#se questa fosse una poesia
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Le spiegai che la mia ossessione per i baci
È data dal fatto di aver sofferto una gran fame
Di baci, intendo
Per molto
Troppo tempo.
Lei capì subito il problema
E si prodigò in una cura ricostituente
A base di labbra, di lingue, di schiocchi.
[…]
Forse non l’ho detto
Forse sì
Se questa fosse una poesia
Sarebbe una dichiarazione d’amore
Ho usato il passato
Per confondervi le idee.
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Dimartino in Cara Maestra Abbiamo Perso che dice “cara maestra (...) voglio che rimani ancora qui con me stanotte / ho bisogno di sentirti ancora mia / anche se non guido come l'altro / se non fumo come l'altro /voglio farti compagnia”
e poi “e avevo perso la mia anima / la mia anima a noleggio / su un bancone della carne / o tra le gambe di una ragazza, il giorno della festa”
e ancora “mi hai detto: / ‘tu non capisci la poesia / sei fatto solo per scopare’ “
he’s so slutty and for what
#roba mia#dimartino#musica italiana#che poi c'aveva quel baffetto madonna antonio per favore#non ironicamente tormentata da quel 'tu non capisci la poesia sei fatto solo per scopare'#perchè davvero mi sembra che per tutto l'album abbia proprio detto: sai che c'è hai ragion#embracing the slutty allegations#[au dove opzione 1) questa cosa gliela dice lorenzo quando boh in qualche modo iniziano una hatefucking relationship a mazara del vallo#con lorenzo che ancora pensa che antonio sia un finto intellettuale del cazzo#(l'uscita della canzone è precedente a mazara MA VABBE' AU)#oppure opzione 2) dima riporta a lorenzo en passant questa frase che gli è stata detta da una ex e lorenzo ne rimane folgorato#da un lato si incazza perchè oh ma come si permette questa di dire una cosa simile ad antonio come se fosse uno scemo#ma dall'altro lato. come dire. 'sei fatto solo per scopare'. non riesce a toglierselo dalla testa#e ci muore di curiosità ossessiva ma si vergogna a chiedere di più sul tipo di rapporto che antonio aveva con questa ex#e quanto può essere bravo antonio a letto#e si fa filmini mentali e vabbè risveglio omosessuale con tanto di: ahah sei il mio migliore amico ma forse con te potrei provare ahah#ahah just joking :) unless :)))
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100 domande curiose
1. Libro preferito?
2. Autore preferito?
3. Poesia preferita?
4. Ti piace scrivere?
5. Ti piace leggere?
6. Disegni?
7. Ti piace l'arte?
8. Sei mai stato/a ad un museo?
9. Artista preferito?
10. Film preferito?
11. Attore/attrice preferito/a?
12. Regista preferito?
13. Colonna sonora preferita?
14. Saga preferita?
15. Personaggio preferito di Harry Potter?
16. Personaggio preferito di un libro?
17. Personaggio preferito di un film?
18. Serie tv preferita?
19. Canzone preferita?
20. Cantante preferito/a?
21. Band preferita?
22. Hai mai scritto una canzone?
23. Hai mai scritto una lettera a mano?
24. Hai mai ricevuto una lettera scritta a mano?
25. La pazzia più grande che hai fatto?
26. Ti piacciono le sorprese?
27. La sorpresa migliore che hai ricevuto?
28. La sorpresa più bella che hai fatto?
29. Quale pianeta visiteresti?
30. Preferiresti essere una sirena o una fata?
31. Quale decade preferisci?
32. Sei una persona creativa?
33. Quale lavoro vorresti esistesse?
34. Quali animali vorresti si unisserero per dare vita ad una nuova specie?
35. Pic nic al mare o in montagna?
36. Ti piace il teatro?
37. Hai mai visto un balletto?
38. Sei mai stato/a ad un concerto?
39. Hai mai cantato in pubblico?
40. Hai mai ballato in pubblico?
41. Adotteresti un bambino?
42. Adotteresti un animale?
43. Moto o auto?
44. Preferisci nuotare o volare?
45. Quale personaggio Disney pensi di essere?
46. Quale villain Disney ti rappresenta?
47. Quale cultura ti affascina?
48. Se potessi condividere un senso (tatto, vista,olfatto, gusto,udito) con la tua anima gemella quale condivideresti?
49. Vampiro o licantropo?
50. Credi nella fiamma gemella?
51. Temporale o arcobaleno?
52. Musica classica o rock?
53. Ti piace recitare?
54. Hai mai suonato in pubblico?
55. Hai mai recitato in pubblico?
56. Sai leggere i silenzi?
57. Sai rispettare i silenzi?
58. Soffri il solletico?
59. Riesci a fare ridere gli altri?
60. Sai ascoltare?
61. Ti fidi?
62. Ti piace fare foto?
63. Sei fotogenico/a?
64. Musica in streaming, Spotify, CD o vinile?
65. Anime preferito?
66. Manga preferito?
67. Meglio i manga/anime di ieri o quelli di oggi?
68. Cartone animato preferito?
69. Il tuo cavallo di battaglia in cucina?
70. Il piatto che proprio non ti riesce?
71. Quale colore non sopporti?
72. Cosa non può mancare in casa tua?
73. Quale tua caratteristica vorresti avessero anche gli altri?
74. Cosa "rubesti" da un altra persona?
75. Come organizzeresti il primo appuntamento?
76. Come vorresti fosse il tuo prima appuntamento?
77. Faresti il primo passo?
78. Amicizia uno a uno o gruppo di amici?
79. Le parole che vorresti sentirti dire?
80. Cosa vorresti dire agli altri?
81. Credi nel destino?
82. Credi nella fortuna?
83. Pratichi la gratitudine?
84. Ti senti cambiato rispetto a 10 anni fa?
85. Cosa cambieresti di questi ultimi 10 anni?
86. Come ti vedi tra 10 anni?
87. La famiglia è solo quella di sangue?
88. Gli amici sono una seconda famiglia?
89. Si deve sempre perdonare chi si ama?
90. Cosa non ti perdoni?
91. Vorresti tornare bambino/a o diventare adulto/a?
92. Vorresti essere del sesso contrario al tuo?
93. Balletto preferito?
94. Ballerino/a preferito?
95. Conosci il messaggio dei fiori?
96. Giorno o notte ?
97. Alba o tramonto?
98. Freddo o caldo?
99. Sole o pioggia?
100. Scegli tu questa domanda
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QUANDO L' ESTATE NON CI FACEVA PAURA
Mi ricordo l'estate di tanti anni fa
faceva caldo
e noi bambini finita la scuola ci ritrovavamo nei cortili al pomeriggio a giocare a qualsiasi cosa, sudati e sporchi ma felici senza che nessuno ci telefonasse o che ci ricordasse che alle sette bisognava tornare per mangiare e che mangiare avremmo dovuto anche se avevamo mangiato il gelato del bar piccolo vicino al semaforo dell'ospedale e le pesche dei vicini campi, di nascosto come se la frutta fosse il tesoro che cercavano i Goonies.
Io mi ricordo che bello quando arrivava la sera e tutti quanti prendevano le sedie e si mettevano all'esterno delle case a parlare di cose tipo il governo che alza le tasse, chi dei conoscenti era partito per il mare, dove fa il figlio di qualcuno il servizio militare, se avevi sentito la nuova canzone e quando arrivavano le zanzare, nessun problema, si accende uno zampirone.
E noi bambini del cortile si giocava al nascondono con l'aiuto del buio reso bello dalle luci intermittenti delle lucciole agl' angoli dei prati mentre i più grandi si trovavano per poi andare verso un qualcosa da raggiungere con i loro motorini.
io mi ricordo l'estate di anni fa
facevano i temporali annunciati dal suono dei tuoni che mi facevano paura ma che il signore che abitava in fondo alla via mi diceva che quando tuonava era il diavolo che portava a spasso la moglie con la carriola e questa cosa mi faceva ridere e non aver più paura.
Ma i temporali era mica una roba da ridere, una volta addirittura uno fece cadere il tetto della tribuna dello stadio dove giocava il Baracca.
Quando pioveva andavo dal vicino a vedere se era vero che le galline facessero le uova , ma non si sembrava.
io mi ricordo l'estate di anni fa
faceva caldo ma la gente era più felice, perchè era finito l'inverno, perchè tutto attorno era gioia e voglia di vivere, perchè il cocomero era dolce e mangiato in compagnia diventava quasi poesia.
faceva caldo
lo diceva anche il signore delle previsioni del tempo, diceva che era tutto nella norma, che un certo anticiclone ci proteggeva dalle correnti atlantiche o so beh me....insomma in poche parole era estate.
io mi ricordo l'estate di anni fa
c'erano tanti problemi
faceva caldo
ogni tanto arrivava un temporale brutto
io l'estate di anni fa me la ricordo perchè
la paura piu grande delle persone era solamente quella di non riuscire a godersela.
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Sta sera incontro l'uomo del deserto, chiamato così perché l'ho conosciuto quando era in missione in Afghanistan, bloccato là un anno, a causa del covid
È un soldato infatti , e sì ho un debole per le divise 😅 e non solo perché sono eccitanti ma perché volevo fare il soldato e per una serie di ragioni..
niente, sono un civile.
Comunque, torniamo a noi
Ci siamo scritti per anni e divenuti amanti per qualche mese, poi finita per mio volere
Nessuna mira godereccia mi ha pervasa per questa serata perché siamo rimasti buoni amici, o almeno così me la racconto
Il soldato ha fatto tutto il normale percorso per l'elaborazione del lutto/rottura/separazione :
negazione, rabbia, elaborazione , depressione e accettazione
Da manuale proprio!
Ricordo ogni singolo passaggio e se non fosse che capisco e conosco a memoria sto merdoso travaglio, credo che avrei organizzato una spedizione punitiva con tutti i peggiori ceffi che conosco, per fracassare ogni suo singolo ossicino.
E io qualcuno lo conosco eh!
Mi ha fatto paura in un paio di occasioni e infinita tenerezza in altre, ma ho avuto ragione ad attendere pazientemente : era solo chiacchiere e distintivo e adesso è nella fase in cui dice "... come ero scemo eh, mi redo conto di aver esagerato, ma sai la mente umana..." E attacca con dei soliloqui che ascolta solo lui, appunto, dove cita nomi di pensatori sepolti da anni.
Da Eraclito a Kant fino ad arrivare a Galimberti, che si starà toccando le palle visto che è vivo 😅
Ha una laurea in filosofia che mi fa venire il mal di testa..
Bla bla bla..
Comunque, nonostante tutto io voglio bene all'uomo del deserto, si era innamorato e mi aveva fatto sentire speciale o ricordato come ci si sente quando lo si è per qualcuno
Vabbè, provo a non divagare eh!!
E quindi, tutta sta manfrina?
Perché sta notte, tanto per cambiare non dormivo, e ho pensato, non al soldatino e a come sarà rivederlo dopo 2 anni,
ma a Lui
Lui, chi?
Lui Lui
l'Oreste, dal nome inventato più brutto del mondo, se pur nome mitologico, figlio di Clitennestra e Agamennone ( ma andrò a controllare, potrebbe essere una gran cazzata )
Ok, ok, adesso le divagazioni sono davvero insopportabili
Cazzo c'entra Lui? Eeeh c'entra! perché ho pensato/sognato che sarebbe stato fico scrivergli e chiedergli di vederci nel parcheggio sotto il suo ufficio, dove una delle tante volte gli ho succhiato il cazzo così poeticamente che quando ho alzato la testa dalle sue gambe ero Beatrice e lui Dante ❤️
Lo so, cazzata pure questa , infatti mai succhiato un cazzo poeticamente, anzi, i versi che gli piaceva farmi fare sembravano piu quelli dell'Idraulico Liquido dentro allo scarico intasato
Presente?
Altro che poesia!
Comunque! L'idea era quella di vederlo un po' prima dell'incontro , ma solo per fagli strofinare il cazzo in mezzo alle mie cosce, frugando tra il pelo, senza nemmeno entrare, solo sfregarlo, sul pube, sul clitoride, con il rischio di incendiare tutto e guardargli mettere la bocca a forma di piccola "o", come fa ogni volta che sta godendo ( magari è uno dei falsi ricordi che ho, ma chiessenefrega, è il mio sogno lucido, ci faccio un po' che cazzo mi pare )
Il membro turgido infilato lì al calduccio, con le mutandine leggermente abbassate e poi guardarlo godere ed esplodere sulla stoffa interna, e lasciare una bella macchia biancastra e appiccicaticcia
Madonna, mi bagno come una puttanella
Poi risistemo le mutande e dall'esterno schiaccio bene il tutto sul pelo nero
Piccoli movimento circolari per fare in modo che la sua essenza arrivi alla mia pelle e gli odori si mischino a creare la fragranza che mi accompagnerá tutta la sera.
Lui sarà con me, sentirò le mutandine bagnate, l'umido ad ogni movimento, e penserò
"perché nn mi sono fatta sborrare in culo che così mi colava tutto giù per le cosce ad ogni passo... " e cristodio, adesso vado a prendere vibrox e me lo pianto anche nelle orecchie perché con sti pensieri, all'uomo del deserto, gli tocca buttarmelo e non si può, che poi mi devo sorbire altri 2 anni di colpe e angoscia con Heidegger e compagnia bella!
Dai, vado.. Sarà una giornata faticosa
Cià.
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La verità è che nessuno si regge più in piedi da solo, sulle proprie gambe. Nessuno regge più il dolore, la perdita, la frustrazione, l’attesa.
Insomma, le cose della vita.
Abbiamo bisogno di normalizzare i processi della vita: nascere, crescere, ammalarsi, ferirsi, invecchiare, morire.
Un tempo si moriva sazi di vita, appagati, senza rimpianto alcuno, in modo del tutto naturale.
Oggi si muore insoddisfatti, delusi e stanchi.
Il lutto non rientra più nelle categorie del vivente.
Abbiamo inventato questa parola: “elaborazione”, dimenticando che i lutti non si elaborano, ma si accolgono, come parti integranti dell’esistenza, tutt’al più si contemplano come espressioni mutevoli del flusso continuo della vita.
“Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore
e cerca di amare le domande,
che sono simili a
stanze chiuse a chiave
e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte
che possono esserti date
poiché non saresti capace
di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.”
Aveva ragione Rilke.
Abbiamo disimparato il valore del piangere insieme, di condividere il pasto, dono gentile e premuroso gesto della vicina di casa, la sera, quando si raccontava ai bambini dove sta il nonno adesso, e si passava la carezza della mano piccola sul suo viso freddo e immobile, disteso sul letto.
I sogni facevano il resto, perché si aveva tempo per dormire e per sognare. E al mattino, appena svegli, per raccontare.
Così chi non c’era più continuava ad esserci, a contare, a suggerire, a consolare.
I morti stavano insieme ai vivi.
Complicato allora non è il lutto, ma il modo di viverlo, di trattarlo, come se fosse una malattia in cerca di una cura. Ma la vita non è un problema da risolvere.
Ancora Rilke. Piuttosto un mistero da sperimentare. Una quota di ignoto inevitabile che spinge lo sguardo oltre la siepe.
Chi ha ancora desiderio di quell’infinito che solo l’esperienza del limite può disvelare?
Oggi tutti reclamano il diritto alla cura della psiche, forse perché i medici del corpo non riescono a guarire certe ferite dell’anima.
Ma così si sta perdendo il valore della psicoterapia. Così si confonde la patologia con la fisiologia dell’esistente, che contempla nel suo lessico le voci: malattia, solitudine, sofferenza, perdita, vecchiaia, morte.
Qual è l’immagine del nostro tempo, che rappresenta il senso estetico dominante? Una enorme superficie levigata, perfetta, specchiante.
In questo modo, privata delle increspature, delle imperfezioni, del negativo, della mancanza, l’anima ha smarrito il suo luogo naturale, la sua origine, il respiro profondo della caducità, della provvisorietà, della fragilità del bene e del male.
Perché alla fine, tutto ciò che comincia è destinato a finire e l’unica verità che rimane è questo grumo di gioia che adesso vibra ancora nel cuore, qui e ora, in questo preciso istante, nonostante la paura, il disincanto, la sfiducia.
Non c’è salute dunque che non sia connessa alla possibilità di salvezza.
Alle nostre terapie manca quel giusto slancio evolutivo, che spinga lo sguardo oltre le diagnosi, i funzionamenti, i fantasmi che abitano nelle stanze buie della mente.
Un terapeuta non può confondere la luna con il dito che la indica.
Può solo indicare la direzione e sostenere il desiderio di raggiungerla.
Per questo ogni sera mi piace chiudere gli occhi del giorno con una poesia, ogni sera una poesia diversa, per onorare la notte con il canto dei poeti.
Perché la notte sa come mantenere e custodire tutti i segreti.
Perché le poesie assomigliano alle preghiere.
Dicono sempre cose vere.
Stanotte per esempio ho scelto questa:
“Si è levata una luna trasparente
come un avviso senza minaccia
una macchia di nascita in cielo
altra possibilità di dimora. E poi.
Siamo invecchiati.
Il volume di vecchiaia
è pesato sul tavolino delle spalle,
sugli spiccioli di salute.
Cos’è mai la stanchezza?
Le cellule gridano
chiamano l’origine
vogliono accucciarsi
nel luogo prima del nome
nello spazio che sta tra cosa e cosa
e non invade gli oggetti
li accarezza e li accalora.
Non smettere di guardare il cielo
ti assegna la precisa misura
fidati della vecchiaia
è un burattino redentore.
Dopo tanta aritmetica
la serenità dello zero.”
Chandra Candiani
Testo di Giuseppe Ruggiero
foto dal seminario " In Quiete". Introduzione alle costellazioni Familiari con Anna Polin
Gloria Volpato
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Lo sapevo ahah si vedeva che non te ne fregava niente del tuo ex, non so se gli hai messo le corna ma immagino di si a sto punto e mi fa troppo arrapare questo tuo atteggiamento da troia nascosta X1
ho deciso che questa grande e romantica poesia non merita di nascondersi dietro ad una banalissima x, ormai sono due settimane che mi rompete i cosiddetti assumendo cose di me senza sapere nulla di chi sono nella vita privata, di cosa faccio per gli altri e di come mi comporto nei confronti di coloro che amo basandovi su una rottura che non sapete nemmeno ne come, ne se e ne quando sia avvenuta. non sono qui su tumblr per essere chiamata troia a destra e a manca gratuitamente, come se fosse un semplice complimento da accettare con un “grazie” ed un’emoji sorridente.
ora, invece di basare i vostri ask e i vostri commenti sul fatto che sia una troia, una traditrice, una che va con i primi che passano (spoiler: ho un body count che rasenta il minimo sindacale), magari ditemi cose più interessanti, fatemi domande leggere e simpatiche giusto per fare una chiacchierata che possa essere piacevole per entrambe le parti, e smettetela di assumere cose e fatti della mia vita personale come se conosceste ogni lato della mia persona, del mio carattere e della mia vita privata.
detto questo, non mi interessa effettivamente ciò che pensi/pensate, ma se dovete farmi un mazzo tanto per delle settimane a sto punto tenete il vostro pensiero per voi stessi, e non me ne frega nulla di quanto vi arrapiate davanti all’immaginazione che il vostro cervello elabora liberamente.
non so che altro aggiungere.
#ps: da non leggere con tono aggressivo#anzi in modo tranquillo e pacato#pps: ho preso questo ask in particolare ma non per andare contro a questo singolo#ma ad un grande insieme di commenti simili che mi avete inviato nelle ultime settimane#tra l’altro tutte con la x perché siete un po’ codardi e io da brava e gentile quale sono vi ho pure dato corda
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Ho aperto una bottiglia di vino, non lo facevo da settimane.
Ho aperto una bottiglia di vino perché scrivere questa consegna m’irretisce: che ne so, io, del futuro? Che ne so, io, del mio, di futuro?
La mia psicologa m’ha detto di pormi domande anche fuori dalla stanza delle parole; allora, mi chiedo: sarà sempre così? Avrò sempre bisogno dell’ausilio di uno stato psicofisico alterato per guardarmi dentro? Per scovarmi?
Dove sono finita?
Non sarà poesia questa volta, se poesia possiamo definire quelle masse informi delle volte scorse. Non sarà logico, razionale, non seguirà un andamento lineare: questa sono io che scrivo di getto un flusso di coscienza che odierò dover rileggere per editare.
Probabilmente lo lascerò così: grezzo, magmatico, inusuale.
Io non so neanche cosa sia, il futuro. Treccani m’informa: futuro è
s. m. Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno.
Il tempo che verrà. Quando verrà?
Io procrastino il mio futuro, lo faccio da anni: congelata per decenni nello stato della studentessa che non vuole crescere, divenire adulta.
Il tempo che verrà, gli avvenimenti che in esso si succederanno:
allora il futuro è anche questo momento? Questo preciso ed esatto istante?
Il mio futuro di oggi prevede la sopravvivenza a questa giornata logorante, solitaria, alcolica, per poter andare a lavorare, poi, alle 23, staccare alle 3, andare a dormire.
È questo il mio futuro? È questo quello che mi aspetta una volta uscita dal nido sicuro, limbo lenitivo, che è la Holden?
Per anni ho procrastinato la mia laurea perché l’idea di lasciare la calda certezza dell’Università mi dilaniava.
Ora mi sono laureata, ma non l’ho fatto prima d’aver trovato già un morbido rimpiazzo.
Questa scuola.
Con le sue pareti dai colori caldi, i divanetti nei corridoi. Le consegne che ti obbligano a guardarti allo specchio. Mi viene in mente Elisa, di Menzogna e sortilegio:
E mi aggrappo agli specchi per ritrovarmi. Per non dissolvermi.
Come Elisa
Medusa
Fluttuo nell'aria e
L'avvolgo
Questa stanza è piena di me;
In me
L'aria. -
si guardava allo specchio e lo specchio le rifletteva l’immagine informe di una medusa incorporea. Questo sono anch’io: non ho contorni, non ho definizioni, non mi lascio incasellare: sono magma, come lo è la mia scrittura schizofrenica; sono fluido, informe e scrosciante, flusso che pretende di divenire, vento che soffia frusciante.
L’eterno ritorno.
Futuro, il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno. Io, nel mio futuro, voglio vivere. Nel mio futuro è la vita che voglio: è la tenacia, l’ostinata, imperitura, tenacia di vivere che voglio, nel mio futuro.
Sarebbe troppo semplice scrivere il manifesto politico e indignato: oh, sì, il pianeta va in fiamme; le disuguaglianze? Non c’è modo alcuno di eliminarle; il lavoro è precario, il lavoro fa schifo – sono una fiera anti-lavorista impenitente – come si può metter su famiglia in uno scenario apocalittico tale? Apocalittico ‘sto cazzo: questo è il nostro presente. Ma, poi, io voglio davvero mettere su famiglia?
Io,
nel mio futuro,
voglio vivere.
E nel mio presente io mi domando, mi imploro persino: Federica, risolvi te stessa, perché sei dipendente da ogni dipendenza, e cerchi costantemente la sofferenza perché altrimenti non senti niente; e tu devi sentire, devi sentire di esistere e non solo esistere;
Federica tu vuoi vivere e non semplicemente esistere.
Come si fa, allora, ad immaginare un futuro se è già il presente ad essere così precario?
Futuro. Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno. Talvolta ho desiderato non ci fosse alcun futuro per me. Talvolta, guidando, un pensiero intrusivo ha tentato d’ammaliarmi: non frenare, continua così, col pedale schiacciato sull’acceleratore, ai 100 all’ora contro quell’albero: in fondo, che hai da perdere?
Niente.
Sono qui.
Quel pensiero intrusivo sono sempre riuscita a riporlo in un cassetto.
Chiuso a chiave,
due mandate,
per sicurezza. Quanto m’ha spaventato, quanto ancora mi spaventa quando tenta, con le sue lunghe dita affusolate, d’aprirsi un varco nel mio conscio.
Ma io è vivere che voglio.
Nel mio futuro, è vivere che voglio
Fanculo al mondo che cade a pezzi: non riesco a tenere insieme neanche me stessa.
Fanculo al mondo che brucia: io ho bisogno del fuoco per sentirmi esistere.
Fanculo alle ingiustizie: di cosa scriverei, se questo mondo indecente fosse perfetto?
E, poi, di cosa parlerei, se io fossi una persona risolta?
Futuro: Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno.
Io nel mio futuro voglio succedermi.
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Ma lo spessore di un bacio, la folle tenerezza,il mio volto svilito ormai,dal tempo che mi consuma, ti dondoleranno nel cuore, ancora.E l'abbiamo cercata,questa maledetta poesia, nei giorni corrosi di stanchezza e smarrimento. l'abbiamo buttata nella parole senza senso, parole del cazzo e musiche andate di un tempo morto. Ma la poesia vera,quella che sanguina come un pozzo nero, quella che brucia e ha bisogno di parole,di vento, quella non l'abbiamo vista, l'abbiamo schivata, come un sasso, ma quella era la poesia, era l'anima viva e la cercavamo negli altri, nei passanti, negli opportunisti, negli schifosi, una poesia che era un gioco di parole o musiche vecchie che non vivono più nella nostra aria, come se la poesia si fosse fermata e non potesse vivere, invece eravamo noi, a camminare con lei nei suoi solchi, accanto al burrone, nel silenzio lacerante che ora uccido come si uccidono le cose che si devono dimenticare.e la solitudine dentro le ossa come un male, ci ha reso immobili, sordi, e stupidi, così stupidi come quelli che non hanno il coraggio di provare a sentire, vedere, capire, allargarsi e diventare pozze, acqua viva, pozzanghere ma di luce, vita e non morte, siamo stati come la morte, e la morte ci ha preso da vivi, ha soffocato ogni anelito, la felicità sfidata si è vendicata e dietro il mio vetro di lacrime senza acqua ..ho guardato e provato a capire dove andavano quei piedi sconosciuti, lontani, quei piedi che mi hanno scacciato, sono stata come un piccolo sasso, una terminazione nervosa di un apparato che non aveva bisogno di me, sono stata un'arteria infiammata, una paralisi di pochi attimi, un fastidio, una forfora fastidiosa da spazzolare, via.
Tatiana Andena
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AL CIRCO DEL POETA MATTO
La signora Swift disse che avrebbe portato lei i poeti.
Ho ascoltato l’album per la prima volta a Recanati, natio borgo selvaggio del poeta torturato per eccellenza, Giacomo Leopardi; una buffa coincidenza cosmica. In quel TTPD listening party, a uso e consumo di cinque ragazze e la loro ossessione, non c’erano le odorose ginestre ma delle rose bianche, per riprendere il tema di un matrimonio che evidentemente non s’avea da fare, e più o meno otto kg di sushi. The Tortured Poets Department è stato battezzato così, con noi obnubilate dagli hosomaki e dal vocabolario swiftiano.
Ora, decidere cosa sia un poeta è una questione dirimente, di fronte a un album come The Tortured Poets Department: non tanto perché ne ricorrono le menzioni, nel titolo e nei testi, quanto perché è evidente, adesso più che mai, che Taylor debba rientrare nella categoria senza passare dal via. Al più, dalla terapia.
La definizione di poeta e di poesia che intendo proporre è ammantata del principio di autorità, perché è quella che diede Umberto Eco, lui riferendosi alla persona e all’opera di Charles M. Schulz, nella sua prefazione del 1963 di Arriva Charlie Brown, il primo libro dei Peanuts tradotto in Italia.
[…] Quest'uomo dalla vita cosi sciaguratamente normale si chiama Charles M. Schulz. È un Poeta. […] se "poesia" vuole dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta. Se poesia è individuare caratteri tipici in circostanze tipiche, Schulz è un poeta. Se poesia è far scaturire da eventi di ogni giorno, che siamo abituati a identificare con la superficie delle cose, una rivelazione che delle cose ci faccia toccare il fondo, allora, una volta ogni tanto, Schulz è poeta. E se poesia fosse soltanto trovare un ritmo privilegiato e su di quello improvvisare in una avventura ininterrotta di variazioni infinitesime, così che dall'incontro altrimenti meccanico di due o tre elementi possa scaturire un universo sempre nuovo, cantato senza pause, ebbene anche in questo caso Schulz è poeta. Più di tanti altri. Ma poi la poesia è queste cose e altre ancora, e non vorremmo impegnarci qui in definizioni estetiche con la mediazione di Schulz. Se diciamo che Schulz è un Poeta lo facciamo anzitutto come sfida e presa di posizione. L'affermazione "Schulz è un poeta" vale per "noi amiamo incondizionatamente, fervidamente, ferocemente, intollerantemente Charlie M. Schulz e non permettiamo che sia discusso, chiunque affermi il contrario o è un malvagio o è un illetterato”.
Ho iniziato a leggere i Peanuts molto prima che Taylor debuttasse, e questa descrizione di Schulz, per quanto mi fosse rimasta impressa, restava circoscritta all’ambito delle noccioline. Poi nel mezzo della Fearless Era sono caduta di capoccia nella tana del bianconiglio swiftiano, e col passare degli anni — e col maturare della sua discografia — mi sono resa conto che questo punto di vista s’attagliasse alla perfezione anche a Taylor e alle sue canzoni. A maggior ragione intendo affermarlo oggi. Perché prima ancora che per la padronanza delle parole, per l’efficacia dei loro accostamenti, per l’uso delle figure retoriche e per la consapevolezza delle strutture sia narrative e sia poetiche, la chiave di volta del successo di Taylor — che si traduce in concerti sold out in tutto il globo terracqueo; con la crescita del PIL degli Stati in cui fa tappa; in milioni di ascolti; nel divertimento condiviso da tutti i fan nel fare l’esegesi dei brani — è costituito proprio dalla sua capacità, tra le altre cose, di far passare quella luce che menziona Eco. Di scombussolare un po’ le tue acque emotive e di regalarti una rivelazione, o perlomeno il lessico per descrivere cosa diavolo stai passando (parola di una this is me trying girl, di una it’s time to go girl, di una Anti-Hero girl, di una You’re On Your Own, kid girl e, a questo punto, di una I Hate It Here girl).
Per questo ritengo pretestuosi quei giudizi tranchant che vogliono impossibile un processo di identificazione nei confronti suoi e delle emozioni di cui canta, perché “povera ragazzina ricca, che ne sa lei della miseria”. Ci vuole tutta una specifica ginnastica mentale per non farsi — nemmeno per sbaglio — molestare dal dubbio che l’arte per sua natura trasla sul suo fruitore. A voler ostinatamente galleggiare sulla superficie, graziagraziellaegraziealcazzo che I Can Do It With A Broken Heart, con tanto disuoni dal backstage dell’Eras Tour, si riferisca a lei e a lei soltanto; eppure, quante volte nella nostra vita di comuni mortali ci stampiamo un sorriso in faccia e facciamo quello che dobbiamo fare, anche se dentro vorremmo dipartire? Che poi, c’è un altro modo di affrontare l’esistenza? No, perché se ci fosse mi piacerebbe saperlo.
Lo ripeto ogni volta (e fino a quando le critiche non diventeranno creative, io continuerò a essere monotona) che la cifra stilistica di Taylor è sempre stata quella di raccontare il suo particolare, il suo vissuto (che per forza di cose è unico), ma poiché lo fa con una certosina cura e una maniacale tendenza alla vivisezione, è normale sentirsene partecipi. Anzi, è inevitabile. È proprio qui che sta il barbatrucco: più si va nel dettaglio, più si trovano le parole precise, e quelle parole, proprio perché precise, arrivano. È in questo momento che avviene lo switch: quel particolare si trasforma in universale per ritornare particolare, e diventare la singolarità del suo ascoltatore, che dagli Stati Uniti all’America Latina, all’Asia all’Europa (un campione rappresentativo di una fetta di umanità assai variegata in termini di culture, età, genere, background) vede validate le proprie emozioni attraverso le sue, e si appropria delle parole che usa lei, perché vanno a bersaglio. Un fenomeno che necessariamente, dunque, origina da Taylor che — poffare — parla di Taylor. Allora, sono altrettanto pretestuosi i piagnistei di chi dice che la sua musica (e quest’album nello specifico, come mi è capitato di leggere) sia troppo autoreferenziale. Cioè, buongiorno raga, evidentemente nella caverna di Platone in cui avete campato fino a oggi non vi era arrivato il memo. Ora, posto che sono sempre veri gli assunti che i gusti sono gusti, che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace e che qui, signora mia, una volta era tutta campagna, la pervicacia con cui molti derubricano il successo di Taylor a una transeunte allucinazione collettiva perché loro “proprio non se lo spiegano” e perché “la musica vera è altra”, denota solo una buona dose di disonestà intellettuale e l’inspiegabile urgenza di apparire neanche faziosi: manichei.
The Tortured Poets Department (che ai fini di questo post viene considerato un corpus unico, cioè comprensivo anche di The Anthology)è, oltre che per me un vero capolavoro, la quintessenza del cantautorato di Taylor: in quest’album più che mai si coniugano una profonda introspezione, l’assoluta necessità di elaborare situazioni ed emozioni, il gusto per le metafore sibilline, per le immagini e per i simboli, la presenza di richiami, citazioni e parallelismi, una incomparabile ricercatezza linguistica e la voglia di togliersi uno o due sassolini dalle scarpe.
Nel booklet Taylor, come suo solito, individua le circostanze e i concetti che hanno portato alla nascita del disco. Lo fa con una poesia dalla doppia natura: è tanto una memoria difensiva (“plea”) con la quale, in udienza (“hearing”), perorare la propria causa di temporanea infermità mentale (“temporary insanity”), quanto un vero e proprio studio, se vogliamo una ricerca (d’altronde il titolo dell’album veicola proprio quest’immaginario specifico di cattedre, facoltà e accademici), e proprio davanti ai suoi colleghi del Dipartimento, di cui lei è Presidente, si appresta a esporre i risultati cui è pervenuta (“a summary of my findings”).
L’esito dello studio è disilluso, a tratti cinico: colpisce il verso “Lovers spends years denying what’s ill fated”, con la parola “Lovers” enfatizzata dall’unico corsivo del testo, che in modo piuttosto inequivocabile ci fa capire come ritenga che il suo album d’amore per eccellenza, Lover, col senno di poi, non fosse che il racconto di una pia illusione (ma questa è la delusione a parlare: non credo che intenda rinnegare il passato, Lover resta vero in quanto fotografia istantanea di un momento in quel momento). Si può dire che alcune canzoni sembrino un po’ la versione più o meno dark di altre precedenti (per esempio, But Daddy I Love Him mi fa pensare a Love Story; I Can Do It With A Broken Heart è il contraltare di Long Live;per ogni The Lucky One c’èuna Clara Bow), un po’ come il logo della Warner Bros nei film di Harry Potter che si staglia su uno sfondo sempre più oscuro man mano che Voldemort acquista potere (e anche oggi la tessera di millennial non me la revoca nessuno).
***
Il titolo di questo post cita una canzone dei Musicanti Del Vento, una meravigliosa band folk-rock calabrese, del quale poeta dicono che veste “di maschera comica il tragico di questa vita”. Ecco, con quest’album, Taylor ha invece deciso di vestire di maschera tragica il tragico di questa vita. Insomma, già si sapeva che l’esistenza è miseria e poi si muore, tanto vale tenere in sottofondo una colonna sonora di un certo livello.
E come è ormai tradizione dai tempi di Red, mi faccio dantesco vas d’elezione e mi accingo a predicare tra le genti il verbo swiftiano per come lo interpreto io. Ecco a voi
il Tomone 8.0™
WE HEREBY CONDUCT THIS POST MORTEM
Fortnight [feat. Post Malone]
[Taylor Swift, Jack Antonoff & Austin Post ]
La prima traccia dell’album è anche il primo singolo estratto e la prima collaborazione, a quadratura del cerchio. È un bel pezzo che segna il passo di quello che sarà il resto, cioè un disco lento, ponderato e ipnotico, e allo stesso tempo anticipa alcuni dei temi presenti nelle altre canzoni.
I primi due versi del brano (“I was supposed to be sent away / But they forgot to come and get me”), tuttavia, paiono ricollegarsi, quasi insospettabilmente, a Hits Different: là, nel bridge, Taylor si chiedeva se quel rumore di una chiave che gira nel corridoio fosse dell’amato, o di qualcuno che invece venisse a prenderla per portarla via (“Or have they come to take me away?”); non certo per portarla a Disneyland, quanto piuttosto — col senno di Fortnight – in un ospedale psichiatrico, o perlomeno in un rehab. Sto per fare la battuta più idiota del mondo ma abbiate pazienza: un TS-O.
Il video, in effetti, con le sue vibes retro date dal bianco e nero e dai costumi, anche vittoriani, che paiono collocarlo tanto nei film horror della Universal degli anni ’30 quanto in un thriller degli anni ’50, è ambientato proprio in un ospedale psichiatrico. Il tema dell’infermità mentale, d’altronde, ricorre in tutto l’album: che sia esplicitato o da leggersi tra le righe, TTPD è proprio il racconto di una temporanea condizione di estrema fragilità psicologica, la quale è contemporaneamente causa delle proprie azioni, e scriminante delle stesse.
Il testo è tutto un gioco di contrasti: da una parte abbiamo una “functioning alcoholic”, incapace di elaborare in modo sano i propri sentimenti (“I wanna kill her”), che avrebbero dovuto portare via per prendersene cura; dall’altra abbiamo invece una moglie che è lei stessa quella che si prende cura (lo sappiamo dal gesto di annaffiare i fiori); ancora, abbiamo la brevità di una storia (simboleggiata dalle due settimane che danno il titolo alla canzone) in contrapposizione a una vita intera della coppia sposata; infine il contrasto probabilmente più evidente, sintomo di una situazione patologica: “I love you, it's ruining my life”, poiché in condizioni normali e sane, l’amore dovrebbe migliorare, non rovinare, la vita di qualcuno.
La canzone, con la menzione della Florida, prelude inoltre all’ottava traccia dell’album e al tema del trasferirsi in un luogo così lontano dalle proprie corde per lasciarsi alle spalle una situazione dolorosa.
La chicca del video è la partecipazione di Ethan Hawke e Josh Charles, che avevano recitato nel film Dead Poets Society (in italiano L’attimo fuggente), di cui il titolo The Tortured Poets Department è chiaramente un omaggio.
#AlcoholicCount: 1 (functioning alcoholic)
#DrugsCount: 1 (miracle move-on drug)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: tecnicamente 0, ma amo come l’idea dell’omicidio per lei sia sempre un’opzione.
#FavLyrics: “I was supposed to be sent away / But they forgot to come and get me”
The Tortured Poets Department
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Si tratta del brano eponimo dell’album, e mi è sovvenuto che non capita spesso, nella discografia di Taylor, che una canzone dia il nome al disco: è successo soltanto sei volte su undici (gli altri casi sono Fearless, Speak Now, Red, Lover ed evermore — sette casi, se consideriamo anche l’EP Beautiful Eyes). Boh, fate di questa statistica quel che volete.
La macchina da scrivere, come a suo tempo lo fu la sciarpa di All Too Well, è qui un oggetto che funge da incidente scatenante del racconto. Non assurgerà mai allo status di feticcio che ha la sciarpa, ma narrativamente parlando sono la stessa cosa: un’estensione della persona (in un caso quella che canta, nell’altro quella di cui si sta cantando), e mediante quell’oggetto si crea una connessione tra il passato della relazione e il presente in cui la si analizza.
A differenza di altre sue canzoni in cui il passato è in qualche modo idealizzato, a volte anche con una tendenza alla condiscendenza, in questo brano la relazione — o magari solo una temporanea sbandata di ripiego — emerge in tutta la sua problematicità. Forse perché il tempo trascorso non ha ancora smussato gli angoli dei ricordi, o forse perché era talmente un casino che non poteva venire raccontata altrimenti. Perché intanto non c’è davvero nulla di normale, men che meno di sano, in quello che accade in questo verso: “But you told Lucy you'd kill yourself if I ever leave”. E c’è anche qualcosa di abbastanza perverso nel giocare coi sentimenti di qualcuno così platealmente: “At dinner, you take my ring off my middle finger / And put it on the one people put wedding rings on / And that's the closest I've come to my heart exploding”
In ogni caso l’altra persona è descritta come estremamente tormentata (d’altronde è il dipartimento dei poeti torturati, non dei poeti risolti ed equilibrati): “But you're in self-sabotage mode / Throwing spikes down on the road”; “But you awaken with dread / Pounding nails in your head / But I've read this one where you come undone”; e anche se si sapeva a cosa si andava incontro — anzi, lo si è scelto consapevolmente (“I chose this cyclone with you”) — alla fine non poteva che finire male malissimo.
Per come è strutturato, il ritornello ricorda molto quello di White Horse, con il medesimo utilizzo delle negazioni: “I’m not a princess, this ain't a fairy tale” e “And you're not Dylan Thomas, I'm not Patti Smith”; “This ain't Hollywood, this is a small town” e “This ain't the Chelsea Hotel, we're two idiots”.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (No-fucking-body)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You left your typewriter at my apartment / Straight from the tortured poets department”
My Boy Only Breaks His Favorite Toys
[Taylor Swift]
Siamo solo alla terza canzone e già ho un titolo da inserire nella mia Top 5 di quest’album, che però per via dell’inflazione contiene almeno altri undici brani.
Il punto di vista è quello di un giocattolo, di una bambola acquistata al supermercato. In qualche misura mi ha ricordato la canzone dei Sonata Arctica The Boy Who Wanted To Be A Real Puppet, dove alla fine il punto di vista diventa quello di una marionetta.
Sebbene il bambino proprietario della bambola un tempo fosse stato felice di averla (“But you should've seen him when he first got me”) adesso ha deciso che ha fatto il suo corso, e che non intende più giocarci: “The voices in his head / Called the rain to end our days of wild” è un verso splendido per veicolare proprio quest’idea della fine. In effetti, mi fa arrivare alla mente quella scena di Mary Poppins quando, al termine di Supercalifragilistichespiralidoso, scoppia il temporale e tutto a un tratto viene meno la magia e l’incanto, coi disegni di Bert sciolti sul marciapiede, il cielo nero e le strade che si separano.
La canzone è una metafora per una relazione andata in malora, ed è pervasa da un diffuso sentimento di negazione: per due volte si ripete quell’“avresti dovuto vederlo quando mi ha presa”, come a volersi rassicurare che se una volta si è stati importanti, è solo questione di tempo perché lo si sarà di nuovo; dopotutto, ci si vuole convincere che si tratti soltanto di paura di impegnarsi, non certo della fine del sentimento (“He saw forever, so he smashed it up, oh, oh”; “And I'll tell you that he runs / Because he loves me (he loves me)”. Ecco perché prega di venir rimessa sulla mensola, e quel “Just say when, I'd play again” è infine l’ultima, pietosa ammissione, di essere soggetta all’arbitrio dell’altra persona.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Oh, here we go again / The voices in his head / Called the rain to end our days of wild”
Down Bad
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Qui la narrazione di una relazione di ripiego attinge dal tipico immaginario da incontri ravvicinati del terzo tipo: l’abduzione a mezzo del classico raggio traente (“Did you really beam me up”), gli esperimenti (“Just to do experiments on?”), il venire rispediti indietro (“Then sent me back where I came from”), per di più nudi come un verme, proprio in qualche terreno scampagnato tipico di questi racconti (“Did you take all my old clothes / Just to leave me here, naked and alone / In a field in my same old town”) una volta terminati gli esperimenti, a dimostrazione dello scopo unicamente utilitaristico dell’evento e, fuor di metafora, della relazione. Non solo: c’è anche l’idea di inganno, che fa il paio con la storia dell’anello spostato sull’anulare in The Tortured Poets Department (“Tell me I was the chosen one / Showed me that this world is bigger than us / Then sent me back where I came from”). È come se Aladdin dopo il romantico duetto con Jasmine sul tappeto volante le dicesse “Vabbè, ciccia, ci siamo divertiti però ciaone”. Roba da diventarci serial killer.
Nonostante ciò, a tutto questo segue, al ritorno alla vita normale, una sensazione di vuoto (“That somehow seems so hollow now?”) perché, a prescindere, quell’esperienza, per quanto fugace, è stata assoluta (“For a moment, I knew cosmic love”; “For a moment, I was heavenstruck”).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 16 (fuck)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I’ll build you a fort on some planet / Where they can all understand it / How dare you think it's romantic / Leaving me safe and stranded”
So Long, London
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Eccola: la track five. Quella che, per inveterata tradizione, è la più emozionale e ambasciatrice di vulnerabilità. E questa è forse la track five per eccellenza. La Track five con la T di Tabacchino.
Alla fine dell’intro dal sapore di un coro a cappella che cadrebbe a fagiuolo in una funzione a Westminster (ed è tra le cose più belle e suggestive dell’album), la parte strumentale ricorda inequivocabilmente Call It What You Want (nello specifico quel drop di basso poco prima del verso), a unire i due estremi della sua relazione più importante e duratura: l’inizio magico e pieno di speranza e la rassegnazione della fine, resa ancora più amara dalla consapevolezza di averci provato fino all’ultimo (“I stopped CPR” — se siamo alla fase di rianimazione è evidente che sia rimasto ben poco margine), fino a quando non è risultato chiaro che fosse ormai del tutto inutile (“after all, it's no use”). Un’immagine, questa, peraltro già anticipata in You’re Losing Me: “I can’t find a pulse / My heart won’t start anymore”, “How long could we be a sad song / ’Til we were too far gone to bring back to life?”).
Non sappiamo con certezza da quanto tempo il rapporto fosse morente (comunque You’re Losing Me dovrebbe risalire al 2021), né da quanto tempo i tentativi di salvarlo fossero consapevolmente irrealizzabili, ma che fossero irrealizzabili appare chiaro: già i primi due versi lasciano intuire come la spinta ad andare avanti non fosse più ancorata a qualcosa di solido ma, al contrario, a qualcosa di effimero, cioè alle luci che si intravedono nella nebbia: “I saw in my mind fairy lights through the mist / I kept calm and carried the weight of the rift” (e non sono luci qualsiasi ma le luminarie decorative, che se in Lover venivano chiamate semplicemente luci di Natale, in questo caso si utilizza la definizione che è sì tipica, ma che fa pensare alle fate, cioè a qualcosa che non esiste).
Anche il termine “rift” è interessante, perché non è una crepa, ma una spaccatura, una faglia: la crepa è quella che vedi su un intonaco e per cui chiami l’imbianchino, la spaccatura è quella che vedi sul Monte Vettore dopo il terremoto del 2016, e lì avoja a chiamare l’imbianchino.
Non si tratta di un brano che ha la sollecitudine di individuare responsabilità, quanto piuttosto è un commento allo stato di fatto delle cose in cui entrambi hanno perso (“two graves”). Che il partner stesse facendo i conti con la propria salute mentale è ormai piuttosto evidente (“You sacrificed us to the gods of your bluest days”, — col senno di poi il problema era lì da sempre, si veda Paper Rings: “I’m with you even if it makes me blue”; si veda hoax: “Don't want no other shade of blue / But you / No other sadness in the world would do”; si veda peace: “But I'm a fire, and I'll keep your brittle heart warm / If your cascade ocean wave blues come”; si veda tutta Renegade), ma l’allontanamento non è tanto la conseguenza diretta di ciò, quanto piuttosto di un carattere che ha la tendenza a diventare impenetrabile, inaccessibile (da cui la metafora della cassaforte da forzare, drill the safe), al punto che non si è più in grado di capire (o almeno di intuire) cosa ci sia dietro a quel muro (“When you're not sure if he wants to be there”, “You swore that you loved me, but where were the clues?”). E al punto di rendersi conto che, per il proprio bene e per la propria stessa salvezza, è necessario mollare la presa senza più spingersi oltre (“Just how low did you / Think I'd go 'fore I'd self-implode? / ‘Fore I'd have to go be free?”), nonostante si fosse pur disposti a spingersi oltre (“And you say I abandoned the ship / But I was going down with it”).
E tutti gli sforzi fatti fino a quel momento (You’re Losing Me: “I gave you all my best me's, my endless empathy / And all I did was bleed as I tried to be the bravest soldier / Fighting in only your army, frontlines, don't you ignore me”; So Long, London: “Pulled him in tighter each time he was driftin' away / My spine split from carrying us up the hill”) sono risultati vani (“I stopped CPR, after all, it's no use”).
Quello che mi colpisce di questa canzone è il suo essere pervasa da tante cose legate tutte insieme: l’amore (“I loved this place for / So (so), long (long), London (London)”), dove peraltro è evidente che Londra è metonimia per il London boy cui sta dicendo addio, la perdita, la rabbia (“And I'm pissed off”; “I'm just mad as hell”), il rimpianto ma anche l’apprezzamento di ciò che c’è stato (“Had (had), a (a), good (good), run (run) / A moment (moment), of warm sun (sun)”).
L’essere una canzone disseminata di richiami ad altre precedenti contribuisce alla sua incisività, perché chi ascolta fonda le proprie percezioni su concetti già ampiamente assimilati, con i quali ha familiarità, e che costituiscono una necessaria stele di Rosetta per la comprensione del tormento alla base di So Long, London. A sua volta, il brano ci fa vedere quegli stessi concetti da una diversa prospettiva e gli accosta un’ interpretazione e un significato ulteriori.
Più di tutti si lega, già lo si è anticipato, a You’re Losing Me, ne raccoglie il testimone e ci racconta del dopo: si va da “My face was gray” a “And I'm just getting color back into my face”. Ma i punti di sutura che qui si sono aperti (“Stitches undone”) ricordano quello usato in Glitch per legarsi; e il concetto di trovare qualcun altro (“You'll find someone”; “I’ll find someone”) ricorreva già in champagne problems. Infine, emerge questa idea di aver perso la giovinezza in una storia che non era destinata a durare: la voce che si incrina alla fine di “And I'm pissed off you let me give you all that youth for free” è indicativa di quanto la cosa sia sentita (ed è un concetto che verrà ripreso anche in The Manuscript).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: metaforicamente, 2 (Two graves, one gun)
#FavLyrics: “I saw in my mind fairy lights through the mist / I kept calm and carried the weight of the rift”
But Daddy I Love Him
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Dicevo che questa canzone mi fa pensare a Love Story (ma sequella si prende sul serio, questa invece no, per niente).
Innanzitutto, la similitudine la troviamo nell’idea che, in entrambi i casi, l’amore di due persone sia ritenuto un affare più o meno collettivo, e in cui soggetti terzi si sentono in dovere di dire la loro in merito.
Ora, in Love Story abbiamo il padre di lei e, per esteso, la famiglia, che pretendono di comandare al cuore (“they're trying to tell me how to feel”), e qui abbiamo chi spara giudizi osservando dall’esterno (“Sarahs and Hannahs in their Sunday best / Clutching their pearls, sighing, "What a mess”), nonché una sorta di comitato cittadino di saggi anziani che addirittura sentenzia che il ragazzo debba starsene alla larga (“Soon enough the elders had convened / Down at the city hall / “Stay away from her”). L’intimazione di stare alla larga peraltro è la stessa identica in entrambe le canzoni (“And my daddy said, "Stay away from Juliet”). Di base, questi bastian contrari sono visti come dei sabotatori, col loro unico scopo quello di tenere qualcuno in gabbia. Sia Love Story sia But Daddy I Love Him hanno il sapore di ribellione giovanile (e il testo parecchio più sofisticato della seconda canzone è l’unico elemento che tradisce una composizione avvenuta in età matura, altrimenti sarebbe stata benissimo anche in un album come Fearless). But Daddy I Love Him mi fa proprio pensare a dei capricci adolescenziali, coi piedi sbattuti e uscite melodrammatiche, tipici di chi è, ancora, fondamentalmente immaturo (“Growing up precocious sometimes means not growing up at all”).
In generale, si tratta di una canzone ironica e divertente (“Screaming, "But Daddy, I love him! I'm having his baby" / No, I'm not, but you should see your faces”), con una melodia piuttosto upbeat rispetto allo standard dell’album.
In soldoni, comunque, il vero sugo manzoniano di tutta la storia non è tanto l’essere osteggiata sulle questioni di cuore, quanto piuttosto il rivendicare il diritto di poter fare le proprie scelte, giuste o sbagliate che siano (“I'll tell you something about my good name / It's mine alone to disgrace”), senza che altri si intromettano, poiché spesso chi si intromette non lo fa certo perché vuole il tuo bene disinteressato (“I don't cater to all these vipers dressed in empath's clothing”; “God save the most judgmental creeps / Who say they want what's best for me / Sanctimoniously performing soliloquies I'll never see”). Al netto, in ogni caso, di tutte quelle persone — poche, comunque — che un po’ di diritto a obiettare se vedono che stai per fare una colossale cazzata ce l’hanno pure.
Ciò detto, se questa è la morale della favola, la canzone avrebbe funzionato lo stesso anche se l’avesse incentrata su questa battuta di Homer Simpson: “Ora basta, voi mi avete ostacolato per troppo tempo, io vado all’università per Clown, capito?”.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (bitching, fuck)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I forget how the West was won / I forget if this was ever fun”
Fresh Out The Slammer
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Così siamo passati da “And he can be my jailer, Burton to this Taylor” a “Fresh out the slammer”; da “I'd marry you with paper rings”a “Wearing imaginary rings”; da “And now I see daylight, I only see daylight” a “For just one hour of sunshine”. È come quando Merlino canta che per ogni su c’è sempre un giù.
Ciò non significa certo rinnegare il passato (o, come ho letto fare, darsi al più sfrenato revisionismo storico), reputation e Lover sono sempre veri, semplicemente è altrettanto vero TTPD — con tutti i suoi breakdown, scleri e flussi di coscienza ottenebrati dall’alcol, che racconta di circostanze cambiate e di sentimenti deteriorati.
Per certi aspetti è come se questa canzone fosse un’appendice a So Long, London, di cui riprende l’immagine della luce del giorno volatile e breve (là era “A moment (moment), of warm sun (sun)”, e qui è praticamente l’ora d’aria dei detenuti); altresì, con più amarezza che in So Long, London, c’è qui un’idea di cosa si prova a vivere all’ombra dei sentimenti fagocitanti del partner (“Years of labor, locks and ceilings / In the shade of how he was feelin’”).
Fa pensare anche a You’re Losing Me (che ormai è un po’ la canzone chiave di volta): lì è “And I'm fadin’”, qui è “Watched me daily disappearing”.
Ora, “slammer” è un termine colloquiale; per noi è il gabbio, la gattabuia. In ogni caso, che lo si chiami con termini più congrui come carcere, prigione, casa circondariale, sempre di un luogo di reclusione si tratta. Vuoi perché Taylor ne fosse chiusa dentro o, anche, ne fosse chiusa fuori (quell’inaccessibilità di cui parlavo in So Long, London), in questo brano ci dice che ha scontato la sua pena, e lo dice con un tono che suona definitivo.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount:0
#FavLyrics: “Years of labor, locks and ceilings / In the shade of how he was feelin’/ But it's gonna be alright, I did my time”
Florida!!! [feat. Florence Welch]
[Taylor Swift & Florence Welch]
Gli articoli di cronaca che iniziano con “Florida man” e proseguono descrivendo un comportamento il più folle e assurdo concepibile da mente umana residente in qualsiasi altro Stato del mondo che non sia la Florida dovrebbero essere una letteratura a sé stante. Posso capire perché Taylor, nella finzione della narrazione musicale, abbia scelto proprio la Florida come luogo di reinvenzione. Voglio dire, non è che uno molla tutto e si crea una nuova vita a, boh, San Vito Chietino. È ovvio che sia la Florida, dove tra l’altro è stato mandato anche Homer Simpson per recuperare la lucidità mentale dopo che aveva sbroccato perché si era convinto che sarebbe morto giovane.
L’idea alla base è proprio quella di ricominciare daccapo, una volta capito che la tua vita non sta andando nella direzione che avevi immaginato, una volta capito che non riesci più a stare al passo delle decisione balorde che hai preso (“I need to forget, so take me to Florida / I’ve got some regrets, I'll bury them in Florida”).
(Maaaa… quanto costa un biglietto di sola andata per, mmmh, Miami? Chiedo per un’amica)
Ma perché la Florida? Nel commento alla canzone che si trova nella playlist di Amazon Music “Taylor Swift: Track By Track”, Taylor stessa spiega che, da buona crime show aficionada ha notato che buona parte di tutti quelli che commettono crimini e poi si danno alla fuga cercano rifugio in Florida.
Si tratta del secondo (e ultimo) featuring dell’album, qui Florence Welch, più prominente rispetto a Post Malone in Fortnight, e le voci si fondono davvero bene. Tra l’altro, è interessante notare come siano le uniche due canzoni con il featuring a fare riferimento alla Florida.
#AlcoholicCount: 2 (drunk, wine)
#DrugsCount: 7 (drug, weed)
#CurseWordsCount: 3 (fuck)
#MurderCount: ufficialmente 0, ma secondo me il marito fedifrrago è diventato mangime per gli alligatori. Che sia il sequel di no body, no crime?
#FavLyrics: “Well, me and my ghosts, we had a hell of a time / Yes, I'm haunted, but I'm feeling just fine”
Guilty As Sin?
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Insommagnente, qui tocca giocarsi la carta del meme “Go to Horny Jail BONK”. Questa canzone è la versione vietata ai minori di I Can See You e dà qualche giro di pista a False God. Tra l’altro, con False God condivide l’utilizzo — a questo punto al limite del blasfemo — di termini associati alla religione: c’è la pietra del santo sepolcro, la crocifissione, la santità e il peccato, in una dicotomia amore sacro/amore profano.
Versi come “These fatal fantasies giving way to labored breath”; “My bedsheets are ablaze, I've screamed his name”; “Without ever touching his skin / How can I be guilty as sin?” lasciano ben poco spazio all’immaginazione, il che è anche ironico considerando che questa canzone si basa tutta sull’immaginazione, cioè su mere fantasie alimentate da una ben più concreta concupiscenza (“What if he's written ‘mine’ on my upper thigh only in my mind?”; “I keep recalling things we never did”).
Non solo, ma la canzone è ricca in ogni caso di immagini di assoluto impatto visivo ed emotivo, ulteriori rispetto a quelle già menzionate: “Throwing my life to the wolves or the ocean rocks”; “Building up like waves crashing over my grave”.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I dream of cracking locks / Throwing my life to the wolves or the ocean rocks”
Who’s Afraid of Little Old Me?
[Taylor Swift]
Il titolo di questa canzone mi ricorda quello del film del 1966 Who’s Afraid of Virginia Woolf?: siccome l’assonanza proprio non mi schiodava dalla testa, ecco spiegato perché l’incipit del post richiama La Signora Dalloway, qualora ve lo steste chiedendo. Più probabilmente non ve lo stavate chiedendo.
Per continuare sulla scia dei collegamenti mentali, fa anche pensare — specie nella parte “So I leap from the gallows, and I levitate down your street / Crash the party like a record scratch as I scream / “Who's afraid of little old me?" / You should be” — a Scarlet Witch che arriva a Kamar-Taj, avverte Doctor Strange che ha esaurito la pazienza e poi, sì, insomma, uccide tutti.
Termini come “forca” (gallows), “levitare” (levitating), “ragnatele” (cobwebs) evocano un tipico immaginario stregonesco che non stonerebbe in una storia horror ambientata a Salem; anche l’idea dei narcotici nelle canzoni può alludere alla più tipica delle stregherie, cioè agli incantesimi con cui la strega cattiva delle fiabe tiene soggiogati i mortali. La metafora si completa con l’invito alla classica prova di coraggio di introdursi in casa della povera vecchia della quale in città si raccontano le cose più infamanti. C’è una scena simile Big Fish, in cui la strega (Helena Bonham Carter) sta lì tranqui a farsi gli affari suoi e un gruppo di ragazzini sfida il giovane Edward ad andarle a prendere l’occhio magico nel quale chi guarda vedrà la propria morte.
Who’s Afraid of Little Old Me? è una sorta di Blank Space 2.0, ma dove quella era divertente e (auto)ironica, questa invece è sinistra e minacciosa (“‘Who's afraid of little old me?’ / You should be”; “If you wanted me dead / You should've just said / Nothing makes me feel more alive). Il tema di fondo però è il medesimo: la necessità di contrastare la narrazione — falsa e denigratoria — di cui media e haters la vogliono protagonista (“I’m always drunk on my own tears, isn't that what they all said? / “That I'll sue you if you step on my lawn / That I'm fearsome, and I'm wretched, and I'm wrong”). Media e haters che, peraltro, sono più ossessionati da lei che i fan stessi, e la tirano in ballo a ogni piè sospinto nelle occasioni più random (“So tell me everything is not about me / But what if it is?”); boh, io inizio a immaginarmeli come Denzel Crocker quando sbrocca e si contorce al pensiero dei Fantagenitori.
Non solo streghe, comunque, perché la canzone è ricchissima di altre metafore e di altri simboli. C’è la paziente psichiatrica cresciuta in manicomio come diretta conseguenza delle azioni delle persone di cui sopra, e resa anche cattiva da tutto questo (“Is it a wonder I broke? Let's hear one more joke”; “I want to snarl and show you just how disturbed this has made me”; “You caged me, and then you called me crazy / I am what I am 'cause you trained me”; “I was tame, I was gentle till the circus life made me mean”), e c’è la bestia feroce che credono di aver resa innocua avendola privata dei denti. Ma come il meme del cane che non morde ma può ferirti in altri modi, più che i denti avrebbero dovuto levarle carta e penna…
#AlcoholicCount: 1 (drunk)
#DrugsCount: 1 (narcotics)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I’m always drunk on my own tears, isn't that what they all said? / That I'll sue you if you step on my lawn / That I'm fearsome, and I'm wretched, and I'm wrong / Put narcotics into all of my songs / And that's why you're still singing along”
I Can Fix Him (No Really I Can)
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Non me ne vogliano gli aspiranti Bob l’aggiustatutto che mi leggono, ma qualcuno lo deve dire: volendo addizionare un conclamato caso umano strafattone e un inspiegabile istinto da crocerossina, il risultato è la canzone peggiore dell’album; se non altro la più noiosa. Boh, ma cosa ci stai a perdere tempo, lo posso aggiustare, non lo posso aggiustare… un calcio nel culo e via, maccheè.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “The smoke cloud billows out his mouth / Like a freight train through a small town”
loml
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Come l’Occhio di Sauron che tutto vede, io vi ho visto, sui social, quando è uscita la tracklist, sbeffeggiare questo titolo ipotizzando che si riferisse a una canzonetta.
Talmente canzonetta che potrebbe essere una track five ad honorem.
In realtà è comprensibile il fraintendimento: il titolo sotto forma di acronimo mirava a ingannare l’ascoltatore, che resta spiazzato dal verso finale dove loss sostituisce love. Sennonché l’unico sostantivo che si applica a quella L è necessariamente loss: perché è l’unico pronunciato dal punto di vista di Taylor. Inganno per inganno: potrebbe essere un modo molto sottile di alludere al fatto che sia stata lei la prima a essere imbrogliata, da parte di chi le ha professato amore (“You told me I'm / The love of your life”; “You said I'm the love of your life”) e poi è sparito come sparisce il telecomando il secondo esatto in cui ti siedi sul divano.
E, inganno per inganno, quell’“about a million times” ricorda gli altrettanti “million little times”di illicit affairs, la canzone di sotterfugi e raggiri per eccellenza.
Ora, loml riesce a essere contemporaneamente sia cristallina sia criptica, e credo che in realtà riguardi allo stesso tempo due persone e due relazioni diverse. Da una parte, a me sembra che si parli di un rapporto che era vissuto per (e aveva tutti i presupposti di) essere a lungo termine (“You shit-talked me under the table, talking rings and talking cradles / I wish I could un-recall how we almost had it all”, dove peraltro “talk under the table” si può tradurre con “mi hai fatto due palle così a parlare di…”, il che mi pare un indizio sufficiente a favore della tesi del lungo termine); dall’altra, che si parli di una relazione di ripiego, può darsi un vecchissimo tira e molla (“Who's gonna stop us from waltzing back into rekindled flames / If we know the steps anyway?”), ma in ogni caso un “love bombing”, cioè un rapporto travolgente e intenso ma anche, e soprattutto, manipolatorio e farlocco (“When your Impressionist paintings of Heaven turned out to be fakes”; “A conman sells a fool a get-love-quick scheme”).
Ma quale che ne sia la musa, loml è il capolinea di un viaggio iniziato lontano, e deterioratosi nel corso del tempo: a partire da Cornelia Street, in cui Taylor, ottimista e speranzosa, cantava “And I hope I never lose you, hope it never ends”, passando per Afterglow, dove l’intenzione era più che mai ferma: “I don't wanna lose, I don't wanna lose this with you”, per transitare su You’re Losing Me, dove il presente progressivo del tempo verbale ci dice che il disfacimento della relazione si sta consumando in quel momento, ma l’esortazione a fermarsi (“stop”) racchiude in sé la possibilità che il processo possa interrompersi. Questa canzone, invece, ci mette di fronte al fatto compiuto.
A livello testuale, mi pare tra le più interessanti in un album che di canzoni interessanti in termini di composizione dei versi e di scelta delle parole ne ha parecchie. Mi piace in particolar modo quella contrapposizione tra “I felt aglow like this / Never before and never since” e “But I felt a hole like this / Never before and ever since”, con quell’ever che sostituisce never e ci pone davanti tutto il tormento che questa canzone trasuda.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount:0
#FavLyrics: “I wish I could un-recall how we almost had it all”
I Can Do It With a Broken Heart
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Un uomo va dal dottore. Gli dice che è depresso, che la vita gli sembra dura e crudele. Gli dice che si sente solo in un mondo minaccioso. Il dottore dice: «La cura è semplice. Il grande clown Pagliacci è in città. Lo vada a vedere. La dovrebbe tirar su.» L’uomo scoppia in lacrime. «Ma dottore,» dice, «Pagliacci sono io.» [Watchmen, regia di Zack Snyder]
Devo darmene atto: canto questa canzone con fin troppo fanatico fervore, considerando che non sono per niente tough né posso handle my shit, e di certo non sono in grado di fake it till you make it neanche per sbaglio. I cry a lot, questo sì, ed è qualcosa, suppongo.
Durante l’Eras Tour, Taylor ha vissuto la fine della sua relazione più duratura, il che è di per sé affliggente; posso solo intuire quanto sia drenante e impegnativo andare sul palco tutte le sere per tre ore e mezza a far divertire 80.000 persone, a regalargli la gioia per antonomasia, l’esperienza più fantastica che vivranno mai, fingendo di stare una crema (“I can show you lies”). Con qualsiasi altro lavoro che non richiede di rallegrare la gente, se sei giù di morale o se stai proprio incazzato importa poco, lo fai lo stesso e nel contratto non c’è mica scritto che lo devi fare sorridendo. D’altronde stai a lavorà uno sfacelo di ore cinque giorni su sette per quattro rupie e due settimane di ferie all’anno e così per sempre fino a che non muori sopra alla scrivania, è ovvio che in generale sei incazzato. Devi essere incazzato.
È una canzone che prende direttamente spunto della sua esperienza in tour, pertanto in background si sentono i suoni sia del pubblico in visibilio sia del backstage, con lo staff che dà il tempo e le indicazioni. Noi le canzoni le abbiamo sempre fruite da un lato, confezionate e servite con un nastrino; ora questo stratagemma ci consente di vedere la cosa dall’altra parte, col risultato di una maggiore immedesimazione: non più meri spettatori passivi ma nei panni stessi di Taylor. Non siamo più il pubblico, il pubblico ce l’abbiamo di fronte.
Dicevo nell’introduzione che mi fa pensare a Long Live: per certi aspetti è come se ne fosse un negativo fotografico. Là esibirsi, intrattenere le folle, è qualcosa di fecondo e di nutriente, c’è un rapporto di mutuo scambio (“I had the time of my life fighting dragons with you”), mentre in questo caso è un’esperienza emotivamente drenante, che si innesta su un preesistente stato di malessere personale.
Ma è pur vero che, se esiste una regola nello spettacolo, è che deve continuare: e così, davanti a uno stadio per forza di cose galvanizzato (“As the crowd was chanting ‘More!’”), si va in scena (“I hit the floor”, che qui può avere anche la doppia valenza sia, appunto, di andare letteralmente sul palco, sia di sfasciarsi sul pavimento di casa a quattro di spade in preda alla più nera afflizione); e non può essere altrimenti, d’altronde è lavoro: più bello di altri (del mio di sicuro), ma comunque lavoro, che per le sue caratteristiche peculiari richiede che vengano soddisfatte certe condizioni (tra le altre, dimostrare del brio). Di recente ho rivisto The Greatest Showman e per esempio, ai fini della drammatizzazione, il personaggio di Jenny Lind, dopo che Barnum ha deciso di mollare il tour, can do it with a broken heart solo fino a un certo punto.
Insomma, try and come for my job: questa canzone altro non è che la presa d’atto di quanto sappia fare il suo mestiere (e anche di quanto abbia voglia di fare il suo mestiere).
Si tratta di un brano meta, e meta è la stessa esibizione live sul palco dell’Eras Tour, con la coreografia che palesemente integra le movenze delle coreografie delle altre canzoni.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 4 (bitch x2, shit x2)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Breaking down, I hit the floor / All the pieces of me shattered / As the crowd was chanting ‘More!’”
The Smallest Man Who Ever Lived
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
All Too Well, ma cresciuta per strada in mezzo alle gang. Come ebbe a dire quel bambino di fronte al finto ladro di hamburger pestato da Homer vestito da Krusty, “Basta! È già stecchito!”, perché ogni singolo verso di questa canzone è un colpo da k.o., totale. La menzione al vestirsi come un testimone di Geova ha steso persino me: è un modo efficace per descrivere una persona che si dà una parvenza di rispettabilità per accalappiarti, e una volta accalappiata ti manipola.
Ora, passata l’evidente sbornia che le ha fatto pensare “Dai, sì, è un fattone osceno e volgare ma è caruccio e lo posso guarire”, finalmente arriviamo alla realizzazione che l’ha fatta dire “‘sto drogato del cazzo — piccolo, tra l’altro — che si fa ghostare persino dagli spacciatori ma vedi te che omuncolo di merda”. Cioè, parafraso.
La canzone inizia con un sospiro, ma non è il sospiro addolorato che sta in Ronan, o quello tremolante e malinconico che sta in Last Kiss, no: è un sospiro da “togliamoci ‘sto pensiero, famo ‘sta cosa”, ed ecco che attacca col primo verso. Lo stesso accade all’inizio della seconda strofa, ma qui è come se, una volta rotto il ghiaccio e iniziato a raccontare, il discorso riesca a proseguire con più facilità. A questo punto, per prendere a prestito le parole del cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg all’alba della Grande Guerra, “Il sasso ha cominciato a rotolare”.
E al momento di arrivare alla variazione, il sasso ha acquisito energia, si è unito ad altri detriti ed è diventato una frana che travolge tutto. È un bridge potentissimo, dall’incipit rovinoso: “Were you sent by someone / Who wanted me dead?”. Sbem.
Qui si attinge a pieni mani dall’immaginario delle spie e degli agenti segreti, cioè una categoria di persone che subito fa venire in mente inganni, falsità, doppi giochi, e di fini che giustificano i mezzi (di solito violenti e illegali, e per i quali non saranno mai perseguiti — “And you deserve prison, but you won't get time / You'll slide into inboxes and slip through the bars”); ma anche di killer di professione e di giornalisti sotto copertura. C’è tutta l’amarezza di non sapere perché si è stati così barbaramente pugnalati alle spalle, traditi, usati e imbrogliati, e chissà se mai si arriverà a saperlo.
L’outro, infine, disconosce totalmente l’affermazione fatta in Innocent, secondo cui “Who you are is not what you did”: stavolta, forse dopo aver imparato che certe persone non meritano il beneficio del dubbio o seconde possibilità, c’è un perentorio “But you are what you did”.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 2 (stoned, pills)
#CurseWordsCount: 1 (fuck)
#MurderCount: tecnicamente nessuno ma siamo onesti: l’intera canzone è un omicidio.
#FavLyrics: “You didn't measure up / In any measure of a man”
The Alchemy
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
«Ma insomma» lo interruppe Tourangeau, «che cosa ritenete certo e vero, voi?» «L’alchimia.» Coictier esclamò: «Per Dio, don Claude, l’alchimia ha indubbiamente le sue buone ragioni, ma perché bestemmiare la medicina e l’astrologia?» «La vostra scienza dell’uomo è niente! Niente la vostra scienza del cielo!» pronunciò imperiosamente l’arcidiacono. [Victor Hugo, Notre Dame de Paris, Rizzoli Libri, edizione Kindle - trad. Luigi Galeazzo Tenconi]
Nei film e nelle serie tv, se due personaggi sullo schermo funzionano bene tra di loro, si dice che è perché tra gli attori c’è chimica, nel senso di profonda intesa, di feeling: che ne so, prendete Caitríona Balfe e Sam Heughan di Outlander: c’è più chimica tra di loro che nel laboratorio di Marie Curie.
Questa intesa è l’idea di base della canzone, ma non di chimica si parla, quanto di alchimia. In questa accezione i due termini sono ovviamente sinonimi, ma richiamano suggestioni diverse: l’alchimia non è una scienza, ma un complesso di pratiche antiche il cui obiettivo era di manipolare la realtà al di fuori del piano empirico, per esempio trasmutando i metalli vili in oro. In una canzone che parla di qualcosa di insondabile e inspiegabile come l’amore, l’utilizzo di un termine quale alchimia, che rimanda all’occulto e alla magia, è evidentemente un termine molto più calzante di chimica, che invece richiama metodi rigorosi, dimostrabili e ripetibili di acquisizione delle conoscenze, nonché una certa asetticità.
#AlcoholicCount: 3 (white wine x2, beer)
#DrugsCount: 2 (heroin)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “The hospital was a drag / Worst sleep that I ever had”
Clara Bow
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
“Who’s Taylor Swift anyway?”
Tre donne, cent’anni e una canzone. Clara Bow parte da lontano, e racconta una storia rimasta invariata per tutto questo tempo: quell’idea, nel mondo dello spettacolo — in particolar modo per le donne — di dover sottostare al confronto con chi è venuto prima, che racchiude in sé anche la dissimulata esortazione a essere — a dover essere — qualcosa di più, qualcosa di migliore. Ma anche, se vogliamo, al confronto con chi verrà dopo, che anche se è un’entità ancora indefinita, è come se fosse minacciosamente in agguato pronto a soffiare quel posto sotto i riflettori così a fatica conquistato.
Taylor sceglie qui tre donne rappresentative di tre periodi storici diversi: Clara Bow, attrice dell’era del jazz che ha debuttato nel cinema muto nel 1922 per poi transitare brevemente nel sonoro, tra le prime it girl e sex symbol di Hollywood; Stevie Nicks, cantautrice che divenne nel 1975 la voce della band Fleetwood Mac, contribuendo all’affermazione del gruppo al livello mondiale; infine lei stessa, oggi l’artista più enorme che esista in circolazione.
“Assomigli a Clara Bow”, “Assomigli a Stevie Nicks”, “Assomigli a Taylor Swift” si sente dire la ragazza di grandi sogni e belle speranze di turno, e anche che, in mezzo a questo mondo finto, artefatto e corrotto, è lei il vero affare, il cavallo su cui puntare (“This town is fake, but you're the real thing”; “The crown is stained, but you're the real queen”). Non solo, ma sarà addirittura la nuova divinità che si andrà a venerare.
Negli anni cambia il metro di paragone, ma l’idea della fama e di una bellezza irraggiungibile è per tutte uguale: una bestia che chiede sempre di più (e qua viene in mente quel “chanting ‘More!’” della folla di I Can Do It With A Broken Heart ma anche quelle voci “that implore, ‘You should be doing more’” di Sweet Nothing), e cercare di essere “creature divine” è un po’ l’inferno in terra. E chissà se ne vale la pena, visto che da qualche parte là fuori già c’è, o arriverà a breve, un rimpiazzo, che a sua volta sarà rimpiazzato, e così via ad infinitum.
È una canzone che per forza di cose ricorda The Lucky One, dove Taylor, pur senza mai nominarla, probabilmente ha raccontato la storia di Janis Joplin, dall’ascesa alla sparizione quando il prezzo del successo si è fatto troppo alto da pagare, fino a quando poi non è toccato a Taylor stessa prenderne il posto (“It was a few years later, I showed up here”; “'Cause now my name is up in lights”).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics:“You look like Taylor Swift / In this light, we're loving it / You've got edge she never did / The future's bright, dazzling”
The Black Dog
[Taylor Swift]
Nel nostro listening party, appena prima di dare il play a questa canzone, c’è stato un concorde annuire: “Ah, sì, il ‘black dog’, questa canzone parla della depressione”, fino a che qualcuno non ha suggerito che in realtà si tratta di un pub di Londra, così come il Bus Stop di the 1 non è la fermata del 48 barrato ma un caffè di New York. E certo, son buoni tutti a frequentare locali dai nomi ingannevoli e in qualche misura adatti al tono sofisticato delle canzoni; vieni a farlo in Italia, su: io, durante il praticantato, sulla strada per la scuola forense passavo sempre davanti a “Il Brillo Parlante”, e nella città dove vivo c’è un bar che sfoggia nell’insegna un simpatico mustelide con in mano un boccale di birra e il nome “Il Tasso Alcolico”.
(ma se conosco la mia polla, apprezzerebbe)
“I move through the world with the heartbroken”: già avevamo avuto modo di rendercene conto, ma in questa canzone non serve indossare la maschera di I Can Do It With a Broken Heart, non serve mettere su una pantomima, perché nessuno sta guardando (a parte lei, spettatrice suo malgrado di un andare avanti mentre, dal canto proprio, si è impantanati nelle rimuginazioni).
The Black Dog è infatti una riflessione, rassegnata e piena di rimpianto, un tentativo di comprendere quello che pare incomprensibile, e la bruciante consapevolezza che l’altra persona si sta lasciando il passato alle spalle più velocemente di quanto sia in grado di fare lei — lei, che dopo sei settimane di aria pulita sente ancora la mancanza del fumo”(che ricorda il verso di Daylight “Clearing the air, I breathed in the smoke”), e sempre lei che, come fosse bloccata in purgatorio, è testimone controvoglia — galeotta fu la geolocalizzazione lasciata accesa (tanto quanto il suo cuore ancora sofferente) — di quel lasciarsi il passato alle spalle.
C’è, tuttavia, anche un po’ un giudizio morale di codardia in questa evidente e celere defezione (“‘Cause tail between your legs you're leaving”, la stessa di loml: “The coward claimed he was a lion / I’m combing through the braids of lies / ‘I’ll never leave’”).
Ma non è solo rassegnazione, e soprattutto non è pacata, come per esempio lo era in Last Kiss (se là sperava che fosse bello il posto dove lui si trovasse, qui invece spera che nel Black Dog sia una merda); la menzione dell’esorcismo, infatti, necessariamente veicola un’immagine violenta, caotica (come la morte urlante a cui potrebbe condurre), ma anche drastica, di assoluta cesura con quel passato che ormai, col senno di poi, si era ridotto a vecchie abitudini (che come tali si ripetono sempre uguali senza possibilità di rinnovamento, e quindi di crescita e di cambiamento), talmente radicate da non poter morire che urlando e strepitando. “Old habits die screaming” è il verso che chiude ogni ritornello, mentre nel bridge il soggetto cambia e diventa Taylor stessa, in una sorta di equivalenza tra lei e le abitudini. Negli esorcismi, tuttavia (e questo non fa eccezione) a essere scacciati sono i demoni, non le abitudini: se dunque è lei quella destinata a morire urlando, significa che è lei stessa i suoi demoni, quella che si mette i bastoni tra le ruote, quella che si impedisce di guarire… (Anti-hero dice “ciao”).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (shitty)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Were you making fun of me with some esoteric joke? / Now I want to sell my house and set fire to all my clothes”
imgonnagetyouback
[Taylor Swift & Jack Antonoff]
Nel numero 11 di Pikappa, intitolato L’eracolatore (soggetto e sceneggiatura di Bruno Enna), la guerriera Janira dice a Pikappa, il quale si appresta a fare una mega follia in cui rischia di lasciarci le penne (quite literally), “Non so se percuoterti o darti un bacio”. Ecco, in questa canzone Taylor si pone davanti al dilemma “se diventare tua moglie o sfasciarti la moto” (o, boh, la bici, dalla canzone non si evince il livello di poraccitudine di quello cui si rivolge). In ogni caso, è determinata a ripigliarselo, nonostante gli attribuisca la colpa di un primo tentativo andato male, con tanto di fuga dalle proprie responsabilità (“I’m an Aston Martin / That you steered straight into the ditch / Then ran and hid”) — e tra l’altro non è manco vero che non le importa (“Act like I don't care what you did”).
Devo dire che, per come è ritmata, specie nel ritornello, è piuttosto piacevole da ascoltare, però è una canzone senza dubbio dimenticabile.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics:“Pick your poison, babe / I’m poison either way”
The Albatross
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Il simbolismo dell’albatro è una di quelle cose che, insieme alla barbabietola da zucchero, all’Europa che era una polveriera pronta a esplodere, alla correlata goccia che fece traboccare il vaso a Sarajevo nel 1914, e a Carlo Magno incoronato imperatore la notte di Natale dell’800, ci si ricorda di più degli anni della scuola di ogni ordine e grado. (Ci sarebbe pure la piramide feudale, ma il buon Barbero ci informa che è una fake news, quindi sparaflashatela dalla vostra memoria ed espungetela dal sussidiario)
Dell’albatro parla sia il poeta romantico Samuel Taylor Coleridge, nella sua La ballata del vecchio marinaio, sia il precursore del decadentismo Charles Baudelaire, nella sua poesia eponima.
Il marinaio di Coleridge uccide l’albatro — simbolo di buona sorte —, e i suoi compagni per questo lo incolpano delle disgrazie capitategli, attirate su di loro dall’empio gesto; la carcassa del povero pennuto gli viene quindi legata al collo a imperitura memoria; Baudelaire invece utilizza l’immagine dell’albatro per descrivere la condizione del poeta, il quale come l’imponente uccello domina maestoso e incontrastato i cieli, così lui domina la realtà fantastica; e come l’albatro è goffo a terra, per via di quelle ali gigantesche, così il poeta è impacciato nel mondo ordinario (il che mi fa un po’ pensare al verso di Anti-Hero “And I'm a monster on the hill / Too big to hang out”).
Ora, in entrambe le poesie l’albatro se la passa male: in una è ucciso, in un’altra è catturato e sbeffeggiato. In ogni caso, sono vittime — oggetto quindi passivo – della crudeltà di qualcun altro (giusto gli Iron Maiden, che hanno messo in musica la vicenda raccontata nella ballata di Coleridge, gli attribuiscono qualcosa di più di una mera passività, come se la maledizione conseguente alla violenza sia frutto di volontà e intenzione dell'albatro stesso e non una riequilibratura cosmica: “The albatross begins with its vengeance/ A terrible curse, a thirst has begun”).
In questa canzone, invece, l’albatro – e Taylor fuor di metafora — è agente attivo di quella distruzione; rectius: di quelle intenzioni di distruzione che altri le attribuiscono (“She's the albatross / She is here to destroy you”; “She's the death you chose / You're in terrible danger”).
In realtà, proprio alla luce dei versi ora citati, noto una sorta di ambiguità nella canzone, con l’alternanza della prima e della terza persona: è evidente che Taylor il più delle volte si riferisca a sé stessa, ma mi domando se i pronomi “she” ed “her”, in contrapposizione a “me”, facciano sempre riferimento a lei oppure intendano qualcun altra che abbia vissuto un’esperienza simile alla sua (l’abbiamo già visto in Clara Bow, per esempio, e anche in it’s time go si elencano situazioni che riguardano anche altri, per poi arrivare a una sua specifica). Fatto sta che in ogni caso il senso della canzone non cambia, anche quando una strofa si rivolge direttamente alla persona cui la canzone è destinata (che sia una concreta o un generico dear reader): in ogni strofa c’è sempre qualcuno che deve essere messo in guardia, vuoi dagli scandali, vuoi dalle dicerie, vuoi da un metaforico fuoco che ti piove addosso dal cielo quando non sei più gradito (“and you’re persona non grata”, qui con una locuzione latina che di solito è utilizzata in ambito diplomatico); il tutto in una sorta di circolarità, perché come la gente ha messo in guardia altri nei confronti di Taylor, così a sua volta Taylor mette in guardia qualcun altro da altre persone. E, sempre alla luce della condotta attiva dell’albatro di questa canzone, non si limita ad avvertire, ma giunge addirittura in soccorso ad ali spiegate (“Spread my wings like a parachute I'm the albatross / I swept in at the rescue”).
Ora, un discorso a sé va fatto sui versi “Cross your thoughtless heart / Only liquor anoints you”, considerando che ci ho perso il sonno per un mese. Conoscevo già il termine “anoint” per via di The Crown, dove nell’episodio 1x05 l’anointing, ossia “l’unzione”, è descritta come il “momento più santo, solenne e sacro” della cerimonia di incoronazione di un sovrano, in quel caso Elisabetta II. L’unzione è anche, nella liturgia cattolica, un gesto di carattere rituale compiuto nell’amministrazione dei sacramenti, tra gli altri il battesimo e l’unzione degli infermi. È un gesto che conferma, consacra e, per quanto riguarda i fedeli gravemente malati, solleva e salva (Can. 998 — chi l’avrebbe mai detto che l’esame di diritto canonico sarebbe servito a qualcosa).
Insomma, è un termine che reca in sé una certa gravitas, che non si usa certo per quando apri la scatoletta di tonno con troppa nonchalance e sbem! ecco che hai cresimato i pantaloni nuovi.
L’unzione avviene con olio sacro o con il crisma, non con il liquore, sebbene l’alcol abbia comunque parte nelle cerimonie religiose. Allora, nel contesto della canzone, mi domando e chiedo: cosa significa quel verso? Se vogliamo prendere per buono questo destino distruttore affidato all’albatro, allora forse il liquore che unge potrebbe essere inteso come lo strumento ultimo di “sollevazione” dell’anima (e ha quindi la stessa funzione del sacramento amministrato agli infermi), un modo per avere sollievo, un meccanismo — pernicioso, va detto — di gestione dei tormenti, allo stesso modo in cui in Death By A Thousand Cuts si dice “I get drunk, but it's not enough”, oppure in Dear Reader: “So I wander through these nights / I prefer hiding in plain sight / My fourth drink in my hand”.
Allora forse non è un caso (con lei, quando mai lo è), che il verso scompare nei due ritornelli che seguono alla strofa che menziona il salvataggio: quella sorta di protezione data dal liquore non è più necessaria, perché la salvezza è avvenuta. E però, alla fine, torna il “she’s here to destroy you”, e stavolta non c’è più il liquore a fare da scudo…
#AlcoholicCount: 2 (liquor)
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Cross your thoughtless heart / Only liquor anoints you / She's the albatross / She is here to destroy you”
Chloe or Sam or Sophia or Marcus
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Il titolo di questa canzone prende evidentemente spunto dalla difficoltà di una tipica nonna italica nel chiamare un nipote.
Chloe or Sam or Sophia or Marcus è the 1, sebbene più crogiolante nella malinconia: in entrambe aleggia questa idea del “chissà”, in un continuo domandarsi cosa sarebbe potuto essere, pur restando domande senza risposta da rubricarsi a mere fantasticherie destinate a non esaurirsi.
Questa canzone più di altre saccheggia elementi di altri brani, come se avesse frullato insieme idee, concetti e sentimenti per ottenere un’unica, nuova rimuginazione: così, abbiamo la melodia che inequivocabilmente riprende il pianoforte finale di champagne problems; c’è l’idealizzazione già presente in All Too Well (10 Minute Version): “The idea you had of me, who was she?” e “You turned me into an idea of sorts”; il rimando esplicito a Maroon (“Will that make your memory fade from this scarlet maroon”); l’ennesimo riferimento alla giovinezza che nelle canzoni di Taylor presenta sempre una dualità: o è qualcosa da rimpiangere se perduta o sprecata (Would've, Could've, Should've, So Long, London), o qualcosa che è d’intralcio nel suo essere conduttrice di inesperienza, di ingenuità, di visione parziale del mondo (Dear John, Nothing New, cardigan, Forever Winter).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 1 (drugs)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount:0
#FavLyrics: “I changed into goddesses, villains, and fools / Changed plans and lovers and outfits and rules / All to outrun my desertion of you”
How Did It End?
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Ma guarda te il caso, la sorte, l’ananke: un’altra track five. E non ad honorem, ma per davvero, perché è la quinta traccia di The Anthology.
Questa canzone viaggia su un doppio binario, il cui snodo è proprio la domanda “come è finita?”.
Da una parte, è Taylor a porsela, la quale, di fronte all’idea dell’anima gemella che credeva di aver trovato, si rende conto che entrambi hanno preso strade diverse (“And so a touch that was my birthright became foreign”), e lo realizza senza alcun intento accusatorio: “We learned the right steps to different dances”, anche se a tutt’oggi non riesce a capire cosa sia successo davvero (“But I still don't know / How did it end?”).
Dall’altra, la canzone è una vera e propria nota di biasimo nei confronti di chi pone la stessa domanda solo per spettegolare. Per lei la questione è amplificata all’ennesima potenza visto che il gossip che le ruota intorno tiene banco fin su Marte, ma in generale riguarda chiunque, nei confronti di chiunque, si mostra fintamente empatico al solo scopo di saziare la sua curiosità, per darla poi in pasto a parenti e affini entro il diciottesimo grado, al conoscente incontrato tra le corsie del supermercato, alle sciure dal parrucchiere, ai colleghi in ufficio e via dicendo (“The empathetic hunger descends / We'll tell no one except all of our friends”; “Soon they'll go home to their husbands / Smug 'cause they know they can trust him / Then feverishly calling their cousins”; “Guess who we ran into at the shops / Walking in circles like she was lost / Didn't you hear they called it all off / One gasp, and then / How did it end?”). Il ritornello è particolarmente potente in questo senso, perché ci dice che sa cosa sta per succedere: quello che succede ogni volta. Ha anche un sapore piuttosto rassegnato, al punto da suonare come un invito, visto che tanto è inevitabile: allora, venghino, siore e siori, prendete posto e i popcorn, lo spettacolo inizierà a breve (“Come one, come all / It's happening again”).
Il bridge, che va per direttissima tra i migliori della sua discografia, nei due versi finali è un chiaro richiamo alla filastrocca con cui si canzonano i malcapitati di turno i quali starebbero “Sitting in a tree / K-I-S-S-I-N-G!”; qui i malcapitati di turno sarebbero “My beloved ghost” (il partner che via via è diventato sempre più evanescente) e Taylor stessa, “D-Y-I-N-G”. (Hey, kids! Spelling is…. ehm, fun…).
Quel che è interessante, è che la filastrocca prosegue così: “First comes love / Then comes marriage / Then comes baby / In a baby carriage!”,poiché in quest’album emerge forte e chiaro il rimpianto per il desiderio frustrato — come peraltro già in You’re Losing Me (“And I wouldn't marry me either / A pathological people pleaser”) — di accasarsi e mettere su famiglia (“At dinner, you take my ring off my middle finger / And put it on the one people put wedding rings on / And that's the closest I've come to my heart exploding”; “You shit-talked me under the table, talking rings and talking cradles”; “And my friends all smell like weed or little babies”; “He said that if the sex was half as good as the conversation was / Soon they'd be pushing strollers”).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount:0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Say it once again with feeling / How the death rattle breathing / Silenced as the soul was leaving / The deflation of our dreaming / Leaving me bereft and reeling / My beloved ghost and me / Sitting in a tree / D-Y-I-N-G”
So High School
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
In High School Never Ends i Bowling For Soup riflettono come tutte le dinamiche negative e problematiche del liceo si ripropongano nella vita adulta, e le ossessioni del mondo sono le stesse che erano per i liceali, senza nessuna variazione sul tema.
Com’è evidente, anche in questa canzone Taylor fa riferimento al liceo, ma lei per ricreare quell’atmosfera e quelle sensazioni di spensieratezza giovanile quando si è alle prese con una cotta importante. In generale, si respira proprio questa necessità di riappropriarsi — e lo vedremo anche in The Manuscript — di un po’ di giovinezza, che per tante ragioni sente di aver perduto (dal “Give me back my girlhood, it was mine first” di Would’ve, Could’ve, Should’ve a, in quest’album, “And I'm pissed off you let me give you all that youth for free” di So Long, London e “I read about it in a book when I was a precocious child” di I Hate It Here; per non parlare di come Robin ruoti tutta intorno all’idea di doverla preservare).
I riferimenti alla serie di film American Pie e dei videogiochi GTA, che sono usciti alla fine degli anni '90, aiutano l’ascoltatore a porsi nel contesto scanzonato e circoscritto a qualche annetto fa, così concretizzando meglio la metafora liceale e la leggerezza dei primi amori.
E trovo simpatica la dicotomia racchiusa nel verso “You know how to ball, I know Aristotle”(nella mia testa è già partita la fanfiction AU con protagonisti Evelyn Carnahan e Rick O’Connell). Tra l’altro, al netto del fatto che Aristotle funziona per le rime (“bottles”, “throttle”, “auto”) e posto che non è certo stata Taylor a perdere tutte le diottrie sopra al GI (quelli che invece usavano il Rocci ora percepiscono direttamente una pensione di invalidità), un indizio che qualcosa di Aristotele in effetti conosca ci deriva da cardigan, il cui verso “A friend to all is a friend to none” è effettivamente una frase dello stagirita tratta dall’Etica Eudemia (Libro VIII, 1245b 20s): “Anche il fatto di dire di cercare e desiderare molti amici da un lato e, dall'altro, di affermare che chi ha molti amici non ha nessun amico, sono entrambe affermazioni corrette” (Aristotele, Le tre etiche, Bompiani 2008, traduzione, note e apparati di Arianna Fermani).
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Truth, dare, spin bottles / You know how to ball, I know Aristotle”
I Hate It Here
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Io, non so come e non so perché, sono finita in un ufficio ragioneria, come una signorina Silvani qualsiasi. Cioè, lo so perché, perché devo scontare la pena per tutti i crimini commessi nelle mie vite passate ho fatto un concorso — anche se di contabilità c’erano solo tipo due domande e credo anche di averle sbagliate — e poi, come Re Carlo III, sono stata pescata dalla graduatoria. E adesso, proprio come Re Carlo III, mi trovo a pensare che tutto sommato si stava molto meglio quando si stava molto peggio. Per quanto Checco Zalone con la questione del posto fisso non avesse mica tutti i torti, essere una persona creativa e dover campare circondata da fatture, liquidazioni, impegni di spesa, mandati di pagamento, scontrini della farmacia, file excel da caricare su portali istituzionali che non funzionano mai equivale alla morte dell’anima. Ogni mattina è una catabasi, una discesa nell’Ade piastrellata di Iva, regimi split e fuori campo. Quindi, per una che Iva è la Zanicchi, lo split una roba che sta nel condizionatore e il fuori campo una battuta del baseball, versi come “Tell me something awful / Like you are a poet / Trapped inside the body of a finance guy” mi risuonano nelle budella forti e chiari.
Se un rimedio c’è, io non l’ho trovato. La cura palliativa che però mi sono prescritta, la stessa di Taylor — rifugiarsi con la mente altrove nello spazio e nel tempo — aiuta a rendere più tollerabile questa stinfia esistenza, che in un ufficio ragioneria diventa stinfia otto volte tanto. Quando Taylor canta “I hate it here so I will go to / Secret gardens in my mind / People need a key to get to / The only one is mine”; “I hate it here so I will go to / Lunar valleys in my mind”; “I'm there most of the year 'cause I hate it here” mi sento davvero capita.
Mi piace in particolar modo il bridge, perché anche in questa parte mi riconosco tantissimo: trovo sia una descrizione perfetta per una persona introversa che si sente un pesce fuor d’acqua nel mondo e nella vita, un pelo arrabbiata e parecchio pentita delle scelte fatte che l’hanno condotta nell’hic et nunc, ma tutto sommato contenta della persona che è. In ogni caso, una persona che vive tutto il giorno in altri mondi: che ha preso il tè con zia Mame, che ha visitato il Paese delle Meraviglie, che è stata in orbita attorno alla Luna, che ha visto i tripodi marziani marciare su Londra, che ha fatto colazione con La Luisona, che ha visto clonare i dinosauri e risvegliare le mummie, e che si inventa scenari con i suoi original character: “I'm lonely, but I'm good / I’m bitter, but I swear I'm fine / I’ll save all my romanticism for my inner life and I'll get lost on purpose / This place made me feel worthless / Lucid dreams like electricity, the current flies through me and in my fantasies I rise above it / And way up there, I actually love it”.
Ora, l’ispirazione per questa specifica immagine dei giardini segreti Taylor può averla tratta da un romanzo per ragazzi (“I read about it in a book when I was a precocious child”): The Secret Garden, di Frances Hodgson Burnett. Non sarebbe la prima volta di un’ispirazione letteraria, o comunque di una piccola citazione: a parte lo scontato Shakespeare di Love Story, abbiamo già avuto La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne (di nuovo in Love Story e poi in New Romantics) e Rebecca, la prima moglie, romanzo di Daphne Du Maurier che è alla base di tolerate it. Leggendo su Wikipedia ho scoperto che Frances Hodgson Burnett riteneva il giardinaggio un’attività “altamente pedagogica e addirittura terapeutica sia dal punto di vista fisico che da quello mentale”, perciò ha perfettamente senso che nella canzone siano proprio dei “giardini” i luoghi in cui rifugiarsi per tutelare la propria sanità mentale.
Trovo interessante la seconda strofa, in cui dice — una forma di escapismo notevole — che vivrebbe negli anni ’30 dell’Ottocento, anziché nel presente, e che ho visto accolta con parecchia perplessità su internet da chi ritiene che specificare “ma senza il razzismo e i matrimoni combinati” non basti a giustificare la scelta di un periodo storico simile.
Ora, premettendo che anche i miei segreti giardini mentali esistono nel XIX secolo (sebbene nella seconda metà — Annie Oakley e Jules Verne vi salutano) e quindi mi pongo un po’ sulla difensiva, quando una qualche Miss Italia dice che avrebbe voluto vivere nel 1942, quello è decisamente il frutto di un mezzo fallimento del sistema scolastico; quando Taylor dice gli anni ’30 dell’Ottocento secondo me c’è un motivo plausibile sotto: siamo nel bel mezzo del romanticismo, ossia di quel movimento artistico e culturale caratterizzato dall’enfasi sull’individuo e sulla soggettività e che, anche in contrasto con l’illuminismo, faceva prevalere l’emozione sulla ragione (e qua già dovrebbe accendersi una lampadina); in ambito letterario, il romanticismo ruotava attorno alla figura archetipica di un eroe posto al di fuori della società, con particolare focus sulle sue passioni e i suoi tormenti interiori (qua dovrebbe accendersi un intero negozio di lampadine). In quegli anni, poi, sono ancora vivi Mary Shelley, il già citato Coleridge, Giacomo Leopardi e William Wordsworth (a cui Taylor secondo me ha già fatto un sottile ma evidente riferimento in the lakes, canzone dal sapore decisamente “romantico”: “tell me what are my words worth”), e Victor Hugo pubblicava Notre-Dame De Paris. A me paiono tutte ragioni sufficienti perché una come Taylor possa aver scelto proprio quel periodo storico. In ogni caso poi corregge il tiro, quando afferma che la nostalgia è un inganno (probabilmente da intendersi nel senso che ci fa idealizzare momenti che in realtà di ideale hanno ben poco), e che se ci si fosse trovata sul serio in realtà l’avrebbe odiato. E quando mi dico che in fin dei conti neanche io ci vivrei mi torna subito alla mente il fatto di lavorare in ragioneria, e allora tutto sommato l’alternativa di andare a vivere in un periodo storico in cui magari muoio di tubercolosi a trentott’anni ma non devo liquidare fatture non mi pare più un’idea tanto malvagia.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I’m lonely, but I'm good / I’m bitter, but I swear I'm fine / I’ll save all my romanticism for my inner life and I'll get lost on purpose”
thanK you aIMee
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Fino a qui, mi perdonerà Giuseppe Conte, non ho fatto “nomi e cognomi” (a parte quelli in Clara Bow, ma lì è tutta un’altra questione). È stata una scelta ponderata per una serie di ragioni: la prima, perché mi fate paura: seria, la gente su internet è sbullonata forte quando si tratta dei fidanzati di Taylor; poi perché Taylor stessa sotto questo punto di vista non si sbilancia più di tanto; ancora, perché del gossip relativo alle relazioni romantiche, via via che invecchio, mi importa sempre meno (e già mi importava poco), e del who’s who e del who’s that sono comunque già pieni i social; infine perché ho notato che la tendenza a focalizzarsi sui nomi (e alcuni si focalizzano solo su quelli) appiattisce e banalizza il discorso, e fa perdere di vista quello che di una canzone conta davvero: i testi e i sottotesti, le figure retoriche, le analogie, le sfumature.
È tuttavia pacifico che il caso di questa canzone sia differente, e un nome vada fatto per forza di cose: d’altronde, il nome è già nel titolo. Perciò ciao, Kim Kardashian, come va?
Kent, desidero che la cosa sia chiarissima: Kim Kardashian è un’infame. Se i prodromi della tenzone affondano ai VMAs del 2008, è nel 2016 che si è scatenato il putiferio, con la famosa telefonata di Kanye West tagliuzzata e editata ad hoc dalla Kardashian (come si verrà a scoprire soltanto quattro anni dopo) allo scopo di mettere Taylor in cattiva luce e farla passare per una spudorata bugiarda. Ne sono seguiti un’inversione a U nel sentimento dell’opinione pubblica nei suoi confronti, la sparizione dalle scene e, come sappiamo dall’intervista per la rivista Time del 2023 in occasione della sua elezione a “Persona dell’anno”, una profonda prostrazione psicologica.
West wrote a song with vulgar lyrics about her, and claimed that Swift had consented to it, which Swift denied; West’s then wife, Kim Kardashian, released a video of a conversation between West and Swift that seemed to indicate that Swift had been on board with the song. The scandal was tabloid catnip; it made Swift look like a snake, which is what people called her. She felt it was “a career death,” she says. “Make no mistake—my career was taken away from me.” It was a bleak moment. “You have a fully manufactured frame job, in an illegally recorded phone call, which Kim Kardashian edited and then put out to say to everyone that I was a liar,” she says. “That took me down psychologically to a place I’ve never been before. I moved to a foreign country. I didn’t leave a rental house for a year. I was afraid to get on phone calls. I pushed away most people in my life because I didn’t trust anyone anymore. I went down really, really hard.”
Chi dice che è passato abbastanza tempo da poter ormai sotterrare l’ascia di guerra, o non ha mai, in vita sua, subito comportamenti di sopraffazione, oppure è il bullo. Tertium non datur. Mica è un caso che sia stata proprio la Kardashian a dire che per lei la questione ormai era da ritenersi chiusa. Anzi, penserà pure di non aver mai fatto nulla di male (“And maybe you've reframed it / And in your mind you never beat my spirit black and blue”). Boh, raga, lo dico con la mano sul cuore: io, in certi casi, sono davvero team rancore, e quando si ha a che fare con persone con la caratura morale di una blatta fischiante del Madagascar, a volte perdonare e passare oltre è solo una cazzata da fricchettoni.
thanK you aIMee è la figlia naturale di Mean, e condivide con quest’ultima l’idea di un riscatto e di una rivincita personale che sappiamo avverrà in futuro (“Someday I'll be living in a big ol' city”; “Someday I'll be big enough so you can't hit me” da una parte e “But I prayed that one day I could say / All that time you were throwin' punches / I was buildin' somethin” e “And one day / Your kid comes home singing / A song that only us two is gonna know is about you” dall’altra).
Quello che mi piace di questa canzone è come riesca a essere, a un tempo, sia circoscritta e sia generica, adattabile all’esperienza di ogni ascoltatore, e che sferri comunque dei bei colpi (“Everyone knows that my mother is a saintly woman / But she used to say she wished that you were dead”) pur restando leggera e scanzonata.
Ancora rispetto a Mean, il cui focus era l’atteggiamento ostile e cattivo di qualcuno già a partire dal titolo, qui Taylor fa un passo ulteriore e ringrazia chi le ha reso la vita impossibile perché le ha dato modo di costruirci sopra qualcosa di enorme e di mai visto prima. Badate, non nel senso che riemerge costantemente in rete in un eterno ritorno dell’uguale del “Se non fosse stato per Kanye West ai VMAs a quest’ora Taylor stava a girà gli hamburger al Mc”, ma nel senso di “I could build a castle / Out of all the bricks they threw at me”. Per concludere, la morale della canzone sarebbe da ricercarsi nella penultima strofa della poesia “Why She Disappeared” contenuta nella rivista Vol. 1 che accompagnava reputation:
“[…] And even louder: “without your past, you could never have arrived— so wondrously and brutally, By design or some violent, exquisite happenstance …here.”
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount:0 (purtroppo)
#FavLyrics: “I don't think you've changed much / And so I changed your name and any real defining clues / And one day / Your kid comes home singing / A song that only us two is gonna know is about you”
I Look In People’s Windows
[Taylor Swift, Aaron Dessner & Patrik Berger]
“Scusi, chi ha fatto palo?”. Lo confesso, la prima cosa che mi è venuta in mente davanti a questo titolo è il ragionier Fantozzi che sfonda il vetro di una finestra per conoscere l’esito di una convulsa azione durante Italia-Inghilterra, per rimediare soltanto un pugno sul naso.
Questa canzone è il racconto di due persone che hanno preso strade diverse, e la fine della storia è resa visivamente dall’immagine di un treno che si allontana verso sud, portando con sé la persona un tempo amata, e l’altra che si incammina nella direzione opposta. Il verso “I'm afflicted by the not knowing so” introduce il tema vero e proprio della canzone, cioè fantasticare su cosa potrebbe succedere se… Questo concetto di ipotesi e possibilità non è nuovo, l’abbiamo già visto in the 1: “I persist and resist the temptation to ask you / If one thing had been different / Would everything be different today?” e a questa idea dell’ “E se…” si accennava anche in cardigan: “I knew you'd haunt all of my what-ifs”: così, Taylor si chiede “What if your eyes looked up and met mine / One more time”. La canzone è tutta fondata sulla speranza che si renda concreta qualche remota eventualità: “I look in people's windows / In case you're at their table”; “What are the chances you'd be / Downtown, downtown, downtown”, perché siamo in quella fase della fine di una relazione in cui si sa che è finita, ma ancora non la si è elaborata del tutto, perlomeno a livello razionale.
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “So I look in people's windows / Like I'm some deranged weirdo / I attend Christmas parties from outside”
The Prophecy
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Le profezie sono un sempreverde espediente narrativo nella mitologia, nel fantasy e nella fantascienza: dalle Sibille appenniniche alla Bibbia, da Star Wars a Harry Potter. Volendo, nei fumetti, c’è anche quella dell’armadillo.
La profezia è la predizione, di ispirazione divina, del futuro, e tende ad avverarsi, spesso con qualche plot twist inaspettato a dar colore alle polpette (tipo, quei sempliciotti dei Jedi non si aspettavano mica che i Sith venissero sconfitti in quel modo. Chissà, forse Anakin stesso non ci avrebbe proprio messo la mano sul fuoco… *tap tap* è acceso questo coso?).
È proprio perché tende ad avverarsi che Taylor trasforma questa canzone in una supplica accorata e ardente, elevata nei confronti di qualche divinità non specificata ma che lei ritiene abbia il potere di cambiare la profezia che sente esserle toccata in sorte: la solitudine.
Quando dico “toccata in sorte” mi rendo conto che in realtà è un’espressione da prendere cum grano salis, perché nella canzone stessa emerge l’idea che questa profezia non sia del tutto frutto del fato, ma che Taylor abbia avuto una qualche corresponsabilità nella sua creazione: “I got cursed like Eve got bitten / Oh, was it punishment?” è una frase criptica ma abbastanza fondante di questa interpretazione. Com’è noto, Eva non è stata morsa (dal serpente), ma è stata lei a mordere (la mela) (per carità, è stata turlupinata e tutto). Perché allora Taylor dice che Eva è stata morsa? “Come back to bite you in the ass” è un’espressione idiomatica della lingua inglese che letteralmente tradotta significa che qualcosa è tornato indietro a morderti il culo, e in senso figurato vuol dire che qualcosa ci si è ritorta contro, che stiamo pagando le conseguenze delle nostre azioni (perché la punibilità presuppone un certo grado di colpevolezza). Lo stesso, il verso “I'm so afraid I sealed my fate” lascia intendere una sorta di partecipazione attiva nel processo (e fa pensare a Cruel Summer: “And I snuck in through the garden gate / Every night that summer just to seal my fate”). Pertanto, è come se Taylor ritenga di non avere altri che Taylor da incolpare per questa sua situazione.
Il ritornello è una litania nel senso proprio della liturgia cattolica, ovvero “un’invocazione, in forma di supplica, a Dio, alla Madonna, agli angeli e ai santi”, e lo trovo particolarmente affliggente. Cioè, dai, è proprio triste un botto. Il verso “Don't want money / Just someone who wants my company” (che lavora in senso diametralmente opposto a quello di cowboy like me: “Never wanted love / Just a fancy car”) per me è proprio tanto straziante.
Peraltro, colpisce il modo in cui la donna più potente dai tempi di, boh, Caterina la Grande, quando è sola con sé stessa si ritrovi a pregare affannosamente l’universo o chi per lui di correggere il destino, di fronte al quale si sente del tutto impotente.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
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#FavLyrics: “I got cursed like Eve got bitten / Oh, was it punishment?”
Cassandra
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
“Ché, se Apollo esiste, sposerà me — con nozze più sinistre di quelle d’Elena — il famoso re degli Achei Agamennone. Io sarò la sua morte, e abbatterò la sua casa, facendo le vendette dei miei fratelli e di mio padre… Lasciamo andare — no, non canterò la scure che piomberà sul collo mio, sul collo d’altri, e neppure la lotta matricida che le mie nozze desteranno, e lo sterminio della famiglia d’Àtreo.” [Euripide, Le Troiane, Newton & Compton editori - trad. Filippo Maria Pontani]
Nel 2006 ho assistito, al teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione della tragedia di Euripide “Le Troiane” e, vuoi per la complessità tragica del personaggio, vuoi per l’attrice che l’aveva interpretata in maniera tanto brillante (ciao Cristina Spina, ho ancora salvato nel computer un audio che avevo registrato con il tuo monologo), da quella volta, tra tutti i personaggi della mitologia greca, ho sempre avuto una predilezione particolare per Cassandra; pertanto, che Taylor abbia inserito una canzone che si ispira proprio a lei — e collocata non a caso in tracklist dopo The Prophecy —mi manda in solluchero.
Cassandra, principessa di Troia figlia della regina Ecuba e del re Priamo, era la sacerdotessa del tempio di Apollo, il quale le fece dono del potere profetico in cambio del suo amore; e siccome gli uomini sia mai che accettino un no come risposta, davanti al rifiuto opposto da Cassandra, l’ha condannata a non venire mai creduta.
La canzone gioca proprio su questo aspetto, sebbene, a differenza della mitologia, dove il non credere a Cassandra era dovuto alla maledizione caduta su di lei, in questo caso non credere a Taylor è dovuto soltanto a una pervicace disonestà intellettuale dei personaggi coinvolti (“They knew, they knew, they knew the whole time / That I was onto somethin’”).
In maniera abbastanza palese, la canzone menziona ancora una volta il Kardashian-gate: “So they filled my cell with snakes, I regret to say” allude all’appellativo di “serpente” affibbiatole proprio dalla Kardashian, con tutta la profusione di emoji che ne è seguita a intasare i social (lo stesso serpente che poi Taylor ha implementato nella scenografia del Reputation Tour — game, set, match). Il “Do you believe me now?” invece riguarda il non aver mentito sulla questione della telefonata, e una volta uscita la verità non può fare a meno di chiedere “Mi credete, adesso?”. Una domanda che non necessariamente trova risposta, perché quando c’è da fare la caccia alle streghe fanno tutti una gran caciara; quando invece c’è da ammettere di essersi sbagliati cala all’improvviso un gran silenzio.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (bitch)
#MurderCount: 1 (they killed Cassandra)
#FavLyrics: “When the first stone's thrown there's screamin' / In the streets there's a ragin' riot / When it's, "Burn the bitch", they're shrieking / When the truth comes out it's quiet”
Peter
[Taylor Swift]
Peter è una piccola perla nascosta verso la fine di The Anthology, un po’ come la punta di cioccolato in fondo al cornetto Algida.
L’ispirazione è per forza Peter Pan, con addirittura l’esplicita menzione ai Bambini Perduti.
Notoriamente, Peter Pan è diventato il simbolo, per antonomasia, della ritrosia a crescere, e “Sindrome di Peter Pan” è il modo colloquiale con cui ci si riferisce alla neotenia psichica, ossia a quella condizione per cui il soggetto che ne è affetto rifiuta di diventare adulto e di assumersi le responsabilità conseguenti.
Nel capitolo finale del romanzo di J.M. Barrie, l’eterno bambino Peter ritorna da Wendy per ritrovarla ormai cresciuta (e addirittura sposata e con una figlia); nella canzone, Peter non è mai tornato (e se lo facesse sarebbe troppo tardi) ed è plausibile che, nonostante le promesse, non abbia mai avuto intenzione di farlo. E Wendy, pur avendoci messo tutta la buona volontà del mondo, alla fine ha capito di dover smettere di aggrapparsi a una fantasia ormai invecchiata male (“And the shelf life of those fantasies has expired”), e ha quindi smesso di aspettarlo (“And I won't confess that I waited / But I let the lamp burn”; “But the woman who sits by the window has turned out the light”).
Anche in questo caso, dunque, come già in cardigan, Peter ha perso Wendy, la quale peraltro sarebbe stata persino disposta a non considerare sprecato tutto quel tempo trascorso, se lui l’avesse impiegato per maturare (“'Cause love's never lost when perspective is earned”).
Wendy ammette la sconfitta: rispetto al “Lost Boys chapter of your life” è lei che si trova a dover recedere e sebbene sia Peter quello ad aver fatto promesse vane, è Wendy a chiedere scusa di non voler più aspettare.
In ogni caso, il verso “We both did the best we could do underneath the same moon / In different galaxies” rievoca quello di How Did It End? “We learned the right steps to different dances”, nel senso che erano in difetto le circostanze, più che le persone ed è possibile che Peter non abbia mai voluto consapevolmente ferire Wendy; soltanto, le cose non potevano andare altrimenti.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “’Cause love's never lost when perspective is earned”
The Bolter
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
The Bolter avrebbe trovato una casa altrettanto adeguata anche in folklore, perché si innesta sul medesimo stile di storytelling.
Ha il sapore vintage di the last great american dinasty ma anche di Starlight, ed è possibile che condivida con esse l’ispirazione data da persone realmente esistite. Se, tuttavia, queste persone sono palesi in the last great american dinasty e in Starlight (rispettivamente Rebekah Harkness ed Ethel e Bobby Kennedy), The Bolter non si sbilancia mai in questo senso; c’è, tuttavia, chi ritiene che racconti di Lady Idina Sackville (o, perlomeno, di un personaggio fittizio senza nome ma creato a sua immagine e somiglianza). In ogni caso, la nipote stessa di Idina, la scrittrice Frances Osborne, autrice di una biografia sulla bisnonna dal titolo — vedi un po’ — “The Bolter” (e che per esteso pare il titolo di una canzone dei Fall Out Boy: “The Bolter”: Idina Sackville – the woman who scandalised 1920s society and became White Mischief's infamous seductress”), nel suo editoriale per Vogue ritiene il collegamento plausibile.
Lady Idina Sackville, contemporanea tra gli altri di Clara Bow, fu un’aristocratica inglese a cui affibbiarono il soprannome “the bolter” (colei che fugge) per la sua abitudine di piantare in asso i mariti (cinque). La canzone in effetti racconta di una sistematica tendenza alla fuga dalle relazioni, perché per la protagonista del brano scappare è un atteggiamento naturale quanto respirare. Di più, è vitale quanto respirare. Scappare equivale a rinascere, ogni volta.
In genere, e in quest’album non si fa eccezione, il sottrarsi — dalle responsabilità, dagli impegni, dalle promesse — reca un giudizio negativo (My Boy Only Breaks His Favorite Toys: “He saw forever, so he smashed it up, oh, oh”; loml: “The coward claimed he was a lion”), ma in questo caso a me pare che il narratore non inferisca alcun giudizio morale dal comportamento della protagonista della canzone. Anzi, si limita a illustrare a chi ascolta cosa sia avvenuto, arrivando a ipotizzare perché sia avvenuto (“You can be sure / That as she was leaving / It felt like freedom”), senza trarre conclusioni in un senso o nell’altro.
Quel che è interessante, è che la protagonista di The Bolter ha una certa affinità proprio con la Rebekah Harkness di the last great american dinasty: entrambe spiriti liberi, anticonformiste, eccentriche; personaggi ideali su cui innestare una narrazione.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 5 (fuckin’ x3, whore x2)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “All her fuckin' lives. / Flashed before her eyes / And she realized / It feels like the time / She fell through the ice / Then came out alive”
Robin
[Taylor Swift & Aaron Dessner]
Una ballad che è un po’ una ninna nanna, una sorta di Never Grow Up 2.0, con un pizzico di seven.
Il nome Robin, pur dando il titolo al brano, non compare mai nel testo, e potrebbe essere semplicemente un modo per dedicare la canzone — che parla dell’innocenza infantile e dell’imperativo di preservarla quanto più si possa — al figlio di Aaron Dessner, appunto Robin, che ha all’incirca dieci anni.
“Long may you roar / At your dinosaurs” esplica il desiderio che l’infanzia possa durare a lungo, e che il bambino resti il più possibile inconsapevole di tutte quelle questioni che possano farla terminare precocemente, e che per questo gli vengono nascoste: non per malizia o per inganno ma a tutela (“And you have no idea / Buried down deep and out of your reach / The secret we all vowed / To keep it from you / In sweetness”). Il bridge rimarca ulteriormente tutto ciò: lo si mette in guardia che in futuro arriveranno cattiveria e crudeltà, ma ci si dice anche sicuri che sarà in grado di affrontarle; per il momento, però, è importante che gli adulti che lo circondano e lo guidano facciano in modo che non abbia troppa curiosità di conoscere la malignità del mondo: per quello, ci sarà fin troppo tempo.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You have no room in your dreams for regrets”
The Manuscript
[Taylor Swift]
Molti film Disney, d’animazione e no, cortometraggi inclusi, mostrano, alla fine, la chiusura di un libro: Biancaneve, La Bella Addormentata Nel Bosco, Come d’Incanto, perfino Pippo e la Pesca. Ecco, il verso finale di questa canzone, che a sua volta chiude l’album, mi ha veicolato in testa proprio quella specifica immagine: il gesto materiale di decidere una volta per tutte che una vicenda è arrivata al suo epilogo.
(ho notato che ‘sta cosa del libro la fa pure la pubblicità delle attrazioni di Gardaland, il che toglie un po’ di magia al discorso, ma vabbè)
Anche perché nel momento esatto in cui si dichiara che la storia non è più la propria ma di qualcun altro (per lei, chi ascolta, come per un romanziere chi legge, o per un regista chi guarda il film), necessariamente e con consapevolezza si accetta che si è messo un punto, e non si interverrà più a fare modifiche, come potrebbe accadere se fosse ancora un work in progress dentro al cassetto. Ecco perché l’altra immagine che mi è venuta in mente è quella della protagonista dello short film di All Too Well (10 Minute Version) che, cresciuta, attraverso la scrittura racconta la sua storia al mondo.
Si tratta di una ballad flemmatica che, ora che si è finalmente capito “what the agony had been for”, e posto che “Looking backwards might be the only way / To move forward”, tira i fili delle trenta canzoni che l’hanno preceduta (canzoni che, in buona parte e in misura più o meno consistente, ruotano attorno a turbinio di emozioni sì definite ma caotiche, a cui si tenta di trovare una quadra). Ed è altresì possibile che le canzoni che qui vengono ri-ragionate in questo senso siano anche Dear John e All Too Well, che entrano nella narrazione a gamba tesa quando nel brano si approfondisce il tema del riappropriarsi della giovinezza (qui descritta come una regressione infantile), perché è l’unico modo per poter tornare gradualmente ad avere la propria età anagrafica: “In the age of him she wished she was thirty / And made coffee every morning in a French press / Afterward she only ate kids' cereal / And couldn't sleep unless it was in her mother's bed / Then she dated boys who were her own age”.
Alla luce di ciò, penso non sia un caso se in tracklist Robin e The Manuscript siano state collocate vicine.
#AlcoholicCount: 0
#DrugsCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And the years passed like scenes of a show / The professor said to write what you know / Looking backwards might be the only way / To move forward”
ONE LAST SOUVENIR FROM MY TRIP TO YOUR SHORES
Ci ho scritto sopra poco più di diciassettemila parole, eppure quest’album è per me di una bellezza ineffabile. A buon diritto mi sento di considerarlo, a oggi, il magnus opus di Taylor. Anche più di folklore. Già dal primo ascolto è arrivato nella mia personale top five, insieme a 1989, folklore, Red e Speak Now. Tanto quanto Midnights è per me una delusione, tanto TTPD è per me un capolavoro.
The Tortured Poets Department, con le sue canzoni da penna d’oca,è uno spaccato schietto e vivido della mente sbarellata della miglior cantautrice in circolazione da molti anni a questa parte. In qualche modo, è come se ci avesse consegnato le chiavi dei suoi giardini segreti, da visitare liberamente, a condizione — tacita ma palese — che chiunque varchi la soglia sia disposto a fare lo sforzo di prestare attenzione, di dedicarci del tempo. I testi sono complessi e ricchi di simbolismi e citazioni, il lessico è ricercato, non tutto arriva subito e buona parte di quello che arriva è suscettibile di essere interpretato in modi diversi, poiché ognuno filtra le informazioni attraverso le proprie esperienze. Quel che è certo è che si tratta di un album che va assimilato, digerito, ragionato ed elaborato: da una parte è in evidente controtendenza con la musica mordi e fuggi di questi tempi moderni, che ricerca il tormentone e punta al reel virale di Tik Tok; dall’altra è sempre in coerenza col cantautorato di Taylor: insomma, se è dal 2012 che ci scrivo sopra tomoni, vuol dire che le cose da elaborare ci sono sempre state, si sono fatte solo via via più articolate e stratificate.
È stato davvero divertente e soddisfacente andare in cerca del senso e del significato di questo mare magnum di canzoni, e ancor più divertente è stato associare certe idee e certi concetti al mio vissuto, dagli studi che ho fatto ai libri che ho letto per passare dalle serie tv che ho visto e alle band che ascolto, anche fosse solo per farci una battuta. È un ulteriore modo, magari un po’ sui generis ma comunque per me naturale e spontaneo, di “appropriarmi” delle sue canzoni, tanto quanto lo è, a ogni uscita di un nuovo album, andarci a scrivere sopra una roba che pare una tesi di laurea (la tesi di laurea comunque l’ho fatta con meno cura). E se è vero che lo faccio perché è la mia cantante preferita, è anche vero che, tra le altre cose, è la mia cantante preferita perché mi consente di farlo. Credo che la vita sia troppo breve (e misera) per non fruire l’arte con un minimo di partecipazione attiva.
Ciò detto, mi sento di mettere in luce ciò che a me appare come una criticità: per lo più, testi e produzione musicale non vanno di pari passo, nel senso che la seconda non sempre riesce ad essere di adeguato supporto al primo. Per quanto, in ogni caso, abbia apprezzato e in fin dei conti apprezzi tuttora la collaborazione tra Taylor e i due produttori Jack Antonoff e Aaron Dessner, giunti a questo punto parecchio di quest’album suona come — passatemi il termine — “già sentito” e non c’è nulla che, a livello musicale, sia davvero memorabile. Magari nel lungo termine cambierò idea, ma a poco più di due mesi dall’uscita, mi vien da dire così.
Confesso che mi mancano i tempi in cui ogni singola canzone era un “pezzo unico”, e riusciva a distinguersi senza troppi sforzi da ogni altra: la strimpellata di We Are Never Ever Getting Back Togheter, la percussione di The Story Of Us, l’arranggiamento orchestrale di Haunted… capite che intendo? Mi pare che ultimamente questa cosa nel pop si stia perdendo, ed è un peccato. Così come si stanno perdendo gli strumenti veri, che ormai soccombono tra sintetizzatori ed elettronica. Al netto, in ogni caso, che io ascolto Taylor perché mi interessa sapere cosa ha da dire e come ha da dirlo, e che comunque ci sono qui degli arrangiamenti che dire splendidi è dire poco, mi piacerebbe se in futuro coinvolgesse anche qualche altro produttore, perché una visione nuova e fresca potrebbe stimolare un rinnovamento — lei che d’altronde si è sempre rinnovata — e scongiurare un rischio di stagnazione.
Comunque sia, l’album ha il pregio di essere coerente e coeso, e destinato a essere una pietra miliare della discografia di Taylor. Come potrà superarsi non saprei dirlo, ma d'altronde pensavo lo stesso già ai tempi di folklore. Io, nel dubbio, inizio ad aver paura sin d'ora.
Ora, miei cari, intrepidi e incoscienti lettori, se siete arrivati fin qui, grazie. E nel caso fossi riuscita a spappolarvi il cervello, “credete che non s’è fatto apposta”.
***
Gli altri tomoni:
Red dead revolution
‘Cause she’s still preoccupied with 19... 19... 1989
(Frankly, me dear, I do and I don’t give a damn about my bad) reputation
(If you wanna be my) lover
That’s all folk(lore)
Quoth the raven, “evermore”
Once upon a midnight dreary, while I pondered, weak and weary I miei giardini segreti:
Zugzwang — Il dilemma del pistolero (Nativi Digitali Edizioni
Sicilian Defense (Nativi Digitali Edizioni)
#Taylor Swift#The Tortured Poets Department#TTPD#taylor swift the tortured poets department#taylor swift the eras tour
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Mi capita spesso di osservare le persone. Molte sono farfalle che svolazzano da un fiore all'altro, senza mai posarsi davvero. Ma, purtroppo, c’è meno poesia. C'è invece un'agitazione frenetica, una reazione a catena che sembra non avere fine. Un grido che ne suscita un altro, un gesto aggressivo che ne innesca una sequenza. È come se stessero recitando una parte, senza un copione ben definito, semplicemente reagendo a uno stimolo esterno. Una strana presenza-assenza sul grande palcoscenico della vita. Una disconnessione tra l'azione e il pensiero, tra il corpo e l'anima.
Mi chiedo: perché? Qual è la molla che spinge gli individui a comportarsi in questo modo? Credo che alla base ci sia una profonda insicurezza, un bisogno spasmodico di affermare sé stessi in un mondo che ci chiede costantemente di essere qualcuno che non siamo. Un mondo che ci promette l'apice del successo, ma ci costringe a indossare maschere sempre più uguali.
E poi c'è la rabbia, un sentimento represso che esplode alla minima provocazione. È la rabbia di chi si sente prigioniero di un sistema che lo soffoca, di chi anela a ribellarsi senza sapere a cosa o come.
Ma la cosa più preoccupante è la perdita di un senso più profondo. Sembra che stiamo vagando alla deriva, senza una bussola, senza una meta. Viviamo in un'epoca di grande incertezza, dove i valori tradizionali sono messi in discussione e le nuove generazioni sembrano smarrite.
Eppure, nonostante questo grande caos, in ognuno di noi c’è una stanza, vuota e silenziosa, che attende solo di essere scoperta. Un luogo interiore dove, al riparo dai giudizi e dalle aspettative, possiamo finalmente guardarci dentro senza filtri. Un rifugio dove chiederci: "Chi sono io, davvero, al di là di ciò che mostro al mondo? Quali sono i miei desideri più autentici, quelli che nascondo anche a me stesso? Perché fuggo da loro invece che corrergli incontro?"
È in questa stanza che possiamo liberarci dalle maschere che indossiamo per paura di essere giudicati, o per conformarci a un'immagine che non ci appartiene. È qui che possiamo smettere di cercare un giusto o uno sbagliato, e semplicemente essere.
Io ho scoperto questa stanza grazie a un amore che mi ha messo a nudo, mostrandomi le contraddizioni e le paure che nascondevo. All'inizio ho provato terrore, ma poi ho capito che quella era la mia occasione per riconnettermi con me stessa.
Un amore che non è possesso, ma dono. Che si trasforma nella capacità di aprirsi completamente all'altro, senza riserve, e insegna che, per farlo davvero, bisogna prima conoscersi a fondo. Bisogna prima entrare nella stanza vuota, trovare il coraggio di farlo.
Sono grata di quell’amore. Quello che ho vissuto è stato un incontro unico, un regalo inaspettato che mi ha permesso di cambiare prospettiva. Non c'erano le aspettative e i desideri della passione, solo una profonda volontà di dare e di essere autentica.
Vorrei che tutti potessero provare questa esperienza: la fortuna di provare un sentimento così intenso da spingerli a mettersi a nudo. Vorrei che tutti voi riceveste lo stesso dono che ho ricevuto io. Ma se non dovesse arrivare, se fosse in ritardo, andatelo a cercare voi. Che sia un qualcuno o un qualcosa, non importa, cercatelo e non vi arrendete. Ne vale la pena. È l’accesso alla vostra stanza vuota, la soglia di quel luogo di verità e di autenticità in cui trovare finalmente le risposte che cerchiamo.
Questo blog è il mio piccolo angolo creativo. Ogni parola e ogni immagine presente in questo post è frutto della mia immaginazione. Se ti piace qualcosa, condividi il link, non copiare
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Verso il 1912, salvo errori (che comunque sarebbero minimi), mi venne l’idea di scrivere qualche poesia di indole pagana. Abbozzai qualcosa in versi irregolari (non nello stile di Álvaro de Campos, ma in uno stile di media regolarità), e lasciai perdere. Si era abbozzato in me, tuttavia, in una maltessuta penombra, un vago ritratto della persona che stava scrivendo quei versi. (Era nato, senza che io lo sapessi, Ricardo Reis). Un anno e mezzo, o due anni dopo, un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno ad elaborare il poeta ma non me ne venne niente. Alla fine, un giorno in cui avevo desistito — era l’8 marzo 1914 — mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile. Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa - Alberto Caeiro al Fernando Pessoa - lui solo. O meglio, fu la reazione di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro.
Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e da derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Álvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha.
Fernando Pessoa, Lettera a Adolfo Casais Monteiro
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Nannina
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, questa poesia ritorna costantemente nella mia vita ed in questi anni di social lo fa ancora di più, è sfruttata fino all’inverosimile, pubblicata, ripostata, taggata e twittata in continuazione, è inflazionata e abusata, ma incredibilmente non perde la sua forza, ogni volta che la incontro è come una goccia d’acqua che cade dentro il mio lago interiore creando delle onde che rimbalzano sulla costa , si intrecciano e sovrappongono, ipnotizzano gli occhi ed in questo viaggio onirico formano un volto, quello di mia nonna, Nannina, con lei sotto braccio ho sceso veramente un milione di scale e non perché i suoi occhi fossero obnubilati ma per le sue gambe, il suo corpo era consunto dalla guerra, dai genitori persi troppo presto, dalla fatica di crescere le sorelle più piccole quando tutto intorno era solo fame e freddo, le gambe le tremavano per la scomparsa prematura di un figlio, e anche il tempo non era stato clemente con le sue ossa, la fine le aveva riservato l’osteoporosi, “n’se famo mancà gnente no”, Nannina, mai Anna, sempre e solo Nannina, aveva una rigidità impostagli dai patimenti, dalle valigie sempre troppo pesanti, ma dentro di lei, lì si nascondeva una bontà straripante, desiderava voler bene alla gente, Nannina, e io, io ero il nipote fortunato, quello più piccolo e nato dalla figlia femmina, ero privilegiato, il poterle tenere il braccio mi aveva regalato qualcosa, una ragazza mi disse “odio tua nonna, è lei che ti ha dato la dolcezza che mi tiene legata a te”, perché odiarla quando puoi godertela?
Nannina era la seconda ragazza più bella del paese, questo raccontavano gli anziani di Fiano e questo le disse anche mio nonno, “allora vai dalla prima” tosta la nonnina (rinunciare ad un buon partito), “ma per me sei la più bella” e lei si sciolse al baffetto conquistadores del nonno (se ti chiami Ovidio qualche freccia al tuo arco devi pur averla), Nonna Nannina, così la chiamavamo noi nipoti, sentite come suona? Nonna Nannina, suona come una lallazione, come una glossolalia, come una formula magica, come quelle delle maghette della nostra infanzia, pimpulo pampolo palim pa pu, puff e la magia è fatta, Nonnanannina, puff e la magia è fatta, lei aveva una sua formula magica personale, semplicissima ed efficace, diceva sempre “basta che ve volete bene”, “basta che ve volete bene” tutto qui, semplice e disarmate, basta volersi bene e tutto andrà a posto, è roba da far cadere le braccia, “basta che ve volete bene”, è come dopo una lunga salita spossante vedere aprirsi agli occhi l’immenso panorama di una valle, lascia senza fiato.
Nannina in quelle lunghe discese mi ha regalato degli occhi strani, una sensibilità diversa, forse sfasata, diroccata, ma è sempre stato chiaro per me che l’importante fosse invisibile agli occhi, gli ultimi giorni della sua vita li ha passati sofferente in un letto, le veniva somministrata della morfina per lenire i dolori, alternava stati di veglia e sonno ,e lì, lì mi ha regalato la sua ultima magia, stavo vivendo un periodo orribile, uno di quelli dove hai perso il filo ed hai paura a toccare la matassa informe che è la tua vita, era il suo ultimo giorno, trovai la forza di avvicinarmi al suo orecchio e sussurrarle “ti voglio bene” mi rispose “grazie ni’ ”, grazie ni’, nino, ninetto, bambino, ero tornato ad essere il nipote piccolo, ero tornato bambino e lì avvenne l’incantesimo, anzi il DIS-incantesino, mi sbloccò dal torpore, ruppe la brocca che conteneva tutte le mie lacrime, esplosi in un pianto liberatorio, sbloccò il meccanismo che si era inceppato, mi rimise in moto, e quindi, quindi grazie a chi ci DIS-incanta, a chi ci sblocca e chi ci regala occhi nuovi, alle Nannine del mondo.
P.S.
Nannina aveva i capelli rossi, e le rosse fanno sempre un gran casino, spesso, senza far rumore.
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Un tentativo fallito
Søren rimpianse Regine per tutta la vita, la osservava da lontano per cercare di capire se Regine provava ancora qualcosa per lui. Arrivò persino a scrivere al marito di lei una lettera chiedendo di poter parlare a Regine. Si ritiene che Johan, timoroso, la bruciò e non ne parlò con la donna. Di seguito la Lettera del 1849 a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta.
Allo stimatissimo signor X: la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita. Decidete Voi se consegnargliela o meno. Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia. Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo S.A.K
Mia Regine, il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano). Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen! Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita. Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te. La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura! Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione. Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi. Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi? Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo? Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza. Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me. Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia. No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.
Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fu con te, è vero. In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione. Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo.
In ogni caso resto, quale sono stato dall’inizio fino a questo momento, sinceramente il tuo devotissimo S.A.K.
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Libri che vanno letti 50
Nella mia vita di lettore mi è capitato di scoprire degli scrittori tramite amici e conoscenti. Così è successo con Pierluigi Cappello, poeta del quale ignoravo l'esistenza. Me ne aveva parlato tanto tempo fa una carissima amica. Io, però, non mi ero mai deciso a leggerlo. Poi la Rizzoli ha raccolto in un bel volume tutte le sue poesie. E io ne ho approfittato.
Ho poi saputo che se non fosse prematuramente morto nel 2017, l'avrebbero proposto per il Nobel. Io, però, temo che non avrebbe vinto. Perché era un poeta vero. Con uno straordinario senso della parola, del verso e della metrica. È capace che leggendolo riesca a sorprenderti con endecasillabi come non se ne scrivono più da tanto. Basta considerare questa poesia, che è la mia preferita:
E c'è che vorrei il cielo elementare azzurro come i mari degli atlanti la tersità di un indice che dica questa è la terra, il blu che vedi è mare
Non se ne può dir nulla. Parla da sola.
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RAI: SERVIZIO PUBBLICO?
M'è capitato per sbaglio di vedere l'altro pomeriggio, "La Vita in Diretta" condotta da un certo Alberto Matano su RAIUNO.
Un programma che ho scoperto va in onda tutti i santi giorni feriali.
Ho messo in moto il cervello.
A chi giova imbastire un programma del genere? Un programma che si onora di sfruculiare in mille modi diversi, la curiosità macabra del pubblico.
Di sollecitare una sorta di perversione sadica nell'apprendere i dettagli feroci e disumani degli assassini che abbelliscono il nostro bel paese. E intendo il numero delle coltellate, il topicida fatto ingerire alla ragazza incinta, la trappola mortale architettata e spacciata per "incontro chiarificatore".
Eccolo allora il festival della pugnalata, del sangue schizzato sul pavimento, androne, scalinata. Un fiorire delle peggiori atrocità sbandierate a destra e manca con l'ausilio del commento della criminologa di turno.
A chi serve un orrore del genere travestito da cronaca del Presente.
Certo, serve a certo Pseudo-giornalismo per fare ascolti. Per scandalizzare, per scioccare, per catturare attenzioni raschiando il fondo del barile della peggiore "cronaca nera" del nostro paese.
Ma questo rimestare, questo intingere continuamente le mani nei delitti della peggiore criminalità e della miseria di certi individui perversi e malati, a chi giova?
È EDUCATIVO ?
È MORALE ?
È QUESTO CHE DEVE ESSERE IL "SERVIZIO PUBBLICO" FINANZIATO COL CANONE DA TUTTI QUANTI?
È SOCIALMENTE ACCETTABILE PRESTARSI A FARSI MEGAFONO E CASSA DI RISONANZA DEL PEGGIO CHE ACCADE NELLA NOSTRA ATTUALE SOCIETÀ?
La cosa che mi lascia di sasso è la SERIALITÀ delle puntate.
Mi spiego: un singolo crimine, delitto, omicidio, viene ripreso quotidianamente.
A volte anche per decine di puntate.
Quasi che un telespettatore dovesse mandare a memoria l'intera sequenza di un assassinio. E questi allora che fanno?
Ti aiutano a memorizzare. Spacchettando l'intero accadimento in tante sequenze da imparare un poco ogni giorno.
Come se fosse una POESIA da imparare a memoria!
...ogni giorno ti offriremo 4 versi dell'intero componimento!
Ci pensavo ieri sera.
Perchè allora, invece di presentarci una serie infinita di femminicidi ormai già avvenuti, non si cambia punto di vista e di osservazione?
Perchè, se ci sta davvero a cuore il problema di questa piaga sociale che è la violenza alle donne, il giornalista, invece che intervistare a bocce ferme, i parenti e le amiche della malcapitata di turno, non va ad intervistare...
una donna ANCORA VIVA, ANCORA RESPIRANTE, ANCORA PENSANTE
che abbia presentato una denuncia per maltrattamenti, violenza, percossse ?
Perchè se si è davvero " servizio pubblico" invece che speculare sul dolore e sulla carneficina in corso ai danni del genere femminile, non si decide di documentare il problema vero, di entrare nella carne viva di questi inferni umani che sono certe relazioni.
Perchè non si decide, invece, quando ancora "si è in tempo" di prendere le parti delle vittime di maltrattamenti, di documentarne le difficoltà, di arrivare a chiedere immediati interventi di ordine pubblico (braccialetto elettronico o carcere) contro gli aggressori, prima ancora che l'irreparabile sia accaduto?
Non sarebbe forse quello il migliore SERVIZIO PUBBLICO che si potrebbe svolgere a difesa delle donne che rischiano ogni giorno di essere le prossime vittime di femminicidio?
Io me lo chiedo.
Meno tv del dolore, e più trasmissioni educative sul tipo di relazioni che vale la pena vivere.
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