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#scuola di mileto
t-annhauser · 1 year
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Gli atomisti
Spiazzati dalle tesi degli eleati che mettevano in discussione la veridicità del mondo materiale, i pensatori greci si misero al lavoro per risolvere il problema. Occorreva ridare consistenza a una realtà che era stata risucchiata nell'abisso della divisibilità infinita della materia, così un gruppo di pensatori di scuola ionica capitanati da Leucippo da Mileto concepì la teoria dell'atomismo.
La materia, dicevano gli atomisti, non è divisibile all'infinito, altrimenti alla fin fine non esisterebbe niente, sicché deve pur esistere una porzione non ulteriormente divisibile della realtà che chiameremo "atomo" (letteralmente, il "non-tagliato").
Il più famoso esponente della scuola atomista fu Democrito di Abdera. Già allievo di Leucippo, Democrito sosteneva che tutta la realtà è fatta di piccoli granelli di materia, diversi per forma e grandezza ma qualitativamente uguali fra di loro. Un vortice cosmico fa sì che gli atomi più pesanti scendano verso il basso e quelli più leggeri volino verso l'alto. Le diverse qualità degli enti dipendono dal modo in cui gli atomi si uniscono e si dividono.
[nota di chi scrive: in realtà l'esistenza della materia, così comunemente accettata da tutti, non è mai stata verificata incontrovertibilmente dalla filosofia e costituisce quello che si può definite un atto di fede, parimenti alla credenza in Dio o in altre divinità metafisiche]
C'era a questo punto il problema di spiegare come la materia atomica potesse creare degli organismi coscienti, sicché a Democrito non rimase altro che concepire degli atomi di natura speciale, di natura ignea (cioè simile al fuoco) e di origine divina (divino nel senso di "prodigioso"), di cui era fatta l'anima e tutti gli altri aspetti della realtà non tipicamente materiali.
[nota di chi scrive: duemila anni più tardi Cartesio si trovò di fronte lo stesso problema, quello di render conto della materia che prende vita, e lo risolse richiamando in causa il principio divino, che è poi il passepartout che apre tutte le porte in assenza di altre spiegazioni]
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gregor-samsung · 2 years
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“ «Vi era una donna allora in Alessandria — narra la Storia ecclesiastica del contemporaneo Socrate [Scolastico], avvocato alla corte costantinopolitana — il cui nome era Ipazia. Costei era figlia di Teone, filosofo in Alessandria, ed era giunta a un tale culmine di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia, ricevere in eredità (diadochè) l'insegnamento della scuola platonica derivante da Plotino, esporre a un libero uditorio tutte le discipline filosofiche [...]. Da ogni parte accorrevano a lei quanti volevano filosofare.» Ipazia «aveva raggiunto un tale vertice d'efficacia nell'insegnamento, ed era così giusta e saggia e così straordinariamente bella e attraente» che gli allievi s'invaghivano di lei, si legge in Suida, il lessico bizantino del X secolo, nel lungo articolo intitolato Ipazia, o della faziosità degli Alessandrini. Le notizie di Suida derivano da due narrazioni, oggi perdute, del tempo di Giustiniano: quella, vera o presunta, di Esichio di Mileto e la Vita di Isidoro, ultimo sacerdote del tempio di Serapide, composta dall'ultimo scolarca dell'Accademia di Atene, il neoplatonico Damascio; di questa ci restano assai scarni frammenti. È presumibile sia la prima a dichiarare che Ipazia, «essendo per natura più dotata del padre, non si fermò agli insegnamenti tecnico-matematici praticati da lui ma si diede alla filosofia vera e propria, e con valore: pur essendo donna ella indossava il tribon [il mantello dei predicatori cinici] e andava per le vie del centro della città a spiegare pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone, Aristotele o qualcun altro dei filosofi.» “
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Brano tratto da Ipazia, l’intellettuale, saggio di Silvia Ronchey raccolto in:
AA. VV., Roma al femminile, a cura di Augusto Fraschetti, Laterza (collana Storia e Società), 1994¹; pp. 214-15.
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lamilanomagazine · 6 months
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Vibo Valentia, intitolato un edificio della Scuola Allievi Agenti della Polizia di Stato alla memoria dell'Assistente Matteo Demenego e dell'Agente Scelto Pierluigi Rotta
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Vibo Valentia, intitolato un edificio della Scuola Allievi Agenti della Polizia di Stato alla memoria dell'Assistente Matteo Demenego e dell'Agente Scelto Pierluigi Rotta. Si è svolta nella mattina del 15 marzo presso la Scuola Allievi Agenti della Polizia di Stato di Vibo Valentia, alla presenza del Sottosegretario di Stato al Ministero dell'Interno Wanda Ferro e del Vice Capo della Polizia – Direttore Centrale della Polizia Criminale Prefetto Raffaele Grassi, la cerimonia di intitolazione di una palazzina alla memoria dell'Assistente Matteo Demenego e dell'Agente Scelto Pierluigi Rotta, caduti in servizio il 4 ottobre 2019 a Trieste. Matteo Demenego e Pierluigi Rotta, rispettivamente di 31 e 34 anni, in servizio presso l'U.P.G.S.P. della Questura di Trieste, hanno perso la vita durante una sparatoria avvenuta il 4 ottobre del 2019. Presenti alla cerimonia, oltre ai familiari dell'Assistente Demenego, il Direttore dell'Ispettorato delle Scuole della Polizia di Stato Tiziana Terribile, il Questore Cristiano Tatarelli, il Prefetto Paolo Giovanni Grieco, il Sindaco di Vibo Valentia Maria Limardo, i Questori della Calabria, il Direttore della locale Scuola Allievi Agenti, i rappresentanti dell'autorità giudiziaria, le massime autorità civili, militari e religiose della provincia, i rappresentanti dell'Associazione Nazionale della Polizia di Stato, nonché gli Allievi Agenti del 225° Corso di formazione. Il sottosegretario Ferro, rivolgendosi agli allievi agenti del 225° corso, ha ricordato come Matteo e Pierluigi, i "figli delle stelle", abbiano lasciato un testimone, che ogni poliziotto porterà con sé: l'umanità, l'entusiasmo, la passione nello svolgere il proprio lavoro con responsabilità, nei confronti della comunità che si è chiamati a proteggere nella quotidianità. Con iniziative come quella odierna, ha evidenziato l'onorevole Ferro, viene onorato il loro sacrificio e viene preservata la loro testimonianza di dedizione e senso del dovere. Nel suo intervento il prefetto Grassi ha sottolineato quanto la perdita di Matteo e Pierluigi abbia profondamente colpito il cuore della Polizia di Stato. La loro "volante 2", ha evidenziato il Vice capo della Polizia, era tutt'uno con la comunità ed era espressione più autentica del sostegno e del servizio ai cittadini. Nel corso della loro carriera erano stati promossi per aver salvato la vita ad un ragazzo che voleva suicidarsi, ha ricordato il prefetto Grassi. Questo loro gesto è emblematico del senso più alto della difficile professione del poliziotto: oltrepassare il pericolo ed esporsi con coraggio per salvare vite umane. Il loro sorriso ed il loro entusiasmo sono per tutti i poliziotti motivo di insegnamento e testimoniano la passione con cui Matteo e Pierluigi indossavano l'uniforme della Polizia di Stato. Infine, il prefetto Grassi ha posto l'accento su quanto sia importante che le qualità umane e professionali di Matteo e Pierluigi vengano ricordate in una scuola di Polizia, dove i giovani poliziotti si formano. Dopo la benedizione della targa di intitolazione della sede da parte del Vescovo della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea Monsignor Attilio Nostro, l'On. Ferro e il Vice Capo della Polizia Grassi hanno consegnato una pergamena ai familiari delle vittime. Al termine della cerimonia, il Prefetto Grassi ha incontrato in Questura i Dirigenti e Funzionari della Polizia di Stato, le organizzazioni sindacali e una delegazione di poliziotti in servizio nei vari uffici.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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andreasannatille · 10 months
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L’origine della Filosofia in Grecia.
La scuola Ionica di Mileto: Talete Il fondatore della scuola di Mileto è Talete. La sua acmè, cioè il suo fiorire – verso i quarant’anni – è indicato nell’anno 585 a. C., anno in cui egli avrebbe predetto un’eclissi di sole ☀ . Talete non lasciò scritti, noi abbiamo qualche notizia da Aristotele. Talete avrebbe viaggiato in Egitto e dall’Egitto avrebbe portato in Grecia conoscenze…
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claudiotrezzani · 1 year
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La Nobile Acqua, da Talete in poi.
Sì, il fondatore della scuola di Mileto la identificava come αρχη, principio ordinatore del mondo.
Ma la filosofia è pleonastica, quanto ad esperienza sensibile d'essa.
Perché nasciamo dentro, ci scorre dentro, l'acqua.
Già, scorrere.
Meglio la videografia, che di un fiume ci mostra dinamicamente il fluire?
O la fotografia, che di un'onda ci consegna scultoreo ergersi?
Ecco, scultoreo.
Ha un modo di scultoreamente offrirsi, l'acqua - questo indipendente dalle modalità di ritrazione -  e ciò avviene quando diviene ghiaccio.
Zdeno Kostka ci mostra un microrganismo al microscopio.
No, non è vero: è una formazione ghiacciata.
Con sensibilità, sapienza, afflato, Zdeno c'elargisce una sapida trasfigurazione.
Il ghiaccio di Mark Koch è guarnitura.
Sublime, guarnitura.
Accarezza, delinea, riflette con suadente, ispirata tonalità d'accenti.
Grazie Mark, grazie Zdeno:
ci avete regalato mondi nel mondo.
All rights reserved
Claudio Trezzani
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culturaesocieta · 2 years
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Come è nata la filosofia? Dove? È la domanda di partenza a cui Aristotele cercò di rispondere. La filosofia greca da Talete ad Anassimene: la scuola di Mileto
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agnesebascia · 2 years
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L'esercito dei poeti
L’esercito dei poeti
L’esercito della pace: I poeti Già seicento anni prima dell’avvento del cristianesimo il primo filosofo greco ad aver lascito un testo scritto di cui ci  rimangono solo pochi frammenti scriveva:  “Tutto è nato dall’infinito e tornerà nell’infinito” Naturalmente sto parlando di Anassimandro della scuola di Mileto, discepolo di Talete e maestro di Anassimene e probabilmente anche di  Pitagora.…
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paoloxl · 5 years
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(via Trieste 9 marzo 1985 - Pedro Greco "giustiziato" dalla Stato - Osservatorio Repressione)
Nel corso dell’operazione di polizia, viene ucciso,  benché disarmato e senza abbia opposto resistenza, il militante di autonomia operaia Pietro Maria Greco. Il Questore della città è Antonino Allegra, già capo dell’ufficio politico milanese al tempo del ‘suicidio’ di Giuseppe Pinelli.
– Pietro Maria Walter Greco nasce a Mileto Porto (RC) il 4 marzo 1947 – si trasferisce in Veneto alla fine degli anni sessanta – nel ’79 si trasferisce a Padova e si iscrive a statistica, dove si laurea – lavora come insegnante di matematica in una scuola media di Padova – viene inquisito e prosciolto per i Collettivi Politici Veneti nell’inchiesta contro l’autonomia veneta nella primavera ’80 – nel 1982 viene nuovamente inquisito – va in esilio a Parigi – viene ucciso dalla polizia a Trieste il 9 marzo 1985
[Pedro esce di casa, dall’appartamento al terzo piano; una volta giù decide di rientrare. Appostati all’esterno ci sono 4 sicari dello Stato italiano. Sono Nunzio Maurizio Romano, agente del Sisde (che ha il compito di riconoscerlo); Giuseppe Guidi, viceispettore della Digos; Maurizio Bensa e Mario Passanisi, agenti della Digos di Trieste. Il Romano, il Guidi e il Passanisi entrano nello stabile e si mettono in agguato nel sottoscala. Quando Pedro discende le scale il Romano gli si para davanti e spara due colpi calibro 38 a meno di mezzo metro di distanza che lo colpiscono ai polmoni. Immediato il fuoco incrociato degli altri due poliziotti killer che colpiscono Pedro con pallottole calibro 9 alla spalla e alla gamba. Nel piccolo atrio si conteranno successivamente i segni di almeno una dozzina di colpi. Pedro fa appello per l’ultima volta alla sua straordinaria forza di volontà, uscendo in strada e impedendo così che tutto si svolga senza testimoni. Esce, ferito mortalmente, parecchi passanti lo sentono gridare “mi vogliono ammazzare mi vogliono ammazzare”. Il Bensa, rimasto all’esterno dello stabile, appena vede Pedro gli spara, alle spalle. Pedro si accascia sanguinante dopo pochi metri. Il Passanisi lo ammanetta. Trasportato in ospedale con notevole ritardo, muore verso le 11.50] *non è tratta dal libro
Documenti prodotti da organizzazioni armate per la persone o per l’evento in cui ha incontrato la morte – Franco Fortini, “A Mino Martinazzoli”, in Lettere da Lontano, L’Espresso 16 novembre 1986 “L’assoluzione -tale è la sentenza di Trieste- di chi ha ucciso Greco non è sorprendente; né l’indifferenza dei partiti politici, da quelli che difendono “la vita” a quelli non contrari al terrorismo in uniforme (tornava in Francia, emigrato politico; agenti in borghese vanno a prelevarlo; fugge, sparano, lo ammazzano. “Sembrava avere un’arma” dicono. Era disarmato. Due condanne a 8 mesi, condizionale e non iscrizione). Quando leggo di sentenze come quelle non penso ai criteri dei giudici ( lei, ex ministro di giustizia ne sa più di me). Prima di tutto perché dei fatti so solo quel che se ne lesse. E poi perché ho paura e sto molto attento a non violare il Codice penale. (Quello della calunnia, non ho più l’età per temerlo). Purtroppo o fortunatamente è vero però che i responsabili dei quali mi interesso – e dunque non delle uccisioni né della sentenza ma del loro significato – non sono coloro che hanno sparato né coloro che 2ne hanno benedette le mani con un sorriso”, come tanti anni fa ebbi a scrivere per l’uccisione di Serantini; sono i politici e i loro portavoce ossia i giornalisti e gli operatori della comunicazione che quei significati conferiscono o lasciano conferire. Lei, caro Martinazzoli, è di buone letture. Mi permetta di rammentarle due versi di Baudelaire. Il “tu” invocato è Satana ma, per un cristiano, potrebbe essere il Sommo Bene: “Tu che al proscritto dai lo sguardo calmo e nobile / che intorno a un patibolo danna un popolo intero”. Non so se l’ucciso fosse colpevole alcunché; proscritto senza dubbia, se tornava da una sua emigrazione politica. Condannato a morte da alcuni specialisti fra dipendenti di due o tre ministri con i quali, fino a poco tempo fa, lei sedeva per il bene della Repubblica, Greco non era su un palco in attesa della lama o della corda. Non aveva “le regarde calm et haut”. Gridava: “mi vogliono ammazzare, aiuto!” Ma il popolo intero che la sua morte condanna e danna, quello sì, c’era. Mi basta scendere per la via per incontrarlo. E’ il nostro popolo, la gente che amiamo e stimiamo apparentemente inseparabile da quella che, forse insieme ai più, detesto, e , debbo pur dirlo, odio e vorrei veder ridotta non alla ragione (che è impossibile ormai) né al pentimento (che non è in mio potere) ma all’impotenza almeno. E’ il popolo che ascolta distratto o ignora cronache come quella di Trieste; e si danna così. Non credo alla giustizia della storia, che è di invendicati. Né che l’accumulo di sopraffazioni, latrocini, corruttele, oppressioni dei deboli e beffe della giustizia, debba finire, prima o poi, col muovere le pietre e la gente. Tutt’altro. Chi non guarda più i telegiornali, se proprio non si trova sulla traiettoria dei proiettili della Digos, avrà altre cose cui pensare invece della intenzionale o preterintenzionale trasformazione, grazie a quei piombi, di un giovanotto in un fantoccio da obitorio. Oggi, voglio dire, Nemesi sceglie vie invisibili, come nelle viscere del fall-out atomico. Il giusto ne è punito quanto il peccatore, a riprova che in ognuno dei due c’è una quota dell’altro. Lentamente, giorno dopo giorno, una impercettibile diminuzione dell’ossigeno morale annichilisce cellule, rabbercia circuiti vivari e precari. Come certe specie di anfibi adatti alle spelonche, che hanno ancora occhi ma senza uso o bisogno di vista, così intere generazioni possono convivere con una crescita di tossico storico negli alveoli. E’ quel che chiamiamo decadenza; di popolo o di continente: solo vera punizione attribuibile al Tribunale della Storia di cui parlò Hegel. Grazie a quest’ultimo, non dimentico che essa va di pari passo col suo contrario. Scopro, pieno di ammirazione, prove di vitalità, qualità, coraggio, severità di cui questa nazione è ricca e capace; e poi, quando tali forze positive siano, come oggi, offese e sprezzate, se ne cerchi allora al di là dei confini la amicizia vittoriosa… La “denuncia” di quella cosa che non oso neanche definire, dico la sentenza di Trieste, mi parrebbe stolta eloquenza senza seguito di azioni, foss’anche minime, com’è di scriverle questa lettera. Perché leri, caro Martinazzoli, ha poteri che io non ho. Mi creda, con ogni rispetto, suo Franco Fortini”.
(…) Cosa dire di un compagno per noi indispensabile? Pedro lo ricordiamo sempre accanto a noi  dalle lotte degli universitari, a partire dal ’68, alle lotte in mensa come lavoratore dell’Opera, a quelle dei precari della scuola. Per questo, per la sua internità alle istituzioni di movimento, a quelle stesse lotte che ci hanno unito e che tuttora ci uniscono, Pedro ha subito varie inquisizioni da parte di Kaloegero (inquisizioni suffragate solo dalle parole dei pentiti, puntualmente crollate). Ancora una volta in prima fila, al primo posto, pronto a pagare di persona, duramente, con ulteriori anni di latitanza, sospensione dal lavoro, riduzione del proprio reddito strappato con le unghie a questa società di merda, per creare migliore qualità della vita. Pedro, 38 anni, Pedro accanto ai giovani del centro sociale “Nuvola rossa”, accanto a quella che era la sua classe di appartenenza, quella degli sfruttati, dei senza-casa, dei senza reddito, di chi non si lascia sconfiggere, di chi continua comunque a lottare. Lo ricordiamo durante le lotte del censimento con noi proletari disoccupati, con noi per la solidarietà, per internità, perché Pedro era così. E così lo vogliamo vivere, nelle nostre lotte, non come un ricordo ma come una presenza sempre viva, in mezzo a noi, indispensabile fino in fondo, ricordando anche il suo sforzo estremo. Ci piace immaginarlo così: che corre fuori dall’atrio di quel condominio-tomba di via Giulia a denunciare con voce forte, ancora una volta, purtroppo l’ultima per lui, che lo Stato uccide ma che questa volta non sarà possibile mistificare, non sarà possibile creare la montatura, il “mostro” (…) Grazie compagno Pedro per quello che ci hai saputo dare, grazie compagno per la forza che ancora ci tiene vivi, incazzati e mai arresi, insieme a te e adesso anche per te. A pugno chiuso compagno nostro, col sangue agli occhi, tu ci mancherai molto perchè tu sei per noi tutti uno degli indispensabili”.
-Claudio Latino, carcere Due Palazzi, 13 marzo 1985 “Parlare di Pedro, della sua vita, della sua figura di compagno a questo punto è struggente. Molti lo hanno conosciuto e ancora di più ne avranno sentito parlare. Senza retorica si può dire che pochi hanno la sua capacità di comunicare e socializzare, la sua carica e la sua determinazione, la sua intelligenza e la sua coerenza”.
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natyanindiasia-blog · 5 years
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Mille Sfumature di Grigio 
Le disse: “Mi informo subito!” e lei aspettò per giorni e giorni le informazioni desiderate. Sapete perché? Chiarissimo! Non le disse: “Mi informo subito e le faccio sapere subito!” Le disse soltanto che si sarebbe informato subito e nulla più.
Esistono le cosiddette “zone grigie” nel mondo della logica e occorre saperle riconoscere se non si vuole correre il rischio di supporre in modo errato.
Qualche giorno fa scrissi in Facebook: “Del resto è risaputo, amo mangiare con qualcuno che abbia qualcosa da insegnarmi!”.
Qualcuno commentò: “Allora con me non mangerai mai perché non ho nulla da insegnarti!”.
Ma io non avevo scritto: “Del resto è risaputo, amo mangiare SOLO con qualcuno che abbia qualcosa da insegnarmi!”.
Inoltre, dal mio punto di vista, tutti hanno almeno qualcosa da insegnare a tutti gli altri. Anche chi non ha mai messo piede in una scuola potrebbe insegnare ad un architetto, per esempio, a cucinare, stirare o a guardare il cielo.
Lo so bene, si corre il rischio di diventare pedanti a dare troppo peso alle parole, ma è pur vero che si corre anche il rischio di prendere grosse cantonate a non dar loro il giusto valore.
Tre amici entrano insieme in un bar. Il barista li vede e dice: “Volete tutti il solito caffè?” Tutti e tre rispondono: “Non lo so!” Il barista rimane stralunato: “Non sapete se volete un caffè???” Uno dei tre risponde: “Come faccio a sapere se anche gli altri due vogliono un caffè? Mica ci hai chiesto se OGNUNO di noi vuole il solito caffè. Ci hai chiesto se TUTTI lo vogliamo e noi non possiamo sapere cosa passi nella testa degli altri due!”
Erano tre amici che studiavano logica e sicuramente il barista li mandò dove voi già sapete bene, non ho bisogno di chiedervelo. Oppure sì? Meglio non dare nulla per scontato!
Quante volte si discute valutando le cose tutte bianche o tutte nere?
“Il cioccolato fa male! I migranti sono tutti fetenti! I politici sono tutti dei magna magna!” oppure: “La frutta e la verdura fanno bene! Gli alimenti biologici sono migliori di quelli industriali! Le canzoni di un tempo erano migliori di quelle attuali!”
Oltre al nero e al bianco, ci dice il logico pedante, c’è anche il grigio.
Il cioccolato fa bene ad alcuni, se preso nelle giuste dosi, e male ad altri. Tra i migranti ci sono moltissimi onesti e qualcuno disonesto. Tra i politici ci sono quelli che davvero lavorano con etica ed altri no! La frutta e la verdura fanno bene a molti ma non fanno bene a tutti. Non sempre gli alimenti biologici sono regolarmente controllati come quelli industriali. In tutti i tempi ci sono canzoni belle e canzoni meno belle, a seconda dei gusti!
La tanto trascurata zona grigia, durante molte delle discussioni nei social, ma non solo, anche nel quotidiano, viene pure chiamata “il terzo escluso” cioè quella via di mezzo spesso emarginata che, oltretutto, ha tante di quelle sfumature da fare invidia alle più note cinquanta di cinematografica memoria.
A proposito, io non l’ho visto quel film, com’era? Tutto bianco? Tutto nero? Già, perché i commenti che ho sentito, di grigio avevano ben poco, o tutti pro, o tutti contro.
Ma finché parliamo di libri, di cibo o di arte, si sa, i gusti sono gusti e non si viene a capo di nulla. Quanto invece ci può aiutare possedere quel minimo di logica che ci può salvare dagli assolutismi nelle discussioni più impegnative?
Perciò prendiamo nota: “E’ bene ricordarsi delle zone grigie o del cosiddetto terzo escluso quando argomentiamo, giacché la logica ha il pregio di farsene un baffo di chi sbraita e vuole aver ragione a tutti i costi. Con tutta calma può mettere al muro qualunque assolutista poiché quest’ultimo non potrà negare, se non per ottusità voluta, che non esistono cose tutte buone o tutte cattive, anche perché le cose in se stesse non sono né buone né cattive; tutto dipende dalla prospettiva dell’osservatore”.
Nei tempi antichi erano tutti più buoni, più saggi e meno violenti di oggi? Dipende dai punti di vista signori miei. Rispolverando la storia scopro che a Mileto, più di due millenni or sono, prima fu vittorioso il popolo che uccise le mogli e i figli degli aristocratici; poi prevalsero gli aristocratici che bruciarono vivi i loro avversari, illuminando le piazze della città con torce umane.
Mi ritiro nella zona grigia a cercare il terzo escluso!
natyan
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goodbearblind · 5 years
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Posted @withrepost • @accademiarcimboldo IPERREALISMO A FIRENZE Bottega dell’Arcimboldo Scuola d’Arte a Firenze di DOMENICO MILETO (@ arcimboldofirenze) ANNO ACCADEMICO 2019/2020 Info: 055/5535717 - 3408279515 www.florenceartacademy.it Disegno a grafite su carta liscia eseguito dall’artista e allievo di bottega @ waltermessina - #art #arte #artecontemporanea #artist #arts #artofinstagram #figurative #artwork #portrait #drawing #drawings #disegno #disegniamatita #painting #artistportrait #photooftheday #paintingart #artinfluencer #pitturacontemporanea #artisnotdead #iperrealismo #realismo #instaart #abstractart #drawingtutorial #italianartist #schoolofart #artacademy #fineart #contemporaryart Da rimanere a bocca aperta 😯😲😮👏👏👏 https://www.instagram.com/angrybeargram/p/Bvppat6FKfi/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=133p98l73uq52
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t-annhauser · 7 years
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Tutto quello che c’è da sapere su: I presocratici
Se siete ingegneri o sapete già come attaccare le mensoline coi fischer saltate pure questo articolo, non vi servirà, se invece a malapena sapete svitare una lampadina allora va bene, siete abbastanza imbranati per fare gli intellettuali e interessarvi delle fantasmagoriche avventure del pensiero.
Presocratici, per l’appunto, si dicono i filosofi che sono venuti prima di Socrate, con qualche importante eccezione (Democrito, Leucippo e Gorgia, tutti e tre morti dopo di lui), che cosa poi vi sia di così importante in Socrate da giustificare un prima e un dopo questo è ancora oggetto di dibattito. Se prendiamo come discrimine il fatto che con Socrate la filosofia smette di indagare la physis (pronuncia füsis, con la “ü” lombarda), allora non si capisce come mai nei presocratici rientrino i sofisti, se il vero discrimine è invece l’eroica morte di Socrate, martire della Verità, allora tutto quadra, ma solo in senso romantico, meglio sarebbe chiamarli “fisici” (e non si offendano gli scienziati).
L’archè. I presocratici cercano l’archè (dal greco arkhḗ, formidabili gli accenti), che è poi quell’elemento che rimane identico nel mutare degli altri elementi, il principio primordiale, il lievito madre dal quale prendono forma tutte le pagnotte. Perché il presocratico, come accennato, non si accontenta della spiegazione mitica, non cerca l’origine dei fulmini in Zeus, vuole spiegarsela piuttosto deducendola dall’osservazione della natura, un inizio ambizioso, bisogna dirlo.
I milesi. E qui comincia l’enumerazione dei presocratici: il primo fu Talete (che meriterebbe ben più di una riga), che riteneva che l’archè fosse l’acqua e che le cose si differenziassero solo per il diverso grado di umidità, poi venne Anassimandro (genietto incompreso), che indicò l’apeiron come archè, cioè l’indefinito, infinito e senza forma (se gli enti sono accomunati dall’avere una certa forma finita allora l’archè deve essere il loro esatto contrario), quindi Anassimene, per cui l’archè era il soffio vitale o qualcosa del genere. I tre si definiscono milesi perché guarda un po’ vissero tutti e tre a Mileto.
Pitagora. Pitagora invece ebbe grande fama per via del teorema e perché fondò un’importante scuola, la scuola pitagorica, la quale vedeva il numero in tutto e per i numeri aveva un’adorazione quasi mistica, gli aritmetici gli devono molto. Tutto è armonia di numeri (che il numero fosse dunque l’archè?), la musica delle sfere è una musica celestiale e dolcissima che però non cogliamo più per via dell’abitudine ad ascoltarla (acufene?). Di Pitagora si ricordino anche il rigido regime alimentare che imponeva a suoi discepoli per purificarli e l’avversione fatale per le fave.
Eraclito. Il preferito da Nietzsche e stimato da Hegel che ne accolse per sua stessa ammissione la teoria dei contrari, grande personalità, primo cantore del divenire: la strada in salita e in discesa è la stessa e la medesima, non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume (ne prevedere i cambiamenti di costume). Il mondo si regge sulla continua e necessaria opposizione fra contrari (polemos), gli enti si definiscono proprio in ragione della loro eterna opposizione, non vi sarebbe l’uno senza l’altro (così il giorno è tale perché vi è la notte, e viceversa). Il logos è questa legge profonda che governa il mondo, i dormienti non se ne avvedono, i sapienti sì, l’archè è il fuoco.
Parmenide. Il preferito da me, iniziatore della scuola eleatica, grande maestro di Zenone di Elea, quello dei paradossi. L’essere è, il non-essere non è, essendo che per sua stessa definizione il non-essere non esiste, tutto è essere. L’archè è dunque la totalità degli enti, l’Uno indiviso e indivisibile perché nulla può esservi al di fuori dell’essere. Il mutamento e la molteplicità degli enti è doxa, niente di più che un'opinione, il vero mondo è eterno e immutabile. Terribile e ieratico. 
I Pluralisti. Di pluralisti ce n’è d’avanzo, chiamati così perché scomponevano l’archè in una miriade di elementi che pur mantenevano la stessa qualità ontologica, un primo passo verso l’atomismo (anche gli atomisti erano pluralisti). Anassagora considera questa pluralità di elementi come spermata (semi), il nous (intelletto) è l’intelligenza divina che li muove (la carne era carne perché conteneva in maggioranza i semi della carne, l’acqua era acqua perché erano in maggioranza quelli dell’acqua, e così via). Empedocle invece scomponeva l’archè negli abituali quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua, i quali, spinti ad aggregarsi da amore e a separarsi da odio, le due forze cosmiche primigenie, andavano a formare tutte le cose del mondo. 
Democrito e gli atomi. La strada era dunque spianata per la comparsa degli atomisti Democratico e Leucippo, i quali, lungimiranti, si dicevano sicuri dell’esistenza degli atomi, parti delle cose non ulteriormente divisibili, anche per rispondere ai paradossi di Zenone sulla divisibilità infinita degli enti (se spezzi un bastone a metà e poi ne fai la metà della metà, ecc., finirai per dividerlo all’infinito: gli enti del mondo non esistono). Con l’occhio dei moderni si direbbe quella degli atomisti un’intuizione straordinaria, con gli occhi degli odierni fisici quantistici assistiamo invece più a una rivincita di Zenone che a una celebrazione dell’atomo di Rutherford, attualmente gli atomi si comportano più come eventi, come misteriosi grumi di forze dalla capricciosa natura probabilistica più che come punti indivisibili di materia.
I sofisti. I sofisti, invece, che appartengono ai presocratici solo cronologicamente (in realtà molti di loro erano contemporanei a Socrate), erano da considerarsi più come una scuola finalizzata all’insegnamento delle classi superiori, similmente agli odierni gesuiti o salesiani. A loro l’archè e la ricerca del principio unico della materia non interessava punto, si dicevano scettici riguardo alla possibilità di definire una qualsiasi verità assoluta in quanto avevano inteso che tutto è misura dell’uomo (Protagora), cioè lo sguardo soggettivo interpreta e modella il mondo a sua immagine e somiglianza, per cui l’opinione e la capacità di farla prevalere sulle altre è tutto quel che conta ed esiste. Socrate si può considerare una reazione a questa indifferenza sofista delle posizioni, per cui la verità scaturiva giusto dall’abilità di convincimento e non c’era una cosa più degna dell’altra, con quali risultati non si sa, forse servì il suo sacrificio così ben raccontato da Platone per generare un’emozione capace di renderne più saldi i principi, ma si sa che la filosofia non può vivere solo di questo.
Eventuali refusi e magagne fanno parte dell’opera, come nel caso del Grande Vetro di Duchamp (un giorno forse avrò i soldi per permettermi un correttore di bozze)
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lamilanomagazine · 2 years
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Vibo, il Col. Bruno Capece lascia il Comando Provinciale
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Vibo, il Col. Bruno Capece lascia il Comando Provinciale   Il Colonnello Bruno Capece lascia, dopo tre anni di servizio, il Comando dei Carabinieri di Vibo Valentia. Ora lo attende il prestigioso incarico di Comandante della Scuola Allievi Carabinieri di Campobasso. Tre anni vissuti intensamente sempre a fianco dei Suoi Carabinieri e in mezzo alla gente di un territorio tanto affascinante quanto complesso. Molti i successi operativi, su tutti la monumentale operazione “Rinascita-Scott” condotta con il Ros, ora in fase dibattimentale, ma anche la cattura di numerosi latitanti e il contrasto all’illegalità in tutte le sue manifestazioni. Convinto sostenitore del lavoro di squadra portato avanti sinergicamente con la Procura Distrettuale, ordinaria, le altre Autorità provinciali di Pubblica Sicurezza e la diocesi di Mileto, ha dedicato particolare attenzione agli studenti delle scuole della provincia promuovendo in ogni occasione incontri e dibattiti per diffondere un messaggio di riscatto e speranza per il futuro: un ciclo esaltante, un abbraccio affettuoso soprattutto di tanti giovani, si apre forse una pagina diversa e più importante per Vibo Valentia perché siamo certi che con i giovani al Nostro fianco si potrà fare veramente molto. Tante le operazioni di servizio, arricchite dalla cattura di numerosi latitanti, assicurati alla giustizia per dimostrare alla popolazione l’incessante impegno dell’Arma nella lotta al crimine organizzato al fianco della coraggiosa Autorità Giudiziaria.      ... Read the full article
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eliodibella · 4 years
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Le mie lezioni di filosofia: alcuni aspetti della scuola di mileto
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S. Oronzo protettore di Lecce e una sua "economica" rappresentazione iconografica.
di Armando Polito
Non a caso il primo esempio di logo, accompagnato o no da un motto,  dopo l’invenzione della stampa è costituito proprio dalle marche editoriali. In un’epoca in cui il concetto di deposito del marchio e il relativo istituto ancora non esistevano, l’esclusità dell’uso non era assicurata ed erano tutt’altro che rari i casi in cui la stessa immagine era adottata a tal uopo da editori diversi. D’altra parte, anche nei nostri tempi ogni tanto si ha notizia di controversie legali dovute a furti o plagi, reali o presunti che siano. L’ignoranza della legge, si sa, non vale, e da tempo immemorabile, come giustificazione e quella della pubblicità , da qualche decennio a questa parte, ancora meno, sicché è difficile farla valere come sinonimo di buona fede. Ci possono essere, tuttavia, dei casi limite, in cui a due o più persone in un arco di tempo estremamente breve può balenare la stessa idea più o meno sfruttabile economicamente. Risulta difficile in tal caso ricostruire la paternità prioritaria in assenza di documenti datati o databili con certezza e fa testo la data di deposito (ma non è detto che il depositante non sia stato uno spione …). Lo stesso, però, può avvenire anche nel caso in cui il divario temporale tra due o più creazioni sia notevole, sicché l’idea è unica pur non essendoci nessun legame, né d’influenza, né d’imitazione fra i singoli ideatori.
Dopo questa premessa teorica passo al concreto con una domanda: come articolereste la rappresentazione di un santo, volendo sottolineare la sua caratteristica di protettore di una determinata città? Molto probabilmente prevarrebbero le risposte in cui il santo appare nell’atto di benedirla da posizione elevata, possibilmente il cielo … o una nuvola.
Com’è noto, s. Oronzo, quale protettore di Lecce, subentrò nel 1656 a s. Irene, rea a quanto pare, di avergli lasciato il compito di proteggere la città dalla peste che infuriò quell’anno in tutto il regno, risparmiando solo quella provincia. Il frontespizio che segue è di una pubblicazione del 1526, della quale mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/28/lecce-sua-veduta-cinquecentesca-14/
Qui voglio solo mettere in risalto l’eloquenza di ogni dettaglio: SANCTA ERINA D(OMINA) LICII (S. Irene patrona di Lecce) per evitare qualsiasi problema di attribuzione, la proporzione volutamente esagerata della sua figura rispetto a quella della città,  i tre oranti a sinistra in primo piano: un frate (a rappresentare la comunità clericale), una donna ed un uomo quella laica. Del cielo e di tutto quello che si soprannaturale esso evoca qui non c’è nemmeno l’ombra.
Poi, come ho anticipato, ci fu il passaggio delle consegne e la sua prima rappresentazione fu quella del gallipolino Andrea Coppola con un dipinto che entrò nella cattedrale di Lecce il 17 dicembre 16561.
  Rispetto a quella di S. Irene direi che il pittore, interpretando forse un sentimento popolare in cui la paura che la santa spodestata potesse in qualche modo mostrare il suo spiacevole disappunto trovava conforto nel credere che il passaggio fosse stato deciso da un potere superiore a quello dei santi, ha introdotto interpreti tutti celesti  relegando allo sfondo, peraltro molto arretrato, l’immagine della città, con un distacco gestuale e, direi, sentimentale, nei suoi confronti assente nella tavola di S. Irene; e non è un caso che l’iconografia del secolo successivo abbia seguito questo modello.  Che la parte “ideologica” dell’inventio  sia quella mi pare evidente, per esempio,   nel dipinto attribuito a Giuseppe da Brindisi (XVIII secolo) custodito nello stesso tempio
o, e siamo già più avanti nel tempo, in quello del leccese Serafino Elmo (1696-1777), custodito, sempre a Lecce, nella chiesa di S. Croce,
oppure, dello stesso artista, in quello dell’altare del santo nella chiesa di S. Matteo.
Chissà se tra i preziosi ricami in filo incollato in alcuni dei quali la figlia Marianna riprodusse i suoi dipinti non ce ne sia pure uno che si riferisca a quest’ultimo. Il sospetto nasce dalla parziale affinità dei quattro che di seguito riproduco (solo il primo reca la firma dell’artista; gli altri, comunque, sono riferibili alla sua scuola), nonostante nei primi due librata su Lecce appaia s. Irene e  nel terzo l’identificazione con s. Oronzo del vescovo raffigurato contrasti con l’assenza della barba.
Ho parlato prima di sentimento popolare, ma ho il dovere di precisare che in questo, come in altri casi consimili, tale sentimento è indotto da un intervento più o meno condizionante e che il condizionamento è tanto più spinto quanto maggiore è l’autorevolezza di chi lo procura e di chi, poi, consapevolmente o meno, lo rafforza. Nel nostro caso il corresponsabile secondario sarebbe Domenico Schinia, un sacerdote di origini calabrese ricordato da Carlo Bozzi  nel suo I primi martiri di Lecce. Giusto, Oronzio e Fortunato, Micheli, Lecce, 1672. Cito, anche per alcuni dettagli, che ho evidenziato con sottolineatura perché evocano analoghi interrogativi attualmente suscitati dal Covid-19,  dall’edizione Mazzei, Lecce, 1714, pp. 104-106: Or queste memorie già tutte smemorate, e perdute dalla mente dei fedeli, piacque al Signore Iddio di ravvivarle, per accrescere le glorie di questi suoi santi servi, e particolarmente del glorioso vescovo S. Oronzio, allorquando nell’anno 1656 per punire le colpe del regno di Napoli, avendo attaccato una fierissima peste nella città Metropoli del medesimoRegno, e da quella essendo andata serpeggiando per l’altre città e provincie, doveva per ogni ragione restarne anco infetta quella di Lecce: particolarmente per li molti forastieri, e paesani, che fuggendo dal contagio di Napoli ne vennero appestati a ricovrarsi nella propria Patria. Ma essendo rimasta servita la Divina Misericordia di privilegiare ad intercessione dei nostri santi, non solo la città ma la provincia tutta di Lecce, con esimerla da un male così grande, volle anche il mondo tutto, e singolarmente i preservati conoscessero per qual mano venuta le fosse la grazia: che però dispose, che ritrovandosi in napoli per lo spazio di molti anni trattenuto dalla sacra Congregazione del Santo Officio in prova del suo spirito un venerando sacerdote Calabrese, della terra di Biatico, della Diocesi di Mileto, per nome D. Domenico Schinia, con lettera del Cardinal Francesco Barbarino de’ 19 giugno 1655, e dal Vescovo di Sora a 26 di Giugno dell’istesso anno, che fu pochi mesi prima del contagio, inviato ne fusse per decreto della medesima Congregazione a Monsignor Luigi Pappacoda nostro Vescovo, acciò come Prelato di gran senno, e sapere facesse nuova esperienza della sua celebrata virtù. E piacque al Signore Iddio, ancora che la venuta in Lecce di questo buon sacerdote molto tempo prima fosse stata predetta da una buona serva di Dio, monaca del terzo ordine di S. Domenico, per nome suora Massimilla Celonese di Lecce, morta nel primo febbraio dell’anno 1652, della quale scrivendo la vita il R. P. Baccelliere Fr. Domenico Maria Marchese dell’ordine de’ padri predicatori, nel suo sacro diario domenicano nel tomo primo delle vite de’ santi Padri dell’ordine de’ predicatori, racconta il fatto con queste parole: Il glorioso S. Oronzio, tutto che fosse stato il primo cristiano, e Vescovo della città di Lecce, permise nondimeno il Signore che stasse incognito, a segno che, non che altri, ma gli stessi Leccesi ne avevano perduto affatto la memoria,acciò con maggior gloria del santo, ed utile non solo di quella illustrissima città, ma di tutta la provincia d’Otranto si rendesse chiaro nell’anno 1656 difendendola, e liberandola dal fiero contagio, che in quell’anno infettò tutto il vasto regno di Napoli, con mortalità così grande, che si renderà incredibile a posteri. OR questa serva di Dio molti anni prima che ciò succedesse, esortava le signore Leccesi sue famigliari, che fossero divote di S. Oronzio, e non tenessero più scordata la sua memoria, che col tempo ne doveano avere di bisogno, ed allora sarebbe pubblicato il suo nome da un sacerdote forestiero. E ciò si esperimentò vero, quando un sacerdote Calabrese per nome D. Domenico, e di buona vita, trovandosi in Lecce l’anno del contagio pubblicò in nome di Dio le glorie di questo santo, e che già Dio pe’ suoi meriti volea liberare quella provincia da quella comune infezione, come successe, donde cominciò in tutta la Provincia la divozione verso il glorioso S. Oronzio, prima pubblicata da Suora Massimilla. Or questo servo di Dio D. Domenico Schinia mosso, come si pensa, da divino impulso per glorificare il gran martire Oronzio, predicendo da per tutto la immunità della peste, non solo alla città ma a tutta la provincia di Lecce, per intercessione del prenominato santo, prese con apostolico spirito a riscuoter dal seno dell’oblio, e la memoria,e la divozione di sì glorioso protettore, e secondando il Signore le predizioni del buon sacerdote con gli eventi d’una perfettissima salute per tutt’i luoghi della provincia, anche tra gli evidenti pericoli della peste, già introdotta da alcuni in più d’una parte ne’ loro medesimo corpi, quali però ne rimasero tosto liberi, cominciò a crescere in modo la pietà de’ popoli verso di S. Oronzio …    
Il manoscritto n. 9 della Biblioteca Provinciale di Lecce reca il titolo Rivelazioni di D. Domenico Aschinia e contiene il resoconto delle ventotto visioni apparse al sacerdote calabrese tra l’aprile ed il dicembre del 1656, in base alle quali egli è certo che la salvezza della provincia di Lecce dalla peste è dovuta al Signore per l’intercessione di s. Oronzo. Il manoscritto, datato 1756, è la copia di un originale  a firma di Giovanni Camillo Palma, letterato leccese del XVII secolo, arcidiacono della cattedrale e restauratore dell’Accademia dei trasformati. A sua volta il testo del Palma è traduzione dell’originale in latino andato perduto, a parte le pp. 33-39 che nel volume del Bozzi sono citate alle pp.  128-131.
Abbiamo letto Schinia nel Bozzi e Aschinia nel manoscritto, troviamo Schinnì in Bonaventura da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della Provincia di S. Nicolò, parte seconda, Chiriatti, Lecce, 1714,  dove al sacerdote calabrese sono dedicate le pp. 30-33.
Con un frontespizio ho cominciato e con un altro continuo.
Si tratta di una pubblicazione del 1658, dunque posteriore di appena due anni alla peste del 1656 ricordata, d’altra parte, nello stesso titolo. L’editore è Pietro Micheli attivo a Lecce dal 1631 al 1688 (anno in cui gli subentrarono gli eredi). La produzione dei suoi torchi è stata oggetto da parte mia di uno studio  che a a breve comparirà su questo blog; qui basta dire che accanto ad edizioni scarne ve ne sono altre impreziosite da frontespizi o da antiporte di un certo spessore2. È vero che all’epoca un rame aveva il suo costo, ma mi pare strano che Nicolò Perrone non abbia deciso e concordato con l’editore una riduzione del numero di pagine (sono ben 198; le prime 22, non numerate, contengono, nell’ordine, la dedica, l’argomento, l’indice degli autori citati da Abramo Ortelio a Zonario, l’imprimatur del vescovo Luigi Pappacoda e l’avviso al lettore) per rendere possibile di includere nel frontespizio un’immagine meno “economica” di quella che si vede prima degli estremi editoriali e replicata in calce all’ultima pagina.
Insomma, forse meritava di più un santo, come dice lo stesso autore nell’esporre l’argomento, tirato dalle ingorde fauci dell’ottenebrata oblivione, ove giacea sepolto, ed invocato con applausi universali, à voci di Viva tributate al suo nome per PROTETTORE contro la Pestilenza. E a p. 123, quasi a conferma della mia interpretazione di una pretestuosa giustificazione del passaggio dal culto di un santo a quello di un altro in nome di ragioni di ordine superiore : … laonde sorta orrida, e funesta Pestilenza, che sfiorisce con suoi squallidi fumi  le più belle, e vaghe Città dell’Europa, abbiamo avuto risposta da un’3 Oracolo Celeste, che si dovessero à questo Gran Martire trascurato celebrare le pompe  del suo Martirio, se illesi bramiamo mantenerci à gl’orridi fossi delle sue crude tempeste; e credo di certo, (e già te ‘l dissi) che come Atene all’indomito orgoglio di questo Mostro maligno, ergendo un’Ara, Ignoto Deo, fu libera dalla sua crudeltà, o Lecce, alzando magnifici Altari , e Tempi ad un Santo sconosciuto, (cioè per molto tempo non riverito, ed il suo culto trascurato à fatto) ti renderai esente dalla sua malignità.
Questa lacuna editoriale verrà colmata, stando a quanto son riuscito a reperire, solo con l’antiporta dell’opera del Bozzi nell’edizione uscita per i tipi degli Eredi di Vincenzo Marino a Lecce nel 1835.
L’incisione è del napoletano Raffaele D’Angelo, come si legge fuori campo in basso a destra. Manca il nome del disegnatore4. Faccio notare come la composizione sembra articolata allo stesso modo dell’ultimo dei ricami di Marianna Elmo prima presentati.
E, per tornare all’assunto iniziale e non risparmiarci fino in fondo nessuna domanda, concludo chiedendo: siamo veramente sicuri che l’anonimo autore del disegnino del nostro frontespizio non sia stato suggestionato, mutatis patrono eventuque5, al di là della soluzione compositiva più o meno banale che a parecchi verrebbe in mente, dalla tavola che segue incisa da Nicolas Perrey e che è a corredo di Gianbernardino Giuliani, Trattato del Monte Vesuvio e de’ suoi incendi, Longo, Napoli, 1632?
E  la rappresentazione dell’Elmo sarà stata totalmente indipendente, mutato patrono locoque6, da quella di Luca Giordano (1634-1705) custodita a Napoli nel museo di Capodimonte (di seguito in vista comparativa)?
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1 Luigi Giuseppe De Simone, Lecce e i suoi monumenti descritti ed illustrati, p. 101 nota 8.
2 La figura del santo, fra l’altro, era apparsa ventiquattro anni prima nel frontespizio di Lecce sacra dell’Infantino.
3 Sic; s’incontra spesso in testi a stampa di quell’epoca, ma non è una buona scusa, ora che l’ho detto, per ripristinarlo …
4 Il D’Angelo, comunque, lavorò molto in tandem con il romano Luigi Agricola. Di seguito tre loro opere.
5 Inutile cercare questa locuzione latina da qualche parte. L’ho inventata io e la traduzione è: cambiati il protettore (qui è S. Gennaro) e l’evento (qui è l’eruzione del Vesuvio del 1631).
6 Mutato il protettore e il luogo (s. Oronzo invece di s. Gennaro e Lecce invece di Napoli).
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culturaesocieta · 4 years
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unuraganodiricordi · 7 years
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La parola “arché” significa “principio” e sta a indicare una realtà unica ed eterna intesa come la materia immaginaria da cui tutte le cose derivano, la forza che le ha generate e le anima e la legge che spiega la loro nascita e morte. Su questo pensiero si basavano i primi filosofi, nonché pensatori ionici. Il fondatore della scuola ionica è Talete di Mileto (fine VII sec a.C.). Contemporaneamente a Talete fu Anassimandro, che individuò l’ “archè” in qualcosa di indeterminato e infinito dal quale tutte le cose avevano origine e tornavano a dissolversi una volta finito il ciclo per esse stabilito. Questo “infinito” è chiamato “ápeiron” da Anassimandro ed è qualcosa di quasi divino poiché immortale è indistruttibile. Questa materia informe oltre a essere infinita è anche indefinita poiché gli elementi che la compongono non sono ancora distiniti. Anassimandro si interroga inoltre sul processo attraverso il quale le cose derivano dalla sostanza primordiale. Questo processo nello identifica nella separazione, di fatto lui è convinto che la sostanza infinita sia animata da un eterno movimento, grazie al quale i contrari si separano e danno origine a tutte le cose. Grazie a questo processo di separazione si generano infiniti mondi che si succedono in un ciclo eterno. C’è solo una legge che da limite alla vita del mondo e delle cose poiché è una punizione per un’ ingiustizia commessa. Quest’ingiustizia probabilmente è la nascita poiché porta alla separazione della sostanza infinita. Questa legge cosmica regola il ciclo nascere e morire delle cose e dei mondi. In contrapposizione ad Anassimandro, Anassimene riconosce il principio “arché” in una materia determinata, l’aria, ma gli da’ i caratteri individuati dal filosofo precedente (quindi l’infinità e il movimento incessante). L’aria è vista come la forza che anima il mondo, quest’ultimo considerato da Anassimene come un animale gigantesco che respira (il respiro è vita e anima). Dall’aria nasce tutto ciò che è stato e che sarà (anche divino) grazie al doppio processo di rarefazione e condensazione. Anche Anassimene accetta quindi la nascita e la ciclicità del mondo, quindi il suo dissolversi periodico nel principio originario è il suo periodico rigenerarsi da esso.
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