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Storie, Leggende e superstizioni dal Mondo degli Ortaggi: Quando la Natura Diventa Mitologia
Dalle zucche alle cipolle, le affascinanti storie e leggende che ruotano intorno agli ortaggi più comuni
Dalle zucche alle cipolle, le affascinanti storie e leggende che ruotano intorno agli ortaggi più comuni. Gli ortaggi che portiamo in tavola ogni giorno hanno spesso alle spalle storie affascinanti, leggende che si perdono nella notte dei tempi e simbologie che ne fanno veri e propri protagonisti della cultura popolare. Dalla zucca, simbolo di Halloween, alla cipolla con il suo potere…
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La frutta e la verdura nel basso mantovano
Oggi impareremo i nomi della frutta e della verdura in dialetto del basso mantovano nella remota possibilità che siate vegani o fruttariani e vi troviate dalle parti di Sermide o di Moglia di Sermide, impareremo inoltre anche i nomi di alcune parti anatomiche del corpo maschile e femminile associati ai frutti della terra dall'antica saggezza popolare.
Cominciamo con la frutta:
al pom (il pomo, la mela, di chiara derivazione francese. I pom, le mele, per indicare anche i seni di modeste dimensioni, vedi anche "il tempo delle mele", ecc.);
Al pir (il pero, cioè la pera. Al plurale i pir, indicanti i seni a punta);
l'angüria (il cocomero, il melone d'acqua. Non indica mai il deretano di ragguardevoli dimensioni per cui esiste un termine specifico, al pandòr, di Verona);
al mlòn (il melone a pane, nell'unica varietà del retato di Sermide IGP. I mlon per indicare i seni di notevoli dimensioni, vedere anche il gaddiano "poponi" per lo stesso significato);
al portügàl (il portogallo, cioè l'arancia, specialmente la varietà dolce);
l'armìla (l'albicocca, da non confondere con l'armèla, cioè il seme della drupa. Non ha altre implicazioni);
La brögna (la prugna. Indica anche il nome dell'organo sessuale femminile: "''na bela brögna", una bella fica, colloquiale fra maschi o amiche di Saffo, fortemente spregiativo, assimilabile al gnal, cioè il "nido", da cui gnalona, "figona, donna dal grande nido". Per il termine aulico si veda invece passera o passerina);
Al persag (il persico, cioè la pesca, perché viene dalla Persia);
L'ua (l'uva);
La saresa (la ciliegia);
La fraga (la fragola, senza altre implicazioni).
Passiamo ora agli ortaggi:
Al pumdor (il pomodoro);
La latuga (l'insalata, la lattuga nella varietà trocadero, anche ad indicare certe particolari alghe che si trovano nei fossi);
Al ravanèl (il ravanello, per indicare anche il pene a riposo o quello di modeste dimensioni);
La suca (la zucca, regina della tavola del basso mantovano, "i turtei cun la suca", i tortelli di zucca, anche ad indicare la testa, la zucca per l'appunto);
La suchina/i suchin (la piccola zucca, la zucchina, raramente associata al significato sessuale di ravanèl);
Al setriöl (il cetriolo. Talvolta ad indicare l'organo maschile eretto, più comunemente denominato al piròl, il piolo o semplicemente l'usell, l'uccello, sempre del paradiso);
La bietula (la barbabietola da zucchero da cui si estraeva anticamente lo zucchero in certi complessi industriali simili a raffinerie denominati "zuccherifici");
I fasöi (i fagioli);
I curnèt (i cornetti, i fagiolini lunghi);
La patata (la patata, senza altre implicazioni);
Al fnòcc (il finocchio, anche nel senso di omosessuale, spregiativo, assieme a urciòn, ricchione, orecchione);
L'ai (l'aglio);
La siola (la cipolla, gialla);
La ròvia (i piselli, senza altre implicazioni).
Mi raccomando studiate e abbiate l'accortezza di non chiedere mai una prugna a una signora, potreste essere fraintesi.
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Biodiversità nell’oliveto del Salento, agli inizi del XX secolo
di Gianpiero Colomba
In Terra d’Otranto, tra la fine del XVIII° e per tutto il XIX° secolo, come conseguenza dei continui dissodamenti dovuti alla nascita di nuovi impianti con piante che per la prima volta colonizzavano il territorio (olivo, gelso, fichi, tabacco, ecc.), c’era poca disponibilità di nuovi terreni coltivabili. Una chiave per l’equilibrio produttivo fu l’intensificazione del livello di coltivazione nei terreni in genere ma soprattutto negli oliveti, con cereali e legumi spesso in rotazione tra loro. La parcellizzazione del territorio salentino e la coesistenza di colture diverse nello stesso fondo è stata una caratteristica delle comunità tradizionali che ha garantito nel tempo l’autosussistenza delle famiglie.
L’olivo quasi sempre era all’interno di possedimenti nei quali condivideva lo spazio con coltivazioni come i cereali, la vite, gli ortaggi e altre colture arboree come il gelso, il mandorlo o il fico. La distanza tra le piante di olivo permetteva di intercalare colture che consentivano al contadino di avere un reddito diversificato e quindi pressoché costante nel tempo.
Alla fine del XVIII° secolo il medico e agronomo salentino Giovanni Presta, indicava una distanza conveniente tra le piante di olivo di circa 65 «palmi», il che corrispondeva a poco meno di 50 piante per ettaro, la stessa densità indicata un secolo dopo dal cavaliere Gennaro Pacces, il quale si riferiva al dato medio dell’intera provincia di Terra d’Otranto. Intorno agli anni trenta del XX secolo si stima con maggior precisione una densità media di 62 piante per ettaro. Per fare un confronto: in Andalusia, regione leader nel mondo in quanto a produzioni di olio, nello stesso periodo potevano esserci tra le 90 e le 100 piante per ettaro. Per inciso, attualmente nella provincia di Lecce si stimano 112 piante per ettaro e un minimo livello di consociazione.
Per avere un riscontro rispetto alla reale condizione delle colture intercalate nell’oliveto in epoca preindustriale, prendiamo come rappresentativo il classico lavoro del professore Attilio Biasco di inizio XX secolo:
Gli oliveti specializzati, se non mancano del tutto, sono sicuramente molto rari. La consociazione arborea è abitualmente con la vite, la mandorla e il fico. La consociazione è talmente rilevante che l’olivo si considera la coltivazione secondaria.
Esiste dovunque una rotazione in cui spesso figurano le cereali e scarseggiano le leguminose: le prime sono rappresentate dal frumento, dall’avena, dall’orzo; le seconde dal lupino, dalla fava e il trifoglio incarnato.
Ma quali colture erano intervallate nell’oliveto e in quale proporzione? I dati che permettono un’analisi più precisa sono quelli in calce al Catasto Agrario del 1929. Per la prima volta in Italia nel su indicato Catasto, si descrivevano le aree coltivate differenziandole tra superficie cosiddetta «integrante» ovvero specializzata e superficie «ripetuta» ovvero associata ad altre coltivazioni prevalenti. L’oliveto integrante, a sua volta, era definito «esclusivo» laddove non vi era alcuna promiscuità con altre coltivazioni, o «prevalente» laddove la coltivazione associata occupava non oltre il 50% della superficie dell’oliveto.
Secondo la definizione data nel Catasto Agrario quindi, all’interno della categoria integrante potevano ricadere oliveti con all’interno fino al 49% della superficie occupata da altre colture. Per semplificare, poteva esserci un ettaro di oliveto con intercalati 3 mila metri quadri di mandorlo. Quindi, non solo esisteva una quota parte di olivi associati in altre coltivazioni, ma, vi era anche un certo livello di promiscuità colturale all’interno dell’oliveto definito integrante.
L’analisi dei dati permette un’interessante ed inedita valutazione: poco più del 33% dell’oliveto specializzato (50.591 ettari su 149.947 ettari nel 1930) aveva al suo interno coltivazioni in rotazione (principalmente, grano duro, avena, orzo, fave e lupini). Questo significa che esisteva ben un terzo dell’oliveto specializzato al cui interno vi era un certo livello di promiscuità, ed era quello che si definiva come oliveto prevalente. Di queste colture, il 44% erano cereali, il 21% piante da foraggio (trifoglio, veccia, …), il 13% fave, il 7% lupini e il 13% altri legumi. Si avverte che questa è una fotografia sul territorio in un dato momento storico e che, secondo quanto enunciato nel catasto, queste rilevazioni erano dati medi riferiti al sessennio 1923/28. Data inoltre la ciclicità annuale delle coltivazioni, l’analisi che ne può derivare riveste un significato di sola tendenza.
A questo punto se consideriamo la totalità della superficie dell’oliveto, cioè sia la superficie di associato che di specializzato, osserviamo che in percentuale l’oliveto esclusivo «puro» senza alcuna associazione, rappresentava in Provincia una quota poco più alta della metà di tutto l’oliveto ossia il 54%. Per altro verso, era pari al 18% la superficie occupata dagli olivi in associazione ma, se includiamo la categoria prevalente, non indicata nelle statistiche ufficiali ma qui calcolata, vediamo che la percentuale sale al restante 46%. Quindi, in poco meno della metà della superficie totale dell’oliveto (associato + specializzato), esisteva una qualche forma di associazione colturale. Riassumiamo il tutto nella figura sotto.
Tipologia dell’oliveto in Terra d’Otranto nel 1930. (Ettari). Fonte: propria elaborazione.
Alcune riflessioni. In alcune zone d’Italia e in particolar modo nel Salento, c’era poca disponibilità di territorio supplementare per le nuove colture. Infatti, già nel 1929 la quota di terra forestale (pascoli permanenti e boschi) si era progressivamente ridotta a poco meno del 10% su tutto il territorio della provincia di Lecce. Inoltre, l’alta densità di abitanti obbligava a rendere altamente efficienti tutti i terreni disponibili. Una chiave per l’equilibrio produttivo per tutto il XIX secolo e anche nei primi decenni del XX, fu l’intensificazione del livello di coltivazione nella stessa area con cereali e legumi, a dimostrazione di una più compiuta razionalità ed efficienza contadina, e rappresentando quindi un esempio di land-saving strategy. Le consuete rotazioni tra fave o lupini da un lato e avena, grano duro o orzo dall’altro, consentivano il soddisfacimento dei bisogni familiari in condizioni di sostenibilità per l’oliveto. L’associazione tra colture è uno dei segnali che rafforza l’idea di una strategia agraria basata sull’autoconsumo.
Questa tendenza si sarebbe poi evoluta nel giro di alcuni decenni in direzione della monocoltura e della specializzazione. Nel 1980 l’Istat riportava circa 1 milione di ettari d’olivo in consociazione su tutto il territorio italiano, circa 1,4 milioni di ettari nel 1950 e a circa 1,7 milioni nel 1910. Secondo stime più recenti del progetto europeo di agro-selvicoltura Agforward (2014-17), in Italia circa 200.000 ha di olivo sono attualmente gestiti in consociazione. Il trend quindi è in calo. Assistiamo a una lenta evoluzione in direzione della specializzazione colturale.
Sebbene quindi intorno al 1930, abbiamo calcolato un consistente livello di diversità colturale negli oliveti, verosimilmente questa quota era in diminuzione e con esso diminuiva progressivamente la biodiversità al loro interno. Ed è altrettanto plausibile che per l’oliveto, il quale per chi scrive ha rappresentato il classico esempio di coltura promiscua in epoca contemporanea, l’uscita dalla crisi produttiva iniziata alla fine del XIX° secolo fu rappresentata proprio dal percorso di avvicinamento alla specializzazione. Tutto ciò coincise anche con la globalizzazione dei prodotti e il conseguente ingresso di cereali a basso costo provenienti da altre parti del mondo. Tutta questa complessa e simultanea concomitanza di eventi, condizionò l’abbandono delle tradizionali strategie contadine, le quali consideravano l’associazione tra le colture come sistemi agronomici efficienti e in ultima analisi, forzò il percorso di semplificazione degli agro-ecosistemi. Negli ultimi decenni, l’utilizzo massivo di agro-chimici negli oliveti si sta realizzando senza controllo, contaminando il suolo e le acque, e originando, da un lato una forte perdita di sostanza organica e dall’altro una minaccia alla biodiversità.
Bibliografia
Biasco A., L’olivicoltura nel basso leccese, Napoli 1907.
Casella O., L’Ulivo e l’olio: manuale pratico ad uso degli agricoltori e dei proprietari, Napoli 1883.
Cimato A., Il germoplasma olivicolo in provincia di Lecce: recupero, conservazione, selezione e caratterizzazione delle varietà autoctone, Matino (LE) 2001.
COLOMBA G., Transición socio-ecológica del olivar en el largo plazo. Un estudio comparado entre el sur de Italia y el sur de España (1750-2010), Tesi di dottorato, Siviglia 2017.
Pacces G., Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola in Italia, Monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura e della classe agricola dei singoli circondari della provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1880.
Presta G., Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Napoli 1794.
Tombesi A. et al., Recommendations of the working group on olive farming production techniques and productivity, «Olivae», 63, Madrid 1996.
Colomba Gianpiero, indirizzo mail: [email protected]
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È passato più di un anno, inizialmente era tutto una toppa per “sentirmi di nuovo viva”. Per rimpiazzarti. Tu già avevi capito che era qualcosa di più, io no.... o meglio forse volevo solo nasconderlo a me. Forse, per certi versi è vero che per un periodo mi conoscevi meglio di me stessa. Ero così persa. In realtà ti devo tanto, anche se non parliamo più. Sono felice del fatto che tu sia felice, se davvero è così finalmente adesso. Mi dicono di sì, tramite social però... e io a queste cose non ci credo. La facciata che “si vuol mostrare” non sempre riflette quello che c’è sotto. Ma voglio pensare che sia così. Mi son accorta di cosa significhi amare, non posso dire ancora “in modo sano” perché sono sempre il solito pasticcio, ma quasi. Ma non volevo parlare di te. Di lui. Inizialmente giuro era solo un gesto per indispettirti, lo sai che son sempre stata dispettosa con te, ora sono cresciuta, ho capito che quelle cose non lasciano spazio al vero affetto e ti tirano dietro solo tanta merda, ma ancora ai tempi, dentro di me, volevo dimostrarti che “valevo qualcosa”. Stupido volerlo dimostrare agli altri, bisognerebbe saperlo e basta. Le dimostrazioni mi han sempre dato l’impressione di finto. E bene è così... dopo di te pensavo di non potermi più innamorare di nessuno.... e giuro che inizialmente era solo un gioco. Tu stesso mi dissi che rispecchiava esattamente quelle persone che stimavi tanto, e se hai la stima di chi stimi, bhe allora si “che vali”... che pensiero stupido. Però nella mia testa ondeggiava questa idea, forse c’è l’avevi spinta tu... bho passato. Ricordo ancora la sera in cui l’ho incontrato, io che tornavo a casa a piedi e continuavo a pensarci... era come una conquista di qualcosa per me. Era come un “vedi che posso avere quello che voglio!” Però... dopo una settimana il “semplice atto di rivalsa” si trasforma in tenerezza. Era il mio cazzo di compleanno e come al solito tu me l’avevi rovinato, si lo so, ero un po’ un dito pieno di sabbia in culo però... tu proprio non mi capivi. Un quasi estraneo mi risollevó il morale quella sera mandandomi un vocale stupido, probabilmente per lui aveva lo stesso significato che avevo dato a lui la sera in cui l’ho incontrato, ma per me... era qualcosa di stupendo. Non ci diedi peso, presi il treno per venire da te e passare con te il mio compleanno. Che dire, c’era sempre una persona di troppo. Ricordo che feci il mio solito scalo a Padova e cazzo gli inviavo foto di ortaggi (nonché il mio pranzo) è vicino a me c’era un vecchietto che si era alzato guardandomi disgustato ahaha arrivai da te, mi rifugiavo in bagno a rispondergli ai messaggi. Continuavo a ripetermi che era “uno sfogo”, un qualcosa che facevo contro di te solo perché mi rendevi triste... Ma nello stesso tempo cercavo di fare bella impressione su di lui. Si, convinta nella mia testa bacata che questo potesse influire sulla visione che tu avevi di me... ogni tanto mi scriveva, ci scambiavo qualche messaggio. Io rispondevo sempre in maniera amichevole, lui era palesemente interessato a provarci con me in senso decisamente superficiale nonostante sapesse che io stessi con te, come facevo a prendere sul serio una persona del genere?! Eri tu il primo a dirmi che quella categoria di persone era completamente inaffidabile... e io ti credevo, e forse un po’ e così. Insomma il mio pensiero non era di certo “ora mi innamoro di questo” anzi. Un giorno però successe un altra cosa, ed è ancora lì impressa nella mia testa come la scena di un film. Era il giorno in cui ci avevano consegnato i voti del corso di piercing, ero triste perché l’insegnante mi aveva dato ingiustamente un voto basso, e tu come tuo solito te ne fregavi, eri uscito per i cazzi tuoi e non rispondevi minimamente ne tanto meno mi avevo avvisato sul tuo uscire, cosa che se avessi fatto io sarebbe stato un disastro sopratutto se al ritorno non ti avessi detto di essere arrivata a casa. E cazzo, ricordo che quel giorno tornata verso le 12 ti chiamai e litigammo un sacco. La mia porta del bagno ne ha ancora il segno. BOOM...
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Parola di Dante 195/365
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"[...] e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s'io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume [...]"
Il sostantivo "agrume" deriva dal latino volgare *"acrūme(n)" ‘frutto aspro’, dal latino classico "ācrus" ‘acre’; entrambe le forme risalgono alla radice indoeuropea *"ak-" ‘acuto, pungente’. Nel Trecento, secolo delle prime attestazioni, il sostantivo aveva un significato ben diverso da quello attuale: non indicava infatti i frutti e gli alberi del genere Cedro, ma alcuni tipi di ortaggi dal gusto forte e pungente, come il porro, la cipolla o l’aglio. Proprio questa antica accezione permette a Dante di sviluppare una metafora dalle tinte realistiche e concrete: tutte le verità che egli apprende nel Paradiso attraverso le parole profetiche dei beati, spostandosi di "lume in lume" (v. 115), avranno per molti di coloro che le ascolteranno un sapore intenso e spiacevole, analogo, appunto, a quello tipico di alcuni aspri ortaggi.
#alighieri#dante#dante alighieri#anno dantesco#la parola di dante#parola di dante#dante 700#dante700#Instagram
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Si trova in Sardegna. Secondo le stime, la sua età potrebbe superare i 3000 anni e arriverebbe persino a 4000 , è l’ulivo di Luras.L’ulivo di Luras è stato dichiarato Monumento Naturale e rientra nella lista dei “20 alberi secolari italiani” da tutelare e dichiarare Monumento Nazionale con decreto ministeriale.
Il significato degli alberi e delle piante ha sempre rappresentato, soprattutto in passato, un fattore importante nel rapporto tra l’uomo e la natura. Nelle culture antiche tutto ruotava intorno ai cicli naturali e ai suoi elementi quali alberi, rocce, piante, animali, ecc. Si usavano gli alberi e le rocce per costruire abitazioni, piante per curare ferite e malattie, la terra per coltivare ortaggi e alberi da frutta. Data la fondamentale importanza che ricopriva la natura nella vita dell’uomo, non dovrebbe meravigliare che sia gli alberi che le piante in genere venivano associate a divinità o venivano assunte come simboli di carattere religioso, spirituale ed esoterico. Sia nelle tradizioni nordiche che romane e greche, gli alberi hanno sempre rappresentato il mezzo di interconnessione tra la superfice della terra, il sottosuolo e il cielo. La terra rappresentava il mondo dei mortali, al sottosuolo veniva associato il mondo degli inferi mentre il cielo era considerato la dimora degli dèi. In particolare, la figura dell’albero rappresentava l’unione tra il passato (simboleggiato dalle radici) il presente (simboleggiato dal tronco) e il futuro (rappresentato dalla chioma).
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La Compagnia le Strologhe di Bologna presenta: Storie da mangiare
Due cuoche strampalate, stanche di cucinare sempre gli stessi piatti, decidono un giorno di iniziare a giocare con i cibi.
Sul tavolo da cucina prendono vita buffi personaggi e storie insolite: La principessa sul pisello e Biancaneve e i sette Nani (o meglio Biancaneve e i sette Pani…)
In scena il cibo narra due storie tradizionali, con frutta, verdura, utensili da cucina, pani, farine e tutto il necessario per l’impasto del pane.
Gli ortaggi diventano i personaggi della fiaba e i bambini sono portati a guardare con altri occhi le verdure che tutti i giorni vedono in casa o nei negozi e spesso non amano, assistendo alla preparazione dell’impasto del pane, azioni fisiche associate alla storia narrata.
Gli oggetti e i cibi messi in contesto differente da quello usuale, pur mantenendo inalterata la loro funzione, acquistano un nuovo significato, creando associazioni mentali insolite e divertenti.
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1938: "Gli ebrei fuori dalle scuole". Testimonianze sulle leggi razziali
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1938: "Gli ebrei fuori dalle scuole". Testimonianze sulle leggi razziali
A pochi giorni da “La giornata della memoria” e a poco più di ottant’anni dalle leggi razziali italiane un doveroso viaggio attraverso le testimonianze del tempo su come i garfagnini appresero le leggi infami sugli ebrei italiani del 1938 . Ricordi significativi e toccanti di coloro che vissero quei tremendi momenti: fuori i bambini ebrei dalle scuole, fuori gli ebrei dagli uffici pubblici, perchè come diceva il manifesto della razza italiano “è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”.
Pochi lo sanno e forse altrettanto pochi se lo ricorderanno, ma tutto cominciò ufficialmente nella nostra bella Toscana. Era il 5 settembre del 1938 nella reale tenuta pisana di San Rossore. Qui Vittorio Emanuele III re d’Italia passava insieme alla famiglia reale “il meritato” riposo estivo che andava da inizio giugno ai primi di novembre. Quella era una mattinata qualsiasi e come sempre con estrema naturalezza e indifferenza sua maestà aveva già fatto la sua passeggiata in riva al mare con i pantaloni rimboccati per non bagnarli, dopodichè si apprestò a tornare all’interno della tenuta, ma prima di pranzo lo attendeva una firma che sbrigò così, su due piedi, in quattro e quattro otto come se niente fosse, assecondando di fatto la volontà di Mussolini e di Hitler.
Tenuta reale di San Rossore dove furono firmate le leggi razziali
La firma sanciva una legge dello Stato che si sviluppava su 7 articoli, la legge era la n°1390 e così titolava: “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, solamente i primi tre articoli non lasciavano spazio a qualsiasi dubbio: Art 1: All’ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; nè potranno essere ammesse all’assistentato universitario, nè al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza Art 2: Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica Art 3: Al datare dal 16 ottobre 1938 tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengono ai ruoli delle scuole di cui al precedente art 1 saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale insegnante i presidi e i direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza nelle scuole elementari, Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall’esercizio di libera docenza.
Benito Mussolini e Re Vittorio Emanuele III
Di fatto da quel giorno diventarono ufficiali le leggi razziali,che cacceranno fuori dalle scuole italiane bambini e insegnanti ebrei, una macchia indelebile nel nostro Paese. Ma quale fu l’effetto di tutto ciò in Garfagnana? Non esistono documentazioni scritte (o almeno io non l’ho trovate)su particolari provvedimenti adottati nella nostra valle, ma in compenso possiamo attingere a fonti orali da cui si può trarre spunti di riflessione interessanti. Le leggi razziali del 1938 non ebbero conseguenze fattive o significative in Garfagnana per il semplice motivo che ebrei non ve ne erano, la consolidata religione cattolica era presente più che mai in ogni famiglia, quello che è intrigante è vedere come apparirono agli occhi degli scolaretti innocenti di allora le leggi sulla razza. Questa testimonianza è di Adelina classe 1929 di Castelnuovo Garfagnana, al tempo frequentava la terza elementare nel capoluogo garfagnino e ricorda nitidamente tutto questo:
Scuola fascista al saluto romano
“Tutta la scuola fu convocata nell’aula magna, se ricordo bene erano i primi giorni, la maestra ci disse che il direttore ci doveva leggere una lettera del re…Come sempre entrammo nell’aula magna, prima di tutto si salutò rispettosamente il direttore e poi al saluto romano rendemmo omaggio al quadro del duce e di Vittorio Emanuele III. Il direttore ci disse che parlava non per se ma per bocca del re, questo frase mi rimase impressa nella testa, perchè fu ripetuta più volte, solo con gli anni capì il significato di questo ripetersi del direttore, probabilmente lui non era d’accordo con queste nuove leggi, ma comunque doveva leggerle visto che il suo ruolo glielo imponeva. Fattostà che cominciò a leggere passo passo tutta la legge, articolo per articolo…e io in questa “lettera” del re non c’avevo capito proprio nulla. Come me molti altri bimbetti, infatti una volta rientrati in classe si chiese spiegazioni alla maestra. Era la prima volta che sentivo parlare di ebrei, non sapevo neanche della loro esistenza o chi fossero, pensai solamente nella mia testa di bambina che la dovevano aver combinata grossa per essere cacciati da tutte le scuole del regno e invece povera gente…”
Un altra bella testimonianza viene da Piazza al Serchio, lui è Rino, ottant’anni suonati, ma anche qui la mente è vivida: “Queste famose leggi sulla razza a noi le lesse il maestro in classe, in “quattro balletti”, pochi ci capirono qualcosa, i bimbetti più curiosi chiesero spiegazioni, il maestro le liquidò dicendogli semplicemente di farsele spiegare dal prete, praticamente fece come Ponzio Pilato se ne lavò le mani e i piedi, a me non è che sinceramente me ne fregava più di tanto, io dopo la scuola dovevo pensare al pascolo delle pecore. Però un giorno passò il prete da casa, come al solito per “raccattare” qualche “ovo” e due pomodori freschi dell’orto, la mamma allora mi mandò nel campo a staccare qualche verdura per il prete e quando gli consegnai gli ortaggi mi ritornarono in mente le parole del maestro e allora così a bruciapelo gli domandai – Ma chi sono gli ebrei?- e lui senza batter ciglio così mi disse:-Sono quelli che hanno condannato Gesù alla croce perchè non riconoscevano in lui il figlio di Dio- e poi aggiunse questo passo della Bibbia: – E sarete maledetti voi, e i figli dei vostri figli, e tutta la vostra genia… e quello che succede in questi giorni sono le conseguenze che pagano!-. Devo dire la verità, così come me la buttò giù questi ebrei mi fecero una gran rabbia e dentro di me pensai che ben gli stava di essere cacciati da scuola, loro erano i colpevoli della morte di quel Gesù che pregavo tutte le sere e poi le parole del prete a quel tempo erano prese come oro colato. Poi per fortuna si cresce e si comincia a capire molte cose ed ecco che allora a quel prete oggi risponderei con un altro passo della Bibbia: “Non c’è nè giudeo nè greco, non c’è nè schiavo nè libero, non c’è nè maschio nè femmina; poiche siete tutti una persona unitamente a Gesù Cristo”.
Quest’ultimo ricordo che vado a narrare invece fa riferimento ad un’altra infamia: “Il manifesto della razza”. Questo fogli pubblicati su “Il giornale d’Italia” divennero la base ideologica e pseudo scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. La pubblicazione uscì il 14 luglio 1938 e anticipò di qualche mese le leggi razziali. Sul quotidiano furono elencate dieci “regole” in cui ad esempio si affermava che: “esistono grandi razze e piccole razze”, oppure, “La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana” e ancora, “E’ tempo che gli italiani si proclami francamente razzisti” e poi, “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana“.
“Il manifesto della razza” luglio 38
“Questi manifesti ed altri ancora erano affissi come da regolamento per le vie del paese -dice Luigi da Barga- a me personalmente non ricordo che a scuola mi abbiano letto le leggi razziali, ma ricordo bene questi manifesti perchè alcuni invece che essere scritti erano illustrati. Ne ricordo uno che diceva: “Non vi possono essere ebrei…” e poi c’era il disegno di una banca con una croce sopra come segno di diniego, oppure anche una scuola, o sennò un comune. Secondo me questi cartelli illustrati avevano maggiore effetto perchè rimanevano impressi anche nella memoria dei bambini proprio come al tempo successe a me. Un altro cartello invece aveva degli omini ritratti e descriveva che gli ebrei non potevano fare il servizio militare o che non potevano avere domestici italiani e altre cose ancora.
Quando uscì il “manifesto della razza” molti dei compaesani e sopratutto i ragazzi più grandi si convinsero veramente di essere una razza superiore, qualcuno dava la caccia perfino all’ebreo che assolutamente non c’era nella nostra zona, però qualcuno incredibilmente cominciava anche a seminare sospetti fra le persone che magari vedeva o conosceva da anni perchè secondo le caratteristiche fisiche imposte dal regime un ebreo doveva avere un naso aquilino, occhi color azzurro scuri e le “borse” sotto gli occhi e quando questi giovani esaltati vedevano qualcuno con simili caratteristiche fiorivano mille illazioni e mille diffidenze. Pensare che tutte queste norme questo era supportate anche da importanti scienziati e professori italiani mi da ancora i brividi”.
Come abbiamo letto da queste testimonianze bastava veramente poco per insinuare nelle persone il dubbio, la paura del “diverso”. Bastava una parola di un prete o una firma su una legge per sancire una verità assoluta, e’ proprio vero l’ignoranza ha fatto più morti che dei fucili. Oggi niente è cambiato nonostante tutti i mezzi che abbiamo a disposizione per conoscere e sapere, ancora oggi ci fidiamo sempre e del solito “ho sentito dire…”.
Fonte:
Testimonianze raccolte da me nei quaderni di scuola di Moni Albertina (mia mamma)
Bibliografia
“Il Tirreno” 3 settembre 2018 di Fabio Demui “5 settembre 1938: il re firma a San Rossore le leggi razziali, inizia il calvario degli ebrei”
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Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (III)
di Cristina Manzo
Nel Salento approdarono nel 1970 lo scultore olandese Norman Mommens con la compagna Patience Gray, scrittrice e giornalista inglese e ci rimasero per più di trent’anni, fino alla loro morte, vivendo un legame estremo con la terra di Spigolizzi. La loro masseria fu solo spartanamente restaurata e non vollero mai l’elettricità. Normann Mommens e Patience Gray, riconvertirono la campagna in un luogo di arte e conoscenza, e da essi viene la seconda testimonianza di un territorio scelto, come luogo di vita, da gente straniera. Patience, giornalista londinese, orafa, appassionata di botanica e studiosa di gastronomia si era lasciata catturare dal fascino della macchia mediterranea che, in cambio, aveva donato storie di cultura antica e misteri che lei e il compagno, seppero sapientemente tradurre in arte con la pittura, la scultura e la scrittura.
‘Il Pazzo’ o ‘Anatolì’, marmo bardiglio 320 cm, Carrara 1965 [1].
Di fronte alla masseria c’era un’aia circolare dove Normann, l’artista fiammingo, situò un’erma alta tre metri e venti, che chiamò Anatoli, dal greco, perché la statua è rivolta verso est.
I libri che Patience scrisse, vennero pubblicati in Inghilterra, e raccontano il Salento, interrogato nel profondo della sua anima storica e nelle sue tradizioni alimentari.
Esperta botanica, Patience raccoglieva anche funghi e verdure selvatiche nelle vicinanze della masseria, che preparava secondo le ricette della tradizione locale che, già in quegli anni, rischiavano di cadere in disuso perché associate a tempi di povertà e privazioni. Sotto questo punto di vista, il contributo della Gray alla preservazione dell’antica cultura culinaria del Salento, è stato straordinario. Nella loro nuova dimora salentina continuarono a coltivare ognuno la propria arte, ma si trasformarono ben presto in cultori e difensori della macchia mediterranea, delle vestigia archeologiche e dei paesaggi del Salento, che cominciavano ad essere stravolti dall’ondata di speculazione edilizia degli anni Settanta. Patience e Norman cominciarono da subito a coltivare la terra della masseria. Un contadino del posto, “dal nome appropriato di Salvatore”, insegnò loro i metodi ancestrali per la coltivazione di pomodori, piselli, ortaggi e verdure locali. Nel corso della lunga “odissea del marmo”, Patience aveva raccolto centinaia di ricette dalle massaie e dei cuochi delle trattorie. “Sono stati i contadini e i pescatori”, diceva, “a creare le ricette piuttosto che i cuochi degli alti prelati e dei principi. Questi ultimi si erano solo limitati a raffinarle”. Annotava non solo le ricette, ma anche il significato profondo che esse rivestivano nella vita quotidiana delle persone e il loro valore culturale per quella comunità. Così ha continuato a fare nel Salento. La masseria di Spigolizzi diventò, negli anni, meta di visitatori ed estimatori da ogni angolo del Salento e del mondo. Un folto gruppo di giovani del luogo fu da loro ispirato a impegnarsi in campagne per la protezione del patrimonio archeologico e ambientale del Salento. A questo gruppo di giovani volenterosi, il regista tedesco Klaus Voswinckel dedicò il film documentario “I Ragazzi nel 1989”. Troupe televisive e giornalisti inglesi e americani sono scesi nel Salento a intervistare Patience. Tra gli altri, Derek Cooper, conduttore per oltre un ventennio del Food Programme della Bbc, nel 1988 realizzò a Spigolizzi un’intervista alla scrittrice, trasmessa poi su Radio 4. Patience è stata l’antesignana dello slow food prima ancora che quest’espressione fosse coniata e diventasse moneta corrente sulle riviste patinate e nei talk-show. La sua idea di dieta mediterranea era, però, ben diversa da quella presentata in tanti programmi televisivi in Italia e, soprattutto in Europa e in America, spesso a base di leggeri piatti di pesce con un filo d’olio d’oliva. Per Patience, la dieta mediterranea era calorica, ricca di amidi e verdure, ma anche di proteine, destinata a soddisfare il sano appetito dei lavoratori della terra e del mare. Non condivideva le ossessioni salutiste e la paura del colesterolo che, secondo lei “aveva sostituito il concetto di peccato”[2].
Interni della masseria Spigolizzi, pittura e scultura di Normann Mommens[3]
Nel 1968 Normann, lavorando a Carrara, aveva capito di avere bisogno di più spazio per tutte le sculture che aveva realizzato, di un grande spazio in cui vivere e così lui e Patience fecero il primo viaggio in Salento, insieme ad amici: Helen Ashbee e Arno Mandello. Inizialmente l’idea era stata quella di acquistare una casa per viverci tutti insieme, poi però, i due amici avevano acquistato la Bufalaria verso la marina di Ugento e loro avevano acquistato Spigolizzi. A quei tempi non c’erano neanche le strade e i luoghi erano tutti molto isolati.
Interni di Masseria Spigolizzi, abitata da Mommens e Patience[4]
Ogni masseria era dotata di tutto l’indispensabile per poter vivere, come un forno di pietra e una cantina per le scorte, e avevano un orto e un giardino e distese di verde a perdita d’occhio e, anche se era tutto inselvatichito e le case sembravano ruderi, Patience e Normann erano felici.
Producevano l’olio e il vino, facevano il pane, le frise, i taralli e ogni incontro era una festa. Nel tempo la masseria Spigolizzi di Normann e Patience è divenuta insieme alla Bufalaria di Helen e Arno, crocevia di incontri e di esperienze con altri artisti, un punto d’incontro, di condivisione e di progettualità per moltissime persone[5].
Anche Normann si dedicò alla scrittura e pubblicò in particolare un libro, “Remembering Man”, scritto – disse – «nello stesso modo con il quale scolpisco la pietra», in cui diede forma al suo pensiero; apprese dalla natura e s’applicò alla geometria sacra; tentò di conciliare gli antichi miti con la moderna cosmologia; curò l’orto, lavorò la vigna; comprese la continua festa celebrata «da un capo all’altro del mondo» dalle correnti magnetiche che avvolgono il pianeta; s’impegnò attivamente per la tutela del territorio nel Basso Salento. In breve, ebbe modo di immergersi di volta in volta nell’«azione del momento». Per Norman Mommens l’arte e, in generale la cultura, avevano una «funzione-base umanizzante», e riguardavano l’essere umano nel suo complesso, e dunque la vita, l’abitare la terra, il rapportarsi con l’Altro. Di conseguenza non erano tanto le questioni prettamente estetiche a suscitare il suo interesse. La scultura era una modalità attraverso la quale si poteva percepire, con i sensi liberi dalla tirannia del fine, l’accadere del mondo. Per questo egli riteneva che la preoccupazione maggiore dell’artista fosse «per la sua precipitazione immaginativa nello sconosciuto. Il valore del risultato può essere discutibile, ma l’atto stesso, segno del creatore, sarà sempre attinente alla nostra umanità». Così, le sculture possono anche essere sepolte, nascoste – il loro potere terapeutico, persino taumaturgico, non verrà meno. All’opera compiuta viene assegnata minor importanza rispetto all’atto creativo. E colpisce la forza e la perseveranza, accompagnata sempre da un atteggiamento positivo nei confronti della vita, con cui seguì la sua strada. Tipico è il suo metodo nel rappresentare il serafino: queste metamorfosi della figura dell’angelo diventano figure a piombo estremamente stilizzate con le braccia unite protese in alto, le gambe dritte in tensione che la forza di gravità tiene inchiodate al basso, le punte dei piedi ritte e fuse in una forma convessa, le mani che sorreggono modellando un tutt’uno concavo. A volte, non sempre, lievi segni di divaricazione accennano lo stacco tra le gambe e tra le braccia. Ma il blocco di pietra mantiene tutta la forza dei monoliti arcaici, alieni dalla dispersività dell’articolazione. – Come racconta Philip Trevelyan, i Serafini «presero origine da uno schizzo che Norman fece dopo la guerra, nel quale rievocava il salvataggio di poveri innocenti in fin di vita da un cinema colpito dalle bombe, al confine tra la Germania e l’Olanda. […] Per estrarre le vittime, era necessario sollevare sezioni del pavimento collassato e sostenerle in alto a braccia». – I Serafini, dunque, medicano il dolore e, nonostante tutto, annunciano la vita. Inoltre, le statue assumono immediatamente una rilevanza cosmica. Quei corpi stesi verticalmente, allungati, protratti, schiudono di fatto uno spazio-tempo vitale tra un sopra e un sotto. O meglio: aprono un vuoto – un intervallo – che rende possibile il trascorrere e l’abitare. Separano e, nel contempo, mettono in relazione un basso e un alto, impedendo il collassare dell’uno nell’altro in un’aderenza senza resto, mortifera.[6]
Normann e Patience a Spigolizzi[7]
Le rughe sul volto di Patience, segnate dal sole, assomigliavano ai solchi della campagna ma, “Questa linea dell’orizzonte, questa distesa di spazio, sempre vivo, sempre diverso, ormai mi accompagna dentro e quando mi allontano, quando a volte vado a Londra, comprendo la fortuna di vivere in questo posto. Io mi sento leale al silenzio della pianura”, diceva. Gli studi di Patience sui legami tra cibo, cultura e territorio vanno al di là delle semplici ricerche gastronomiche. Nei paesi anglosassoni e, in America, i suoi libri “Plats du jour”, (piatti del giorno) e “Honey from a weed” che significa pressappoco “Miele da un’erbaccia”, sono testi fondamentali per gli specialisti che così, si sono potuti avvicinare, lontani ospiti, alle nostre tavole. Da noi i suoi libri rimangono ancora non tradotti. La masseria d’arte è in continuo fermento. Sono tante le persone che vengono, parenti da molto lontano e poi amici, tanti: intellettuali e persone semplici.
Tre saggi a Spigolizzi: Norman, Patience and Bernard Hickey[8]
Fra essi ci sono Salvatore e sua moglie, contadini del posto che insegnarono a Normann e Patience a coltivare la loro terra. Sicché anche Normann e Patience divennero contadini del posto: – “ Salvatore a volte mi sgridava, poi insieme abbiamo coltivato le patate e i pomodori. La nostra è stata una grande amicizia” – [9].
Oggi questi luoghi sono custoditi con cura da Nicolas Gray, figlio di Patience, e dalla sua compagna. Edoardo Winspeare ha più volte dichiarato l’importanza estrema che ha avuto Mommens nella sua formazione e nell’ispirazione del suo lavoro. Qui si respira il ricordo tangibile di Norman e Patience, in particolar modo nelle grandi sculture primitiviste interrate nei terreni vicini alla casa-studio, nei piccoli scudi dipinti su carta e nelle fotografie che narrano di una vita sospesa tra i ritmi della campagna e le visioni dell’arte. D’altronde, come ricorda Nicolas, «Giunsero qui perché cercavano il sole. Ma arrivati a Salve si fermarono perché non c’erano più strade. Era la fine del mondo »[10]. E arriviamo così a una terza e bellissima testimonianza.
3) Gerhard Cerull era l’amico fidato di Normann e Patience, uniti dalla convinzione che le ragioni dell’arte coincidono con le ragioni della vita e con quelle della natura.
Per Gerhard Cerull le cose sono andate così: un mattino di circa trent’anni fa era a scuola, come ogni giorno, e d’improvviso un’illuminazione: perché fare l’insegnante? Torna a casa, raccoglie i pennelli, i suoi colori e si mette in viaggio con la sua vecchia mercedes rimessa a nuovo. Nessuna meta precisa: sicuramente verso sud. Prende per l’Italia che già conosceva e strada facendo pensa “troverò un posto dove fermarmi a dipingere”. Gli sarebbe piaciuto in Toscana ma era un marzo piovoso e proseguì oltre. Pioveva anche quando giunse a Napoli. Al bivio fra la Calabria e la Puglia, scelse la Puglia che non conosceva. Nell’attesa che smettesse di piovere la percorse tutta. Così giunse a Santa Maria di Leuca, ma pioveva anche lì. A quel punto fu costretto a fermarsi. Non poteva più andare oltre, non c’era più terra da percorrere! Gerhard non dice espressamente di essere stato catturato dal Salento, non glielo consente la sua naturale ritrosia ma, conclude il suo racconto esclamando che lui, tedesco del sud, sapeva che prima o poi, qui sarebbe uscito il sole. Il sole, nel bene e nel male, è uno dei protagonisti principali della storia di questa terra. Il Salento è senz’altro terra di transito. Non soffoca, non prende alla gola. Si lascia sfogliare come un libro antico, tanti sono i luoghi della memoria. Basta vederli per decidere di fermarsi. E Gerhard vide, in agro di Salve, in fondo ad un viale di pini, una bellissima masseria barocca, con una torre selvaggia e abbandonata, presa d’assalto dal convolo blu che la rivestiva romanticamente: il luogo ideale per dipingere[11]. Fu amore a prima vista.
Gerhard Cerull è arrivato nel Salento una sera primaverile del 1975, all’età di trentatré anni, alla ricerca di se stesso e di un luogo dove potersi dedicare completamente all’arte, a contatto con la natura. Lasciava un posto di insegnante (lingua tedesca, storia e geografia) in una scuola media statale, insieme a tutti quei condizionamenti che non gli consentivano di dedicarsi alla sua vera inclinazione: la pittura. Aveva compiuto studi di teologia, oltre a quelli di pedagogia, e da giovane aveva seguito la vocazione monacale, rimanendo per tre anni in un monastero. Ma si era ricreduto su entrambi i fronti, appena in tempo per non commettere errori, sia verso il giuramento monacale che verso quello statale. Finalmente lontano dalla società omologante e consumistica, può ora mettersi alla prova, davanti a un cavalletto, noncurante degli spifferi provenienti dalle finestre senza vetri, abituato, com’è, a una vita austera . Di lì a poco, grazie alla sua costanza e alla sua tenacia, dal suo primo rifugio (la masseria del Feudo) si trasferisce in una liama con attigua paiara-rudere, nei pressi della Masseria dei Fani (Salve), dove riesce a crearsi uno spazio più accogliente. Senza averlo mai immaginato, passano così i suoi primi dieci anni, vissuti da salentino “per caso”. Sono anni dedicati interamente alla pratica della pittura, durante i quali realizza finalmente un suo linguaggio espressivo, dapprima con disegni a china di ispirazione paesaggistica e surreale, (ricostruisce atmosfere salentine fatte di ulivi e architetture barocche, ruderi campestri assediati da querceti, corbezzoli e severi carrubi; un brulicare di vegetazione selvatica che lui ama e conosce perfettamente), poi con forme astratte dalla geometria caleidoscopica, sempre più intensamente cromatica. Insieme ai suoi sogni prendono corpo i suoi quadri, a contatto con Norman Mommens e Patience Gray e Maria Vittoria Colonna, vicini di casa, ma anche con Arno Mandello ed Helene Ashbee che abitano la Masseria Bufalaria (Gemini). “Ciò che mi ha attratto, fin dal mio arrivo in questa terra, è stata la particolare ospitalità dei salentini”, ci dice. Proprio grazie a un amico che cede la sua casa nei pressi del faro di Leuca per una mostra collettiva, il pittore ex-insegnante espone per la prima volta alcuni suoi lavori. Incoraggiato a proseguire la sua ricerca artistica dallo scultore Norman Mommens, è spinto a continuare: seguono altri contatti ed esposizioni ad Alessano e Casarano etc. Col tempo, diventano sempre più frequenti non solo le visite di amici locali, ma anche di quelli d’Oltralpe, dalla Germania in particolare, interessati all’acquisto delle sue chine, lavori pazienti e meticolosi in bianco e nero, e dei suoi quadri dai colori più accentuati. I Fani diventano luogo di attrazione per tanti ospiti. E’ così che, la modesta abitazione rurale riadattata, con splendida vista panoramica sulla vegetazione del canale, dalla serra di Spigolizzi fino al mare, non è più sufficiente ad accogliere i gruppi di visitatori, sempre più numerosi. Occorre ampliare gli spazi per poter assicurare vitto e alloggio agli amici che ne fanno continua richiesta, coltivare un orto. Con travi di legno, canne ed embrici l’artista restaura di suo pugno tetti per altri vani, utili al soggiorno di gruppi di archeologi australiani, di musicisti americani e giovani artisti di varia provenienza. Capita perciò, di trovare da Gerhard un’intera equipe impegnata nel lavoro di scavo alla chiusa del canale o attiva nel laboratorio allestito per l’occasione, oppure un rabbino di Boston che, sorridendo, canta canzoni napoletane. In un habitat dalle lontane origini storiche, eppure abbandonato, si alternano stage di danza, di espressione corporea, di teatro, performances di musica rinascimentale, di cabaret o di pizzica, nella suggestiva cornice della macchia mediterranea, ancora meravigliosamente intatta.
Gerhard Cerull e Rita Ciullo nella loro masseria in agro di Salve[12]
– “Ricordo che uno dei primi anni, – racconta Rita Ciullo, insegnante di origine salvese e oggi moglie di Gerardo – il movimento e le performances vocali e canore di un gruppo di giovani ospiti, riecheggiando nel fondo del canale, hanno finito con l’ insospettire gli agricoltori dei campi vicini, i quali hanno segnalato le strane e inusuali urla alle forze dell’ordine. Si sono tranquillizzati, ovviamente, solo dopo il controllo effettuato.” – Sotto la luna dei Fani si susseguono, intanto, serate estive e feste musicali indimenticabili, per tutti i presenti. Anche le ricerche archeologiche, condotte in modo continuato nell’arco di nove anni, risultano tanto soddisfacenti da essere riconosciute come prestigiose ed importanti (premio Rotary International “Colonie Magna Grecia” per i ricercatori dell’Università di Sidney). Con Rita, Andres e William, da un improvvisato ostello, occasionalmente allestito, si giunge alla promozione di stage di creatività e di musica, fino agli incontri di cultura internazionale. I legami di amicizia con gli abitanti del luogo portano l’artista a radicarsi a tal punto nell’ambiente di finisterrae da condividere con Rita, appassionata- tra l’altro – di yoga e di erboristeria, gli ideali e lo stile di vita “francescana” e campestre, secondo i ritmi della natura. Una decisione a cui segue quella di creare una famiglia con Andres e William, undicenni colombiani provenienti da Bogotà. L’ultimo periodo, tutto caratterizzato dagli impegni nel seguire da vicino la loro crescita fino all’Università, non ha alterato l’armonia e l’autenticità del luogo, la disponibilità ed il carattere semplice e cordiale dei coniugi Cerull. Chiedo a Gerardo quali sono le ultime novità al canale dei Fani.“ La varietà di questi funghi che ho in mano, mai visti prima di qualche anno fa’. – “Sono cresciuti sotto gli alberi di pino piantati quando sono arrivato qui”- mi risponde. Anche la processionaria, la malattia che infesta la pineta, è un cambiamento ultimo, sto facendo di tutto per contrastarla”. Guardo il boschetto di pini, a ridosso della sua casa e mi sembrano incredibilmente cresciuti. Con la loro chioma alta sembrano segnare gli anni trascorsi. Ora sono lontani i primi tempi, l’incredulità di chi lo osservava incuriosito nella vecchia masseria disabitata e di chi veniva a visitarlo poi nella liama, sul cui camino era appesa una lunga muta di serpente (la sacara), per sentirlo parlare del suo lungo viaggio da Regensburg, alla ricerca di una diversa dimensione esistenziale.” Il mio è un racconto da scrivere a puntate”, mi dice, con un bicchiere di vino della vendemmia locale in mano. Lo stesso sorriso di quando ha messo piede nel Basso Salento, una terra che fin dall’inizio lo ha affascinato per le sue contraddizioni, per le sue sorprese e per le sue bellezze nascoste da scoprire col tempo. Risorse di cui Gerardo ha giurato di rimanere custode. Un giuramento finalmente a lui congeniale![13] Così, Gerhard pittore, artista ma anche cuoco e contadino insieme alla mogie Rita, salentina, fanno come Patience e Normann, un punto di ritrovo culturale e ospitale della loro casa.
(3 – continua)
Note
[1] Scultura sulle orme di Mommens, dall’Olanda venne a cercare il sole. https://bari.repubblica.it/cronaca/2013/10/19/foto/leuca-68928554/1/#1, visitato il 14/05/20, ore 23,08.
[2] Patience, la visionaria che amò il Salento rurale, di Aldo Magagnino https://www.quotidianodipuglia.it/cultura/patience_la_visionaria_che_amo_il_salento_rurale-2555928.html
[3] Idem
[4] Verso Sud, 2008
[5] Cfr. M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso Sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[6] https://ilmanifesto.it/norman-mommens-lintervallo-vuoto/ visitato il 15/05/20, ore 00,12.
[7] https://www.independent.co.uk/life-style/food-and-drink/honey-from-a-weed-by-patience-gray-a7911806.html visitato il 14/05/20, ore 19,00.
[8] https://theitaliantranslator.wordpress.com/2017/04/08/remembering-norman-and-patience_english/, visitato il 14/05/20, ore 23,30.
[9] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[10] Patience, la visionaria che amò il Salento rurale, di Aldo Magagnino https://www.quotidianodipuglia.it/cultura/patience_la_visionaria_che_amo_il_salento_rurale-2555928.html
[11] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[12] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[13] Gerhard Cerull, salentino per caso, https://www.iltaccoditalia.info/2007/10/10/gerhard-cerull-salentino-per-caso/
Per la prima parte:
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri
Per la seconda parte:
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (II)
#Bernard Hickey#Cristina Manzo#Gerhard Cerull#Norman Mommens#Patience Gray#Rita Ciullo#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Miscellanea#Spigolature Salentine
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Scuola: le 60 note disciplinari più assurde di sempre
A quanti di voi, nel corso della vostra carriera scolastica, è capitato di ricevere delle note disciplinari? Beh, credo un po’ a tutti. In questo articolo abbiamo cercato di raggruppare le note più assurde di sempre. Preparate i pop-corn!
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L’alunno A.S. assente il 16/03/2008 motivo: Dovevo picchiare bene il mio cugino 12. La classe festeggia il Natale con 7 mesi di anticipo. O 5 di ritardo. 13. S.L. nell’ora di inglese canta con le cuffiette, poi insulta l’insegnante e viene allontanato dalla classe. D.O. di risposta si mette a cantare. 14. In classe volano patate e altri ortaggi 15. L’alunno B.C. lancia bottigliette d’acqua vuote dalla finestra facendo starnuti finti per coprire il rumore 16. L’auto della professoressa di storia è bersaglio degli sputi di F.S. 17. L’alunno L.T. rimane in bagno per mezz’ora. Al suo ritorno sostiene di aver aiutato un alunno di quinta che si era perso 18. L’alunno B.D. peregrina senza meta per la classe. 19. R.P. si autoestrae un dente nell’ora di filosofia 20. L’alunno M.D. giustifica l’assenza del **/11/2008 per: Raccolta olive 21. A.F. ride ininterrottamente da venti minuti e presenta segnali di convulsioni 22. L’alunno G.P. messaggia con mia figlia in classe e chiede al sottoscritto se è libera questo pomeriggio. 23. La lavagna è imbrattata di disegni osceni raffiguranti la sottoscritta 24. L’alunno T.U. butta il proprio banco e la sedia del suo compagno fuori dalla classe per motivi ignoti. 25. L’armadio di classe è tagliato a metà. 26. L.F. giustifica l’assenza del 24/05/1999 per: Mi sto preparando, con largo anticipo, alla fine del mondo 27. D.L. ‘abbaia’ durante la lezione 28. Metà della classe è assente, l’altra metà tenta di convincermi che gli assenti non sono mai esistiti. 29. La classe interrompe la lezione per tagliare i capelli a G.F. 30. Alla notizia dell’intervento di uno psicologo in classe, M. si alza dal banco, si siede di fronte alla porta e simula comportamenti autistici 31. L’alunno S. C. lascia l’aula prima dell’orario di uscita dopo aver fotografato la lavagna con il cellulare sostenendo che avrebbe riesaminato la lezione a casa sua. 32. L’alunno A., assente dall’aula dalle ore 12.03, rientra in classe alle ore 12.57 con un nuovo taglio di capelli. 33. Gli alunni M. P. e D. A. dopo aver rubato diversi gessetti dalla lavagna di classe, simulano durante la lezione l’uso di sostanze stupefacenti tramite carte di credito e banconote arrotolate, tentando inoltre di vendere le sopraccitate finte sostanze ai propri compagni. A mia insistente richiesta di smetterla vengo incitato a provare pure io per non avere così tanti pregiudizi. 34. La classe non mostra rispetto per l’illustre filosofo Pomponazzi e ne altera il nome in modo osceno. 35. L’alunno M. dopo la consegna del pagellino da far firmare ai genitori riconsegna il pagellino firmato 2 minuti dopo. Sospetto che la firma non sia autentica. 36. Il crocifisso dell’aula è stato rovinato. Il Cristo ora porta la maglia della nazionale. 37. L’alunno A. durante l’intervallo intrattiene dalla finestra dell’aula gli alunni dell’istituto imitando Benito Mussolini, munito di fez e camicia nera, presentando una dichiarazione di guerra all’istituto che sta dall’altra parte della strada. 38. Dopo aver fatto scena muta durante l’interrogazione di geografia astronomica V. chiede di avvalersi dell’aiuto del pubblico 39. L’alunno M. G. al termine della ricreazione sale sul bancone adiacente la cattedra e dopo aver gridato “Ondaaaa energeticaa!!!”, emette un rutto notevole che incita la classe al delirio collettivo. 40. Facendo l’appello e notando l’assenza dell’alunno S., mi viene detto dall’alunno C. di non preoccuparmi. Quest’ultimo estrae il portafoglio, lo apre e simulando di parlare ad una terza persona urla “Scotty: teletrasporto!”. Con fragorosi effetti sonori fatti con la bocca, l’alunno S. fuoriesce dall’armadio. 41. L’alunno L.P. durante l’ora di educazione fisica insegue le compagne di classe sventolando in aria lo scopino del water. 42. L’alunno L.P. durante la lezione di educazione fisica usa la pertica come simbolo fallico. 43. Si espelle dall’aula l’alunna M. Ilaria perché ha ossessivamente offeso la compagna Sabatino Domenica chiamandola Week End. 44. L’alunna B.R. fa sfoggio della sua biancheria intima lanciandola sul registro del professore. 45. La classe nonostante i continui richiami del professore continua imperterrita durante le ore di c.t.a. a emanare flatulenze senza che i colpevoli si dichiarino e l’aria ormai è resa irrespirabile da tali esalazioni. Si prega di fare nota ai genitori di tale maleducazione. 46. Gli alunni M. e P. incendiano volontariamente le porte dei bagni femminili per costringere le ragazze ad utilizzare il bagno maschile. 47. L’alunno F.P. è entrato in aula, dopo essere stato per 20 minuti al bagno, aprendo la porta con un calcio; ha fatto una capriola e ha puntato un’immaginaria pistola verso l’insegnate dicendo “ti dichiaro in arresto nonnina!” 48. L’alunno giustifica l’assenza del giorno precedente scrivendo “credevo fosse domenica”. 49. T., L. e B. chiudono in bagno una loro compagna perché ritenuta da loro “cesso”. 50. Gli alunni B. e B. durante l’ora di italiano compiono irrispettosi esperimenti di balistica usando proiettili di carta e saliva contro il ritratto dell’Onorevole Presidente della Repubblica Ciampi. Si giustificano dicendo di necessitare un bersaglio. 51. L’alunno M.B. sprovvisto di fazzoletti si sente autorizzato a strappare una pagina della Divina Commedia per soffiarsi il naso. 52. P. non svolge i compiti e alla domanda “Per quale motivo?” risponde “Io c’ho una vita da vivere”. 53. Liceo Scientifico Copernico di Brescia: “Gli alunni B. e N. simulano un omicidio in classe, il primo si è steso a terra, il secondo disegna la sagoma”. 54. L’alunno M. ha fatto l’ennesima scena muta dicendo che risponderà solo in presenza del suo avvocato. 55. Si segnala mancanza del Crocifisso, occultato dalla classe, al suo posto cartello recante le parole “torno subito”. 56. L’alunno M. (egiziano, n.d.r.), continua a ripetere la parola “ano” poiché R. l’ha convito che significhi “dito”. 57. Gli alunni P. e A. alle ore 10:25 escono dall’armadio 58. Durante ogni comunicazione via radio del preside, lo studente Mario D. cade per terra e si raggomitola in posizione fetale gridando “Oh no ancora quelle voci!!” 59. P.D. e P.I. danno uno spettacolo di cabaret durante l’ora di inglese dopo essere stati scherzosamente chiamati Cochi e Renato dalla sottoscritta. 60. Durante la lezione di matematica la classe inscena il mio funerale, chiedendomi le misure per la bara
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Mezzano di Primiero
uno dei borghi montani
più bello d’Italia
Mezzano di Primiero con le sue caratteristiche abitazioni
Visitare Mezzano di Primiero a Trento, non è come per altri paesi, lo spirito e la curiosità, si incentrano su altri fattori, qui non si visitano chiese, nonostante la Chiesa di San Giorgio sia molto bella, o palazzi monumentali e storici, qui la visita è concentrata sugli stili di vita, passati e presenti, sulla comunità montana, sulle difficoltà di una vita in montagna, dove in inverno il freddo fa da padrone.
Come ci si è attrezzati, nei secoli, per le costruzioni delle case, per sfruttarne lo spazio il più possibile e mantenerle calde.
Come sono riusciti ad inserire nell’abitato, gli orti-giardino e qui ve ne sono tanti, uno ogni 5-6 abitanti.
Una risorsa importante, per gli abitanti di Mezzano di Primiero, che vedono in questo modo, sviluppare una loro produzione per il mantenimento della cucina tradizionale.
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Gli orti di Mezzano di Primiero
Sono il cuore del verde rurale, è dedicato alla produzione di cibo per la famiglia, una estensione significativa dell’abitazione e testimonianza del modo di vita tradizionale ancora valido, il suo abitato è cresciuto secondo una regola imprescindibile, quella di preservare il più possibile il soleggiamento degli orti e questo è fattibile solamente costruendo gli edifici a monte degli orti.
In questo modo, oltre alla funzione di coltivazione del cibo, diventa anche verde pubblico, perché insieme agli ortaggi, vengono coltivate numerose specie e varietà di fiori.
La loro spiccante visibilità, non avendo strutture che li coprano dal sole, li rendono dei piccoli parchi e aiuole, luoghi che diventano un aggregante, di un complesso rapporto societario tra vicini e familiari, dato che ogni orto è un insieme di tanti, i cui confini sono segnati da recinzioni e cancelli.
In questi orti, viene coltivato di tutto, dagli ortaggi, odori, alberi da frutta e qualche vite, che formano il nucleo più consistente e solido di piante coltivate ma al loro fianco trova anche qualche specie un tempo coltivata nei campi, come mais, fagioli e patate.
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Le Abitazioni di Mezzano di Primiero
Il centro storico è compatto, sembra quasi che le case vogliano scaldarsi le une con le altre stando vicine e strette tra loro. Le strade sono state costruite a misura dei mezzi agricoli, che vengono alloggiati nelle rimesse e nelle stalle, sotto ad ogni abitazione, si perché il detto casa e bottega qui sembra avere un significato maggiore rispetto ad ogni altro paese.
Le abitazioni sono costruite con murature in pietra locale a vista, qualcuna intonacata, con qualche risalto di decorazione semplice, fregi d’angolo, finti bugnati.
Il legno in particolare caratterizza le strutture e le facciate esterne, i “tabià”, i tipici fienili della zona, costruiti con i tronchi dei grandi alberi, i grandi ballatoi esterni, le scale, anch’esse poste all’esterno per non “sprecare” il limitato spazio interno.
Luoghi della residenza “stabile” di montagna, composti da abitazione, stalla, fienile, depositi, riconoscibili per le dimensioni e gli elementi componenti dei prospetti esterni, fori, ballatoi, e quant’altro.
Le abitazioni di Mezzano di Primiero
Il “rustico” è la parte più grande della struttura, la stalla occupa il piano seminterrato ed è accessibile dalla strada, il fienile, con grandi ballatoi in legno ed ampie forature, è accessibile dall’esterno col pontile
pavimentato in terra battuta, la soffitta, per la conservazione delle derrate alimentari, riconoscibile per piccoli fori di illuminazione e ventilazione.
L’abitazione è un tutt’uno con il rustico, al piano terra, parzialmente interrata, troviamo la cantina con accesso diretto dall’esterno, al piano superiore l’abitazione raggiungibile dalla scala esterna, con pochi e piccoli locali, il bagno e la ritonda, lo spazio per la preparazione dei pasti.
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i Canzei artistici
Cataste&Canzèi
Un’altra cosa da vedere a Mezzano di Primiero, sono i “Canzei”, le copiose cataste di legna, che servono durante l’inverno come fonte di calore, ogni abitazione ha accatastato, all’esterno legna a sufficienza, per poter passare l’inverno senza dover temere il freddo.
Molte di queste cataste sono divenute vere e proprie opere d’arte, alcune anche di artisti venuti da lontano, da qui ne è nata la permanente “Cataste&Canzèi”, uno degli eventi di “Mezzano Romantica”.
Sono molte le installazioni artistiche disseminate lungo il centro storico di Mezzano di Primiero, comune entrato nel 2010 nell’esclusivo club de “I borghi più belli d’Italia”.
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Mezzano di Primiero Mezzano di Primiero uno dei borghi montani più bello d'Italia Visitare Mezzano di Primiero a Trento, non è come per altri paesi, lo spirito e la curiosità, si incentrano su altri fattori, qui non si visitano chiese, nonostante la Chiesa di San Giorgio sia molto bella, o palazzi monumentali e storici, qui la visita è concentrata sugli stili di vita, passati e presenti, sulla comunità montana, sulle difficoltà di una vita in montagna, dove in inverno il freddo fa da padrone.
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1938: "Gli ebrei fuori dalle scuole". Testimonianze sulle leggi razziali
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1938: "Gli ebrei fuori dalle scuole". Testimonianze sulle leggi razziali
A pochi giorni da “La giornata della memoria” e a poco più di ottant’anni dalle leggi razziali italiane un doveroso viaggio attraverso le testimonianze del tempo su come i garfagnini appresero le leggi infami sugli ebrei italiani del 1938 . Ricordi significativi e toccanti di coloro che vissero quei tremendi momenti: fuori i bambini ebrei dalle scuole, fuori gli ebrei dagli uffici pubblici, perchè come diceva il manifesto della razza italiano “è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”.
Pochi lo sanno e forse altrettanto pochi se lo ricorderanno, ma tutto cominciò ufficialmente nella nostra bella Toscana. Era il 5 settembre del 1938 nella reale tenuta pisana di San Rossore. Qui Vittorio Emanuele III re d’Italia passava insieme alla famiglia reale “il meritato” riposo estivo che andava da inizio giugno ai primi di novembre. Quella era una mattinata qualsiasi e come sempre con estrema naturalezza e indifferenza sua maestà aveva già fatto la sua passeggiata in riva al mare con i pantaloni rimboccati per non bagnarli, dopodichè si apprestò a tornare all’interno della tenuta, ma prima di pranzo lo attendeva una firma che sbrigò così, su due piedi, in quattro e quattro otto come se niente fosse, assecondando di fatto la volontà di Mussolini e di Hitler.
Tenuta reale di San Rossore dove furono firmate le leggi razziali
La firma sanciva una legge dello Stato che si sviluppava su 7 articoli, la legge era la n°1390 e così titolava: “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, solamente i primi tre articoli non lasciavano spazio a qualsiasi dubbio: Art 1: All’ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; nè potranno essere ammesse all’assistentato universitario, nè al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza Art 2: Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica Art 3: Al datare dal 16 ottobre 1938 tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengono ai ruoli delle scuole di cui al precedente art 1 saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale insegnante i presidi e i direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza nelle scuole elementari, Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall’esercizio di libera docenza.
Benito Mussolini e Re Vittorio Emanuele III
Di fatto da quel giorno diventarono ufficiali le leggi razziali,che cacceranno fuori dalle scuole italiane bambini e insegnanti ebrei, una macchia indelebile nel nostro Paese. Ma quale fu l’effetto di tutto ciò in Garfagnana? Non esistono documentazioni scritte (o almeno io non l’ho trovate)su particolari provvedimenti adottati nella nostra valle, ma in compenso possiamo attingere a fonti orali da cui si può trarre spunti di riflessione interessanti. Le leggi razziali del 1938 non ebbero conseguenze fattive o significative in Garfagnana per il semplice motivo che ebrei non ve ne erano, la consolidata religione cattolica era presente più che mai in ogni famiglia, quello che è intrigante è vedere come apparirono agli occhi degli scolaretti innocenti di allora le leggi sulla razza. Questa testimonianza è di Adelina classe 1929 di Castelnuovo Garfagnana, al tempo frequentava la terza elementare nel capoluogo garfagnino e ricorda nitidamente tutto questo:
Scuola fascista al saluto romano
“Tutta la scuola fu convocata nell’aula magna, se ricordo bene erano i primi giorni, la maestra ci disse che il direttore ci doveva leggere una lettera del re…Come sempre entrammo nell’aula magna, prima di tutto si salutò rispettosamente il direttore e poi al saluto romano rendemmo omaggio al quadro del duce e di Vittorio Emanuele III. Il direttore ci disse che parlava non per se ma per bocca del re, questo frase mi rimase impressa nella testa, perchè fu ripetuta più volte, solo con gli anni capì il significato di questo ripetersi del direttore, probabilmente lui non era d’accordo con queste nuove leggi, ma comunque doveva leggerle visto che il suo ruolo glielo imponeva. Fattostà che cominciò a leggere passo passo tutta la legge, articolo per articolo…e io in questa “lettera” del re non c’avevo capito proprio nulla. Come me molti altri bimbetti, infatti una volta rientrati in classe si chiese spiegazioni alla maestra. Era la prima volta che sentivo parlare di ebrei, non sapevo neanche della loro esistenza o chi fossero, pensai solamente nella mia testa di bambina che la dovevano aver combinata grossa per essere cacciati da tutte le scuole del regno e invece povera gente…”
Un altra bella testimonianza viene da Piazza al Serchio, lui è Rino, ottant’anni suonati, ma anche qui la mente è vivida: “Queste famose leggi sulla razza a noi le lesse il maestro in classe, in “quattro balletti”, pochi ci capirono qualcosa, i bimbetti più curiosi chiesero spiegazioni, il maestro le liquidò dicendogli semplicemente di farsele spiegare dal prete, praticamente fece come Ponzio Pilato se ne lavò le mani e i piedi, a me non è che sinceramente me ne fregava più di tanto, io dopo la scuola dovevo pensare al pascolo delle pecore. Però un giorno passò il prete da casa, come al solito per “raccattare” qualche “ovo” e due pomodori freschi dell’orto, la mamma allora mi mandò nel campo a staccare qualche verdura per il prete e quando gli consegnai gli ortaggi mi ritornarono in mente le parole del maestro e allora così a bruciapelo gli domandai – Ma chi sono gli ebrei?- e lui senza batter ciglio così mi disse:-Sono quelli che hanno condannato Gesù alla croce perchè non riconoscevano in lui il figlio di Dio- e poi aggiunse questo passo della Bibbia: – E sarete maledetti voi, e i figli dei vostri figli, e tutta la vostra genia… e quello che succede in questi giorni sono le conseguenze che pagano!-. Devo dire la verità, così come me la buttò giù questi ebrei mi fecero una gran rabbia e dentro di me pensai che ben gli stava di essere cacciati da scuola, loro erano i colpevoli della morte di quel Gesù che pregavo tutte le sere e poi le parole del prete a quel tempo erano prese come oro colato. Poi per fortuna si cresce e si comincia a capire molte cose ed ecco che allora a quel prete oggi risponderei con un altro passo della Bibbia: “Non c’è nè giudeo nè greco, non c’è nè schiavo nè libero, non c’è nè maschio nè femmina; poiche siete tutti una persona unitamente a Gesù Cristo”.
Quest’ultimo ricordo che vado a narrare invece fa riferimento ad un’altra infamia: “Il manifesto della razza”. Questo fogli pubblicati su “Il giornale d’Italia” divennero la base ideologica e pseudo scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. La pubblicazione uscì il 14 luglio 1938 e anticipò di qualche mese le leggi razziali. Sul quotidiano furono elencate dieci “regole” in cui ad esempio si affermava che: “esistono grandi razze e piccole razze”, oppure, “La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana” e ancora, “E’ tempo che gli italiani si proclami francamente razzisti” e poi, “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana“.
“Il manifesto della razza” luglio 38
“Questi manifesti ed altri ancora erano affissi come da regolamento per le vie del paese -dice Luigi da Barga- a me personalmente non ricordo che a scuola mi abbiano letto le leggi razziali, ma ricordo bene questi manifesti perchè alcuni invece che essere scritti erano illustrati. Ne ricordo uno che diceva: “Non vi possono essere ebrei…” e poi c’era il disegno di una banca con una croce sopra come segno di diniego, oppure anche una scuola, o sennò un comune. Secondo me questi cartelli illustrati avevano maggiore effetto perchè rimanevano impressi anche nella memoria dei bambini proprio come al tempo successe a me. Un altro cartello invece aveva degli omini ritratti e descriveva che gli ebrei non potevano fare il servizio militare o che non potevano avere domestici italiani e altre cose ancora.
Quando uscì il “manifesto della razza” molti dei compaesani e sopratutto i ragazzi più grandi si convinsero veramente di essere una razza superiore, qualcuno dava la caccia perfino all’ebreo che assolutamente non c’era nella nostra zona, però qualcuno incredibilmente cominciava anche a seminare sospetti fra le persone che magari vedeva o conosceva da anni perchè secondo le caratteristiche fisiche imposte dal regime un ebreo doveva avere un naso aquilino, occhi color azzurro scuri e le “borse” sotto gli occhi e quando questi giovani esaltati vedevano qualcuno con simili caratteristiche fiorivano mille illazioni e mille diffidenze. Pensare che tutte queste norme questo era supportate anche da importanti scienziati e professori italiani mi da ancora i brividi”.
Come abbiamo letto da queste testimonianze bastava veramente poco per insinuare nelle persone il dubbio, la paura del “diverso”. Bastava una parola di un prete o una firma su una legge per sancire una verità assoluta, e’ proprio vero l’ignoranza ha fatto più morti che dei fucili. Oggi niente è cambiato nonostante tutti i mezzi che abbiamo a disposizione per conoscere e sapere, ancora oggi ci fidiamo sempre e del solito “ho sentito dire…”.
Fonte:
Testimonianze raccolte da me nei quaderni di scuola di Moni Albertina (mia mamma)
Bibliografia
“Il Tirreno” 3 settembre 2018 di Fabio Demui “5 settembre 1938: il re firma a San Rossore le leggi razziali, inizia il calvario degli ebrei”
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Il Cristoforo Colombo toscano. Vincenzo Micheli ed il fagiolo fico
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Il Cristoforo Colombo toscano. Vincenzo Micheli ed il fagiolo fico
Una storia unica ed originale.Chi l’avrebbe mai detto che un ortaggio a fine 1800 fosse stato importato clandestinamente dagli Stati Uniti alla Valle del Serchio? Questa è la storia del fagiolo fico di Gallicano e del suo “scopritore” Vincenzo Micheli che con uno stratagemma ben studiato riuscì ad eludere tutte le frontiere e a far arrivare questo prodotto alimentare in Garfagnana. Oggi il “fagiolo fico” data la sua unicità, dal momento che non è coltivato in nessuna altra parte d’Italia è stato iscritto all’albo regionale sulla tutela e conservazione delle varietà locali
Cristoforo Colombo eccelso navigatore o infimo schiavista? Agli storici l’ardua sentenza. Oggi infatti quello che ci interessa non è quello che fu Colombo come uomo, ma come scopritore. Non fu solo l’involontario scopritore di un nuovo mondo ma anche di una certa quantità di prodotti alimentari mai visti e conosciuti prima nel Vecchio Continente. Il 12 ottobre 1492 segnò una svolta importante per la storia dell’alimentazione europea, fu un “annus memorabilis” in questo senso. Dal nuovo continente giunsero cibi sconosciuti, specialmente fra la frutta e la verdura: patate, peperoni, peperoncini, pomodori, zucche, fagioli, ananas, arachidi, cacao, fichi d’india e uno strano e corpulento pennuto: il tacchino. Naturalmente passarono alcuni anni prima di comprendere l’uso corretto di queste straordinarie scoperte. Gli spagnoli ad esempio importarono i semi del pomodoro che in principio era ritenuto velenoso, tant’è che la pianta e il suo frutto venivano utilizzati solamente per abbellire parchi e giardini nobiliari.
Cristoforo Colombo
Che dire poi della patata? I suoi primi decenni nel nostro continente furono duri, difatti veniva utilizzata solamente per alimentare il bestiame. Da subito invece ebbe successo il mais, divenne subito popolare nelle cucine spagnole e portoghesi per l’uso che se ne faceva della sua farina. Anche i fagioli si diffusero rapidamente e grazie alla loro maggior resa nell’orto presero ben presto il posto delle varietà fino allora conosciute nel Mediterraneo. Ed è a proposito di fagioli che entra in ballo la Garfagnana, l’America e una sorta di Colombo garfagnino. Per spiegare questa curiosa ed originale storia bisogna andare avanti nel tempo di 397 anni e narrare quindi le vicende di Vincenzo Micheli, nato a Gallicano nel 1863.
Gallicano. Vecchia foto. Piazza Vittorio Emanuele II
Il giovinetto parti per l’America con tanta forza d’animo, determinazione e speranza. Vincenzo era alla ricerca di una vita migliore, voleva sfuggire a una povertà che a Gallicano alla fine dell’800 era presente in quasi tutte le famiglie Arrivò finalmente nella terra promessa, in America, proprio quella terra che Colombo aprì al mondo e che dopo circa quattrocento anni dalla sua scoperta era ancora una terra in buona parte da esplorare. Proprio per questo motivo in quel periodo il porto di New York era tappezzato di volantini e manifesti che invitavano i nuovi arrivati a “conquistare” l’ovest. Per chi aveva dimestichezza con zappa e vanga quella doveva essere la sua destinazione e la California la nuova “Mecca”. La California da pochi anni (1850) era diventata il 31° stato dell’Unione e il governo in quei luoghi offriva nuove terre da coltivare anche ai migranti. Ognuno lì poteva avere il suo appezzamento da coltivare e da curare e questo faceva proprio al caso di Vincenzo, che da sempre lavorava i campi. Il caldo sole della California e un moderno sistema irriguo stava già rendendo questa nuova regione il massimo produttore agricolo di tutti gli Stati Uniti: agrumi, mele, pere, pesche, prugne uva e pomodori, ma non solo, barbabietole da zucchero, cotone, riso, orzo e grandi allevamenti avevano reso questa parte di mondo un vero e proprio Eden e anche il giovane gallicanese raggiunse questo paradiso terrestre.
La California nel 1890
Però non sempre tutte le ciambelle riescono con il buco e forse la nostalgia dell’Italia, forse gli affari non andarono proprio come credeva, o chissà quale altro motivo, fattostà che nel 1889 Vincenzo tornò a Gallicano, ma non tornò a mani vuote, infatti nelle sue coltivazioni californiane apprezzò molto anche i nuovi ortaggi che questa terra offriva e fra questi rimase completamente colpito dalla bontà di un fagiolo mai visto prima nella sua terra natia. Nel suo rientro in Italia volle quindi portare con se i suoi semi e così come un nuovo Colombo cercò di recare nella sua amata Garfagnana una nuova qualità ortaggio che nessuno prima aveva mai apprezzato e conosciuto. Quello che è certo che la cosa sarebbe stata molto diversa da quello che accadde al navigatore genovese, che al suo ritorno fu accolto in terra di Spagna con tutti gli onori dai reali iberici, ringraziato e osannato anche proprio perchè aveva messo gli europei a conoscenza dei nuovi frutti del Nuovo Mondo. Il discorso per il Micheli era ben diverso, dato che vigeva negli Stati Uniti l’assoluto divieto di importare semi verso altri Paesi. Come fare allora? Quale sistema poteva escogitare?
Fagiolo fico
L’ingegno garfagnino come si sa è sempre ben sviluppato e anche stavolta ebbe la meglio su tutta la situazione. Lo stratagemma era ben congegnato e così cinque semi di questi fagioli furono cuciti nel nastro di raso che contornava il suo cappello a falde. Il piano riuscì a meraviglia e una volta rientrato a Gallicano cominciò con curiosità ed apprensione la nuova coltivazione. Questa volta ogni speranza fu soddisfatta, la pianta cresceva molto vigorosa,forte e rampicante, questo baccello di colore verde accesso e questo fagiolo di misura medio piccola di colorazione bruna e con queste striature color vinaccia colpì l’attenzione di tutti gli altri gallicanesi, che a loro volta cominciarono la coltivazione di questo legume americano. Ma adesso bisognava dargli un nome, un nome che lo differisse da tutti gli altri��� Si era notato che quando questo legume veniva lessato emanava nella cucina un gradevolissimo profumo di fico…ecco allora l’idea, il lampo di genio, l’intuizione, per tutti sarà conosciuto come fagiolo fico. Non crediate che Vincenzo Micheli abbia reso un servizio da poco alla Valle del Serchio, portando clandestinamente questo fagiolo in Garfagnana. Oggi il fagiolo fico proprio per la sua unicità non essendo presente in nessuna altra parte dell’Italia è stato iscritto da alcuni anni nell’albo regionale sulla tutela e conservazione delle varietà locali con la denominazione di “fagiolo fico di Gallicano” e conservato nella Banca Regionale del Germoplasma di Camporgiano.
Questa “banca” rende (almeno questa volta) a questa parola un significato positivo, (dopo le note vicende politiche), e ci fa dire un doveroso grazie ai “banchieri” di questa associazione, che non sono naturalmente banchieri nel vero senso della parola ma sono dei cosiddetti “coltivatori custodi“, che con le loro piantagioni riescono a coltivare tutti quei prodotti locali a rischio di estinzione. Molti di questi “coltivatori custodi” sono pensionati, lavoratori comuni, proprietari di aziende agricole che con il loro lavoro mantengono ancora in vita (oltre al fagiolo fico)molteplici altri prodotti della nostra terra, come il fagiolo giallorino, la patata rossa di Sulcina, il melo Casciano, il “formenton” ottofile, il granturco nano di Verni e tanti altri ancora. Ah! Dimenticavo…Per gli amanti della buona cucina il fagiolo fico trova “la sua morte” con le mitiche ” fogacce leve” gallicanesi… e allora un grazie ancora a Vincenzo Micheli…il Cristoforo Colombo di Garfagnana.
“Fogacce Leve” e fagiolo fico
Bibliografia:
“L’Aringo il giornale di Gallicano” Anno 2 n°5 Marzo 2016 “Il fagiolo fico di Gallicano” di Ivo Poli
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