#sono pazzi questi greci
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popolodipekino · 2 years ago
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Leonte di Bisanzio
nel manuale di greco le versioni sono precedute da una frasetta introduttiva in italiano, che presenta l'argomento e tipicamente contiene suggerimenti per la traduzione dei punti più ostici
questa versione cominciava così (e perciò l'ho dovuta tradurre immediatamente: ἔδει, opus erat)
Una battuta del retore Leonte di Bisanzio mette di buonumore la rissosa assemblea ateniese. (traduzione:) Leonte si recò in ambasciata dagli Ateniesi, mentre la città era in subbuglio già da lungo tempo, governata come di consueto; presentandosi davanti all'assemblea suscitò l'ilarità generale per il proprio aspetto, poiché era grasso e aveva un gran pancione; per nulla turbato dalle risa, disse: "Ma perché ridete, Ateniesi? forse perché son così grosso e grasso? Mia moglie è ancor più grassa di me, eppure, finché si va d'amore e d'accordo, il letto ci contiene entrambi, però se abbiamo litigato non basta nemmeno tutta la casa." E il popolo ateniese si rappacifica grazie alla scaltra battuta di Leonte. (da Flavio Filostrato, ii-iii sec. d.C., Vite dei filosofi)
s.p.q.g. (sono pazzi questi greci)
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jacopocioni · 2 years ago
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Il mistero degli affreschi delle cappelle Medici e Pazzi. Risolto?
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Il mistero degli affreschi delle cappelle Medici e Pazzi.
Stiamo parlando della Sagrestia Vecchia nella basilica di San Lorenzo a Firenze e della Cappella Pazzi nel primo chiostro della basilica di Santa Croce sempre a Firenze. Ambedue capolavori architettonici di Filippo Brunelleschi.
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Cappella Pazzi in Santa Croce
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Sagrestia Vecchia in San Lorenzo                     Le interpretazioni sono state più di una, molti gli studiosi che si sono impegnati per risolvere questo enigma fiorentino; enigma centrato più che nell'arte pittorica nello scopo della rappresentazione scelta. Una prima interpretazione viene da Aby Warburg il quale ipotizzò che l'affresco fosse raffigurante la data corrispondente alla consacrazione dell’altare della basilica di San Lorenzo, cerimonia che si è svolta il 9 luglio 1422. Questa teoria è oggi accantonata ma abbiamo voluto verificarla comunque. Non vi inserisco la mappa stellare, ma decisamente non è corrispondente, la luna non è in Toro e il sole è quasi al davanti del cancro. Venere si pone in gemelli e Giove si è perso chi sa dove. Inoltre che senso avrebbe che i Pazzi riproponessero la duplicazione perfetta di quell'evento? Una nascita nella famiglia Medici? Il mistero deve in qualche maniera coinvolgere le due famiglie, la ragione deve essere super partes. Si suppone in questa ipotesi che l'opera sia da attribuire a Giuliano d’Arrigo detto Pesello (Firenze 1367-1446). Pesello era un esperto nel disegno degli animali e un abile ritrattista ma non aveva la cultura astronomica necessaria per una tale precisione, si crede che fosse stato guidato da un esperto astronomo quale Paolo dal Pozzo Toscanelli (1397-1482). Forti non postula nessuna teoria sul "motivo" dell'affresco ma analizza l'affresco solo da un punto di vista scientifico. Ancora un'ipotesi è che la famiglia Medici volesse celebrare la riunificazione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente, evento fortemente voluto da Cosimo il quale fece di tutto per spostare il Concilio da Ferrara a Firenze. Infatti la firma del decreto “Laetentur coeli” avvenne il 6 luglio 1439 a Firenze e si raggiunse la completa riunificazione tra greci e latini. Al concilio parteciparono esponenti di grande prestigio per l'epoca da religiosi ad artisti, da architetti ad astronomi fra cui anche Paolo del Pozzo Toscanelli. Un altro astronomo, sempre di Arcetri, si è misurato con questo mistero aprendo una nuova via interpretativa. Fabrizio Massi analizzando la mappa stellare ha confermato il giorno 4 Luglio del 1442 come giorno rappresentato e per la precisione alle 10:30 del mattino. Masi però esplora una nuova strada. Afferma che la volta rappresentata non è del cielo sopra Firenze ma di un punto d'osservazione diverso e cioè la posizione geografica è da collocare presso Shanhaiguan in Cina. Ci fornisce le coordinate corrispondenti a 40° N 120° E. Queste coordinate, secondo google maps, cadrebbero in acqua, ma poco distante da Shanhaiguan circa a 18,5 km a nord-est. Posizionandosi sulla città di Shanhaiguan le coordinate sono circa 40° N 29" 119° E 46". Cominciamo la verifica. Impostiamo le coordinate fornite da Massi di Shanhaiguan (meglio quelle precise) e poi le due date possibili, quella sostenuta da Massi e quella del concilio. In entrambi i casi si deve adattare la visione verso ovest, non tenere conto dell'orizzonte e per ovviare a questi due problemi cambiare l'orario di osservazione sino ad ottenere corrispondenze migliori in orari notturni.  Una teoria compiuta dovrebbe rispettare i parametri di cui disponiamo. L'affresco ha due sicure certezze, Il Sole fra cancro e gemelli e la Luna in Toro, sul muso del toro. L'idea di Francesco Masi di uscire dal concetto che sia il cielo sopra Firenze è interessante e potrebbe aprire a nuove teorie, cioè testimoniare a Firenze un luogo lontano da Firenze, interessante. Magari un luogo che non era ancora possibile raggiungere dati i mezzi disponibili e le conoscenze del tempo. Zheng He è un membro della dinastia dei Ming. Un eunuco compagno di giochi del piccolo principe Zhu Di. Quando Zhu Di divenne imperatore della Cina assumendo il nome di Yongle, ordinò nel 1403 la costruzione di una flotta imperiale sia per scopi mercantili sia come flotta da guerra e scopi diplomatici. L'imperatore nominò ammiraglio Zheng He e lo mise al comando di tutta la flotta. L'imperatore Yongle incaricò Zheng He di effettuare spedizioni navali a carattere diplomatico, scientifico e commerciale nei mari occidentali. Ora poniamo per un secondo che sia vero, una realtà, l'America è stata scoperta per la prima volta da Zheng He e che una delegazione cinese lo avesse fatto presente alla famiglia Medici fornendo la data e le coordinate di dove i cinesi si erano introdotti nel territorio americano. Prendiamo adesso le coordinate fornite da Masi 40°N 120° E e proviamo a mettere 120° Ovest. Impostandole su maps ci ritroviamo qua: https://goo.gl/maps/fd6ksPexQ41jMyGa8 Proviamo a inserire le coordinate nel programma stellarium e a giocare percorrendo le date dal 1421 al 1423 ed esattamente alla data 3 Luglio 1423, esattamente alle 19.30, abbiamo rappresentata questa volta celeste.
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Con le coordinate della Sagrestia Vecchia spostate ad ovest, la situazione non cambia, l'immagine è praticamente la stessa. E se le cappelle fossero l'unica testimonianza della vera scoperta dell'America? Ovviamente un'ipotesi, ma... Magari Colombo è arrivato nel 1492 "sapendo" dove andava!
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Jacopo Cioni Read the full article
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la-consol-di-kemna · 3 years ago
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SPQR
SPQR per i Romani:  Senatus Populusque Romanus.
SPQR per i Greci: Sono Pazzi Questi Romani oppure Sono Porchi Questi Romani.
SPQR per tutti i fan di Pj: Super Perfect Queen Reyna oppure Super Pretore Queen Reyna
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smallthingmatter2015 · 7 years ago
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La mia III C
Potendo tornare indietro, rifarei la maturità. La gioventù che piange sui libri, è la gioventù più felice, solo che non lo sa. Rivivrei l'ultimo anno di liceo, sì. Anche per 24 ore. Un solo giorno per tornare a parlare del senso di giustizia dei classici greci; dell'amore per la poesia morale dei classici latini; dei quadri, delle sculture e dei monumenti di artisti che hanno portato la bellezza sulla terra; di pensieri controcorrente che mi hanno regalato la libertà di espressione. Datemi un giorno per parlare della storia che mi appartiene e di quella che farò. Datemi il Paradiso di Dante, le leggi della terra e la chimica del cuore. Datemi una lezione di trigonometria, ché l'ultimo "seno", di cui ho cognizione, risale alle lezioni del professore di matematica. Concedetemi la gioia della letteratura affinché possa scoprire il significato nascosto di uno scritto; assegnatemi le versioni affinché possa esercitare la mia mente al confronto e alla comprensione; datemi dei temi affinché possa imparare a raccontarvi chi sono. Datemi anche il mio banco, quello dove ho scritto: "Ti amo Anthony Hopkins" e già che ci siete, datemi un giorno dentro una classe, dove il tempo è scandito da una campanella; datemi una ricreazione piena di parole e pizzette; datemi il permesso per andare in bagno e datemi, vi prego, la regola, l'ordine e la disciplina. C'è tutta una vita per il caos, ragazzi. Godetevi la bellezza di una stanza dove potete essere ancora quello che volete. Amate i vostri insegnanti:la vostra capacità di capire il mondo passa dalle loro mani; amate i vostri libri:la vostra responsabilità futura è tutta nelle righe tra le quali imparerete a navigare e amate il vostro pesante zaino ché il giorno che la vita vi porterà a dover fare una valigia, sarete già abituati a trasportare, sulle spalle, il peso del mondo. Amateli questi esami, ragazzi. Perché fra qualche anno, quando sarete madri, mogli, padri, professionisti, artisti o pazzi; quando la vita vi avrà illuso e disilluso, più volte e la terra avrà accolto tutto il vostro dolore adulto, voi questi giorni li ricorderete con affetto e volgendovi verso il passato, rivedrete dei ragazzi fiduciosi, sognanti e pronti ad afferrare il mondo sulla grande nave della speranza. Da questa immagine prenderete la forza di non cedere al disincanto. Viveteli nella gioia questi esami ché il mondo è difficile e a volte chiama l'appello e registra la vostra assenza. La maturità di domani cercatela per sempre tra le pieghe della vostra esistenza cosicché, quando il creatore suonerà l'ultima campanella voi possiate dirgli: "Professò, è finita, ma sto uscendo con 100/100 di vita". Alla mia eterna III D S.M (2016)
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pangeanews · 4 years ago
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“La condizione della scrittura è monarchica, non repubblicana, elettiva non meritocratica”. Dialogo con Roberto Pazzi
Tra i più prolifici e versatili scrittori italiani contemporanei, tradotto in ventisei lingue, con più di trenta pubblicazioni all’attivo tra sillogi e romanzi e vincitore di premi letterari tra i più importanti, Roberto Pazzi è, al di là dei numeri, testimonianza vivente di un’intera esistenza dedicata alla scrittura. Poeta devoto alla classicità ma moderno in modo sorprendente e romanziere di rara inventiva, nelle storie quanto nello stile, è tra i pochi a esercitare con esiti altrettanto felici poesia e prosa. L’abbiamo incontrato, per parlare di letteratura, di cosa è stata e di cosa, forse, è oggi.
Prof. Pazzi, di scrittura con lei si potrebbe parlare per giorni interi senza stancarsi, la prima domanda però, devo fargliela su un altro tema: di questi tempi, è un prezzo da pagare cui non si sfugge. Come ha vissuto il lockdown? Questa situazione anomala è stata favorevole o castrante per la sua ispirazione? Sui social abbiamo assistito ad una vera e propria “narrativa” del fenomeno, sono usciti instant book, e numerosi manoscritti sul tema stanno invadendo le scrivanie degli editori. Scriverà anche lei una storia ispirata al coronavirus e alla quarantena? Cosa pensa della scrittura che si ispira in modo così diretto e immediato all’attualità?
Per carità, non se ne può più delle alte illuminate intuizioni degli scrittori donate loro dalla serrata, mi lasci usare la mia bella lingua e non l’inglese. Ci hanno inondato da tutti i giornali le ricche espettorazioni dei nostrani scrittori, i Veronesi, i Covacich, i Giordano, i Carofiglio, tanto per fare qualche nome. In quei giorni ho scritto delle poesie, sì, certo, almeno sette in due mesi, ma le avrei scritte con lo stesso ritmo anche se non ci fosse stata quella condizione, perché ne scrivo sempre, qualsiasi temperatura ci sia nel mio Paese, da 53 anni. Ma chi di attualità ferisce di attualità perisce, fra qualche mese dubito che quelle pagine possano interessare qualcuno. Il giornalismo si nutre di attualità ma la letteratura muore di attualità, di contingenza, di mode, di rumori che fa il Nulla, perché il Tutto della prima pagina precipita nel Nulla del giorno dopo. Bisognerebbe saper tenere la penna ferma, il dito immobile sulla tastiera. E muovere il pensiero, non rincorrere subito la visibilità per paura di non essere fra i primi posti della vetrina. Abbiamo o non abbiamo diritto all’oblio? Abbiamo o non abbiamo la suprema libertà che sola cercava Emily Dickinson, il bello di poter essere nessuno e non dover gracidare nello stagno fra i ranocchi gareggiando a chi bercia più forte?
È appena uscita per La Nave di Teseo la raccolta di poesie Un giorno senza sera, un compendio di tutta la sua produzione poetica. Si tratta di componimenti mirabili per il linguaggio alto e lirico eppure moderno, comprensibile, oltre che per i temi ben vincolati alla realtà, ricchi di originalità e acutezza psicologica. A detta di tutti però, pubblicare e vendere poesia è sempre più difficile. Eppure i nostri tempi, che vogliono brevità e potenza, parrebbero i più adatti a vederne un grande ritorno. “La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”, diceva Italo Calvino. Chi sono i suoi poeti di riferimento? E crede sia possibile immaginare oggi una nuova poesia popolare di qualità?
I miei poeti di riferimento sono morti. Ma sono più vivi di molti poeti che occupano i primi posti delle istituzioni. Ho sempre, con quei morti che non muoiono mai, un vivace colloquio mentale, anche perché qualcuno ho avuto la sorte di conoscerlo bene da vivo e di ascoltarlo quando mi dava dei consigli su chi leggere e chi non leggere. Per primo Vittorio Sereni, che quando avevo 23 anni garantì con una sua nota la mia prima pubblicazione in versi, il poeta di cui ho amato il sofferto equilibrio fra immagini e pensiero, fra adesione alla stagione presente e viva e necessità di estraniarsene, fra impegno e devianza. E poi, conosciuto anche per 34 lettere che aveva scritto a Sereni, Umberto Saba, amato per quella sua trasparenza della parola che lo rende un classico, dal coraggio “di scrivere la poesia onesta” come scrisse su La Voce nel 1911. Niente retorica, niente intellettualismo, niente ermetiche oscurità, ma canto, in diretta con la “calda vita” di tutti. E poi Montale, tanto diverso, ma così alto nella cifra della sua poesia di pensiero negativo eppure così legata alla vita, lontana dalla retorica dannunziana, fedele alla razionalità eppure aperta alla metafisica. E Penna, con la grazia del suo sguardo pagano, la sua splendida incapacità di crescere e diventare adulto, di negarsi ai miti eroici che metastatizzano da noi subito in fascismo. E Luciano Erba, altro amico conosciuto di persona, così schivo e così parco, sempre attento a scrivere in stato di necessità, cattolico sì, ma della razza dei gran lombardi, alla Manzoni, che sanno coniugare virtù civili e fughe nel sacro. E Clemente Rebora, di cui so a memoria dei versi… “Se Dio cresce il diavolo aumenta/ vetta che al cielo più riesce/ scavando una voragine tremenda”, un poeta che mi ha insegnato che anche in età moderna si può essere dei mistici, che non esiste un’età più adatta delle altre per scrivere una poesia come fosse una preghiera. Là dove lo Spirito soffia è l’età giusta. Ma ho poi amato tanti stranieri, come Pedro Salinas e più in alto di tutti Rilke la cui scoperta a 33 anni, mentre leggevo Michelstaedter, il Nietzsche italiano, insieme a quella di Proust, è stata fondamentale. E i russi, come dimenticarli? Mandel’stam, Cvetaeva, Pasternak. E tornando indietro nel tempo, i classici greci e latini, da Saffo a Catullo, attraversando Lucrezio, Orazio e Virgilio. E Kavafis, un greco moderno che scrive come epigono di quelli antichi e ci indica la nostra condizione epigonica. E il sommo Leopardi. Come si fa, da queste altezze, a tornare a casa, dai poeti di oggi?
Nel corso di ormai cinquant’anni di scrittura lei è venuto in contatto con tutti i principali editori, oltre a numerosi colleghi scrittori. Chissà quanti aneddoti sorprendenti, inquietanti o esilaranti ha da raccontare! Vuole donarcene almeno qualcuno?
Giulio Einaudi, che giunto a Buenos Aires, sulla scaletta dell’aereo, accecato dalla luce dell’estate argentina, dice che era l’effetto Borges… così mi è stato raccontato, ma è come l’avessi sentito con le mie orecchie, perché da ragazzo l’ho incrociato a Bocca di Magra, a casa di Sereni. E lo snobismo di Giulio Einaudi vibrava nella sua conversazione sempre. Da ragazzo, a Bocca di Magra, mi capitò di avere bisogno di aiuto per spingere il mio gozzo in mare; si fece avanti a aiutarmi a spingerla un bell’uomo alto e simpatico, era Elio Vittorini. Eugenio Montale, conosciuto ancora a casa di Sereni, richiesto da questi di precisare se la Casa dei Doganieri fosse la casa della Sanità, in fondo a Bocca di Magra, si schermò nella smemoratezza, di un “non ricordo” che pareva il verdetto di un dio. E Brodskij che a Ferrara ebbe a dire, nel rimpianto del paganesimo che allenava la mente ad associare il divino alle varie forme della natura, che del Sacro sarebbe bene poter avere fruizione come della buona musica, in stereofonico e mai in mono. Pensando alle tre religioni monoteistiche così intolleranti delle verità altrui. Di Calvino ricordo le tre regole del vivere: ogni tanto risolvere un’equazione di secondo grado, ogni tanto ripetersi una poesia imparata a memoria da bambini, e almeno una volta al giorno pensare che potremmo sparire da un attimo all’altro. Omaggi alla matematica, alla poesia e alla filosofia insomma. E il mitico Livio Garzanti, editore dei miei primi cinque romanzi, che accennando alla mancanza di senso epico di una narrativa italiana languente nella morta gora del microautobiografismo, ebbe a dire un giorno “È troppo tempo che non piove”… volendo alludere alla Seconda Guerra mondiale che aveva rifondato anche la letteratura oltre che alla democrazia.
La filiera della scrittura oggi è in crisi, a partire dagli editori, fino agli scrittori e ai librai. L’offerta è sempre più ampia, e si stanno aggiungendo varie forme di autopubblicazione, mentre i lettori sembrano sempre meno. Lei è uno dei pochi che ce l’ha fatta, e questo le garantisce il lusso di poter parlare liberamente, senza il timore di essere additato come “rosicone”, che è quel che capita ormai a chiunque osi criticare l’ambiente letterario. Ma a suo parere, cosa è primario oggi per diventare scrittori? È ancora al centro la qualità della scrittura, o piuttosto l’essere “personaggio”, magari famoso per altro, o la facile adattabilità alla tv o al cinema, oppure l’appartenenza a conventicole?
Per diventare scrittori bisogna nascere scrittori, scrittori non si diventa, così come si nasce re, o folle o genio o sordomuto o autistico o portato per il Male alla Genet… È uno stato di grazia che non si merita. Non si merita la faccia di Greta Garbo, si nasce con quel volto. Non si impara il genio di Mozart, si nasce con quell’armonia in testa. La condizione della scrittura è monarchica, non repubblicana, elettiva non meritocratica. Una favola comincerà sempre c’era una volta un re, mai c’era una volta un presidente della repubblica. Il dono della scrittura è un carisma, che non si può meritare. E per questo è ingiusto, perché ha a che fare con l’esclusione e non con la cooptazione. Ne sapeva qualcosa Proust col tormento dello snobismo, che lo escludeva dagli ambienti del Faubourg Saint Germain. Il privilegio è la metafora della felicità di stato di quella condizione. Troppi oggi sono scrittori di statuto e non di stato, grazie alla tv. Diciamo che hanno sostituito “la grandezza dell’effetto all’effetto della grandezza” come scriveva Musil, così ingiustamente tenuto in ombra dalla fama di Thomas Mann, un altro genio sospetto di essere stato costruito. Ho tenuto corsi di scrittura in giro per l’Italia e a Ferrara, ma un poco mentivo sempre, perché il nucleo della invenzione è di genesi oscura, come l’arte di ballare o di cantare. E non si insegna. Si può insegnare a leggere, molto meno a scrivere. Vero è che in Italia prevale lo scrittore “personaggio”, costruito in tv e nei media. Come Erri De Luca la cui sconfortante banalità scambiata per oracolarità è pari solo all’illusione di credersi colti, dei suoi lettori. Faccio mia l’affermazione dell’amico Massimo Onofri, “la sinistra nel Sud America ha partorito García Márquez, in Italia Erri De Luca”.
Continuando il discorso, la scrittura appare sempre di più non come un mestiere, ma come un hobby, spesso anche costoso. Un esordiente si troverà sempre più a investire in scuole di scrittura, valutazioni ed editing a pagamento, trovando grandi difficoltà per emergere e pensare di vivere della propria scrittura. Come fu per lei l’inizio? Era molto diverso, allora?
Sì, forse oggi è come dice lei, ma come poeta e narratore sono venuto su in un mondo editoriale degli anni Ottanta in cui non era ancora così, anche se non era per nulla facile superare il muro del suono dell’anonimato, da parte di chi esordiva nemmeno allora. Il mio Cercando l’Imperatore, romanzo di esordio, fu rifiutato da 5 editori prima di trovare Marietti che lo pubblicò vincendo il premio Selezione Campiello, e ottenendo ben 14 traduzioni, le due ultime, in arabo e in coreano, nel 2015 e nel 2017.
Chi sono tra gli scrittori contemporanei, rigorosamente viventi, quelli che ama e quelli che non può soffrire, e perché?
Mi piacciono Giancarlo Pontiggia, Vincenzo Pardini, Umberto Piersanti, Renato Minore, Francesca Capossele, Romana Petri, Matteo Bianchi, Claudio Magris, Roberto Calasso, Franco Cardini, Massimo Onofri, Gerardo Passannante, Emanuele Pettener e Alberto Bertoni. Mi vanto di aver scritto, in tempi non sospetti, due prefazioni quando era vivo a due mirabili opere in versi di Alessandro Ricci, di cui oggi è di moda lodare la grandezza poetica postuma sulle orme di Kavafis e che mi piacerebbe aggiungere a questa lista, come se fosse ancora vivo. Non amo Gianrico Carofiglio, il cuginetto di Lilli Gruber, onnipresente televisivo, che fa sospettare di essere il primo a temere che la sua scrittura non vinca il Tempo, col suo inesauribile apparire in tanti talk show. Non amo il banal grande De Giovanni, Francesco Piccolo che oggi guarda dall’alto dell’empireo nannimorettesco dei cineasti i suoi poveri colleghi rimasti scrittori puri, Walter Siti strozzato da uno Strega vinto che l’ha consegnato al tormento di come poi risalire la china, Mazzantini-Castellitto la coppia più bella del mondo. Ma non amo nemmeno i cultori di Terzani, che paiono adepti di una setta mistica e mettono in sospetto sul loro mito, anche se non avendolo letto non posso dire nulla. La lista poi degli autori costruiti dai media sarebbe più lunga, ma perché amplificarla anche qui? Mi limiterò a fare un solo nome, Paolo di Paolo, di bulimica presenza in ogni sito e sede giornalistica.
Nella sua produzione narrativa ha spaziato in molti generi, storico, fantastico, psicologico, intimista, di formazione, ma non mi sembra, almeno a quanto ricordo, che abbia mai scritto un giallo o un thriller. C’è qualcosa che non apprezza o che non la ispira in questo genere, ormai tra i pochi ad avere un certo mercato, o magari lo affronterà in futuro?
Il giallo è un genere importante della letteratura ma oggi fa insospettire di essere così in voga per la facile riduzione televisiva o cinematografica. Ma non tutto il leggibile è visibile, ci sono libri altissimi renitenti alla trasposizione in schermo. Fra i miei 21 romanzi un giallo veramente l’avrei scritto io pure ed è stato tradotto in 18 lingue, Conclave, uscito nel 2001, oggi edito da Bompiani. Invece dell’assassino, vi si cerca il futuro papa, ma la suspense è la stessa. Di recente una grande casa musicale con sede a Londra e New York ha chiesto l’opzione sui diritti di trasposizione in un musical.
Nel suo ultimo romanzo, Verso Sant’Elena, Napoleone sogna tutta la vita che gli è mancata, una vita diversa, da uomo semplice, dedito all’amore e alla famiglia e non al potere. Ha anche lei in qualche modo una sua vita sognata e non vissuta, in cui magari non è scrittore? O la scrittura è del tutto compenetrata con il suo essere?
No, non avrei voluto un’altra vita diversa da quella dello scrittore. La rifarei quella vita. Ma non si sceglie, si è scelti, come dicevo, da un’oscura elezione del destino. Borges, ricevendo dalle mani del re di Spagna il premio Cervantes, ebbe un giorno a dire “Sono particolarmente felice di ricevere questo premio dalle mani di un re, ho sempre pensato che re e poeti adempiano un destino”.
Viviana Viviani
*In copertina: Roberto Pazzi, photo listonemag.it (l’immagine è tratta da qui)
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allmadamevrath-blog · 7 years ago
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La Conquista della realtà. Il primo Quattrocento
La Conquista della realtà 
Il primo Quattrocento
Rinascimento significa rinascita, e l'idea di questa rinascita aveva cominciato a diffondersi in Italia fin dal tempo di Giotto. Giotto era stato esaltato pere aver fatto rinascere l'arte: con que sta espressione si intendeva che la sua arte poteva stare alla pari con quella dei famosi maestri elogiati dagli scrittori greci e romani. Gli italiani sapevano che nell'antichità la loro terra, era stata il centro del mondo civile, e che la sua potenza e la sua gloria erano finite il giorno in cui, le tribù germaniche, i goti e i vandali, avevano invaso il Paese e spezzato l'unità dell'impero romano. Il periodo fra l'età classica, cui gurdavano con orgoglio, e la nuova epoca di rinascita, in cui speravano, era soltanto un triste lasso di tempo "l'età di mezzo". Da questo concetto di rinascita o rinascimento, derivò l'altro, di un periodo intermedio, di un medioevo: termini tuttora in uso. Gli italiani accusavano i goti della caduta dell'impero romano: l'arte di quel periodo intermedio fu per loro gotica, ossia barbarica, così come tuttora parliamo di vandalismo quando alludiamo a una inutile distruzione di cose belle. La rinascita dell'arte, dopo i tumulti e i rivlgimenti dell'alto medioevo, si produsse gradualmente, e proprio nel periodo gotico, essa ebbe i suoi inizi. Le nuove conquiste di Giotto apparvero un'innovazione formidabile, una rinascita di tutto quanto era nobile e grande nell'arte. Gli italiani del Trecento ritenevano che arte, scienza e cultura fiorite nel periodo classico fossero state distrutte dai barbari del Nord e che ora fosse loro compito far rivivere il glorioso passato. A Firenze nelle prime decadi del Quattrocento un gruppo di artisti volle creare un'arte nuova rompendo con le teorie del passato. L'emnente guida era un architetto che lavorava al completamento del duomo, Filippo Brunelleschi (1377-1446). Il duomo era gotico, e Brunelleschi conosceva perfettamente le innovazioni tecniche della tradizione gotica. La sua fama, poggia in gran parte su alcune scoperte da lui fatte nell'ambito della costruzione e della progettistica e che presupponevano la conoscenza dei metodi gotici di campare le volte. I fiorentini desideravano il loro duomo coronato da una cupola possente ma nessun artista sarebbe mai stato in grado di coprire l'immensa distanza fra i pilastri sui quali la cupola avrebbe dovuto poggiare se Filippo Brunelleschi non avesse trovato il sistema adatto.
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Filippo Brunelleschi. La cupola del Duomo di Firenze. 1420-1436
Egli ruppe completamente con lo stile tradizionale, abbracciando le idee di quanti aspiravano a una rinascita della grandezza romana. Non fu però mai sua intenzione copiare pedissequamente questi antichi edifici. Mirava piuttosto alla creazione di una nuova maniera architettonica nella quale le forme classiche, liberamente usate, contribuissero a creare nuove espressioni di armonia e bellezza. Per quasi cinquecento anni gli architetti d'Europa e d'America hanno seguito le sue orme. Solo nel Novecento alcuni architetti hanno cominciato a discutere i metodi di Bruneleschi, ribellandosi alla tradizione architettonica rinascimentale proprio come egli si era ribellato alla tradizione gotica.
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Filippo Brunelleschi. Cappela Pazzi a Firenze. 1430
Facciata di una cappella che Brunelleschi costrì per la potente famiglia dei Pazzi. Brunelleschi combinò colonne, pilastri e archi secondo il suo stile personale, raggiungendo un effetto di leggerezza e grazia diverso da qualsiiasi esempio precedente. Certi particolari come la cornice della porta, con il suo fronte classico, mostrano con quanta cura Brunelleschi avesse studiato le antiche rovine e costruzioni come il Pantheon. Si vede ancora più chiaramente quanto egli abbia studiato i modelli romani entrando all'interno, in cui non c'è nulla che possa rievocare i tratti tanto cari agli architetti gotici: non alte finestre né snelli pilastri, ma il muro bianco e cieco ripartito da pilastri grigi che, pur non essendo funzionali, richhiamano l'idea di un "ordine" classico. L'architetto ce li mise solo per dare rilievo alla linea e alle proporzioni dell'interno. A Brunelleschi è dovuta un'altra importante scoperta nel campo dell'arte, destinata a dominare nei secoli seguenti: la prospettiva. I greci e i maestri ellenistici abili nel creare l'illusione della profondità, non conoscevano le leggi matematiche secondo le quali gli oggetti diminuiscono di grandezza a mano a mano che si allontanano dallo spettatore. Fu Brunelleschi a dare agli artisti i mezzi matematici per risolvere tale problema.
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Masaccio. La Santissima Trinità con la Vergine, san Giovanni e i donatori. 1425-1428
La figura mostra una delle prime pitture eseguite con l'aiuto di norme matematiche. E' la pittura murale di una chiesa fiorentina e rappresenta la Santissima Trinità con la Vergine e san Giovanni ai piedi della Croce e i donatori - un anziano mercante e sua moglie - inginocchiati all'esterno. L'autore era soprannominato Masaccio (1401-1428), un peggiorativo di Tommaso. Era riuscito a rivoluzionare interamente la pittura. Una rivoluzione che non consisteva solo nell'accorgimento tecnico della prospettiva. Non grazia delicata, ma figure massicce e pesanti; non curve libere e fluenti, ma forme angolose e solide; e non graziosi particolari come fiori e pietre preziose, ma una rigida tomba con dentro il cadavere. Pur non imitandolo Masaccio ammirava la grandezza drammatica di Giotto. Il semplice gesto con cui la Vergine addita il figlio crocifisso è così eloquente e toccante perché è l'unico movimento che animi la pittura, composta più di statue che di figure. E, incorniciandole prospetticamente è proprio quest'effetto di statuaria solennità che Masaccio ha voluto sottolineare. Potremmo quasi toccarle, e questa sensazione ce le fa più vicine e intelligibili. Per i grandi maestri del Rinascimento, i nuovi accorgimenti e le nuove scoperte artistiche non erano mai fini a sé stessi. Se ne valevano solo per imprimere sempre più nelle menti il significato dei loro temi. Il più importante scultore della cerchia di Brunelleschi fu il maestro fiorentino Donatello (1386-1466).
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Donatello. San Giorgio. 1415-1416
Mostra una sua opera giovanile, ordinatagli dalla corporazione degli armaioli: san giorgio, loro patrono, destinata alla nicchia esterna di una chiesa fiorentina (Orsammichele). Il san Giorgio di Donatello poggia solidamente sulla terra, i suoi piedi sono piantati in modo risoluto al suolo, come se egli fosse ben deciso a non indietreggiare d'un solo palmo. Il volto è energico e intento. Sembra scrutare l'avvicinarsi del nemico e misurarne la grandezza, le mani appoggiate allo scudo, tutto teso in atteggiamento di sfida. Ad accendere la nostra ammirazione è l'intero suo atteggiamento verso la scultura, indice di una concezione completamente nuova. Benché la statua sia ricca di vita e di movimento, essa rimane pur sempre chiaramente delineata e solida come una roccia. Come le pitture di Masaccio, essa indica la volontà di Donatello di sostituire alla squisita raffinatezza dei suoi predecessori una nuova e vigorosa osservazione della natura. Alcuni particolari, come le mani o la fronte del santo, mostrano na netta indipendenza dai modelli tradizionali, frutto di un'autonoma e nuova osservazione delle vere fattezze umane. I maestri fiorentini del primo Quattrocento, cominciarono a osservare attentamente negli studi e nelle botteghe il corpo umano, chiedendo a modelli o a compagni d'arte di posare per loro negli atteggiamenti desiderati. E' questo nuovo metodo, è questo nuovo interesse che conferisce all'opera di Donatello tanta forza di persuasione. Come Giotto un secolo prima, egli fu spesso chiamato in altre città italiane per renderle più belle e più famose.
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Donatello. Il festino di Erode. 1423-1427
Un rilievo in bronzo eseguito da lui per il fonte battesimale di Siena circa dieci anni dopo il san Giorgio, nel 1427. Esso illustra un episodio della vita di san Giovanni Battista; la macabra scena in cui Salomè, come compenso della sua danza, ottine dal re Erode la testa del santo. Vediamo la sala regale del banchetto e, dietro, la tribuna dei musicanti e una fuga di stanze e scale. Il carnefice, si è inginocchiato dinanzi al re cui offre sopra un piatto la testa del santo. Il re si ritrae levando le mani inorridito, i bimbi piangono e fuggono, la madre di Salomè, istigatrice del delitto, sta parlando al re per spiegargli l'accaduto. Gli ospiti le fanno un grande vuoto d'intorno. Uno di essi si copre gli occhi con una mano, altri circondano Salomè che sembra avere appena interrotto la sua danza. In quest'opera di Donatello tutto è nuovo. Come le figure di Masaccio, quelle di Donatello sono dure e angolose nei loro movimenti. I gesti sono violenti, e non v'è alcun tentativo di mitigare l'orrore della storia. La nuova arte della prospettiva accresceva ancor più l'illusione della realtà. Donatello, fece del suo meglio per rappresentare un palazzo classico quale poteva essere quello in cui si svolgeva l'avvenimento scegliendo per figure di sfondo tipi romani. A quel tempo Donatello, aveva intrapreso uno studio sistematico dei ruderi romani per valersene nella sua azione volta a una rinascita artistica. Gli artisti attorno a Brunelleschi desidervano con tanto ardore un rinnovamento artistico che per realizzare i loro nuovi fini si volsero alla natura, alla scienza ai ruderi dell'antichità. Il dominio della scienza e la familiarità con l'arte classica rimasero per qualche tempo prerogativa esclusiva degli artisti italiani. Ma la volontà appassionata di creare un'arte nuova, ispirò pure gli artisti nordici di quella generazione.
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Claus Sluter. I profeti Daniele e Isaia. 1396-1404
Come la generazione di Donatello a Firenze, uno scultore d'oltralpe lottava per un'arte realistica e più stretta di quanto noon fossero le opere delicate dei suoi predecessori. Questi fu Claus Sluter, che lavorò dal 1380 al 1405, circa a Digione, a quel tempo capitale del ricco e prosperoso ducato di Borgogna. La sua opera più famosa è un gruppo di profeti (un tempo basamento di un grande crocifisso che in un famoso luogo di pellegrinaggio sormontava una fontana), cioè degli uomini le cui parole furono interpretate come profezia della Passione. Reggono in mano un gran rotolo di pergamena, in cui sonoscritte le parole profetiche, e sembrano meditare sull'evento drammatico incombente. L'uomo coon il turbante è Daniele, mentre il vecchio profeta a testa nuda è Isaia. Dinanzi a noi, più grandi del vero, variopinte e splendidamente dorate, non sembrano tanto statue quanto solenni personaggi di sacre rappresentazioni medievali sul punto di recitare la loro parte. L'artista le cui scoperte rivoluzionarie rappresentano subito un elemento innovatore fu il pittore Jan van Eyck (1390-1441). Egli era legato alla corte dei duchi di Borgogna, ma lavorò soprattutto in quella parte dei Paesi Bassi che era il Belgio. La sua opera principale è il grande polittico che si trova a Gand.
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Jan van Eyck. Polittico di Gand. 1432
Cominciato dal fratello maggiore di Jan, Hubert, e terminato da Jan nel 1432, in quello stesso decennio che vide il completamento delle grandi opere di Masaccio e Donatello. Ci sono molte affinità tra l'affresco di Masaccio a Firenze, e questa pala d'altare dipinta per una ciesa nelle lontane Fiandre. Ambedue mostrano il pio donatore e sua moglie in preghiera ai lati, tutti e due si concentrano su una grande immagine simbolica che nell'affresco è la Santa trinità e sull'altare è la mistica visione dell'Adoraziione dell'Agnello, che naturalmente simboleggia Cristo. La composizione si basa soprattutto sull'Apocalisse di san Giovanni: "un'immensa folla, che nessuno poteva contare, di ogni stirpe, tribù, popolo e lingua; essi stavano in piedi davanti al trono e davanti all'agnello". In alto vediamo Dio Padre, maestoso come in Masaccio, ma splendidamente insediato sul trono come un papa, tra la Santa Vergine e san Giovanni Battista che per primo Gesù l'"Agnello di Dio". L'altare con le sue varie immagini si può mostrare aperto, come accadeva nei giorni festivi quando tutti i suoi splendidi colori venivano rivelati, oppure chiuso come nei giorni feriali quando si presentava in un aspetto più sobrio. Qui l'artista ha rappresentato san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista come statue, come Giotto aveva rappresentato le figure delle Virtù e dei Vizi nella Cappella degli Scrovegni. In alti ci appare la scena familiare dell'Annunciazione. La sua più familiare dimostrazione del nuovo concetto di arte la riservò tutta alle ali interne: le fugure di Adamo ed Eva dopo il peccato. Nudi davvero appaiono, nonostante le foglie di fico che tangono in mano. Qui non c'è realmente un parallelismo con i maestri del primo Riascimento in Italia, i quali non abbandonarono mai del tutto le tradizioni dell'arte greca e romana. Jan van Eyck deve essersi messo di fronte dei modelli nudi e averli dipinti così fedelmente che le generazioni successive furono scandalizzate da tanta franchezza. Si osservi, la differenza la pazienza e la maestria con cui egli ha dipinto la lucentezza dei preziosi broccati indossati dagli angeli musicanti, e ovunque il brillio dei gioielli. Van Eyck non ruppe troppo radicalmente con le tradizioni del gotico internazionale come aveva fatto Masaccio. Seguì i metodi di artisti quali i fratelli De Limblurg, portandoli a un tale livello di perfezione da lasciarsi alle spalle i principi dell'arte medievale. I fratelli De Limbourg, si erano compiaciuti di riempire i loro lavori di figure piacevoli e di delicati particolari tratti dall'osservazione della realtà. Amavano mostrare la loro abilità nel dipingere fiori e animali, edifici, costumi sontuosi e gioielli, offrendo una vera festa all'occhio. Essi non si davano troppo pensiero della proporzione delle figure e dei paesaggi, e che quindi il loro disegno e la loro prospettiva non erano molto convincenti. L'osservazione dal vero di Van Eyck è ancora più paziente, la sua conoscenza dei particolari è ancora più esatta, gli alberi e l'edificio nello sfondo stanno a dimostrarlo. Nel dettaglio del riquadro di Van Eyck, alberi reali e paesaggio reale portano alla città e al castello che si staglianio sull'orizzonte. L'erba sulle rocce e i fiori nati nei crepacci (dipinti con pazienza infinita) non possono venir paragonati al sottobosco ornamentale della miniatura dei De Limbourg. Ciò che vale per il paesaggio vale anche per le figure. Tanta fu l'attenzione di Van Eyck nel riprodurre ogni minuto particolare che ci pare quasi di poter contare i peli delle criniere dei cavalli o delle guarnizioni di pelliccia sui costumi dei cavalieri. Il cavallo di Van Eyck, è vivo. Vediamo lo splendore dell'occhio, le pieghe della pelle; ha membra tonde modellate dal chiaroscuro. Gli artisti meridionali suoi contemporanei, i maestri fiorentini della cerchia del Brunelleschi, avevano perfezionato un metodo grazie al quale la natura poteva venir rappresentata in un quadro con un'esattezza quasi scientifica. Cominciavano con l'intelaiatura di linee prospettiche, e costruivano il corpo umano basandosi sull'anatomia e sulle leggi della prospettiva. Van Eyck, raggiunse l'illusione del vero sommando pazientemente un particolare all'altro, affinché l'intero quadro apparisse come uno specchio del mondo visibile. Questa differenza tra arte nordica e italiana durò a lungo e fu importante, ogni opera che eccelle nella rappresentazione della bellezza, esteriore degli oggetti, dei fiori, dei gioielli o dei tessuti, sarà opera di un artista nordico, e più probabilmente dei Paesi Bassi; mentre una pittura dai contorni arditi, dalla prospettiva chiara e dalla sicura conoscenza del mirabile corpo umano sarà italiana. Per riuscire a rispecchiare la realtà in ogni particolare, Van Eyck doveva migliorare la tecnica della pittura: inventò la pittura a olio. La sua non fu un'assoluta novità come la scoperta della prospettiva; semplicemente egli ideò una nuova ricetta per la preparazione dei colori. I pittori di quel tempo, dovevano estrarre le loro tinte da piante colorate e da minerali che solevano frantumare loro stessi fra due pietre o affidando l'incarico a un apprendista, stemperando prima dell'uso con un liquido la polvere così ottenuta in modo da ricavarne una specie di impasto. In tutto il medioevo l'elemento liquido era perlopiù un uovo, perfettamente adatto allo scopo, ma che presentava lo svantaggio di seccare piuttosto in fretta. Questo tipo di pittura è detto a tempera. Usando l'olio invece dell'uovo, egli poteva lavorare più lenntamente e con maggiore precisione; poteva valersi di colori brillantida sovrapporre a strati trasparenti di velaturem e aggiungere gli effetti di maggior rilievo e splendore con un pannello appuntito, ottenendo così quei miracoli di esattezza che stupirono i contemporanei e fecero ben presto adottare da tutti la pittura a olio.
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Jan van Eyck. I coniugi Arnolfini. 1434
L'arte di Van Eyck ottenne forse nei ritratti i risultati più brillanti. Uno dei suoi ritratti più famosi rappresenta un mercante italiano, Giovanni Arnolfini, recatosi nei Paesi Bassi per ragioni di commercio, con la sposa Giovanna Cenami. E' un'opera nuova e rivoluzionaria quanto quelle di Masaccio e di Donatello in Italia. Un angolo qualsiasi del mondo reale è stato colto istantaneamente su un pannello come per magia. Eccolo in tutti i suoi particolari: il tappeto, le pianelle, il rosario appeso alla parete, il piumino accanto al letto, e la frutta accanto alla finestra. La giovane ha appena messo la destra nella mano sinistra dell'Arnolfini, ed egli sta per mettere la sua destra in quella di lei, come pegno solenne della loro unione. Forse al pittore venne chiesto di perpetuare questo momento perché vi aveva assistito. Questo spiegherebbe perché il maestro abbia messo il proprio nome in un punto importante del quadro, con le parole latine Johanness de eyck fuit hic (Jan van Eyck era presente). Nello specchio in fondo alla camera vediamo tutta la scena riflessa a rovescio e lì pare si possa scorgere anche l'immagine del pittore e dei testimoni. Per la prima volta nella storia, l'artista diventa un perfetto testimone oculare nel senso più vero del termine.
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Konrad Witz. La pesca miracolosa. 1444
In questo tentativo di rendere la realtà come appare all'occhio, Van Evck, dovette rinunciare agli schemi piacevoli e alle fluenti curve del gotico internazionale. In ogni parte d'Europa, gli artisti di quella generazione, nella loro appassionata ricerca della verità sfidarono le più antiche concezioni estetiche e probabilmente scandalizzarono parecchie persone anziane. Uno dei più radicali innovatori fu un pittore svizzero di nome Konrad Witz (1400-1446). La figura è tratta dalla pala d'altare che egli dipinse per la città di Ginevra nel 1444. E' dedicata a San Pietro e rappresenta l'incontro del santo con Cristo dopo la Resurrezione, come viene raccontato nel Vangelo di san Giovanni, al capitolo 21. Alcuni apostoli e i loro seguaci erano andati a pescare al lago di Tiberiade, ma non avevano preso nulla. Allo spuntar del giorno Gesù si trovò sulla riva, ma essi non lo riconobbero. Disse loro di gettare la rete dal lato destro della barca e la rete si riempì talmente di pesce che non riuscivano più a tirarla su. In quel momento uno di loro disse: "E' il Signore", e a queste parole san Pietro "si cinse il camiciotto, perché era nudo, e si gettò in mare. Ma gli altri discepoli vennero con la barca, dopo di che spartirono la colazione con Gesù. Witz voleva presentare nella sua verità ai ginevrini la scena del Cristo ritto sulle acque. E così non dipinse un lago qualsiasi, ma un lago che tutti conoscevano, il lago di Ginevra, con il massiccio del monte Salève alto nello sfondo. E' un paesaggio reale, che tutti potevano vedere, che esiste tutt'oggi ed è ancora molto simile al quadro. E' forse, il primo "ritratto" di una veduta vera che sia mai stato tentato. Su questo lago reale Witz dipinse i pescatori reali, non i contegnosi apostoli delle antiche pitture ma volgare gente del popolo, affaccendata attorno agli arnesei da pesca e goffamente indaffarata a tenere in bilico il barcone. San Pietro sembrava annaspare disperatamente nell'acqua, proprio come in realtà dev'essere avvenuto. Solo Cristo si erge tranquillo e fermo sulle onde. La sua figura solida richiama alla mente quella del grande affresco di Masaccio.
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