventando una vera e propria koinè (κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”), cioè una lingua a carattere regionale (da non confondersi con l’intera Puglia, ma solo riferito alla regione Salento) che riuniva i tratti tipici dialettali, quelli della lingua letteraria toscana ed altri comuni a tutto il Meridione. La lingua comune salentina nel suo nuovo status di lingua regionale si utilizzava non solo per redigere lettere mercantili e trattati notarili ma divenne lingua di corte ed impiegata in campo letterario nelle illustrissime corti di Maria D’Enghien a Lecce, di Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Taranto e di Angilberto del Balzo Orsini a Nardò.
  Esempi di koinè sono le cinque lettere commerciali, studiate da Stussi[18](1982), scritte tra il 1392 ed il XV secolo tra un mercante ebreo tale Sabatino Russo e suo socio d’affari il veneziano Biagio Dolfin, con il quale fondò una società per il commercio in Oriente. In una di queste lettere, Sabatino avverte il suo socio che una nave fu depredata dai pirati “intru lu portu de Nyrdò”. Tale evento, però, fu smentito da una sesta lettera scritta da un altro commerciante ebreo, tale Mosè de Meli, il quale informò Biagio Doffin di essere stato truffato da Sabatino che finse il furto per appropriarsi egli stesso del bottino:
Sery Byasi Dalfyn hio Mosè de Meli vi fazo assavery chy my sa mullto mali de la gabba che ve à ffatto Sabatyno judeo de Cobertyno chy sta mò in Leze de li besanti C”‘ de oro che pellao delu vostro et addusseli in Leze et guadannò dela ditta moneta vostra ducaty CL chy contao in vostra party de lu guadanno…
Nella corte di Lecce, il cappellano della contessa Maria D’Enghien, tale frate Nicolao de Aymo scrisse la grammatica latina Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444) dove si avvalse proprio del volgare salentino come lingua di traduzione per fornire esempi delle regole grammaticali. Di quest’opera ci rimangono due manoscritti che son utili dal punto di vista linguistico, in quanto sono presenti parole tipicamente dialettali come suggerisce Maggiore (2015): nusterça (nusterza), groffolare (cruffulare), insetare (nsitare), scardare pissi (squamare pesci)
 Nel Principato di Taranto di Giovanni Antonio del Balzo Orsini troviamo il Librecto de pestilencia (1448) scritto dal “cavaliero et medico” galatinese Nicolò di Ingegne, il quale conversa con altri due medici di corte, tali Aloysi Tafuro de Licio e Symone de Musinellis de Butonto, e con lo stesso Giovanni Antonio riguardo la peste e sui possibili rimedi e cure. Inoltre, nell’opera si menzionano alcuni nomi di vini, tra cui uno tipico tarantino, il Gaglioppo, come si legge in Maggiore[19] (2013): “ma più in lo tempo de la peste, sincome sonno malvasie, greco, guarnaze, [..] et da nuy tarentini ‘galioppo’ chyamato, lo quale in questa città più che in parte del mundo perfecto se fa”.
La corte di Angilberto del Balzo Orsini, conte di Ugento e duca di Nardò, annoverava nella sua una ricca libreria copie di libri in latino e volgarizzamenti delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ad essa appartiene lo Scripto sopra Theseu re, un ricco commento al Teseida di Boccaccio redatto da un anonimo salentino, probabilmente nella seconda metà del Quattrocento nella scuola di Nardò, una scuola di amanuensi domenicani molto attiva in quel periodo.
Il commento al Teseida, oltre che fornire prove sulla circolazione delle opere toscane nel Salento, dimostra la varietà linguistica della koinè salentina che abbraccia sia i toscanismi letterari, sia i termini più vernacolari e i meridionalismi generalizzati, come riporta Maggiore (2015): amochare ‘coprire’, annicchare ‘nitrire’, ganghe ‘guance’, lucculare ‘urlare’, magiara ‘strega’, nachiro ‘nocchiero’, sghectata ‘spettinata’, rugiare ‘borbottare’, ursolo ‘piccolo recipiente per liquidi’.
Inoltre, appartenente alla libreria di Angilberto, il Libro de Sidrac che merita una considerazione speciale. Si tratta di un trattato filosofico in stile “domanda e risposta” tra il re Buctus e il filosofo Sidrac. Quest’opera, scritta originariamente in lingua francese d’oil tra il 1270 e il 1300, potrebbe essere considerata un best seller di quell’epoca, in quanto nei secoli successivi fu tradotta in ben sessanta versioni romanze tra cui anche in volgare salentino. Si tratta, indubbiamente, di un testo che ci fornisce esempi di koiné salentina, come nell’incipit del testo “Ore Sidrac incomenza a respondere a lo re Botus ad tucte le sue addimande, et a chascaduna responde di per sé. La prima ademanda si è si deu pòy essere veduto. Deu si è visibile et non visibile, cà illu vede tuctu et non pote essere veduto”[4r 32-35]. Secondo gli studi linguistici fatti da Sgrilli[20](1983), il Sidrac salentino fu scritto per mano di un autore brindisino, mentre quelli fatti in precedenza da Parlangeli (1958)[21] dicono che “il nostro testo sia scritto in un dialetto del tipo salentino settentrionale, quale, a un dipresso, doveva essere parlato nella zona di Nardò”.
Le attestazioni del salentino volgare non provengono solo da testi e manoscritti ma anche nelle epigrafi come quella nella Cattedrale di Nardò all’interno di un affresco risalente alla metà del XV secolo e raffigurante San Nicola, la Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena orante (nella navata sinistra). La riscoperta dell’attestazione è da attribuire al dott. Gaballo e al prof. Polito e recita:
O tu chi ligi, fa’ el partisani:
chi ley fey fare, Cola è ’l sua nome,
filliolu de Luisi de Pephani.
Secondo Castrignanò[22] (2016), la parafrasi reciterebbe: Oh tu che leggi, prendi la mia parte/ chi la fece fare [la pittura], Nicola è il suo nome/ figlio di Luigi di Epifanio. Se a prima impressione l’epigrafe sembrerebbe una captatio benevolentiae, in quanto l’autore chiede ai chiunque guardi il suo affresco di parlarne bene (fa’ el partisani) in realtà sembra rievocare il verso dantesco If IX 61-63: O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani.
Per concludere con uno sguardo sulla società medievale e sulle relazioni interpersonali tra i cittadini di quell’epoca, mi piacerebbe menzionare le deposizioni presenti ne Il registro dei reati e delle pene, una raccolta giudiziaria di 607 denunce appartenente al resoconto fiscale de la Corte del Capitanio di Nardò[23] (1491) e redatte da Giampaolo de Nestore di Nardò, nelle quali si apprezza la lingua dei protagonisti che si lasciano andare a forme ingiuriose e minacciose come:
Marco de Sidero, denunciato per Gabrielj Caballone, che li dixe: «Levatinte davanti et portame li forfichi, ca le mecto le mano alli capillj»
Charella Malicore, denunciata per Hieronimo serviente, che li dixe: «Si marituma era cqua, te haveria dato cinquanta bastonate»
Uxor Giorgii Taurini, denunciata per la molliere de Francesco de Cupertino perché li dixe: «puctana, frustata, tu teni cento innamorati»
Francesco de Follica, denunciato per Gabrieli de Montefusco, perché li dixe: «yo trovai le terre allo culo de mammata»
 Conclusioni
Questo viaggio intrapreso lungo i più remoti secoli della storia ha portato alla luce alcune delle primissime forme di scrittura nella nostra lingua in epoca medioevale. Grazie agli studi di alcuni ricercatori in merito alla tradizione scritta salentina, in questo iter abbiamo messo in risalto non solo aspetti relazionati al lessico ma anche alle antiche vicende sociali e culturali che la nostra terra ha vissuto: mi riferisco alla forte presenza della comunità ebraica alla quale si deve una importantissima produzione sia in alfabeto ebraico ma anche in quelli greco e latino, all’evoluzione linguistica del volgare salentino che da lingua locale si trasformò in lingua comune grazie soprattutto alle figure dei primi mecenati in Terra d’Otranto che ne permisero la diffusione. In altre parole, un piccolo viaggio tra lingua, storia, cultura e società alla riscoperta del nostro passato.
  [1] Per maggiori dettagli: https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/11/messapia-era-davvero-una-terra-tra-due-mari/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/17/messapia-chi-conio-questo-termine-e-perche/
[2] Per le definizioni di latino volgare e latino classico, vedi “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/13/vocalismo-e-consonantismo-nel-dialetto-salentino/
[3] Trad. ita: “Io so che quelle terre, che qui si dice, le ha possedute trent’anni la parte di San Benedetto”.
[4] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini che ti mostrai furono di Pergoaldo come qui si dice e le ha possedute per trent’anni
[5] Trad. ita: “Quella terra secondo quei confini che vi mostrai, è di Santa Maria e l’ha posseduta trent’anni.
[6] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini qui descritti le ha possedute per trent’anni la parte di santa Maria.
[7] Maggiore, Marco (2015), Manoscritti medievali salentini, in L’Idomeneo, n.19, pp. 99-122.
[8] Cuscito, Giuseppe M (2018), Il Sefer ha-yaqar di Šabbeṯay Donnolo: traduzione italiana commentata. Sefer Yuḥasin ספר יוחסין | Review for the History of the Jews in South Italy<Br>Rivista Per La Storia Degli Ebrei Nell’Italia Meridionale, 2, 93-106. https://doi.org/10.6092/2281-6062/5568.
[9] In Maggiore (2015:102).
[10] Garrisi, Antonio (1990), Il dizionario leccese-italiano, Congedo Editore. Sotto la voce cucummaru sputacchiaru o riestu: pianta ruderale, strisciante, con steli e foglie scabri, i cui turgidi frutti peponidi maturi, se toccati, lanciano (sputano) il succo e i semi all’intorno.
[11] Cuomo, Luisa (1977), Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138, in «Medioevo Romanzo», 4, pp. 185-271.
[12] De Angelis, Alessandro (2010), Due canti d’amore in grafia greca del Salento medievale e alcune glosse greco-romanze, in Cultura neolatina, Anno 70, Fasc 3-4, pp.371-413.
[13] Rocco Distilo, Parole al computer. Dal genere al motivo d’‘alba’ (per un’ignota ‘alba di malamata’), in Atti del V convegno internazionale e interdisciplinare su testo, metodo, elaborazione elettronica (Messina-Catania-Brolo, 16-18 novembre 2006), a cura di Antonio Cusato, Domenica Iaria e Rosa Maria Palermo, Messina, Lippolis, 2007, pp. 101-115.
[14] Oronzo, Parlangèli (1958), La «Predica salentina» in caratteri greci, in Lausberg-Weinrich, pp. 336-360 [ristampa in Parlangèli (1960), pp. 143-173].
[15] La traslitterazione è presa da: Greco, V.,C., “Rimario letterario” (e non solo) Leccese e… Salentino.
[16] Bernardini, Isabella (2010), Greek Language and Culture in South Apulia. Proposals for teaching Greek, in The teaching of modern Greek in Europe: current situation and new perspectives (p. 132), Editum, Universidad de Murcia.
Ho riportato una traduzione dell’originale: “From the end of the ninth century through to the end of the sixsteenth century we find 400 Greek codices, compared to 30 Latin ones for the same period.”
[17] Maggiore, Marco (2013), Evidenze del quarto genere grammaticale in Salento antico, in Medioevo letterario d’Italia, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma .
[18]Stussi, Alfredo (1982), Antichi testi salentini in volgare, « Studi di filologia italiana », xxiii, 1965, pp. 191-224, ristampato in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 155-181.
[19] Maggiore, Marco (2013), Italiano letterario e lessico meridionale nel Quattrocento, in Studi Linguistici Italiani, vol. XXXIX, Salerno Editrice, Roma.
[20] Sgrilli, Paola (a cura di), Il libro di Sidrac Salentino, Pisa (1983).
[21] Oronzo, Parlangèli (1958), Postille e giunte al Vocabolario dei dialetti salentini di G. Rohlfs, in RIL, XCII, pp. 737-798.
[22] Vito, L.,Castrignanò (2016), A proposito di un’epigrafe salentina in volgare (Nardò, entro il 1456), in Revue de Linguistique Romane, n°317-318, Vol.80, pp, 195-205, Strasbourg.
[23] Perrore, Beatrice (2018), Il discorso riportato ne La Corte del Capitanio di Nardò (1491): alcuni tratti sintattico-testuali, in Linguaggi settoriali e specialistici, Atti del XV Congresso SILFI Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, (Genova, 28-30 maggio 2018). Vedi anche: Holtus, Günter; Metzeltin, Michael; Schmitt, Christian, (a cura di), Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, De Gruyter, Berlino (1995).
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purpleavenuecupcake · 6 years
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Consegnati brevetti pilota militare. Emozione alla base di Galatina per i piloti di Italia, Francia e Kuwait
Oggi, presso l’aeroporto militare di Galatina, alla presenza del Sottosegretario di Stato alla Difesa, On. Angelo Tofalo, del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare generale di S.A. Alberto Rosso e dell’ing. Lucio Valerio Cioffi, Capo Divisione velivoli di Leonardo S.p.a., si è svolta la cerimonia di consegna delle “Aquile Turrite”, simbolo del brevetto di pilota militare, consegnato a sei allievi italiani, due allievi dell’Armée de l’air francese e sette della Kuwait Air Force.
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Per la prima volta ufficiali piloti francesi sono stati brevettati nella scuola di volo italiana, su velivoli italiani. Un evento importante in un’ottica di cooperazione europea nel campo dell’addestramento, che assume un significato particolare se si pensa che, poco più di cento anni fa, Francesco Baracca - Asso degli Assi e medaglia d’oro al valor militare durante la Prima Guerra Mondiale - conseguì il brevetto di pilota proprio in Francia, su velivoli francesi. Nel suo indirizzo di saluto il colonnello Alberto Surace, Comandante del 61° Stormo, ha presentato la scuola di volo di Galatina, che addestra piloti sin dal 1946 e che oggi può vantare la presenza di allievi e istruttori provenienti da otto Paesi stranieri. Una realtà internazionale sempre più oggetto di attenzione da parte delle aeronautiche di tutto il mondo, che offre competenze uniche nel settore della formazione e un innovativo sistema integrato per l’addestramento al volo tra i più avanzati, basato sul binomio T339 e T346. “Dovete essere orgogliosi per il traguardo raggiunto” - ha detto il Col. Surace rivolgendosi ai neo brevettati -  “frutto di sacrifici, dedizione e tanto impegno. Non importa quali cieli solcherete, fate sì che i valori che hanno guidato Francesco Baracca vi accompagnino sempre e ovunque”.
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Il Gen. Rosso nel suo intervento ha sottolineato come “la tecnologia più sofisticata poco vale se non supportata dalla qualità dell’elemento umano e dal lavoro di squadra” e ha poi rivolto un emozionato e sincero augurio ai neo brevettati affinché possano mettere a frutto l’investimento riposto in loro dalla Forza Armata, “con responsabilità, orgoglio ed entusiasmo al servizio del Paese”. Il Sottosegretario Tofalo, nel suo discorso, ha evidenziato come “la tecnologia e il modello formativo militare italiano sono all’avanguardia e come queste capacità sono riconosciute da tutti, soprattutto dalle nazioni che affidano all’Aeronautica militare italiana la formazione di base e avanzata dei propri piloti. Storia, tradizioni, tecnologia e l’elemento umano fanno dell’arma azzurra uno dei fiori all’occhiello dell’Italia, amato e apprezzato in tutto il mondo”. Il 61° Stormo, dipendente dal Comando Scuole AM/3ª Regione Aerea di Bari, provvede alla formazione di piloti destinati ai velivoli delle linee aerotattiche, come Tornado, AMX, Typhoon e ai più moderni velivoli di 5ª generazione come l’F35. Completata questa fase dell’addestramento al volo, i neo piloti militari rimarranno a Galatina per frequentare, presso il 212° Gruppo Volo, anche la fase successiva, propedeutica all’impiego sui velivoli aerotattici. Il protagonista della cosiddetta fase IV è il velivolo T346A, l’addestratore avanzato di ultima generazione realizzato da Leonardo e in dotazione all’Aeronautica Militare, in possesso di caratteristiche assolutamente all’avanguardia sia dal punto di vista avionico che delle prestazioni in volo. E’ proprio il T346 il fulcro del sistema integrato di addestramento che utilizza anche tecnologie innovative di simulazione che consentono ai piloti di interagire con i velivoli in volo, nell’ambito della stessa missione addestrativa. L'attività formativa del 61° Stormo è indirizzata agli allievi piloti dell'Aeronautica Militare, delle altre Forze Armate e dei Paesi alleati/partner, in tutte le fasi di volo secondo le richieste di ciascun Paese. La base aerea salentina consolida dunque, con questa cerimonia, le vocazioni internazionali espresse sin dalla sua costituzione e si conferma quale scuola di volo in possesso dei sistemi di addestramento più avanzati al mondo destinati ad allargarsi con il progetto International Flight Training School, che in sinergia con Leonardo potenzierà l’output addestrativo per la Forza Armata, consentendo anche di soddisfare la crescente richiesta di partner internazionali.   Read the full article
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salentipico-blog · 7 years
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Solaika Marrocco, chef del Primo Restaurant di Lecce, con il piatto Turcinieddhi glassati alla birra con marmellata di cipolla all’arancia, critmi in tempura e infuso di luppolo, è la vincitrice della settima edizione del Premio Birra Moretti Grand Cru, il concorso nazionale per chef e sous-chef under 35, promosso da Fondazione Birra Moretti, in collaborazione con Identità Golose.
Il riconoscimento è stato assegnato ieri nel tardo pomeriggio a Milano al termine di una succulenta performance live durante la quale 10 giovani finalisti, selezionati fra 163 chef e sous-chef da tutta Italia, si sono sfidati nelle cucine del ristorante Lume di Milano, di fronte a una giuria di 14 stelle Michelin. Ecco la motivazione che ha portato Solaika Marrocco sul gradino più alto del podio, letta dallo chef Giancarlo Morelli: «Vince il Premio Birra Moretti Grand Cru chi ha dimostrato conoscenza delle tradizioni, personalità e coraggio nella scelta degli ingredienti e della ricetta, coniugando con squisita semplicità i vari elementi, credendo nella sua idea. Come ha detto: “il palato parla”».
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«Sono molto felice di essere la prima donna a vincere questo Premio. Non me l’aspettavo e per me è fonte di orgoglio perché è importante riconoscere il valore delle donne in cucina. È un lavoro duro e faticoso e l’unico modo per andare avanti è metterci passione. Io non potrei fare altro nella vita. È importante credere nei propri sogni e perseverare, perché a volte si avverano. Non bisogna arrendersi mai» – dichiara Solaika Marrocco.
Solaika Marrocco si è aggiudicata un premio del valore di 10 mila euro a scelta fra un viaggio, per due persone, in ristoranti di cucina d’autore dove potrà confrontarsi con chef pluristellati, in un percorso che arricchirà il suo bagaglio formativo. In alternativa, potrà scegliere una fornitura di attrezzature professionali per la cucina. Premi importanti, finalizzati a sostenere la crescita professionale di questi giovani chef e che possono offrire un contributo per emergere nel mondo della ristorazione.
Sin dalla prima edizione, il Premio Birra Moretti Grand Cru si è dimostrato un vero e proprio palcoscenico per le promesse della cucina d’autore italiana, mettendo alla prova i migliori chef emergenti con creazioni che prevedono la birra fra gli ingredienti e in abbinamento. Il tutto in piena sintonia con la missione della Fondazione Birra Moretti che ha fra i suoi obiettivi la diffusione della cultura della birra in Italia.
«In questi sette anni il Premio Birra Moretti Grand Cru è cresciuto molto, e si è confermato un trampolino di lancio importante per i tanti giovani chef italiani che hanno deciso di partecipare. Una crescita andata di pari passo con l’evoluzione del mercato della birra in Italia, che oggi genera un valore condiviso che supera i 7 miliardi di euro, pari allo 0,5% del PIL, come emerso dalla prima ricerca promossa dall’Osservatorio Birra nel 2017. Un numero molto significativo, anche perché sottende ulteriori spazi di crescita, sia nel mercato che nel percorso di valorizzazione della cultura della birra a tavola, mission della Fondazione Birra Moretti.
La cultura della birra a tavola è una peculiarità italiana, nel Paese dove la cultura alimentare è eccellente a tutti i livelli, e dove bere responsabilmente significa bere bene e insieme al cibo» – afferma Alfredo Pratolongo, Presidente della Fondazione Birra Moretti.
  SOLAIKA MARROCCO – Chef Primo Restaurant (Lecce)
Unica donna in finale e poco più che ventenne, Solaika Marrocco è 100% Puglia sia nella formazione professionale sia nella cucina che propone, recuperando con attenzione tradizioni gastronomiche e ingredienti del territorio. Dopo un anno da sous-chef del Primo Restaurant di Lecce, oggi Solaika è chef e firma i suoi piatti come quello presentato in occasione della settima edizione del Premio Birra Moretti Grand Cru. Turcinieddhi glassati alla birra con marmellata di cipolla all’arancia, critmi in tempura e infuso di luppolo celebrano la sua terra e un ingrediente già noto in antichità quale l’agnello.
  Una sfida sospesa fra tradizione e innovazione
Tutto è iniziato da qui, ad aprile di quest’anno, con il nuovo tema del concorso. Per i giovani chef e sous-chef di età non superiore ai 35 anni, quest’anno, la sfida era stupire mettendo “creatività e birra a tavola” in un piatto – salato o dolce – che prevedesse l’utilizzo, come ingrediente e in abbinamento, di una o più delle diciotto birre della famiglia Birra Moretti. Diciotto specialità differenti che rappresentano al meglio i principali stili birrari, prodotte con i più elevati standard qualitativi e perfette per esaltare a tavola i sapori tipici dei nostri territori. L’obiettivo era dimostrare, ancora una volta, che versatilità, leggerezza, varietà, gusto e accessibilità della birra ben si abbinano alla cucina d’autore, fatta di tante e diverse tradizioni gastronomiche.
  In giuria? 14 stelle della\ cucina d’autore
Preparati, rigorosi e con un palato esperto: non è stato semplice convincere la giuria di chef e sommelier guidata dal Presidente Claudio Sadler, chef del Ristorante Sadler di Milano. Con lui Corrado Assenza, chef e pasticciere del Caffè Sicilia, Andrea Berton, chef del ristorante Berton, Carlo Cracco, chef del ristorante Cracco, Gaia Giordano, Head chef Spazio Milano, Giancarlo Morelli, chef del ristorante Pomiroeu, Marco Reitano, sommelier del ristorante La Pergola dell’Hotel Rome Cavalieri e presidente di “Noi di Sala”, Luigi Salomone, chef del ristorante Piazzetta Milù e vincitore della terza edizione del Premio Birra Moretti Grand Cru (2013), Michela Scarello, maître e sommelier del ristorante Agli Amici, Luigi Taglienti, padrone di casa al Lume e Viviana Varese, chef di Alice Ristorante presso Eataly Milano Smeraldo. Accanto a loro Paolo Marchi, ideatore e curatore di Identità Golose – The International Chef Congress, e Alfredo Pratolongo, Presidente della Fondazione Birra Moretti.
Premio Birra Moretti Gran Cru, una salentina premiata da 14 Stelle Michelin Solaika Marrocco, chef del Primo Restaurant di Lecce, con il piatto Turcinieddhi glassati alla birra con marmellata di cipolla all’arancia, critmi in tempura e infuso di luppolo…
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vesd94 · 7 years
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Eccoci già di rientro dalle tanto agognate ferie. Oggi ho programmato di parlarvi di un’azienda 100% ecocompatibile, e 100% italiana.
Buongiorno a tutti, come state? Spero tutto bene! Io oggi, ancora per poco, mi trovo nella meravigliosa Firenze, anche se stasera sarò già di rientro. Per caso qualcuno di voi si trova da queste parti?
  Non ci sentiamo da un po’: come sapete nei mesi di agosto e febbraio questo blog ha sempre visto pubblicato un singolo articolo durante il primo giorno utile del mese, per questo in agosto avevamo parlato della Lootcrate di luglio.
Oggi invece rientriamo dalle ferie, e parliamo, come vi dicevo nell’introduzione, di un’azienda italianissima, pugliese per la precisione, dedita all’igiene della casa e della persona: Antico Saponificio Salentino.
Ho conosciuto questa azienda tramite una serie di hashtag su Instagram agli inizi di luglio: ho letto e cercato molte informazioni sul loro sito, così ho deciso di provare a contattare per richiedere una collaborazione. Ho ricevuto risposta dal gentilissimo Alessandro, che ringrazio per aver deciso di concedermi questa possibilità.
  La peculiarità di Antico Saponificio Salentino è la loro dedizione all’ecocompatibilità, in associazione alla loro sede strategica, il Salento, il quale offre loro la fantastica possibilità di usufruire dell’olio d’oliva d’origine salentina e quindi di creare dei prodotti per la cura della casa e della persona assolutamente a impatto zero sull’ambiente. La seguente, è una citazione della loro pagina “Mission“.
Le molecole che la natura ci offre (derivanti dall’olio d’oliva , da altri oli …e dai grassi) hanno una sperimentazione di coesistenza di centinaia di milioni di anni e ciò garantisce il loro utilizzo e la loro assenza di effetti negativi sia in riferimento alla salute umana che ambientale. […] L’idea dell’Antico Saponificio Salentino nasce dalla constatazione che dopo decenni di utilizzo dei tensioattivi sintetici derivanti dalla petrolchimica (comuni al 99% e più dei detergenti per la persona, casa, indumenti etc.), per i quali da tempo se ne decanta la loro sicurezza sia a i fini della salute umana che dell’ambiente, sono oramai dimostrati appieno i loro punti deboli: secchezza della pelle, dermatiti, intolleranze a tutti i livelli e situazione di bioaccumulo dei loro metaboliti se impropriamente ingeriti.
Ora vi cito invece degli estratti dalla conversazione via mail che ho avuto con Alessandro.
Hai lavato il pavimento? Pensa al tuo bimbo che cammina gattoni e poi porta le dita alla bocca: cosa ha ingerito? Semplice, residui di tensioattivi sintetici , perossidi, sbiancanti ottici..
Hai pulito il forno? Alla prossima accensione cosa immetterai nell’aria di casa?
Hai risciacquato con il detersivo water o doccia? Cosa inalerai la prima volta che azionerai lo sciacquone o allorché, nel box, libererai l’acqua calda respirandone i vapori? Un sostanzioso aerosol chimico! 
  E fu così che… durante la prima settimana di agosto ho ricevuto finalmente il pacchetto a me destinato, contenente al suo interno ben quattro prodotti per la cura del corpo, in contenitore di plastica con dosatore tradizionale, da ben 500ml. [Ho preferito mantenere una certa coerenza col mio blog e chiedere di recensire solamente prodotti per la cura del corpo, piuttosto che per l’igiene della casa.]
Vi mostro finalmente il contenuto del pacco, visto che per motivi di forza maggiore – afa, orario, indecenza del mio aspetto, etc – non ho registrato un video di unboxing.
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Ebbene, tutti i quattro prodotti che vedete nelle immagini sono esattamente gli unici prodotti per la cura del corpo presenti nella loro offerta. Ho avuto quindi modo di farmene un’opinione completa.
  Sapone Liquido Ristruttura. 7,80€ ISTRUZIONI PER L’USO : Applicare il sapone a mano asciutta sul viso/corpo umido ma non bagnato. Cospargere e massaggiare per almeno 2 minuti e risciacquare.
Questo è senza dubbio il prodotto che ha usato di più la famiglia nel complesso. L’ho posizionato in prossimità del lavandino della cucina, quindi lo abbiamo usato like no tomorrow proprio. Ha un fantastico odore di pulito, molto simile in generale all’odore dei detersivi per piatti che si usavano anni fa; la fragranza permane sulla pelle delle mani anche dopo molte ore dal lavaggio – sempre che non abbiamo avuto contatti con altri odori, ovviamente. L’ho usato senza particolari accortezze, come un normalissimo sapone per le mani. Ho evitato di usarlo sul viso proprio per via dell’odore. Essendo saponi creati con una base importante di olio di oliva, risultano molto nutrienti, da qui la dicitura “Ristruttura”. L’unico difetto è che appunto lasciano il fondo del lavandino idrorepellente, e quindi mia mamma è sempre lì per ripulire e lucidare. 😛 C’è da dire che schiuma veramente poco, ma fintantoché si tratta di una zona limitata come quella delle mani, con una sola dose erogata dal dispenser ci si lava abbondantemente.
Sapone liquido viso corpo. 6,50€ ISTRUZIONI PER L’USO : Applicare il sapone a mano asciutta sul viso/corpo umido ma non bagnato. Cospargere per poche decine di secondi e risciacquare.
Questo invece è il prodotto da cui ho attinto io in misura maggiore: posizionato sul lavandino del bagno ho potuto usarlo tutti i giorni per molteplici usi (mani, viso, e altre parti del corpo in momenti in cui non necessitavo di fare una doccia intera). Questo sapone ha un odore dolce ma “potente”, ha lasciato i nostri olfatti stupìti, e il bagno profumoso, per buone due giornate intere – forse poi ci siamo abituati e non ci abbiamo più fatto caso, ma vi assicuro che ha un odore micidiale! La fragranza è molto simile a quella di una gomma da masticare alla fragola, tipo BigBabol. Un giorno in cui ho deciso di usarlo per lavarmi petto e ascelle prima di uscire in scooter, praticamente, nonostante il vento riuscivo a percepire la nuvoletta di profumo che mi svolazzava attorno 😛 … Diciamo che ho avuto la stessa identica espressione del sapone di cui ho parlato precedentemente: pochissima schiuma, effetto pelle morbida e idratata, non aggredita, profumo persistente, e fondo del lavandino idrorepellente. Questo è forse l’unico vero problema di questi saponi. Al contrario, quando lavo la pelle del viso con questo sapone e poi magari non devo uscire per rimanere a compiere i classici lavoretti di casa, posso anche non mettere la crema viso senza sentirla tirare per la secchezza.
Bagnoschiuma Pino ed Eucalipto. 6,50€ ISTRUZIONI PER L’USO : Applicare il sapone a mano asciutta sul viso/corpo umido ma non bagnato. Cospargere per poche decine di secondi e risciacquare.
Probabilmente questo è il prodotto che mi ha soddisfatto di meno. Ovviamente ho posizionato il flacone in una doccia (e il prossimo di cui vi parlerò, la Mousse, in un’altra doccia: ho due bagni in casa…). Forse sarò l’unica, forse ho un problema io, ma non riesco a stringere un buon rapporto con i bagnoschiuma che non fanno schiuma D: … Non riesco a dosarli e non capisco se arrivano ad essere distribuiti sulle zone del corpo dove li massaggio, oppure se si fermano prima. In ogni caso preferisco di gran lunga i prodotti schiumogeni, per lo meno per i lavaggi più grandi, come appunto per la doccia e per lo shampoo (vi dicevo che sulle mani il problema della poca schiuma non si pone). L’odore è fresco e frizzante, molto piacevole, ma appunto non sono riuscita ad apprezzare gli effetti benèfici sulla pelle. Intendo pelle morbida, effetto idratazione etc, ecco: NO. Devo aggiungere che in estate ho avuto, e ho tuttora, una pelle SECCHISSIMA, quindi se quando esco dalla doccia non mi immergo in una botte di olio di cocco, praticamente dopo cinque minuti le gambe diventano un mosaico. Ve ne sconsiglio la visione.
Mousse da Bagno. 7,80€ ISTRUZIONI PER L’USO : Applicare il sapone a mano asciutta sul viso/corpo umido ma non bagnato. Cospargere per poche decine di secondi e risciacquare.
La fragranza di questa Mousse da bagno sembra più un vero e proprio profumo da donna che la fragranza di un sapone. Mi è piaciuta molto, anche perché mi ha permesso di uscire simil improfumatissima senza spruzzare nulla. L’unica cosa che mi sconcerta è che la mia Mousse ha un colore molto diverso rispetto a quella mostrata sul sito. Assolutamente non credo sia colpa del fatto che il prodotto è andato a male, non preoccupatevi, perché non è intaccato in odore, consistenza e così via: credo abbia semplicemente una formulazione diversa dal flacone che era stato fotografato e scelto per il sito. Anche in questo caso trovo che la consistenza sia troppo liquida, e quindi per lavarcisi se ne necessitano diverse “spruzzate” di dispenser per coprire tutto il corpo.
  Diciamo che posso accomunare i quattro prodotti con la seguente sintesi: fragranze ottime e inebrianti, poca schiumosità, presenza percepibile di glicerina che in generale (per il 50% dei prodotti provati) mi lascia una sensazione di idratazione, presenza percepibile di olio di oliva che, per l’altro 50% dei prodotti provati, lascia il materiale dei lavandini idrorepellenti. Una cosa che non mi piace è che gli inci non siano molto chiari, ad esempio sui flaconi che mi son stati inviati non c’è alcuna etichetta in proposito. E questa di fianco è quella riportata sul sito. Cliccatevi sopra per avere un’idea.
In generale sono molto soddisfatta da questa collaborazione, e soprattutto contenta di questa esperienza.
Io voglio ringraziare nuovamente Alessandro Malitesta di Antico Saponificio Salentino per avermi inviato questi quattro saponi e per avermi permesso di parlarvene. Vi informo inoltre che per reperire questo marchio potete recarvi solamente online sul loro sito, dato che sono pochissimi i punti vendita fisici riforniti.
  Grazie anche a voi per aver visionato questo articolo, spero di rivedervi presto.
Ci vediamo tra qualche giorno!
La mia esperienza con Antico Saponificio Salentino Eccoci già di rientro dalle tanto agognate ferie. Oggi ho programmato di parlarvi di un'azienda 100% ecocompatibile, e 100% italiana.
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Il pasticciotto leccese. Ma quando è stato creato? E da chi?
  IL PASTICCIOTTO LECCESE
Prezioso come un lingotto, sua maestà il Pasticciotto
di Raffaele Marullo*
  Il pasticciotto è il simbolo per eccellenza – e non solo culinario – del territorio leccese. Ma quando è stato creato? E da chi?
La prima ricetta scritta di quello che possiamo definire l’antenato del pasticciotto è da attribuire a Bartolomeo Scappi nella sua Opera. L’arte et prudenza d’un maestro cuoco, testo del 1570. Il cuoco associa la crema, a suo dire di provenienza francese, a un involucro da lui definito «cassetta del pasticcio»: egli riprende questa espressione per suggerire una preparazione (sia dolce sia salata) all’interno di una forma che poteva essere di terracotta o di rame stagnato. Stando a questa attestazione, quindi, un “pasticciotto” non sarebbe altro che un vezzeggiativo della parola “pasticcio”. In ogni caso è da sottolineare che, essendo Scappi conosciuto come il «cuoco secreto di papa Pio V», le sue ricette si sono certamente mosse all’interno di ambienti ecclesiastici.
Da Scappi si arriva direttamente alla citazione più antica e precisa del termine “pasticciotto” che si trova in un inventario redatto alla morte del vescovo di Nardò, il monsignore Orazio Fortunato, nel 1707: qui si menzionano «barchiglie di rame da far pasticciotto numero otto».  Ciò rafforza ulteriormente l’idea che sia il nome di questo prodotto sia la ricetta possano essere maturate in un ambiente ecclesiastico.
Ippolito Cavalcanti, nella sua Cucina teorico-pratica (1837), compilando la ricetta salata «Pasticcetti di pasta frolla», scrive: «[…] Potrai fare li tuoi pastiecetti, o tagliati col taglia pasta, o nelle formette, o nelle varchiglie…». Nello stesso volume, sono presenti anche ricette di dolci e torte farcite con crema pasticcera, che riconducono tutte all’idea del pasticciotto, da lui stesso peraltro menzionato nella «Pizza doce co la pasta nfrolla»: «[…] Co la stessa pasta, e co la stessa mbottunatura può fa pure li pasticciotti».
Tuttavia, consultando queste opere antiche possiamo riscontrare delle differenze rispetto alle ricette attuali soprattutto per quanto riguarda il lessico: molti di quei termini che per noi sono di uso comune in passato erano utilizzati in modo diverso.
Nella ricetta di Scappi, l’unico elemento che manca, per essere del tutto assimilabile a quella del pasticciotto, è la descrizione di un’eventuale copertura della «cassetta del pasticcio», una volta riempito, con l’impasto stesso, come invece farà Ippolito Cavalcanti nella ricetta «Pizza doce co la pasta nfrolla», che lui stesso associa al metodo per fare i pasticciotti, dicendo: «ncoppa nce miette l auta pettola de pasta e la farraje cocere». Per “pettola”, termine usato anche da Scappi, si intendeva una piccola porzione di pasta appiattita, un termine che è finito anch’esso per identificare un’altra ricetta tipica salentina, le pìttule.
Un’altra ipotesi riguardo la nascita di questo prodotto può essere legata alle varchiglie alla cosentina che, nel 1300 a Cosenza, venivano prodotte dalle monache Carmelitane scalze.  Alcuni sostengono che questo nome derivi dallo spagnolo barquilla (“cestino”) o dal volgare varca (“barca”), ma gli Aragonesi, in realtà, arrivarono nella regione oltre un secolo più tardi. Le varchiglie erano composte da un involucro esterno costituito da una specie di pasta frolla e ripieno di pasta di mandorla cui si dava la forma di una barchetta; nel complesso sono considerate le antenate dei bocconotti meridionali e anche del nostro fruttone salentino. Il nome, la preparazione e la forma non possono che ricondurre al pasticciotto e proprio il termine “bocconotto” in dialetto salentino viene ancora inteso come variante del pasticciotto.
Oltre che con il generico bocconotto dell’Italia meridionale, il pasticciotto salentino, sia per il nome sia per la ricetta, ha un nesso con quello campano che oltre alla crema pasticcera prevede l’impiego dell’amarena come descritto nella ricetta delle «Bucchinotte d’amarene» di Cavalcanti. Non sappiamo se questo prodotto preesistesse rispetto a quello leccese o se, viceversa, sia stato importato dal Salento, come non sappiamo se il fruttone leccese, che abbiamo ipotizzato derivare dalla varchiglia calabrese, possa derivare anche dalle bucchinotte d’amarene napoletane, di cui esiste una variante più simile ad esso nella penisola sorrentina nella quale viene aggiunta nel ripieno anche la pasta di mandorla.
Quel che è certo è che in passato la consumazione di questi prodotti era limitata alle classi agiate come specifica Pellegrino Artusi nella sua opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891-1910). Tenendo conto degli influssi napoletani nella società leccese del tempo, i pasticciotti menzionati nell’inventario di Nardò forse potevano già contenere l’amarena.
Rispondere esaurientemente alle domande iniziali non è quindi possibile e tutto sommato non è neppure auspicabile perché, come spesso accade, è la trasmissione dei saperi, la registrazione, gli intrecci e le contaminazioni che hanno dato vita a quelle tradizioni poi considerate “locali”, a volte anche in maniera campanilistica, e che invece sono già figlie di tanti luoghi e tante storie.
  Raffaele Marullo, di Nardò, è diplomato presso la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, Corso Superiore di Pasticceria, di Colorno (Parma), fondata da Gualtiero Marchesi
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Il presente del verbo 'essere'
di Giammarco Simone
Analogamente a quanto fatto con il verbo ‘avere’, adesso l’attenzione si sposta sul verbo ‘essere’. Anche qui, la diversità linguistica del dialetto salentino è oggetto di analisi, in quanto esistono varie forme verbali dipendenti dalla zona geografica di riferimento. Per questo studio, ricorre la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (1966) del linguista G. Rolhfs. Sulla base delle sue considerazioni, propongo di seguito un elenco delle persone del presente indicativo del verbo essere e la relativa spiegazione:
1°pers. sing: suntu/sontu/sù/sò: la forma verbale è un caso di confusione. Mi spiego: se dovessimo dire che suntu/sontu derivano dalla 1° pers. sing. del verbo latino esse, che ha dato nel latino volgare *essere, dovremmo pronunciare sugnu, come nel siciliano, in quanto essa proviene sì dalla 1°pers.sing. latina che era sum. Tuttavia, la forma verbale del nostro dialetto non si origina da sum, bensì da sunt, cioè la 3° pers. plur. del verbo latino. Per questa ragione, come vedremo in seguito, la 1°pers. sing. e la 3°pers.plur. coincidono (jo suntu/sontu; iddhri suntu/sontu). Per quanto riguarda l’utilizzo delle varie forme, si può dire che suntu, con la sua corrispettiva forma abbreviata sù, si usa in tutto il Salento, fatta eccezione dei paesi limitrofi a Nardò e nel brindisino dove si utilizza la forma sontu e quella abbreviata sò che si ritrova anche in tutte le parlate del Meridione.
2°pers.sing: sinti/si: in linea generale, la forma dialettale deriva dal latino es, che probabilmente ha dato *sees nel latino volgare. Tuttavia, nel Salento si può anche osservare la forma sinti, la quale è il risultato di un adattamento su sontu. Anche per la 2° pers. sing. l’uso di si è piuttosto generalizzato, in quanto è una forma ricorrente in tutti i dialetti meridionali. La forma riadattata sinti sembra essere più rara, anche se nel neretino e nei territori di Galatone ed Aradeo è attestata (cce si scemu!/ cce sinti scemu!).
3°pers.sing: è/ete: la forma più attestata è senza dubbio è, anche per l’analogia con la lingua italiana. Tuttavia, la forma ete presuppone un piccolo chiarimento. Questa forma deriverebbe dall’antico italiano edè formatosi dal latino quid est > ched’è. Rolhfs (1966) ce ne parla in riferimento ai dialetti settentrionali toscani, ad alcuni marchigiani e al romanesco, dove la 3° pers. sing. è proprio edè. Nel dialetto salentino, si sarebbe poi avuto un suono dentale in t al posto di d ed un arretramento dell’accento, da cui la forma ète. In ogni modo, si tratta di una forma anch’essa abbastanza generalizzata in tutto il Salento.
1°pers.plur: simu: non esistono altre forme per esprimere la 1° pers. plur. Interessante, però, è sapere che la sua origine si deve al *simus volgare, proveniente a sua volta dal sumus
2° pers. plur: siti: anche per questa persona esiste una sola forma. Per quanto riguarda la sua possibile origine, si potrebbe pensare ad un antico latino volgare in *setis che sostituì la forma classica estis.
3° pers. plur: suntu/sontu/sù/so: come anticipato precedentemente, la 1° pers. sing. e la 3° pers. plur. sono uguali, così come le zone dove vengono utilizzate.
All’interno del discorso sul verbo essere, c’è da palare di un fatto curioso: l’utilizzo alla 3°pers.sing. della forma bbè/bbete. In questo caso, siamo davanti ad un fenomeno fonologico[1] che prevede l’aggiunta di un elemento non etimologico, in questo caso la consonante b, per armonizzare il suono e renderlo più facile da pronunciare. Questo raddoppiamento è presente, come vedremo anche in futuri interventi, nell’imperfetto (bbera) e nel congiuntivo (bbessa).
Una personale osservazione del nostro modo di parlare mi porta a dire che l’uso di bbè/bbete è più frequente con la negazione nu (nu bbè/bbete filu ca no mi piace; nu bbè/bbete calanteria quista; nu bbè/bbete iddhru lu problema) e quando il verbo essere è preceduto da una parola terminante in e/u o dalla congiunzione e (ce bbè beddhru; nu bbè degnu cu bbessa fijusa; ca d’energia pulita nci nnè tanta e bbè tutta utilizzabile).  La zone in cui si registra l’uso di bb è quella del Salento centrale, con Lecce e i paesi limitrofi al nord.
Ben diversa, invece, è la situazione in altre parti del Salento come Nardò, Copertino Aradeo, Galatone, Galatina, Gallipoli, Scorrano, Spongano, ecc. In queste zone si tende a pronunciare gg/ggh/ddh. Ad esempio: cce ggè? /cce gghiè? /cci ddhrè? /cce ggè successu? /cce gghiè successu? /cci ddhrè successu?
Se per la consonante b gli studi permettono una facile interpretazione puramente fonologica, lo stesso non si può dire sull’origine di gg/ggh/ddhr. Gli studi fatti da Rolhfs (1966) sono certamente fondamentali per poter capire come si siano svolti i fatti o quanto meno per poter formulare delle ipotesi. Infatti, egli osserva il ghe presente nei dialetti settentrionali della Liguria, Lombardia, Emilia e Veneto. In questi vernacoli, l’avverbio di tempo e di luogo ghe, originatosi dall’hic latino, accompagna il verbo ‘avere’ e sostituisce gli avverbi ci/vi della lingua italiana. Nonostante ciò, Rolhfs attesta anche la sua presenza in compagnia del verbo ‘essere’, con il significato equivalente all’italiano c’è . A tal proposito, riporto una frase scritta nel 1592, dell’allora sindaco di Lecce d’origine veneziana, Pietro Mocinego, il quale parlando di Lecce affermava: “Non ghe se al mondo cità più bea”[2], dove ghe >ci e se > è.
Dunque, mi verrebbe da formulare due ipotesi: che sia un lascito dei dialetti settentrionali nel Meridione o, piuttosto, si tratta di un fenomeno linguistico evolutosi in parallelo sia nei vernacoli settentrionali sia in quelli meridionali.
In riferimento alla prima ipotesi, direi che, dal punto di vista storico, precisamente intorno al 1482, la penisola salentina fu territorio di conquista da parte della Repubblica Veneziana e che, negli anni successivi, proprio per la sua importanza strategica nel Mar Adriatico e Mediterraneo si produssero numerose guerre di predominio territoriale contro i francesi che di tanto in tanto occupavano le terre italiane. In questo caso, come già espresso nel mio primo intervento sul “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, la storia è una utile alleata per poter rispondere a quelle che sono le domande e i dubbi di tipo linguistico, in quanto la formazione del lessico e le modificazioni delle parlate di un territorio possono avere come causa scatenante proprio il passato storico e le eventuali dominazioni susseguitesi nel corso dei secoli, in quanto portatrici di innovazioni e lasciti linguistici. Tuttavia, l’ipotesi storica credo che qui sia un po’ forzosa, soprattutto perché non ho prove certe di una possibile eredità linguistica diretta dei dialetti settentrionali sul salentino.
Per quanto riguarda, invece, la seconda ipotesi, la teoria di un’evoluzione in parallelo nei due vernacoli appare alquanto più probabile soprattutto se pensiamo che le forme gg/ggh/ddh sono presenti nel dialetto salentino sia alla 3° pers. sing. dell’indicativo ma anche nell’imperfetto (ggera/ gghiera/ddhera) e nel congiuntivo (ddheggia/ eggia ecc.). Secondo una ricostruzione, tali forme potrebbero provenire da hic + est latino, da cui si è avuta un’evoluzione fonetica e grafica che ha portato l’avverbio hic a trasformarsi in ghe, a perdere la sua funzione grammaticale di avverbio e unirsi al verbo essere[3]. Ciò si vede in cce gghè beddhru, dove ghe ha perso la sua funzione avverbiale. L’unico esempio dove l’avverbio si è mantenuto è nella domanda cce gghè? dove ghe ha significato di “adesso, in questo momento”, proprio come in italiano che c’è?
Anche per questa forma come già detto per quelle del leccese, da una mia osservazione posso affermare che il loro uso è più frequente con la negazione no e quando il verbo essere è preceduto da una parola che termina in e/u o congiunzione e.
Per concludere, abbiamo visto come anche il verbo ‘essere’ possiede alcune caratteristiche meritevoli di approfondimenti. Personalmente, ritengo molto importante soffermarsi a pensare sul perché e sul come della nostra lingua, in quanto essa è capace di raccontare storia, fenomeni, cause e ragioni che difficilmente riusciremmo a sapere se non ci fermassimo ad osservare.
  Note
[1]Pròtesi o pròstesi.
[2] Rucco N., Greco C. “Uci salentine”, Galatina, 1992.
[3] Bertocci, D., Damonte, F. “Distribuzione e morfologia dei congiuntivi in alcune varietà salentine”, 2007.
  Per il verbo avere nel dialetto salentino vedi qui:
Dialetto salentino. Il presente del verbo “avere” – Fondazione Terra D’Otranto
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Osvaldo Giannì e la poesia popolare salentina
di Paolo Vincenti
Studioso competente quanto umile, seppe interpretare il proprio operare culturale come un servizio, nel senso più alto e nobile del termine. Non cercava le luci della ribalta, era uomo estraneo a certi protagonismi, del tutto immune alle lusinghe che l’ambiente letterario sa dispensare ai suoi protagonisti. Parliamo del professor Osvaldo Giannì, a sette anni dalla sua scomparsa.
Nato nel 1937, si era laureato in Lettere Classiche nel 1963 presso l’Università di Bari. Chiari e ben delineati i suoi interessi di studio fin dall’inizio: la lingua e la poesia dialettale salentina, in particolare tavianese. La figura di Orazio Testarotta accompagna la sua carriera. Ancor di più, quella di Sebastiano Causo, tanto che la sua bibliografia si apre e si chiude con questo nome: ne scrive su “Nuovi Orientamenti” nel 1978 e su “Presenza Taurisanese” nel 2010.  Apprezzato docente, ha insegnato per una vita Lettere, nel Ginnasio del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Casarano.
Si coniugano in lui l’amore per la propria terra, il paesello che non abbandonò mai, e la cura filologica dello studioso di rango, che volle salvare dall’oblio il vasto repertorio delle voci popolari del suo paese, quei poeti e prosatori dialettali che dovevano essere ai suoi occhi custodi del mos maiorum. All’acribia dello studioso si univa la semplicità dell’uomo, in un connubio che anche nei periodi più duri della malattia non ebbe a dissolversi. Vecchia scuola, padroneggiava la lingua italiana con una scrittura bella, chiara, lontana da manierismi e astrusità.  È morto nel gennaio del 2012.
Del poeta salentino Orazio Testarotta (1870-1964), alias Oronzo Miggiano, autore dialettale, cieco dalla nascita, originale interprete di una poesia bozzettistico-satirica, che è filone creativo scarsamente coltivato nel corso del Novecento, Giannì è stato il principale promoter. Ha analizzato tutto il corpus delle liriche del poeta tavianese, scrivendone su riviste e anche in volume, in una delle sue pubblicazioni più importanti nel 1997[1].
Nel libro, con Presentazione di Lorenzo Ria e Prefazione di Donato Valli, Sebastiano Causo aveva tradotto le poesie in italiano. Giannì amava l’arguzia, il brio, la sagacia, l’irriverenza della poesia di Testarotta, insomma quell’ italum acetum, di cui parlavano i latini, che intride le più importanti composizioni satiriche della nostra letteratura, connotando versi e prose dei suoi rappresentanti più originali e genuini. Infatti, come scrive Giannì nell’Introduzione del suo libro, “I versi di Orazio Testarotta, pur uniformandosi letterariamente alla Stilistica e Metrica della poesia in lingua (nelle strutture compositive, nel sistema metrico e nelle figure metriche, ecc.) restano sempre satira di costume: non riflettono mai petrarchismi, romanticismi o ermetismi di sorta, anzi, idealmente contrapponendosi a tali “climi” e nozioni, e formule stilistiche, si configurano come ultima prova ed esperienza di versificazione dialettale veracemente popolare, cioè a dire realistico-burlesca. Restando l’isolato rappresentante del bozzettismo e del ‘favolismo’ satirico, 0razio Testarotta costituisce, dal dopoguerra ad oggi, nell’interno della poesia dialettale un contrappunto, ossia una ideale testimonianza di ‘opposizione’, di poesia ‘forte’, oggettiva, plastica, che rimane legata alla grande tradizione realistica, che ammette ancora una fraterna e complice consonanza coi lettori: protagonista, infatti, nell’arte di Testarotta, è il popolo, ravvisato nella multiformità dei suoi atteggiamenti mentali e nelle variegate manifestazioni del suo modus vivendi; protagonista è l’ambiente ‘paesano’ salentino (urbano e giammai paesaggistico) di cui tutta l’opera di Testarotta ci restituisce una mirabile ed esemplare oleografia (l’oleografia di un mondo popolare e piccolo-borghese).”
E quella opposizione forte, oggettiva, Giannì doveva amare, negli echi della poesia del suo concittadino, forse per un piacere intellettuale verso il duttile e variegato sistema espressivo utilizzato dal poeta, forse ancora, per unità di intenti, quella salace ironia, sorniona e sorridente, di cui egli stesso era portatore, fors’anche, se non sicuramente, per un interesse filologico, di studioso, verso quella lingua che riteneva la progenitrice della lingua italiana di cui egli era insegnante. Al Testarotta venne anche intitolato un concorso di poesia dialettale nel suo paese, a cui Giannì dedicò il libro L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi.[2]
Chi lo ha conosciuto, ha per lui parole di affetto e stima. Lo ricorda come un uomo molto colto ed un gran conversatore, il professor Antonio Lupo, già suo collega presso il Liceo “Dante Alighieri” di Casarano e poi anche Preside dello stesso Liceo. La figlia, Irene Giannì, che col padre condivide la professione di insegnante, mi dice: “Ricordo che ha amato moltissimo la poesia di Testarotta, lo faceva ridere di gusto e pensare, in un commisto di serio e faceto, che un po’ gli assomigliava.  Mio padre amava ridere e scherzare e spesso gli riusciva anche bene. E ricordo che rideva molto ‘con gli occhi’: potevi capire come e quando sarebbe insorto il sorriso semplicemente osservando il modo in cui i suoi occhi si assottigliassero poco prima che esplodesse fragorosa la risata. Certo, non aveva un carattere perfetto, sapeva arrabbiarsi e fare arrabbiare, rimproverare e farsi rimproverare, ma questo rientra nella normale considerazione delle cose. L’immagine o le immagini più autentiche che ci siano mai state di lui, per me, sono le caricature che colleghi, amici, o alunni hanno disegnato di lui: lui era così come appariva in quelle immagini…un tipo ironico e scherzoso”.
Con “A sporta picciulara” – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento,[3] Giannì intendeva sostenere una meritoria operazione di recupero e salvataggio del dialetto tavianese, colto nella parlata viva, nell’interagire quotidiano fra i nativi dialettali del secolo scorso, prima che questo enorme portato culturale, oltre che linguistico, andasse perduto del tutto, a causa della sopravanzante modernità. La sua, dunque, una vera e propria battaglia di valenza civile a difesa di quello che gli studiosi definiscono patrimonio demo-etno-antropologico di un popolo, al declino di un’era, come ultima testimonianza di una tramontante civiltà a cui Giannì evidentemente affidava i propri sentimenti di accorata nostalgia. Questo, sosteneva Giannì, era quanto egli stesso aveva tentato di fare con il volume sul Testarotta, e quanto cercava ancora di fare con questa raccolta di versi e prose in dialetto tavianese del Novecento di autori sconosciuti e fino ad allora mai pubblicati. A sporta picciulara, in dialetto, è un contenitore di gran capienza, come vuole essere appunto il libro, che raccoglie tanti materiali diversi.  Un’ode alla lingua dei nostri avi, insomma, messa a duro repentaglio dallo scorrere inesorabile del tempo e dalle innovazioni tecnologiche che esso porta con sé, primo fra tutte l’odierna comunicazione di massa.
Un’operazione che, al di là dell’intento del curatore di cristallizzare la lingua, rende il dialetto ancora caldo e palpitante di accenti e vibrazioni e moti dell’anima, che le nuove generazioni, inconsapevoli di tanta ricchezza, non riescono a cogliere.  Ma Giannì, con fermezza quasi tranchant, credeva nella necessità di congelare la lingua degli avi – parlava senza mezze misure di “ipostatizzazione linguistica” –il che, secondo me, comportava inevitabilmente anche una adesione sentimentale, sia pure malcelata, a quel mondo primigenio, per chi come lui si faceva laudator temporis acti, difensore del tempo che fu, inevitabilmente diffidente verso le innovazioni. Quello che infatti ci consegna l’opera di Giannì è uno spaccato della parlata popolare dell’ultimo Novecento, prima che questa mutasse in quella sorta di pastiche, ibridazione, quale è oggi la lingua dialettale, anche nella parlata dei più anziani, poiché troppe suggestioni, il linguaggio dei media in primis, ormai la condizionano, la snaturano, la meticciano.
Questa selezione di testi, invece, era per Giannì importante, nella sua immediatezza e genuinità, a maggior ragione in quanto anche i più noti poeti dialettali del Novecento che hanno scritto in dialetto non possono definirsi poeti dialettali, poiché hanno utilizzato un dialetto colto, raffinato, letterario, e ben pochi sono stati i poeti dialettali veri e propri, fra i quali citava il parabitano Rocco Cataldi. E al Cataldi, Giannì era unito proprio dall’amore per Orazio Testarotta. Da piccolo, Cataldi aveva conosciuto il poeta dialettale di Taviano, il quale lo ospitava volentieri nella sua casa, dove viveva solo;  un giorno, Testarotta ascoltò alcune composizioni di Rocco, che aveva trovato il coraggio di leggergliele e, dopo un lungo silenzio(come ricorda lo stesso Cataldi in un aneddoto raccontato sulla rivista “NuovAlba”[4]), il poeta disse: “E bravu lu scettu” e lo incoraggiò a continuare sulla strada intrapresa: quella frase divenne il titolo di una poesia di Cataldi dedicata proprio al Testarotta. In effetti, come spiega Donato Valli, “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale ‘riflessa’, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”[5].
E questo filone popolaresco della poesia e della prosa, è quello riportato alla luce da Giannì, nel senso di una produzione che muove da colori, umori e sapori che sono radicati nel popolo. Come afferma Aldo D’Antico, “scrivere in dialetto non significa soltanto usare la sintassi popolare, ma assumere, quale categoria di ricerca e di espressione, l’anima del popolo, la sua saggezza antica, la sua astuzia proverbiale, la sua inarrestabile dinamica storica, sociale e politica… Il dialetto, frutto di un’elaborazione linguistica secolare e paziente … è uno dei pochi mezzi ‘puri’ rimasti al poeta per esprimere la sua disapprovazione, la sua contestazione, la sua inquietudine… Il linguaggio dialettale ha il potere di scarnificare il contenuto poetico, di renderlo essenziale, di ridurlo a parola; opera cioè una costruzione semantica fondamentale: riconduce il suono a significato culturale, ridando alla parola in sé tutto il suo potenziale espressivo.”[6]
Di Orazio Testarotta, ovvero Oronzo Miggiano, Giannì ha scritto anche su «Note di Storia e Cultura Salentina»[7]. Alla lingua degli avi, egli era talmente legato che spesso ne parlava anche ai suoi allievi, condendo le lezioni di italiano latino e greco con divertenti battute in dialetto.
L’altra figura relativa agli studi di Giannì è quella di Sebastiano Causo, poeta nativo di Taviano ma vissuto a Taranto. Intellettuale molto raffinato, per quanto appartato e schivo, eccellente poeta, aveva pubblicato circa venti libri. Era legato a Giannì (che ne traccia un commosso ricordo sulla rivista “Presenza Taurisanese”[8]) da sentimenti di personale amicizia prima che di collaborazione culturale: aveva spesso tradotto in lingua italiana le poesie dialettali studiate da Giannì.
  Negli ultimi anni, quando ormai la malattia stava prendendo il sopravvento, Giannì ha collaborato con il periodico “La Piazza”, edito nel suo comune di Taviano. “Viveva appartato, in solitudine”, mi dice lo storico Vittorio Zacchino, “specie negli ultimi anni, che sono stati rattristati dai problemi di salute, ma era persona amabile, generosa e molto disponibile nei confronti degli amici e dei colleghi”.  È ancora Irene Giannì a parlare: “la sua eredità morale coincide con la sua professione di docente, che ha svolto con correttezza e passione per quarant’anni: i suoi allievi, dai primi d’inizio carriera agli ultimi, sono i testimoni più autentici, a mio avviso, del suo lavoro, perché ancora lo ricordano e per come lo ricordano. Questa è l’eredità che mio padre ha lasciato anche alle sue nipotine, che amava tanto”. “Uno studioso serio e rigoroso”, dice di lui lo storico dell’arte Mario Cazzato, “ci fornì una preziosa collaborazione quando con Antonio Costantini e Vittorio Zacchino, stavamo lavorando al libro su Taviano”[9].
Se penso alla sua carriera, mi vengono in mente i versi di Virgilio, nelle Georgiche, “Laudato ingentia rura, exiguum colito” (Libro II, vv.412-413), cioè, “loda il campo grande (l’insegnamento dei classici greci e latini, nella sua carriera di insegnante) e coltiva il piccolo (i suoi studi sulla letteratura locale)”. Questo ha fatto Giannì, si parva licet componere magnis, unire alto e basso, in una operazione meritoria, per la quale vale serbargli grato ricordo.
  Bibliografia diacronica degli scritti di Osvaldo Giannì.
  La riforma nella scuola media secondaria di primo grado, in «18° Meridiano – periodico Indipendente», Lecce, marzo 1965, p. 8.
Sebastiano Causo –parte prima, in «Nuovi Orientamenti», a. IX, n. 48, genn-febb. 1978, Lecce, pp. 13-19.
Sebastiano Causo – parte seconda, in «Nuovi Orientamenti», a. IX, n. 49-50, marzo-giug. 1978 , Lecce, pp. 49-57.
Appunti di lettura su “Questa mia sera” – Poesie di Renato Ungaro (Gabrieli editore, Roma 1978) – parte prima, in «Nuovi Orientamenti», a. X, marzo-giug. 1979, n. 55-56, Lecce, pp. 21-33.
Appunti di lettura su “Questa mia sera” – Poesie di Renato Ungaro – parte seconda, in  «Nuovi Orientamenti», a. X, luglio-agos. 1979, n. 57, Lecce, pp. 3-7.
Un’ispirazione tesa a scoprire l’ultima ragione, recensione a Rosario Nichelini, Il fiore del nostro inverno – Poesie, Napoli 1979, in «Nuovi Orientamenti», a. XI, genn-febb. 1980, n. 60, Lecce, pp. 5-7.
Visioni ed echi di esperienza vissuta, recensione a Rosario Nichelini, Diario della memoria felice – Poesia, Napoli 1982, in «Nuovi Orientamenti», a. XIV, genn-febb. 1983, n. 78, Lecce, pp. 23-24.
L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi,  a cura di Osvaldo Giannì, Taviano, Graphosette Tipografia srl, 1984.
Ironia in forma di versi, in «Quotidiano di Lecce», a. VI, n. 192, 14 aprile 1984, pp. 16-17.
Postfazione  in Giorgio Primiceri, Divagazioni – poesie in dialetto, Matino, Tipografia San Giorgio, 1985.
Alberto Gatti, Felix – poesie, in «Nuovi Orientamenti», a. XX, nov-dic. 1989, n. 117, Lecce, pp. 35-40.
Homo artifex salutis suae (un contributo d’incentivazione), in «Bollettino d’Informazione SNALS», Lecce, 1990 .                                                                                                                                     Le satire di Orazio Testarotta, in «Apulia», Banca Popolare Pugliese, n.1, marzo 1995, Matino, pp.113-123.                                                                                                                                                        Uomo e terra nelle poesie di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», lugl-agos. 1995, Taurisano, pp.8-9.
Orazio Testarotta, poeta dialettale tavianese, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie-Otranto, vol. VII, 1995, Lecce, Argo editore, pp. 231-246.
Augusto Fonseca-Jugoslavia, Jugoslavia, in «Presenza Taurisanese», agos-settem. 1996, Taurisano, pp. 6-7.                                                                                                                                
Le Opere di Orazio Testarotta – testi editi ed inediti, a cura di Osvaldo Giannì, Galatina, Congedo editore,1996.
Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte prima, in « Note di Storia e Cultura Salentina», vol. IX, 1997, Lecce, Argo editore, pp. 121-149.
Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte seconda, in « Note di Storia e Cultura Salentina», voll. X-XI, 1998/1999, Lecce, Argo editore,  pp. 189-205.
L’antologia de «L’Albero» di Comi, recensione a Gino Pisanò, L’Albero, Bompiani, Milano, 1999, in «Presenza Taurisanese», a. XIX, ott.-nov. 1999, Taurisano, pp. 7-8.
Poesie di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», genn-febb. 2000, n. 12, Taurisano, p. 15.
Auguri letterari a Mario Marti, in «Presenza Taurisanese», nov. 2000, Taurisano, p. 5.
Stagioni dell’anno e stagioni dell’anima nella poesia di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», sett-ott. 2001, n. 155, Taurisano, pp. 10-11.
Le poesie di Sebastiano Causo, in «Note di Storia e Cultura Salentina», vol. XIV, 2002, Lecce, Argo editore, pp. 199-232 .
Recensione a Naom Chomsky, in «Quaderni di Nuovo Spartaco», Casa Amata s.r.l., n. 1, stampe, Taviano, 2003, pp. 1-20.
Recensione a James Hillman, Il potere – come usarlo con intelligenza, in «Quaderni di Nuovo Spartaco», Casa Amata s.r.l., n. 2, stampe Taviano, 2004, pp. 1-24.
Un’operazione di salvataggio della parlata popolare di un comune salentino (Taviano) non ancora documentata, nell’archivio storico locale, relativamente all’ultimo Novecento, in «Note di Storia e Cultura Salentina», vol. XVI, 2004, Lecce, Argo editore, pp. 291-307.
A sporta picciulara – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento, a cura di Osvaldo Giannì, Taviano, Grafema Tipografia, 2004.
 Nota introduttiva, in Roberto Leopizzi, Varie, eventuali ed affini – Spilla la parte, Taviano, Grafema Tipografia, 2006, pp. 59-61.
Vero o falso? Improbabile – a proposito di un inedito di Orazio Testarotta (“Me ne strafotto”), in «La Piazza», n. 5, ott. 2006, Taviano, Grafema Tipografia, pp. 18-19.
L’importanza della Poesia oggi – un contributo d’incentivazione, «La Piazza», n. 8, dic. 2007, Grafema Tipografia, Taviano
Nota introduttiva in Giuliano D’Elena, Poesie (Parole di carne), Taviano, Grafema Tipografia, 2007
Appunti di lettura su “La leggenda di domani” di Maria Corti (Manni, Lecce 2007), in «La Piazza», n. 9, febbr. 2008, Taviano, Grafema Tipografia, pp. 12-15.
Se n’è andato per sempre – Sebastiano Causo poeta e scrittore salentino, in «Presenza Taurisanese», a. XXVIII, n. 232, lug-agos. 2010, Taurisano, p. 7.
  Note
[1] Osvaldo Giannì, Le Opere di Orazio Testarotta – testi editi ed inediti, Galatina, Congedo editore, 1997.
[2] Osvaldo Giannì, L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi,  Taviano, Graphosette Tipografia srl, 1983.
[3] Osvaldo Giannì ,“A sporta picciulara” – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento,  Taviano, Grafema Tipografia,2004.
[4] Rocco Cataldi, Il poeta e la sua terra, in «NuovAlba», numero unico, Parabita, aprile 2001, pp.14-15.
[5] Donato Valli, Sul filo dei ricordi: piccola storia di un’amicizia, in «NuovAlba»,  n.1, Parabita, aprile 2005, pp.8-9.
[6] Aldo D’antico, Prefazione, in Rocco Cataldi, “Lu Ggiudizziu  ‘niversale”, Adovos Parabita, Tipografia Martignano,1975.
[7] Osvaldo Giannì, Orazio Testarotta, poeta dialettale tavianese, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie, vol. VII, 1995, Lecce, Argo editore, pp. 231-246.
[8] Osvaldo Giannì, Se n’è andato per sempre – Sebastiano Causo poeta e scrittore salentino, in «Presenza Taurisanese», a. XXVIII, n. 232, Taurisano, luglio-agosto 2010, p. 7.
[9] A. Costantini – V. Zacchino – M. Cazzato, Taviano storia arte e territorio, Galatina, Grafiche Panico, 2005, recensito dalla stessa IRENE GIANNÌ, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie, vol. XVII, 2006, Lecce, Argo editore, pp.343-346.
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Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri
di Cristina Manzo
Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi di morti
che ogni volta rispuntano dalle zolle
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.
Quando tornai al mio paese del Sud,
io mi sentivo morire.
(Vittorio Bodini) [1]
  Santa Maria di Leuca, tramonto a Finibusterrae (foto Cristina Manzo)
  L’idea di turismo, come filosofia di viaggio può essere ricondotta a una sorte di memoria inconscia della condizione nomade dell’umanità. Molte volte si comincia un viaggio per uscire momentaneamente da sé, fare un giro e ritornarvi; per orientarsi verso qualcosa che ci distragga momentaneamente dal peso dell’abitudine; perché si ha il ricordo e il richiamo di una terra che abbiamo già visitato o di cui abbiamo sentito parlare e per il sospetto che essa potrà essere determinante nella nostra vita. Ma, come quando Ulisse intraprese la sua odissea, è nel corso d’opera, in itinere, che accade l’inaspettato che cambia il corso dei giorni. Ad un certo punto della vita non siamo più noi a cercare i viaggi ma sono loro a cercare noi. La vita non è mai dove è ma dove si arriverà. Una ricerca di sé sempre in partenza, in attesa di un approdo per dipanare la matassa della vita, in cui siamo aggrovigliati e chiusi come in un bagaglio, prima di arrivare alla meta. Quanta ironia c’è nelle carte d’identità, nei passaporti e negli strumenti indispensabili del viaggio: ci sono tempi, luoghi, dimensioni e professioni nelle quali ci si conosce bene, eppure non ci si riconosce mai, perché ogni volta è tutto nuovo, è come ricominciare ogni volta daccapo. Ma che differenza c’è tra il trovare e l’essere trovati? Una diversità che affascina nel momento fondante della propria esistenza, quando l’io riconosce la sua dimensione e la dimensione riafferma l’io; quando l’anima chiama al viaggio sopra ogni cosa, superando anche la paura di smentirsi. Nel viaggio abita l’ironia profonda di non sapere mai a cosa si va incontro e in che modo esso cambierà il percorso della nostra vita. L’anima e la terra sono le note in sintonia a cui l’uomo, in corso di ricerca, dovrebbe evitare di contrapporre l’elemento razionale. E, tuttavia, anche l’Odisseo ad un certo punto del Nostos è combattuto tra l’irrequietezza originata nel bisogno di vagare e di conoscere e la razionalità del ritorno a casa e agli affetti. Tutto sta nell’ambiguità dello scambio, della novità di culture, tradizioni, cibo, persone, prospettive e, nel fine da raggiungere, per mediare la nostra esistenza con la felicità. Potremmo dire che ad un certo punto si è rapiti da un bisogno di avventura e di incognito come quello che rapì la mente del Don Chisciotte di Cervantes che, in groppa a Ronzinante, al fianco di Sancho Panza, si dedicò all’esplorazione delle terre della Mancha.
Il Salento, nel profondo sud, non è mai stato luogo di confine ma piuttosto quel “sud nel sud”, quell’idea di “luogo non luogo” dalla quale è difficile uscire e a cui è altrettanto difficile non tornare. Il Salento è sin dall’antichità quella terra-paese che bisognerebbe attraversare tutta, per poterla trasformare in un racconto itinerante di poesia proprio come nel pensiero di Bodini e di Carmelo Bene che, per consegnare voce e visione a quella poesia dell’amico Vittorio, avrebbe voluto compiere quel Don Chisciotte itinerante nel “Salento della Mancha”. Progetto purtroppo rimasto irrealizzato. ( Nel 1975, siamo stati vicini di casa, io e Carmelo, al secondo piano del palazzo Bozzicorso, in via degli Antoglietta n° 42, dove io abitavo con mia nonna. Ricordo che ero appena undicenne e una mattina ci incontrammo sul pianerottolo mentre lui apriva la porta, di ritorno da uno dei suoi impegnatissimi viaggi, (infatti restò solo pochi giorni) e quella era la casa in cui da Campi Salentina si era trasferito con la famiglia. Vedendo che io sbirciavo curiosa, all’interno, mi fece segno di entrare e io lo feci, mi fermai nell’ingresso e scambiammo qualche parola, era appena morto mio padre. Carmelo era molto gentile e carismatico, una personalità stravagante e immensa, con il senno di poi, (intendo per me che, ancora piccola, non conoscevo la sua importanza). Mi è sempre rimasto impresso quell’incontro. Per i condomini del palazzo non era chiaro se la presenza del “personaggio” fosse gradita o scomoda ma, di sicuro nelle mie memorie ricordo che lo definivano “uno strano”. Proprio la sua città è stata quella che meno lo ha capito e ha riconosciuto il suo talento. Quando mise in scena l’Amleto al teatro Ariston, i leccesi gli furono apertamente ostili e quindi, come dare torto a quell’animo straordinario che sosteneva di « essere nato al Sud del Sud dei santi e che del Salento era orfano»? E questo è forse, uno di quei pochi casi inversi, in cui per concedere libertà all’immenso genio, si ebbe bisogno di lasciare un luogo amato, pur portandolo nel cuore.
Il Salento che Carmelo sognava è una parte di quel sud che con grande fatica, eppure senza sforzo, si era impegnato a raggiungere il resto dell’Italia e dell’Europa dopo la sua unità ma che, pur tuttavia, aveva sempre conservato con onore e gelosia quella piccola distanza silenziosa nel fiume del dialogo con il resto dei luoghi. Ed è stata questa rispettosa distanza che ha permesso al Salento di restare “Il Salento” nei cuori di tutti coloro che l’hanno lasciato e poi ritrovato o semplicemente scoperto. Il Salento degli incontri e degli scontri, della terra e del mare, dell’accoglienza e dell’ascolto, dei tramonti e del dolce naufragare. Delle partenze, dei transiti e dei ritorni.
Forse quel giorno avrò sognato… ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancha, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancho, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure … Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà…”[2].
Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. A maggior ragione se, il “viaggio” è stato nel sud che, con la sua poesia, ti scava dentro, un solco nell’anima che nessun’altro luogo può riempire.
[…] Non era qui sorta, nella Magna Grecia, la prima splendida civiltà? Non erano qui nate, in Palermo e nella Puglia, al tempo di Federico II, la letteratura e l’arte nazionale? Non era sempre questo l’incantato paese «dove fiorisce l’arancio»? Tutti credevano che fosse la terra promessa, colma di tutti i doni celesti, a’quali il mezzogiorno «troppo favorito dalla natura», secondo il Bonghi, «eccezionalmente cospicuo» a detta del Sella, «singolarmente ricco», per bocca del Depretis, «il più bello, il più fertile paese d’Europa», a giudizio del Minghetti, il quale parlando alla camera nel giugno del ’61, metteva in prima linea, tra le inesauribili occulte miniere della nostra fortuna, la nuda steppa, che è tutta un bassofondo marino quaternario, del tavoliere di Puglia: già prima di loro, non lo aveva forse descritto Vincenzo Cuoco, esule a Milano nel 1804, come il «più ferace sotto più dolce clima», e Pietro Colletta presso a morte, in Firenze il 1831, quale «terra ubertuosa sotto cielo lascivo», e Petrucelli della Gattina, profugo a Torino nel 1849, «un paese per cui Iddio esaurì la sua opulenza di creazione»[3]? Il termine “viaggio” nel dizionario indica uno spostamento in cui è dato sempre, un luogo di partenza ed un luogo di arrivo. Ma se fosse un mero spostamento, un transito e basta, non riscuoterebbe tanto interesse da parte di chi lo compie. Attraverso il “Nostos”, in cui si origina la nostalgia, il dolore, la mancanza, la tensione, il desiderio del nuovo o del vecchio già conosciuto, avviene il “ritorno”. Gli occhi di ogni viaggiatore sono importanti per descrivere un luogo, come pure è importante la visione di chi ci vive da sempre e non lo ha mai lasciato, ma niente, e ripeto “niente” è così incisivo come la storia di chi lo ha scelto seguendo una sorte fatale e lo ha abitato per dare un percorso nuovo alla propria vita. Nel caso del Salento, per esempio, non sono né gli abitanti che lo vivono da sempre né i turisti che lo visitano per poi ripartire che ce lo possono raccontare; possono farlo, invece, tutti quei personaggi venuti da lontano a scoprirlo quando ancora esso non era una moda ma, un modo di vivere, fiero e ineguagliabile testimone di tradizioni, libertà e cultura in bilico tra afa e tramontana, scirocco e respiro del mare.
(1 – continua)
Note
[1] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, (a cura di Oreste Macrì), Controluce, Nardò, 2015.
[2] https://www.scuoladelviaggio.it/alla-ricerca-di-don-chisciotte-it.php
[3] Francesco Melzi D’Eril, Civiltà italiana dell’Ottocento, Mursia, Milano, 1966-1968, p.238,239.
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Libri| I giorni ed i versi, di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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Libri| I giorni ed i versi di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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purpleavenuecupcake · 6 years
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Consegnati brevetti pilota militare. Emozione alla base di Galatina per i piloti di Italia, Francia e Kuwait
Oggi, presso l’aeroporto militare di Galatina, alla presenza del Sottosegretario di Stato alla Difesa, On. Angelo Tofalo, del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare generale di S.A. Alberto Rosso e dell’ing. Lucio Valerio Cioffi, Capo Divisione velivoli di Leonardo S.p.a., si è svolta la cerimonia di consegna delle “Aquile Turrite”, simbolo del brevetto di pilota militare, consegnato a sei allievi italiani, due allievi dell’Armée de l’air francese e sette della Kuwait Air Force.
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Per la prima volta ufficiali piloti francesi sono stati brevettati nella scuola di volo italiana, su velivoli italiani. Un evento importante in un’ottica di cooperazione europea nel campo dell’addestramento, che assume un significato particolare se si pensa che, poco più di cento anni fa, Francesco Baracca - Asso degli Assi e medaglia d’oro al valor militare durante la Prima Guerra Mondiale - conseguì il brevetto di pilota proprio in Francia, su velivoli francesi. Nel suo indirizzo di saluto il colonnello Alberto Surace, Comandante del 61° Stormo, ha presentato la scuola di volo di Galatina, che addestra piloti sin dal 1946 e che oggi può vantare la presenza di allievi e istruttori provenienti da otto Paesi stranieri. Una realtà internazionale sempre più oggetto di attenzione da parte delle aeronautiche di tutto il mondo, che offre competenze uniche nel settore della formazione e un innovativo sistema integrato per l’addestramento al volo tra i più avanzati, basato sul binomio T339 e T346. “Dovete essere orgogliosi per il traguardo raggiunto” - ha detto il Col. Surace rivolgendosi ai neo brevettati -  “frutto di sacrifici, dedizione e tanto impegno. Non importa quali cieli solcherete, fate sì che i valori che hanno guidato Francesco Baracca vi accompagnino sempre e ovunque”.
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Il Gen. Rosso nel suo intervento ha sottolineato come “la tecnologia più sofisticata poco vale se non supportata dalla qualità dell’elemento umano e dal lavoro di squadra” e ha poi rivolto un emozionato e sincero augurio ai neo brevettati affinché possano mettere a frutto l’investimento riposto in loro dalla Forza Armata, “con responsabilità, orgoglio ed entusiasmo al servizio del Paese”. Il Sottosegretario Tofalo, nel suo discorso, ha evidenziato come “la tecnologia e il modello formativo militare italiano sono all’avanguardia e come queste capacità sono riconosciute da tutti, soprattutto dalle nazioni che affidano all’Aeronautica militare italiana la formazione di base e avanzata dei propri piloti. Storia, tradizioni, tecnologia e l’elemento umano fanno dell’arma azzurra uno dei fiori all’occhiello dell’Italia, amato e apprezzato in tutto il mondo”. Il 61° Stormo, dipendente dal Comando Scuole AM/3ª Regione Aerea di Bari, provvede alla formazione di piloti destinati ai velivoli delle linee aerotattiche, come Tornado, AMX, Typhoon e ai più moderni velivoli di 5ª generazione come l’F35. Completata questa fase dell’addestramento al volo, i neo piloti militari rimarranno a Galatina per frequentare, presso il 212° Gruppo Volo, anche la fase successiva, propedeutica all’impiego sui velivoli aerotattici. Il protagonista della cosiddetta fase IV è il velivolo T346A, l’addestratore avanzato di ultima generazione realizzato da Leonardo e in dotazione all’Aeronautica Militare, in possesso di caratteristiche assolutamente all’avanguardia sia dal punto di vista avionico che delle prestazioni in volo. E’ proprio il T346 il fulcro del sistema integrato di addestramento che utilizza anche tecnologie innovative di simulazione che consentono ai piloti di interagire con i velivoli in volo, nell’ambito della stessa missione addestrativa. L'attività formativa del 61° Stormo è indirizzata agli allievi piloti dell'Aeronautica Militare, delle altre Forze Armate e dei Paesi alleati/partner, in tutte le fasi di volo secondo le richieste di ciascun Paese. La base aerea salentina consolida dunque, con questa cerimonia, le vocazioni internazionali espresse sin dalla sua costituzione e si conferma quale scuola di volo in possesso dei sistemi di addestramento più avanzati al mondo destinati ad allargarsi con il progetto International Flight Training School, che in sinergia con Leonardo potenzierà l’output addestrativo per la Forza Armata, consentendo anche di soddisfare la crescente richiesta di partner internazionali.   Read the full article
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salentipico-blog · 7 years
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Dal 4 all’8 novembre, negli spazi di Lecce Fiere, tornano le “Olimpiadi del gusto” firmate “Agrogepaciok”, Salone nazionale della gelateria, pasticceria, cioccolateria e dell’artigianato agroalimentare giunto alla dodicesima edizione. “Only natural doping” è lo slogan 2017 della kermesse organizzata dall’agenzia Eventi Marketing & Communication di Carmine Notaro, divenuta un solido punto di riferimento per i professionisti del settore, ma meta ambita anche per appassionati.
Presentato da Camera di Commercio, Confartigianato Imprese, Confcommercio, Confesercenti, Cna, UnionAlimentari Confapi e Coldiretti di Lecce, il Salone è organizzato dall’agenzia Eventi Marketing & Communication di Carmine Notaro con il sostegno di Regione Puglia – Assessorato alle Risorse Agroalimentari e  i patrocini di Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Provincia e Comune di Lecce, realizzato con l’attiva collaborazione delle Associazioni di pasticceri e pizzaioli salentini aderenti a Confartigianato Imprese Lecce, nonché dell’Associazione Cuochi Salentini di Confcommercio Lecce, in partnership – per la prima volta – con la prestigiosa scuola di cucina e pasticceria Campus Etoile Academy.
Si tratta della più grande fiera professionale del Sud Italia con cadenza annuale dedicata al mondo dell’agroalimentare e al food & beverage di qualità: una prestigiosa vetrina di materie prime ed ingredienti composti, macchinari, impianti, attrezzature, arredamento, accessori, decorazioni, servizi, editoria e comunicazione per la gelateria, pasticceria, ristorazione, pizzeria e panificazione artigianali.
Accanto a un parco espositori sempre più ricco, con più di 130 aziende in rappresentanza di oltre 350 prestigiosi marchi, il Salone ospita anche quest’anno chef di grande fama e propone un ricco programma di showcooking, corsi professionali, concorsi nazionali e tanti altri eventi collaterali all’interno dei quattro Forum dedicati a Cucina, Pasticceria, Panificazione e Pizzeria, rafforzando il connubio tra esposizione e formazione da sempre caratteristica principale di Agrogepaciok.
Le passate edizioni del Salone hanno visto protagonisti chef pluristellati come Carlo Cracco, Heinz Beck, Bruno Barbieri, Gianfranco Vissani, Gennaro Esposito, Filippo La Mantia, Gregory Nalon, Antonella Ricci, Fabio Baldassarre, Paolo Barrale, Pietro D’Agostino, Giorgio Nardelli, Ernst Knam e, nel 2016, Claudio Sadler: tutti chiamati a cimentarsi nella rivisitazione di piatti della tradizione salentina. Per la dodicesima edizione, ospite d’eccezione del Forum di Cucina coordinato da Gigi Perrone (presidente Associazione Cuochi Salentini) sarà Moreno Cedroni, lo chef marchigiano a 2 stelle Michelin che ha portato uno spirito avanguardista nella cucina italiana. Nato ad Ancona nel 1964, è considerato uno degli chef italiani più innovativi (è l’inventore del sushi all’italiana, dal lui ribattezzato “susci”), vero enfant terrible nel panorama della cucina internazionale che gioca tra le radici nella tradizione culinaria italiana e la vivacità del proprio spirito visionario. Patron dei ristoranti di mare “La Madonnina del Pescatore” a Senigallia e “Il Clandestino” a Portonovo, Cedroni sarà ad Agrogepaciok mercoledì 8 novembre per un cooking show sulla “cucina di mare”.
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Sempre nel Forum di Cucina, torna anche quest’anno il “Birrangolo”, spazio dedicato alle birre artigianali di qualità con un contest nazionale – organizzato per il quarto anno da MomoLab in collaborazione con Agrogepaciok – che coinvolgerà professionisti e giovani attivi in cucine di ristoranti chiamati a proporre un personale accostamento tra birra artigianale e cibo, per dare vita ad una serie di ricette uniche frutto dell’arte del food pairing. Quest’anno i concorrenti sono chiamati a rivisitare in chiave moderna un piatto della tradizione pugliese.
Altro atteso ospite della dodicesima edizione di Agrogepaciok è lo chef e pasticcere Rossano Boscolo, fondatore e direttore del Campus Etoile Academy, scuola che dal 1982 ad oggi ha formato più di 30mila chef e pasticceri creando e coltivando gran parte dei talenti italiani che attualmente lavorano nei diversi campi dell’alta cucina. Boscolo e i suoi allievi firmano una serie di importanti contributi per Agrogepaciok, tra ricette, workshop, dimostrazioni e focus sui materiali. Il Forum di Panificazione sarà animato ogni giorno dagli show cooking dello chef Boscolo, dei docenti e degli allievi della scuola. Pane, pizza, focaccia, torte da forno, biscotteria, frolle e crostate saranno alcuni dei temi affrontati. Nel Forum di Pasticceria – a cura dell’Associazione Pasticceri Salentini (presidente Antonio Rizzo) – lo chef Boscolo sarà protagonista nella giornata di martedì 7, con una serie di incontri dedicati allo zucchero artistico, alla pasticceria moderna e al food cost. Non mancheranno preziosi contributi del fondatore di Etoile anche nel Forum di Cucina, con lezioni dimostrative su risotti (sabato 4 novembre), sculture vegetali e pasta fresca (domenica 5). Lunedì 6 novembre ci sarà una “Giornata Etoile” dedicata al mondo delle carni e tenuta dallo chef salentino Simone De Siato.
Nel Forum di Pizzeria, ogni giorno si alterneranno i migliori maestri salentini sotto l’egida di Giuseppe Lucia, presidente di Apisa e campione europeo di pizza acrobatica: in programma, corsi e dimostrazioni di pizza classica e pizze “alternative” a base di grani antichi, grani vergini e grani integrali e naturali, poi il corso di pizza napoletana con Francesco Cassiano, in arte “Checco Pizza”, fiduciario dell’Associazione Verace Pizza Napoletana in Puglia e, ancora, la giornata “Gluten free” con Alessandra De Bellis e Ivan Meletti. Immancabili, infine, le esibizioni di pizza acrobatica a cura dei campioni mondiali del Team Acrobatic Salento.
Cuore pulsante del Salone sono poi le competizioni fra professionisti. Nel Forum di Pasticceria, domenica 5 novembre torna il concorso “Dolci Talenti in Puglia” rivolto a studenti e pasticceri under 25 e organizzato da Agrogepaciok e Pasticceria Internazionale attraverso il progetto “Futuri Talenti”, con la collaborazione dell’Associazione Pasticceri Salentini: ai concorrenti è richiesta la realizzazione di un dessert semifreddo all’italiana, da realizzare sia in formula originale, sia reinventata. Lunedì 6, toccherà invece alle “Olimpiadi del gelato mediterraneo”, concorso aperto a tutti i gelatieri professionisti: la gara consiste nella creazione di un gusto gelato di fantasia da proporre sia in vaschetta sia come torta-gelato. Mercoledì 8, infine, per il terzo anno si svolgerà il concorso “Dolci Tradizioni – Premio Andrea Ascalone”, ideato da Agrogepaciok e Associazione Pasticceri Salentini per commemorare il maestro galatinese conosciuto come “il “re del pasticciotto”, scomparso nel 2015 all’età di 76 anni.
Anche quest’anno, inoltre, si rinnova la preziosa collaborazione di Agrogepaciok con alcuni istituti alberghieri e professionali del territorio grazie alla quale gli allievi hanno la possibilità di essere impegnati in stage formativi all’interno del Salone ai fini della loro crescita professionale: per la prima volta saranno presenti in fiera gli studenti dell’Istituto Moccia di Nardò e del Cnipa Puglia.
  Il Salone sarà aperto ogni giorno dalle 10 alle 19 (mercoledì 9, chiusura ore 18). Info e aggiornamenti su www.agrogepaciok.it e sulle pagine Facebook, Twitter, Instagram e Pinterest.
  PROGRAMMA GIORNALIERO
SABATO 4 NOVEMBRE
FORUM CUCINA
Ore 12-14 –  Lezione-demo “La teoria del risotto” con lo chef Simone De Siato del Campus Etoile Academy
Ore 17 – Buffet inaugurale a cura dell’Associazione Cuochi Salentini
FORUM PASTICCERIA
Ore 10 – Preparazione buffet per l’inaugurazione a cura di Giuseppe Zippo con i suoi collaboratori e dell’Associazione Pasticceri Salentini
Ore 17 –  Buffet di benvenuto a cura dell’Associazione Pasticceri Salentini
FORUM PANIFICAZIONE
Ore 10-19  Pane, pizza e focaccia e creazione prodotti da forno con gli chef e allievi del Campus Etoile Academy
Ore 17 – Buffet inaugurale
FORUM PIZZERIA
Ore 17 – Buffet inaugurale a cura di Apisa
Ore 18 – Preparazione in diretta e degustazione di pizza a cura degli allievi della scuola di Apisa
  DOMENICA 5 NOVEMBRE
  Ore 11-14 – “Sculture vegetali” con lo chef Danilo Colaiaquo del Campus Etoile Academy
Ore 15-17 – Lezione demo “La pasta fresca” con lo chef Simone De Siato del Campus Etoile Academy
FORUM PASTICCERIA
Ore 10-15 – Concorso professionale “Dolci Talenti in Puglia: Quando la tradizione diventa innovazione” aperto a studenti e pasticceri under 25
Ore 16-18 – Lezione dimostrativa sui fruttini di gelatina a cura del maestro Giuseppe Zippo
Ore 18 – Premiazione concorso “Dolci Talenti in Puglia”
FORUM PANIFICAZIONE
Ore 10-19 – Torte da forno e creazione prodotti da forno con gli chef e gli allievi del Campus Etoile Academy
FORUM PIZZERIA
Ore 10-18 – “Gluten Free Day”: preparazione di pranzi e cene complete a base di prodotti gluten free e low cost a cura di Alessandra De Bellis, campionessa mondiale di pizza senza glutine 2012, e dello chef pizzaiolo Ivan Meletti
  LUNEDÌ 6 NOVEMBRE
FORUM CUCINA
Dalle 11 alle 14 e dalle 15.30 alle 18 – “Giornata Etoile”. La carne: scienza, tradizione e innovazione secondo l’Etoile con lo chef Simone De Siato del Campus Etoile Academy
FORUM PASTICCERIA
Ore 10 – Concorso “Le Olimpiadi del Gelato Mediterraneo”
Ore 16-18 – Lezione dimostrativa su drip cake e dolci anglosassoni a cura del maestro Antonella Biasco
Ore 18 – Premiazione alla presenza del presidente di giuria (rappresentante dell’azienda Mec3)
FORUM PANIFICAZIONE
Ore 10-19 – Pane, pizza, focaccia e creazione prodotti da forno con gli chef e gli allievi del Campus Etoile Academy
FORUM PIZZERIA
Ore 10-12.30 – corso di pizza napoletana a cura del maestro Francesco Cassiano in arte “Checco Pizza”, fiduciario per la Regione Puglia dell’Associazione Verace Pizza Napoletana
Ore 16-18 – corso di rosticceria napoletana “Frittatina” e “Montanara” a cura del maestro Francesco Cassiano
  MARTEDÌ 7 NOVEMBRE
FORUM CUCINA
Ore 9.30-17.30 – Quarta edizione del contest Birrangolo organizzato da MoMo Lab in collaborazione con Agro.Ge.Pa.Ciok
FORUM PASTICCERIA
Giornata Campus Etoile Academy
Ore 10-12 – Zucchero artistico secondo il maestro Rossano Boscolo
Ore 15-17 – La pasticceria moderna secondo L’Etoile con il maestro Rossano Boscolo
Ore 17.30-18.30 – Approfondimento sul food cost a cura del maestro Rossano Boscolo
FORUM PANIFICAZIONE
Ore 10-19 – Biscotteria varia e creazione di prodotti da forno con gli chef e gli allievi del Campus Etoile Academy
FORUM PIZZERIA
Ore 10-12 – Corso base di pizza classica a cura di Simone Ingrosso, pluricampione mondiale di pizza classica, acrobatica e pizza master chef
Ore 12.30-15 – corso base di pizza in teglia e a pala, a cura di Simone Ingrosso
Ore 15.30-18 – “La piadina romagnola” a cura di Ivan Meletti
  MERCOLEDÌ 8 NOVEMBRE
FORUM CUCINA
Ore 11-15.30 – Showcooking con lo chef Moreno Cedroni sulla cucina di mare
Ore 16-18 – Lezione demo “Le uova: mille usi in cucina” con lo chef Simone De Siato del Campus Etoile Academy
FORUM PASTICCERIA
Ore 10-12 – Terza edizione del concorso “Dolci Tradizioni – Premio Andrea Ascalone”
Ore 13-15 – Demo sulla pasticceria salutistica a cura del maestro Agnese Cimino
Ore 16.30 – Premiazione “Dolci Tradizioni – Premio Andrea Ascalone”
FORUM PANIFICAZIONE
Ore 10-18 – “Prima colazione, frolle e crostate” e creazione di prodotti da forno con gli chef e gli allievi del Campus Etoile Academy
FORUM PIZZERIA
Ore 10-12 – Dimostrazione di “Pizze alternative con grani antichi, grani vergini e integrali naturali: le alternative alle alternative!” a cura di Giuseppe Lucia, presidente Apisa e coach del Team Acrobatic Salento
Ore 12.30-14.30 – Grani vergini
Ore 15-17 – Farine integrali naturali
Esibizione del Team Acrobatic Salento
  A Lecce le Olimpiadi del Gusto con l’artigianato agroalimentare di Agrogepaciok Dal 4 all’8 novembre, negli spazi di Lecce Fiere, tornano le “Olimpiadi del gusto” firmate “Agrogepaciok”, Salone nazionale della gelateria, pasticceria, cioccolateria e dell’artigianato agroalimentare giunto alla dodicesima edizione.
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salentipico-blog · 7 years
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Da venerdì 28 a domenica 30 luglio l’Ostello del Sole di San Cataldo di Lecce ospita l’undicesima edizione del Sud Est Indipendente.
Il festival, ideato e organizzato dalla Cooperativa CoolClub, con la direzione artistica di Cesare Liaci, oltre a tre serate in musica con le esibizioni di alcune tra le più interessanti realtà della giovane scena rock e cantautorale pugliese ed italiana accoglierà presentazioni di libri, mostre e attività per i più piccoli e una serie di attività dedicate all’accessibilità realizzate dall’associazione Poiesis.
Nelle tre serate si alterneranno sul palco Handlogic, Inude, I Misteri del Sonno, Uro, Montana, Buckwise (28 luglio), Canova, Colombre, Giorgio Poi, Maffei!, Buckingum Palace e Dj Vadim (29 luglio) e, per un progetto inedito e speciale, La Municipàl e La Giovane Orchestra del Salento diretta da Claudio Prima (30 luglio). 
Dalle 20.30 l’Ostello sarà aperto al pubblico con l’aperitivo letterario che coinvolgerà Omar Di Monopoli, Ilaria Macchia e Simona Toma, una mostra e un laboratorio per i più piccoli sui Beatles a cura di Fermenti Lattici, l’installazione dell’artista Paolo Ferrante. Sino al 27 luglio il festival propone anche il workshop Artbit – MuSei che suonano! ideato da Swapmuseum con il dj, musicista e produttore Populous.
L’ingresso all’Ostello è libero sino alle 22.30. A seguire il costo del biglietto sarà di 5 euro. Il Festival – vincitore del bando “S’illumina”, sostenuto dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Siae – è organizzato con il patrocinio del Comune di Lecce e del Distretto Produttivo Puglia Creativa e in collaborazione con Fermenti Lattici, Poiesis, Swap Museum, La Rivolta Records, Discographia Clandestina, Sum, Km97, Manigold, Birrificio B94 e Bar 84.
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È il terzo anno consecutivo che scegliamo l’Ostello del Sole di San Cataldo come location principale del nostro festival, sottolinea Cesare Liaci, direttore artistico del Sud Est Indipendente e presidente della Cooperativa Coolclub. Un investimento complessivo di oltre centomila euro in un triennio per provare ad animare con attività culturali e di spettacolo, in collaborazione con altre realtà e associazioni, la marina leccese.
Quest’anno il nostro sforzo è stato riconosciuto con la vittoria del bando “S’illumina”, sostenuto dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Siae, rivolto a progetti di promozione culturale e di attività culturali nelle periferie urbane. Il nostro cast è composto, in larga parte, da giovani band e artisti italiani under 35 e ci aspettiamo – attraverso una programmazione di musica, libri, arte, contaminazioni – di raggiungere un pubblico giovane. Siamo convinti, soprattutto quest’anno, con la manifestazione Oltremare che ha “ridisegnato” il lungomare, con l’International Architecture Holiday a cura degli amici di Archistart (dal 1 al 7 agosto), con il nostro festival e con quello promosso da Uasc (4 agosto), di partecipare ad una proposta alternativa e una visione diversa e innovativa della marina. 
La tre giorni in riva al mare prenderà il via venerdì 28 luglio alle 20.30 con la presentazione di Nella perfida terra di Dio di Omar Di Monopoli, uscito poche settimane fa per Adelphi.
Questo nuovo romanzo conferma pienamente il talento dello scrittore salentino – e va oltre. Qui infatti, per raccontare una vicenda gremita di eventi e personaggi ricorre a una lingua ancora più efficace, più densa e sinuosa che nei romanzi precedenti, riuscendo a congegnare con abilità fenomenale sequenze forti, grottesche e truculente in un magistrale impasto di dialetto e italiano letterario – sino a farla diventare, questa lingua, la vera protagonista del libro.
A seguire spazio alla musica con il trio Uro, Montana, nuovo percorso artistico del cantautore Maurizio Lorio, e il progetto indie/pop Buckwise.
Subito dopo sul palco I Misteri del Sonno, band rock prodotta dall’etichetta salentina Rivolta Records. Gli Inude sono, invece, un trio elettronico nato nel 2014 e formato da Giacomo Greco, Flavio Paglialunga e Francesco Bove che presenteranno, tra gli altri, i brani dell’EP “Love is in the Eyes of the Animals”. Infine, Handlogic, progetto fiorentino di alternative pop/electronica, un piccolo miracolo tra le produzioni indipendenti italiane, per maturità e creatività.
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Sabato 29 luglio la seconda serata del festival ospiterà Ilaria Macchia, sceneggiatrice tra gli altri di Non è un paese per giovani diretto da Giovanni Veronesi, che ha esordito in libreria con Ho visto un uomo a pezzi (Mondadori), composto da sette storie che raccontano altrettanti momenti della vita di Irene. Figlia, amante, mamma, compagna, sorella, ma soprattutto donna che percorre la sua esistenza un episodio dopo l’altro.
La serata proseguirà subito dopo con due interessanti giovani progetti pugliesi Buckingum Palace e Maffei! e si concluderà con un tris dedicato alla nuova musica italiana. I milanesi Canova, all’esordio discografico con “Avete ragione tutti”, che propongono un “pop italiano indipendente che chiede unicamente di essere cantato”. Colombre, con il nuovo Pulviscolo, progetto che inaugura l’esperienza da solista di Giovanni Imparato – già voce, chitarra e autore dei brani della band indie-pop Chewingum e co-produttore del disco Sassi di Maria Antonietta. Giorgio Poi, all’esordio discografico con Fa Niente, un album di canzoni d’amore personali, malinconiche e psichedeliche; nove brani in cui le parole accompagnano l’ascoltatore in un immaginario privato, abitato da melodie fluttuanti e dirompenti.
In chiusura la serata proseguirà con le selezioni del Tropical Party con la partecipazione di Dj Vadim, icona del beatmaking europeo dagli anni ’90.
Domenica 30 luglio l’ultimo giorno del festival si aprirà con la scrittrice Simona Toma e il suo recente romanzo “Da domani mi alzo presto”. Autrice anche di romanzi per adulti e di libri per bambini e per ragazzi, è nata a Lecce nel 1976. Lavora in regia e produzione per il cinema, la televisione e il teatro. “Da domani mi alzo presto” è uscito poche settimane fa per Sperling & Kupfer con cui aveva pubblicato anche il precedente “Mi chiamano Ada”.
Dalle 22 il festival ospiterà l’anteprima del progetto originale, nato per il Sud Est Indipendente grazie alla collaborazione tra la Giovane Orchestra del Salento e La Municipàl, gruppo pop d’autore di Carmine Tundo (chitarra e voce) e Isabella Tundo (piano e voce).
Dopo le prove nell’ex Casello ferroviario Km97 gestito dall’associazione Sum, sul palco saranno proposti alcuni brani del disco d’esordio della band, “Le nostre guerre perdute” (La Rivolta Records) e alcuni inediti arrangiati per l’occasione con l’Orchestra. Si tratta di un originale gruppo di circa 50 giovani musicisti salentini guidati da Claudio Prima ed Emanuele Coluccia. La musica della Giovane Orchestra è energica e originale, mescola in maniera ardita generi musicali diversi (reggae, rock, classica, popolare) e rappresenta il talento generato in questi anni dal fermento musicale che il Salento ha vissuto. Più di 160 ragazzi coinvolti negli ultimi anni, la realizzazione di un documentario, numerosi concerti in Salento e in festival nazionali (Milano, Civitanova Marche) e la produzione di un cd dal titolo Essere terra, dimostrano il valore della musica scritta e pensata insieme ai ragazzi.
Il Sud Est Indipendente ospiterà anche le attività di “Letture Strabilianti per bambini e per giganti”.
Un progetto per la promozione della lettura e della pre-lettura per bambini e ragazzi curato dall’associazione Fermenti Lattici, nell’ambito delle attività di Lecce Città del Libro 2017. Meet The Beatles! – Ti presento i Beatles (per bambini dai 5 anni in sù) sarà un percorso per immagini e letture alla scoperta dei Fab Four. Da Yellow Submarine al Magical Mystery Tour attraverso le storie, le illustrazioni, le copertine degli album, il look, le canzoni più famose per raccontare ai bambini chi erano quei quattro ragazzi di Liverpool che hanno rivoluzionato il mondo della musica.
Nei giorni del festival l’Ostello ospiterà anche l’opera ironica “Erebo – una installazione estiva” di Paolo Ferrante. Una ricerca sul linguaggio pubblicitario adottato alla fine del Novecento per i prodotti di massa. Il concept alla base dell’intervento ha l’ambizione sdoganare il falso mito idiliaco che è stato creato attorno agli anni ’80 e ’90 e restituirgli la crudezza e il senso di realtà tramite un’operazione ironica. Verranno quindi mostrati degli improbabili prodotti commerciali che rappresentano alcune delle tragedie o eventi significativi accaduti in quel periodo storico. “Erebo” è il logo universale di una serie di prodotti immaginari: l’anno scorso è stato il nome di una finta rivista per famiglie che alterava la rivista storica “Epoca” trasformandola in una fanzine psichedelico-esistenzialista, mentre quest’anno è una marca di gelati macabri che si rifanno al logo storico della Algida.
Dopo la tre giorni di San Cataldo il festival ospiterà alcuni “fuori programma“: Lo Stato Sociale e Baustelle (sabato 12 e domenica 13 agosto a Melpignano nell’ambito della collaborazione con il So What Festival), Mannarino (mercoledì 16 agosto al Parco Gondar di Gallipoli) e Le Luci della Centrale Elettrica (sabato 19 agosto nell’Anfiteatro Romano di Lecce).
Fin dalla sua nascita, nel 2006, il SEI ha dichiarato la sua vocazione a scegliere gruppi e progetti eterogenei, a trasformarsi di volta in volta allargando l’orizzonte delle proprie proposte per offrire al proprio pubblico una panoramica ampia e variegata della musica pescando nei diversi generi che vanno dal punk al cantautorato, dal rock allo ska, dal folk ai ritmi in levare.
Nelle diverse location salentine che hanno ospitato il festival, si sono alternati artisti come Kings of Convenience, Jon Spencer Blues Explosion, Cat Power, Baustelle, Gogol Bordello, Bugo, Skatalites, Daniele Silvestri, Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Vallanzaska, Teatro degli Orrori, One Dimensional Man, Russell Leetch, Is Tropical, Populous, Giuda, Fast Animals and Slow Kids, Mannarino, Avion Travel, Negrita, Calibro 35, Brunori Sas, Amor Fou, Lombroso, Dellera e molte altre realtà italiane e pugliesi come Crifiu, Mascarimirì, Mery Fiore, Sofia Brunetta, La Gente, Una.
Prevendite circuito BookingShow Info seifestival.it – 3331803375
Il Festival “Sud Est Indipendente” all’Ostello del Sole di San Cataldo di Lecce
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Noi, stranieri due volte – L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra
di Gianni Ferraris
Il neo dottor Simone de Luca si è da poco laureato in Scienze della Comunicazione con un’interessante tesi in Storia Contemporanea: Noi, stranieri due volte – L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra.
Una migrazione, come dice nell’introduzione, che “[…]risulta quella meno trattata nella ricerca storiografica sull’emigrazione italiana. Andreina De Clementi attribuisce questa minore attenzione al fatto che la grande ondata migratoria del secondo dopoguerra, durata fino agli anni ’70 del secolo scorso, risulti schiacciata fra la prima grande migrazione della prima metà del ‘900 e l’inizio dei fenomeni di immigrazione che si sono presto manifestati come epocali[…]”
D’altra parte, come si evidenzia sempre nell’introduzione, l’attenzione verso il tema emigrazione è andato scemando dagli anni ’70 a gli anni ’90 del 900. Il dibattito è tornato prepotentemente attuale dai primi anni ’90 con l’arrivo di immigrati prima albanesi e via via fino ai giorni nostri, accendendo luci forti su temi quali “accoglienza, xenofobia e integrazione”. Salento come terra di emigranti prima, di immigrazione poi. Ed oggi ancora una volta terra dalla quale debbono andarsene moltissimi giovani in cerca di lavoro e di una vita, oggi come allora, dignitosa.
Ne abbiamo parlato con il dottor de Luca.
  Partiamo dal titolo, perché stranieri due volte?
In realtà il titolo è una citazione dell’attore e drammaturgo salentino Mario Perrotta, che nel suo spettacolo Italiani Cincali ha messo in scena la realtà dell’emigrazione. All’inzio del monologo racconta che, da bambino, viaggiava spesso da Lecce a Bergamo per andare a trovare il padre che lavorava lì, e di come, durante il viaggio, chiacchierava con le famiglie di emigranti che viaggiavano su quella tratta. Erano diretti in Belgio, in Svizzera o in Germania, e il bimbo Perrotta ascoltava i loro racconti.
Molti di essi, dice Perrotta, si definivano stranieri due volte, ossia sentivano di non appartenere più alla comunità d’origine, ma non si sentivano neppure totalmente integrati negli usi e costumi dei paesi che li ospitavano come lavoratori.
Anche io, negli anni successivi alla maturità scientifica, frequentando un corso di specializzazione a Como, ho avuto modo di viaggiare spesso in treno sulla linea Lecce – Milano, ascoltando talvolta le esperienze di emigrati salentini che viaggiavano con me, nelle quali spesso si riscontravano esperienze di disagio sociale e sacrificio.
Ho fatto mia l’espressione stranieri due volte come titolo della tesi per sottolineare l’aspetto del disagio sociale che si è spesso accompagnato al fenomeno storico dell’emigrazione.
  Nella tesi parli di emigrazioni volontarie dettate da due motivi, vuoi spiegare?
L’emigrazione, si legge nei libri, lo spostamento permanente di un individuo o di un gruppo di persone dal proprio luogo di origine ad un altro luogo. Tutti i migranti volontari, ossia coloro che scelgono liberamente di recarsi in un altro paese, sono indotti a questa decisione da fattori di spinta (push factors) e fattori di attrazione (pull factors).
Le migrazioni volontarie devono essere distinte tra quelle dettate dalla necessità di fuggire da condizioni di estrema povertà e quelle nelle quali la scelta dipende dal desiderio di migliorare le condizioni di vita normali. Appartengono al primo caso le popolazioni rurali dei paesi poveri che si ammassano nelle baraccopoli delle grandi città o i migranti provenienti dall’Africa che sbarcano sulle coste siciliane. Al secondo caso appartengono, per esempio, le migrazioni di ricercatori e professionisti verso le più prestigiose università del mondo e nelle varie sedi di imprese multinazionali e organizzazioni internazionali.
  L’italia, come scrivi, ha subito due grandi ondate migratorie, la prima fra il 1870 e il 1920, la seconda fra il 1946 e il 1973, lo Stato ha reagito nello stesso modo nei due periodi?
No, lo Stato ha assunto due ruoli differenti se confrontiamo le due ondate migratorie. Durante la prima è stato un osservatore neutrale, nel secondo dopoguerra si è fatto promotore dell’emigrazione stessa, coordinando i flussi migratori attraverso gli accordi bilaterali in primis con il Belgio, successivamente anche con Svizzera e Germania.
  Focalizziamo il secondo periodo, ad un certo punto parli di “baratto” fra Stati nazionali
Si può parlare di baratto in quanto in base agli accordi bilaterali veniva stabilito, è emblematico il caso del Belgio, di inviare in Italia un determinato quantitativo di carbone per ogni scaglione di lavoratori reclutati. Come è noto, gli accordi bilaterali furono stipulati sia per far fronte alla carenza di lavoro ma soprattutto per l’approvvigionamento di materie prime necessarie alla ricostruzione post-bellica.
  Salentini residenti all’estero, dai tuoi dati risulta che nel 1951 erano 2.106, nel 1961 19.578, nel 1971 26.928 – una popolazione importante ed in costante aumento, perché si emigrava dal Salento?
La ragione è la stessa per cui si emigra oggi: la mancanza di lavoro, uno dei fattori principali che dà dignità all’essere umano in quanto lo rende in grado non solo di vivere ma di progettare il proprio futuro, cosa purtroppo oggi molto difficile. Tornando all’ambito storiografico, possiamo dire che in quel periodo si emigrava dal Salento a causa di un’economia già precaria ancora incentrata sull’agricoltura e sul piccolo artigianato che la guerra aveva ulteriormente messo a dura prova.
  A partire grosso modo dal 1972 in avanti i rimpatri hanno eguagliato gli espatri, fino a sopravanzarli
Si, nella seconda metà degli anni ’70 il fenomeno dell’emigrazione, seppure ancora presente, si ridimensiona notevolmente. Sono molti coloro che decidono di ritornare in patria perché hanno raggiunto uno status economico migliore che gli permetterà, in molti casi, di poter portare a termine il progetto che li aveva indotti a partire, spesso la costruzione di una casa o l’apertura di una piccola attività.
  Citi la dura vita dei migranti salentini ed italiani in Belgio, Germania e Svizzera soprattutto, ce ne vuoi parlare?
Parlando di questo argomento è molto facile cadere nel luogo comune e non è mia intenzione farlo.
Dalle testimonianze che ho avuto modo di leggere e ascoltare durante il lavoro di tesi possiamo dire con certezza che sicuramente l’emigrante, almeno all’inizio, non ha avuto vita facile. Ricordiamo che spesso i lavoratori che si recavano all’estero in quel periodo erano semianalfabeti, non conoscevano che gli usi e il dialetto del proprio paese natale. Si trovano improvvisamente catapultati in una realtà completamente diversa per costumi, lingua, economia. Molto spesso sono oggetto di diffidenza e di atteggiamenti xenofobi. Spesso le condizioni di lavoro, almeno nei primi anni, li espongono ad alti rischi, pensiamo alla tragedia di Marcinelle nel 1956.
  Parliamo dei ritorni, evidentemente questi hanno avuto un impatto sociale ed economico importante sul Salento
Il momento del ritorno è un punto focale della mia ricerca, la condizione di straniero due volte è una condizione mentale legata molto spesso a questo momento. Mi spiego meglio: L’emigrante che dal Salento si sposta in un altro paese vive, al momento dell’arrivo, una prima condizione di estraniamento dovuta all’impatto con la nuova realtà. Se e quando deciderà di ritornare questo estraniamento si verificherà, in molti casi, in senso contrario. La comunità nella quale ritorna è cambiata rispetto al momento della partenza, non è più quella idealizzata durante la permanenza all’estero. Sebbene gli studi scientifici su questo aspetto dell’emigrazione siano davvero esigui o comunque non di carattere ufficiale, in base alle testimonianze di coloro che sono stati costretti a emigrare, si può pensare che in molti casi, il reinserimento potesse rivelarsi addirittura traumatico. Da un punto di vista economico, anche se si tratta di un ambito estraneo alla ricerca storiografica, e anche in questo caso spesso di fonti non ufficiali, si potrebbe dedurre che molto spesso le rimesse degli emigranti siano state usate per la costruzione o ristrutturazione di immobili, acquisto di beni mobili, lo studio dei figli. Ovviamente le interviste che ho avuto modo di consultare costituiscono solo un campione di indagine e una generalizzazione risulterebbe poco scientifica.
  Oggi il Salento, ma l’Italia intera, è meta di immigrazione di massa da paesi in guerra, ma vede anche una emigrazione di giovani in cerca di lavoro. E’ possibile fare dei paralleli fra la situazione attuale e quella di cui parli nella tua tesi?
Ovviamente, le cose sono molto cambiate da allora ma fare un parallelo viene spontaneo. Le condizioni che spingono i migranti di oggi sulle nostre coste sono senza dubbio differenti da quelle che spingevano i nostri connazionali ad emigrare sessant’anni fa. Pertanto, per non cadere nella banalizzazione è opportuno distinguere, storicamente, i due fenomeni. Se da un lato, almeno dal punto di vista sociale, è facile paragonare i migranti di oggi ai nostri connazionali che emigravano nel dopoguerra, dall’altro è chiaro come le motivazioni che spingono i migranti ad affrontare il mare sui barconi sono più complesse.
É vero, ancora oggi seppure in modalità diverse si emigra dal Salento, ma i giovani che partono oggi molto spesso lo fanno con una laurea o un master in tasca a differenza dei loro nonni, sperando in una realizzazione migliore piuttosto che accettare lavori dequalificanti nel proprio paese.
É anche vero che, come testimoniano documentari e inchieste giornalistiche, c’è un ritorno delle partenze “all’avventura” ma non si può parlare di dati ufficiali senza consultare i dati statistici e non è mia intenzione addentrarmi in un campo che non mi appartiene.
Concludendo, posso dire che la ricerca che ho condotto, oltre a studiare il fenomeno dell’emigrazione da un punto di vista propriamente storiografico, ha voluto mettere in luce la condizione di emigrante come condizione mentale di perenne sospensione tra due mondi, una sorta di limbo in cui l’emigrante, suo malgrado, si è spesso perduto.
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