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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Il cacciatore di anime di Angelo Stramaglia. Un thriller tra enigmi e misteri senza tempo. Recensione di Alessandria today
Con "Il cacciatore di anime", Angelo Stramaglia ci trascina in un��avventura mozzafiato che fonde thriller investigativo, enigmistica e misteri medievali.
Con “Il cacciatore di anime”, Angelo Stramaglia ci trascina in un’avventura mozzafiato che fonde thriller investigativo, enigmistica e misteri medievali. Il romanzo cattura il lettore in un’indagine serrata che attraversa i secoli, portandolo a riflettere sulle ombre del passato e sulle sue connessioni con il presente. Trama del libro Nella città di Dreamhole, gli investigatori Sam Lowell e Jim…
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pangeanews · 4 years ago
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“Sono attratto dal caos”. Dialogo con Rudy Wurlitzer. Benedetto da Thomas Pynchon, ha scritto per Sam Peckinpah e Bernardo Bertolucci
Quando chiedo di intervistarlo, mi dicono che è on the road. Sulla strada. Fuori dal mondo. Dal tempo. Poi. Riemerge. Avete presente Johnny Depp che in Dead Man si fa chiamare William Blake e naviga su una canoa, al margine del regno dei morti, stordito, in un Far West di desolante nitore? Beh, alle spalle del più bel film di Jim Jarmush c’è lui.
C’è lui, in effetti, anche nella pellicola epica di Sam Peckinpah, Pat Garrett & Billy the Kid; ed è sempre lui che scrive Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci e aggiusta il testo di Dune, griffa David Lynch. Solo che a Rudolph ‘Rudy’ Wurlitzer, classe 1937, tra gli scrittori più originali degli States, nato alla letteratura con Nog, nel 1968, battezzato da uno come Thomas Pynchon («Speriamo che il Romanzo delle Cretinate sia morto, speriamo che una nuova luce sia sorta, perché Wurlitzer è uno bravo, bravo davvero»), le etichette non piacciono. Fugge a tutti. Resiste tra gli inafferrabili. Così, svezzato alla sapienza narrativa a Maiorca, da un maestro come Robert Graves, scrive libretti per Philip Glass e quando, dopo troppi anni – l’ultimo romanzo, Slow Fade, è del 1984 –, nel 2008, per la casa editrice indipendente Two Dollar Radio, se ne esce con The Drop Edge of Yonder, è una ovazione generale, ne scrivono come del «più allucinato dei western, che mescola furiosamente il Sutra del Cuore a Meridiano di sangue». Dieci anni dopo, come Zebulon, il nome del protagonista, un Don Chisciotte screziato dai morti in un West dilaniato dagli enigmi, il romanzo di Wurlitzer arriva in Italia (Fandango/Playground, 2018). Un libro di corrotta bellezza, di «coscienza dissolta in ombre sognanti e apparizioni su cui non aveva alcun controllo». Dell’esito delle sue creazioni, gusci di notte istoriati con parole di salvezza e anatemi, d’altronde, Rudolph non si cura, è uno che corre. D’altronde, «il destino… è una specie di schiavitù», dice uno dei suoi controeroi, a precipizio nel grido.
Zebulon è un western mistico, che fonde l’etica buddhista all’epica violenta di Peckinpah… è così?
«Mi sono sempre occupato di Far West e mi ha sempre appassionato il tema di quel che resta della nostra natura selvaggia, provando a separare l’essenza del sé dalle abitudini culturali. Dal momento che sono nato e cresciuto a New York, in un ambiente musicale (mio padre era un esperto di vecchi strumenti a corda con tastiera), in qualche modo i miei viaggi solitari verso l’Ovest degli Stati Uniti hanno rappresentato la mia iniziazione all’esperienza dell’esplorazione, che è a sua volta una specie di musica interiore. Quando mi hanno presentato a Sam Peckinpah, vivevo nel New Mexico e mi stavo appassionando alla storia del vecchio West. Leggevo molti libri sulla vita nel vecchio West e anche le lettere vergate a mano dagli esploratori, e quelle letture hanno influenzato alcuni dei miei personaggi cinematografici così come la loro lingua ossessiva e informale. Mi affascina da sempre, inoltre, la letteratura taoista e buddista e le sue relazioni con la forma e con il vuoto. A Bertolucci hanno fatto il mio nome, presentandomi come uno degli sceneggiatori in grado di scrivere Piccolo Buddha perché legato in più modi al tema e perché avevo vissuto in India e in Nepal».
Come le è venuto in mente il personaggio di Zebulon Shook e questo romanzo lisergico, che sta tra Cormac McCarthy e Philip K. Dick? Insomma, cosa le piace leggere?
«Ho letto pochissimo di Cormac McCarthy e di Philip K. Dick. Ho letto soprattutto romanzi dell’Ottocento alternandoli a Samuel Beckett e James Joyce. Sono stato influenzato anche da Gabriel García Márquez, Genet, Nabokov, Rimbaud, Hermann Hesse e i russi: Tolstoj e Dostoevskij, ma anche Camus, Kafka e Nietzsche. E naturalmente anche da Hemingway – il suo stile intenso e criptico ha influenzato le mie sceneggiature – e poi ci sono le avventure di Proust e Melville, che non ho mai smesso di leggere».
So che è stato per un periodo il segretario di Robert Graves: come è accaduto? Graves ha influito sulla sua scrittura?
«Non ho mai lavorato direttamente per Robert Graves: eravamo vicini di casa a Maiorca, dove andavo quando avevo vent’anni. Mi ha influenzato nelle letture, incoraggiandomi a scrivere frasi brevi e chiare, un consiglio che mi è stato utile quando è arrivato il momento di scrivere sceneggiature. Mi sono dedicato al cinema per potermi permettere di continuare a scrivere romanzi sperimentali, eccentrici, lontanissimi dal mainstream, che all’epoca scrivevo e che ancora scrivo nella solitudine di Cape Breton, in Nuova Scozia dove ho un capanno che si affaccia sulla solitudine dello Stretto di Northumberland».
Che rapporti ha con la letteratura statunitense contemporanea? La legge, le interessa, intrattiene dei rapporti di amicizia con gli scrittori di oggi?
«Ho parlato spesso di narrativa americana contemporanea con due vecchi amici, che però sono morti: Mike Herr, l’autore di Dispacci, e Sam Shepard con cui ho condiviso alcune esperienze cinematografiche e anche la frequentazione degli ambienti newyorkesi quando era ancora possibile conversare con artisti del calibro di Claes Oldenburg, Philip Glass e Robert Frank, un vecchio amico che cercava anche lui di forzare le convenzioni artistiche e con cui ho lavorato a molti film, compreso Candy Mountain, che abbiamo codiretto, insieme ad altri corti cinematografici improvvisati».
In un momento del romanzo, Delilah dice, «Siamo tenuti insieme da un destino sul quale non abbiamo alcun potere». Lei la pensa così? Che senso ha, per lei, la vita? Cos’è il destino? È più forte la furia del caos o esiste un ordine nel mondo?
«Sono attratto dalla letteratura e dall’arte che affrontano l’impermanenza, il caos, così come la forma legata al vuoto e viceversa, in particolare in questi tempi frenetici in cui il mondo sembra avviato verso un’apocalisse globale. Anche da bambino, quando vivevo in un ambiente sicuro, sorretto da una famiglia generosa, ero interessato a sabotare le forme accademiche, contemplando e accogliendo l’impermanenza e le illusioni della permanenza. Pronti o meno, tutto scorre. Anche la vita».
Davide Brullo
*In origine, l’intervista è uscita in forma leggermente diversa su “il Giornale” del 26 novembre 2018
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alchimilla · 5 years ago
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• Covid-19 • Le profezie sul virus e la fine del mondo
La vita ai tempi della pandemia - Mondo, Zona Rossa / giorno 110
Tra le pagine del mio diario pandemico, non poteva mancarne una dedicata alle profezie sull’avvento del virus.
Quello delle profezie è un argomento estremante affascinante, che fa parte della storia dell’uomo sin dall’antichità. E poi, io stessa faccio profezie, e dunque l’argomento, è per me doppiamente affascinante.
Dall’omerica bellissima Cassandra, ai profeti biblici, passando per l’ultra-criptico Nostradamus, e poi il Ragno Nero (o Monaco Nero), e la Monaca di Dresda, fino ad arrivare a tempi più recenti, profeti e veggenti hanno sempre avvisato il mondo sull’incombenza di pericoli, imminenti o futuri, ma il destino delle profezie, si sa, è quello di essere ascoltate solo dopo che si sono realizzate, come se l’uomo, scegliesse consapevolmente di lasciarsi cadere nel baratro, anche quando potrebbe fare qualcosa per evitarlo.
Ma torniamo alle profezie.
Quelle che seguono, sono le profezie più straordinariamente sorprendenti ed esatte, che riguardano l’avvento del Covid-19 nel mondo. E che ne hanno descritto non solo l’anno del suo arrivo, ma anche i sintomi, con precisione quasi chirurgica.
Ed è interessantissimo notare, che tutte quante, coincidono sul periodo di scomparsa del virus: l’estate, anche se coloro che le hanno fatte, hanno vissuto in periodi molto diversi, e sono di cultura molto diversa.
- 1981 (39 anni prima di Covid), la profezia di Dean Koontz sul virus “Wuhan 400” del 2020:
<< Uno scienziato cinese di nome Li Chen fuggì negli Stati Uniti, portando una copia su dischetto dell’arma biologica cinese più importante e pericolosa del decennio.
La chiamano ‘Wuhan-400’, perché è stata sviluppata nei loro laboratori di RDNA vicino alla città di Wuhan, ed era il quattrocentesimo ceppo vitale di microorganismi creato presso quel centro di ricerca>>.
Questo brano è tratto dal romanzo thriller “The Eyes of Darkness” che lo scrittore americano Dean Koontz scrisse nel 1981.
Nel libro, Koontz scrisse anche che
<<intorno al 2020, una grave polmonite si diffonderà in tutto il mondo>> e che questa è <<in grado di resistere a tutte le cure conosciute>>.
Il virus Wuhan-400, venne inoltre definito dall'autore come << un’arma perfetta che colpisce solo gli esseri umani>>.
Koontz pubblicó più versioni del romanzo “The Eyes of Darkness”: nella prima, quella originale del 1981, lo scrittore faceva riferimento alla città sovietica di Gorki e il virus si chiama ‘Gorki-400’.
La città divenne invece “Wuhan” nell’edizione del libro del 1996, dato che l’Unione Sovietica ormai non esisteva più, e la Cina sembrava una fonte più credibile.
- 2008 (12 anni prima di Covid), la profezia di Sylvia Brown sul virus polmonare del 2020:
<<Entro il 2020, gireremo con mascherine e guanti, per via di un’epidemia di polmonite. Diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali, e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia, sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, quasi in maniera più sconcertante della malattia stessa, improvvisamente in estate svanirà, con la stessa velocità con cui è arrivata, per poi tornare nuovamente dopo dieci anni, quando poi scomparirà definitivamente>>.
Queste parole sono tratte dal libro “End of a days” (a pagina 210 della versione inglese originale), pubblicato nel 2008 da Sylvia Browne, celebre scrittrice, veggente e medium americana, morta nel 2013, che ha scritto decine di libri basati sulle sue doti medianiche (che erano comparse già da bambina), e pubblicati in tutto il mondo. La Browne ha inoltre collaborato, come consulente, con polizia ed FBI, ad oltre 100 casi di sparizioni ed omicidi.
- 1555 (465 anni prima di Covid), la profezia di Nostradamus sul virus e la fine della pandemia in Italia al 1’ luglio 2020 [sestina 11-30 e quartina C.II Q.53]:
<<Dal Polo Nord, grande calamitá sarà in Italia (Esperia), in Lombardia (Insubre).
Come una tempesta d’acqua che si abbatte su una nave: peste terribile inizierà quando Mercurio si troverà retrogrado in Acquario, e finirà quando Saturno lascerà l’Acquario (il 1’ luglio 2020, perchè Sarurno lascia l’Acquario ed entra nel Capricorno il 1’ luglio 2020>>.[Quartina C.II Q.53].
Nella sestina 11-30, inoltre, Nostradamus parla chiaramente di <<un ‘medico’ e di un ‘grande male’ che porterà ‘infermità da costa a costa’ (la diffusione della pandemia in tutto il mondo)>>.
Dunque Michel de Nostredame, alias Nostradamus, celeberrimo astrologo, veggente, scrittore, farmacista e speziale francese, nel suo libro “Centuries et prophéties” del 1555, predisse l’arrivo di una tremenda peste nel mondo e in Italia, e più precisamente, in Lombardia, ma predisse anche la fine di questa pestilenza: il 1’ luglio 2020, una data che coincide col periodo di fine epidemia profetizzato anche dalla Browne, che fissa la fine del virus con l’estate del 2020.
- 22 agosto 2019 (4 mesi prima di Covid), la profezia di Abighya Anand sulla pandemia di Coronavirus, tra novembre 2019 e aprile 2020:
Abhigya Anand è un ragazzo indiano di 14 anni, ed è anche un giovanissimo astrologo, molto noto in India, e considerato un ragazzo prodigio, attendibile, dai media indiani, per le sue straordinarie conoscenze di astrologia vedica.
Il 22 agosto del 2019, aveva predetto la pandemia di Coronavirus in un video pubblicato sul suo canale YouTube, in cui annunciava che una malattia, trasmessa attraverso starnuti e tosse, si sarebbe diffusa in tutto il mondo da novembre 2019 ad aprile 2020, e che la Cina, epicentro dell’epidemia, sarebbe stata uno dei paesi più colpiti.
Poi aveva aggiunto anche che il virus, sarebbe diventato più facilmente gestibile, su scala globale, dal 29 maggio 2020, e sarebbe poi scomparso definitivamente il 5 settembre 2020, dopo una lenta decrescita a partire dal 31 marzo, apice della pandemia.
La sua previsione si basa su una serie di calcoli molto complessi, scritti su una lavagna, che poi il ragazzo ha spiegato attraverso il movimento degli astri.
Anand parla di una sovrapposizione dei pianeti del sistema solare, ovvero Marte, Giove e Saturno, e sottolinea la presenza di Rahu, il nodo nord della Luna, che ricorda essere legato alla simbologia dell’acqua. “Questo è un raro accadimento”– spiega il 14enne – “Marte Saturno e Giove sono tutti nel cerchio più esterno del sistema solare. Quindi quando sono tutti allineati, il loro potere sulla Terra è enorme”.
Si tratta, dunque, di una rarissima congiunzione astrale, che ha dato il via, sulla terra, ad una vera guerra trasmessa attraverso l’acqua (riferimento alle modalità di trasmissione del virus, che sono, appunto, tosse e starnuti).
- 10 febbraio - 11 marzo 2020, le mie profezie sull’arrivo di Covid e sulla fine della pandemia:
Il 10 febbraio 2020, quando ancora nel mondo si pensava che Covid-19 fosse solo in Cina, ho guardato nella mia ossidiana argentata per vedere cosa sarebbe successo col virus. Lo scenario che mi si è presentato è stato apocalittico. Ho visto una specie di cripta sotterranea, simile ad un bunker o ad una catacomba, con pavimento e pareti di roccia. All’ingresso di questa cripta c’erano due teste di demoni evanescenti come fantasmi, molto arrabbiate, e ho visto anche visi di persone spaventate che urlavano e stavano male. Fuori da questa cripta, c’era una specie di nebbia o fumo biancastro, strade deserte, edifici abbandonati che cominciavano ad andare in rovina. Alberi ed erbacce incolti che crescevano nei prati e sui muri. Poi è comparso molto in grande su tutta la pietra un pezzo del sigillo di Lucifero, col triangolo con la punta al contrario. Infine, sul retro della mia ossidiana, ho visto una grande statua di donna nuda, uguale alla statua pagana che rappresenta la Dea, e poi due visi, non so se demoni o esseri umani, di profilo, molto sofferenti, arrabbiati.
Il 21 febbraio 2020 (l’epidemia di Covid, in Italia, è scoppiata ufficialmente la notte del 20 febbraio 2020 a Codogno, e solo dal 21 febbraio in poi, hanno cominciato a circolare le prime notizie sul virus tra i media italiani), in una successiva divinazione, ho visto anche l’interno di un ospedale, che era deserto, e, in fondo ad una corsia, senza medici, infermieri, nessuno, c’era un box chiuso di quelli per il biocontenimento, con i vetri bianchi opachi. Dentro a questo box, vedevo agitarsi delle persone, vedevo, dietro ai vetri spessi, le loro sagome agitarsi e battere con le mani sui vetri. Erano stati chiusi dentro, perché infetti, e non potevano uscire. Poi ho visto le guglie gotiche del duomo di Milano, e sopra il duomo un piccolo sole rosso fuoco, il cielo sembrava bruciare e il duomo era annerito, scheletrico. Ho visto poi, molto in grande, in centro alla pietra, i volti di alcuni malati, avevano il viso molto scavato, gli occhi cerchiati di nero, mi fissavano spaventati...avevano i capelli neri scarmigliati.
Ho visto inoltre militari pattugliare strade deserte, e molte persone in rivolta, che davano fuoco e rompevano edifici, alti palazzi come grattacieli. All’epoca pensavo si trattasse di qualche megalopoli cinese, solo verso maggio, ho invece capito (tramite le notizie dei media) che le rivolte che ho visto a febbraio nella pietra, non erano in Cina, ma negli Stati Uniti.
E poi ho fatto altre divinazioni sul virus, fino ad arrivare a quella dell’11 marzo 2020, che ho pubblicato qui il 15 marzo, e in cui spiegavo che dal 29 aprile 2020 i contagi avrebbero avuto un significativo calo (cosa poi confermata al 30 aprile dal bollettino della Protezione Civile, di cui ho già parlato a suo tempo), e, dal 21 giugno 2020 l’epidemia, in Italia, avrebbe cominciato lentamente ad esaurirsi, cosa che si sta verificando dato che, da alcune settimane, i medici hanno scoperto, nei pazienti, una versione genetica di Covid diversa e indebolita, che dà sintomi lievi, e che non necessita più di ricovero ospedaliero.
Ad ulteriore conferma della straordinaria precisione della mia pietra, il 20 giugno 2020 (notate bene questa data, perché richiama quella che mi ha dato la mia ossidiana), l’OMS cambia le linee guida su Covid-19 finora in uso, relative ai tamponi, e comunica che:
<<non è più necessario il doppio tampone negativo, a distanza di almeno 24 ore, per decretare la guarigione di un paziente, poiché, adesso, bastano tre giorni senza sintomi per liberare i pazienti dall’isolamento, indipendentemente dalla severità dell’infezione, quindi, le nuove direttive sono:
_ per i pazienti sintomatici: 10 giorni dopo l’insorgenza dei sintomi, più almeno 3 giorni senza sintomi (incluso senza febbre e senza sintomi respiratori).
_ Per i pazienti asintomatici: 10 giorni dopo il tampone positivo>>.
Questo cambiamento nelle linee guida dell’OMS, si deve al fatto che, in base ai recenti risultati su versioni genetiche diverse e indebolite di Covid, il virus attivo, ovvero quello che può replicarsi e infettare altri soggetti, non sarebbe presente, se non in rarissimi casi, nei campioni respiratori del paziente dopo 9 giorni dall’insorgenza dei sintomi da coronavirus. Questo avviene soprattutto in casi di infezione lieve, contestualmente alla formazione di anticorpi neutralizzanti. Il paziente viene quindi reso libero dall’isolamento sulla base di criteri clinici, e non più sulla ripetizione dell’esame del tampone. Questo può infatti continuare a trovare tracce non vitali di RNA per diverse settimane, anche se non pericoloso.
Che dire, dopo innumerevoli strafalcioni e figuracce sul virus, anche l’OMS ne ha finalmente azzeccata una.
Meglio tardi che mai.
E adesso, dulcis in fundu, ma in realtà non c’è nulla di “dulcis”, le profezie sulla fine del mondo.
Alcuni giorni fa, è circolata in rete la notizia secondo cui la “fine del mondo” fissata dai Maya per il 21 dicembre 2012, in realtà sarebbe avvenuta il 21 giugno 2020, il tutto per un errore di calcolo (nostro eh, non dei Maya, popolo straordinario, evolutissimo, che ha formulato calcoli matematici e astronomici perfetti e impossibili per le conoscenze e i mezzi dell’epoca, si parla del 2000 a.C.):
il cambio tra calendario giuliano e gregoriano, avvenuto nel 1582, avrebbe fatto perdere 11 giorni all'anno nell'interpretazione del calendario Maya, per un totale di 8 anni di scarto. Così dal 21 dicembre 2012 si arriverebbe al 21 giugno 2020.
Ovviamente, il mondo non è finito, dato che siamo ancora tutti qui, ma ciò a cui i Maya si riferivano, con la loro profezia, non era alla fine del mondo in senso letterale, ma bensì alla fine di un ciclo, e all’inizio di uno nuovo, un ciclo molto oscuro e travagliato per l’umanità.
Questo volevano dire i Maya. E come sempre, non hanno sbagliato.
Dal 2012 in poi, infatti, non è che le cose, nel mondo, siano andate proprio benissimo, e riguardo a questo 2020, i segni di una futura (imminente?) Apocalisse, in realtà ci sono tutti. Qualche esempio? Dalla pandemia di un virus letale, ai terremoti, allo sciame di locuste, ai disastri ambientali. Direi che mancano solo i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse.
Ma vediamone qualcuno di questi segni apocalittici, in dettaglio:
- 29 dicembre 2019: la cometa C/2017 T2PansSTARRS sta passando alla minima distanza dalla terra, si trova infatti a 227 milioni di chilometri. Le comete, da sempre, sono portatrici di sventure. E infatti, siamo alla vigilia dello scoppio ufficiale dell’epidemia di Coronavirus in Cina.
- 30 dicembre 2019: si diffonde la notizia di numerosi contagi a Wuhan, in Cina, dovuti ad un’epidemia di un virus polmonare sconosciuto.
- gennaio-giugno 2020: cominciano una serie di terremoti di magnitudo molto elevata in tutto il mondo (Caraibi, magnitudo 7.7, a gennaio 2020, Turchia Orientale, magnitudo 6.8, sempre a gennaio 2020, Albania, magnitudo 5, ancora gennaio 2020, Russia, magnitudo 7.5, marzo 2020, Roma, magnitudo 3.3, maggio 2020, e, ultimo terremoto registrato, Messico, magnitudo 7.7, giugno 2020).
- 20 febbraio 2020: in Africa si sta verificando la peggiore invasione di cavallette del secolo.
Un immenso sciame di 200 milioni di locuste, da oltre un mese, sta devastando raccolti e vegetazione, divorando in un solo giorno una quantità di cibo pari a quella che consumerebbero 90 milioni di persone. Dall’Africa orientale, le cavallette si sposteranno poi in Medio Oriente, Asia, India, fino ad arrivare in Sardegna.
- 6 aprile 2020: scoppia un incendio nella foresta che circonda la centrale nucleare di Chernobyl. Si innalzano i livelli di radioattività.
- 29 maggio 2020: crolla un serbatoio di carburante in una centrale elettrica vicino alla città di Norilsk, in Siberia, e 20.000 tonnellate di petrolio finiscono nel circolo polare artico. Le foto sono impressionanti, e sinistre. Mostrano un’immensa macchia rosso sangue, nell'acqua del fiume Ambarnaya.
Ed ecco l’ultima profezia su una nuova catastrofe alla fine del 2020, prestatele molta attenzione:
• 10 giugno 2020: Anand, il ragazzino prodigio indiano che aveva previsto il Coronavirus ad agosto 2019, fa un’altra tremenda previsione:
<<Tra la fine del 2020 e marzo 2021, l’umanità andrà incontro ad una nuova catastrofe, molto peggiore della pandemia di Covid-19.
E questa volta, la responsabilità, sarà dell’allineamento Saturno-Giove (e anche, della cattiveria dell’uomo sulla natura e sugli animali, aggiunge Anand. Se l’uomo non metterà un freno alla propria ferocia e avidità, scomparirà dalla terra.
E questo, coincide molto anche con le figure di demoni che ho visto io nella mia prima divinazione sul virus, e anche con quanto mi ha rivelato Adam -la bambola a cui è attaccato uno spirito molto potente, un Djinn, che mi ha sempre rivelato con esattezza diverse cose future - un mese fa circa, in un sogno, in cui mi ha detto che “trascorreremo un Natale ‘normale’, senza virus, ma se l’uomo continuerà ad essere malvagio, il virus tornerà, e questa volta, per l’umanità, non ci sarà scampo”)
Anand non ha ancora rivelato di che catastrofe si tratterà, ma cosa c’è di peggiore della pandemia di un virus letale? Una guerra nucleare? Un meteorite? Un terremoto che spaccherà in due il pianeta?
Guarderò anch’io nella mia pietra, per vedere se mi mostrerà qualcosa a riguardo.
Nel frattempo, cerchiamo di uscire tutti vivi da questo 2020 da incubo.
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bibliotecasanvalentino · 2 years ago
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Ed eccoci di nuovo qui con la rubrica a cadenza mensile e precisamente l'ultimo giorno di ogni mese, curata dalla nostra utente e amica Valentina Pace
Questa rubrica nasce anche e soprattutto da una riflessione che ci accompagna da un po' di tempo: per una "piccola" biblioteca di un piccolo paese non è sempre facile stare al passo con le richieste, i suggerimenti, le necessità degli utenti e non. Per questo motivo, con l'aiuto di Valentina scopriremo nuovi autori e nuove letture, consigli e spunti di riflessione, insieme a curiosità e notizie sui nostri cari libri. E allora, diamo il benvenuto a questo nuovo spazio culturale dove si viaggerà alla scoperta delle case editrici indipendenti: ʟᴇᴛᴛᴜʀᴇɪɴᴅɪᴇ (a darci l'idea è stata Misstortellino con il suo progetto #indiebooks).
La casa editrice di questo mese è: Emons Libri & Audiolibri
Buona lettura a tutti!
LA SINFONIA DI FUOCO di Oliver Buslau
Uno dei ricordi più belli della mia infanzia è legato ai giorni di festa, quando al risveglio mia sorella Annalisa accendeva il registratore in salotto e, da vari punti della casa, impegnati in varie attività, ascoltavamo le sinfonie dei più grandi musicisti: Mozart, Čaikovskij, Vivaldi, Chopin e poi lui, il preferito di tutti: Ludwig van Beethoven. Capite bene che, quando ho visto nel catalogo della casa editrice Emons “La sinfonia di fuoco” di Oliver Buslau, un romanzo che racconta le modalità della prima esecuzione pubblica della Nona sinfonia del grande compositore tedesco, mi sono sentita in dovere di leggerlo e presentarvelo!
Il romanzo inizia nel 1874 quando il giovane Franz, violinista di indubbio talento, chiede al nonno Sebastian Reiser di raccontargli in quale occasione ha avuto l’onore di conoscere Ludwig van Beethoven. Insieme a Reiser, noi lettori facciamo un salto nel passato fino al 1824, anno in cui il grande compositore tedesco sta preparando a Vienna l’esecuzione del suo ultimo capolavoro: la Nona sinfonia.
Sebastian è un giovane di belle speranze che si trova ad affrontare una situazione difficile: la morte improvvisa del padre insieme a quella del suo mecenate, il nobile von Sonnberg, lo costringono ad abbandonare il castello in cui è cresciuto e a mettere da parte, almeno momentaneamente, il sogno di sposare Theresia, figlia di von Sonnberg e di diventare amministratore delle sue proprietà.
Reiser si reca a Vienna per risolvere il mistero di un criptico messaggio lasciato da suo padre prima della sua morte che riguarda Beethoven e la sua sordità. Nella città asburgica si respira un clima molto pesante. Pochi anni prima, nel 1815, i grandi d’Europa si sono riuniti per il Congresso che ha cercato di cancellare con un colpo di spugna tutti i mutamenti legati alla Rivoluzione francese, alle guerre napoleoniche e ripristinare gli antichi privilegi. Ecco che, in un’atmosfera così opprimente, la Nona sinfonia, con il suo messaggio di pace e fratellanza, così rivoluzionaria per i canoni dell’epoca, suscita reazioni contrapposte: da una parte i solerti funzionari statali agli ordini del cancelliere Metternich vedono in essa messaggi oscuri e pericolosi per l’ordine costituito e tentano in tutti i modi di impedirne la rappresentazione; dall’altra, confraternite segrete di studenti universitari ordiscono mortali attentati contro l’odiata aristocrazia.
Senza lavoro e sospettato di sedizione dalla polizia, grazie ai suoi studi musicali, Reiser trova posto come violista nell’orchestra che eseguirà la Nona sinfonia e riuscirà a conoscere il suo idolo.
“La sinfonia di fuoco” è un thriller storico che ha tutti gli elementi del romanzo d’avventura: una trama rocambolesca ricca di inseguimenti, omicidi, misteri e, nonostante sia un’opera di finzione, è caratterizzata da una ricostruzione storica molto precisa.
COSA MI È PIACIUTO
Ho apprezzato la trama avventurosa e, durante la lettura, mi sono emozionata ogni volta che entrava in scena Beethoven con la sua criniera leonina e il collo taurino.
COSA NON MI È PIACIUTO
Quando parla della situazione politica del periodo, a volte l’autore si lascia prendere un po’ troppo la mano e utilizza un linguaggio ampolloso e retorico che non sempre si lega al resto della narrazione.
L’AUTORE
Oliver Buslau ha studiato musicologia, letteratura tedesca e biblioteconomia. Alla fine degli anni Novanta ha esordito nella narrativa con la serie di Remigius Rott, il detective privato di Wuppertal. Ha pubblicato numerosi gialli storici ambientati nel mondo della musica, suona il violino in un’orchestra amatoriale e collabora con varie riviste musicali ed emittenti radiofoniche.
LA CASA EDITRICE
Emons Libri & Audiolibri nasce a Roma nel dicembre 2007 dall’incontro tra l’esperienza dell’affermato editore tedesco Hejo Emons, Axel Huck, Viktoria von Schirach e un’appassionata squadra italo-tedesca. La scommessa era quella di portare al grande pubblico l’audiolibro in Italia, un modo antico e insieme attuale di godere della bellezza delle opere letterarie. Emons punta inizialmente sulla narrativa contemporanea, privilegiando, quando possibile, la lettura degli autori stessi, e diventando presto casa editrice leader nel settore. Dal 2014 la Emons ha scelto di rinsaldare anche i legami con la tradizione editoriale creando due collane cartacee: “111”, guide insolite delle principali città europee e italiane e “Gialli tedeschi”, traducendo la migliore letteratura tedesca del genere Krimi.
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weirdesplinder · 7 years ago
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Io romance, Tu romance? No Io lettore, Tu lettore.
Titolo criptico ma che credo renda l’idea del problema di fondo che voglio affrontare in questo post.
Ho pensato e ripensato se era il caso di tornare a parlare per l’ennesima volta della stessa cosa, ma poi mi son detta, facciamolo, perchè di certe cose non si parla mai abbastanza.
E per ‘certe cose’ intendo i PREGIUZI CONTRO IL GENERE ROMANCE, UN ANNOSO PROBLEMA MAI RISOLTO E CHE CREDO MAI SI RISOLVERà, MA CHE QUESTA SETTIMANA è TORNATO ALLA RIBALTA PER COLPA DI UNO sfortunato articolo di Repubblica.
Non entrerò in particolari a riguardo perchè in fondo non importa quell’articolo in partcolare, che non fa altro che dire cose già sentite importano alcuni preconcetti che alcune persone hanno su un genere letterario e che francamente non mi spiego.
Ma partiamo dall’inizio inizio. Mii sono chiesta più volte se sia giusto dividere in genere i libri. Sulla dibìviso tra fiction e non fiction, ciè romanzi e storie vere, ci sto. La trovo giusta. Ma poi all’interno della fiction perchè differenziare?
L’unico motivo per catalogare i romanzi per generi, secondo me, è per fini puramente utilitari legati alla loro archiviazione. In parole semplici per poterli collocare in un certo ordine nelle biblioteche e nelle librerie in modo da trovrali facilmente. Tutto qui. Per questo è nata la CLASSIFICAZIONE. Certe etichette sono state date per collocare i libri, non per giudicarli. 
Detto questo, e tenendolo ben presente, appare chiaro fin da subito che nonostante si dividano i libri per categorie o classi, lo si fa seguendo regole non sempre applicabili. Non è facile dividere i libri per genere o per argomento. Quate volte dopo aver letto un libro trovato nei Gialli, ci siamo detti che in realtà era più uno storico. O che invece di uno storico sarebbe stato meglio collocato nei romanzi rosa? I libri, oggi più che mai contengono spesso elementi comuni a più generi perciò come li possiamo realmente classificare. E’ una cosa troppo soggettiva a volte. E ogni lettore lo sa bene.
Se un argomento o alcune caratteristiche sono preponderamenti la soggettività sarà maggiormente oggetiva, ma è cosa rara.Specie nella categoria romanzi rosa o romance, dove finiscono ibridi di ogni tipo che non si sa dove altro collocare.
Basta che un libro contenga una storia d’amore per essere un romance? Allora anche Via col vento, orgoglio e pregiudizio, Piccole donne sono romance. Norwegian wood di Murakami è un romance. Siamo seri. Quasi tutti i libri pralano d’amore sotto varie forme. Non ci si può basare su questo.
Ci deve essere sesso per parlare di romance? Allora tutti i libri di Wilbur Smith sono romance, perchè ho visto più sesso lì, e grafico, che non in Cinquanta sfumature. Giuro. E lo stesso vale per Norwegian wood e molti altri romanzi.
Il Paradiso degli orchi di Pennac è un giallo oppure no? Dopo tutto contiene un’indagine. E i libri della Evanovich sono qusi tutti al limite del poliziesco perchè sono considerati rosa? E poi cosa significa rosa? Che è qualcosa datto alle donne? Perchè? Come e chi lo giudica a chi è adatto un libro? I maschi possono leggere i rosa quanto le femmine e lo fanno?
Chi decide il confine tra young adult, new adult e adult?
Etichette, solo etichette soggettive. Un libro è un libro. Un romanzo un romanzo. Qualcosa di unico. Una storia a sè. Che ogni lettore giudicherà diversamente e soggettivamente. Non può essere catalogato o etichettato se non per semplice utilità classificativa che torna utile per ordinare i libri e trovarli più facilmente per comprarli e venderli più facilmente. Tutto qui.
E una volta capito che le etichette sono effimere, e in realtà non esistono se non per utilitarismo ogni pregiudizio cade di conseguenza, non siete d’accordo?
Non esistono più generi di seconda mano o meno degni di altri, perchè in realtà i generi non sono reali o tangibili, sono solo scaffali creati per comodità. Esistono solo libri belli o libri brutti secondo giudizi puramente soggettivi.
Tutto qui.
Un giudizio soggettivo può esistere ed esprimere ciò che vuole, ma non deve prevalicare i giudizi soggetivi altrui. Rispetto è la parola d’ordine.
Se ci fosse più rispetto quante polemiche ci risparmieremmo e quanta carta...carta meglio usata per stampare altri libri, non trovate?
Un lettore, un vero lettore dovrebbe amare talmente tanto i libri, da amarli tutti. Poi è logico avrà i suoi prferiti, ma io credo che chi veramente ama leggere non può non essere benevolo verso tutti i libri, persino con quelli che lui stesso reputa brutti. Un genitore può anche riconoscere che il proprio figlio è bruttino, e magari pure non molto intelligente, ma non per questo non lo amerà, o lo rinnegherà. Può sgridarlo, e come lettore potrà magari giudicare pesantemente certi romanzi, ma sempre in fondo li amerà in quanto libri..
I lettori dovrebbero essere uniti nell’amore per i libri, non divisi da inesistenti preferenze. non trovate?
E anche le polemiche su blogger, o non blogger letterari, critici letterari e non critici letterai, le trovo inutili.In primis siamo tutti lettori e il giudizio soggettivo di tutti è degno di essere espresso e rispettato, a prescinder da studi, lauree, opinioni  varie...nel rispetto dei giudizi altrui.
Tutto qui. Io credo che nessuno dovrebbe essere zittito, poi saranno gli altri lettori a decidere chi acoltare in base ad altre informazioni in loro possesso...Io mi immagino il mondo dei lettori come un enorme circolo letterario in cui tutti possono giudicare i libri. Ma nessuno impone agli altri lettori di acoltare tutti i giudizi altrui. Solo di rispettarli, se i giudizi sono rispettosi. Rispetto è la parola d’ordine. Su internet come nella vita. Almeno per me.
Basta poco. Tutti i lettori sono uguali in quanto lettori. Non lo credete anche voi?
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frontedelblog · 5 years ago
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L'incredibile profezia sul coronavirus. E quella sul naufragio del Titanic...
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Ogni tanto ci sono profezie che si concretizzano e che sono incredibilmente precise: come quella sulla pandemia da coronavirus del 2020. O quella che, 13 anni prima del naufragio, raccontava la storia del transatlantico Titan...   Di Rino Casazza Nel 2012 la collana degli Oscar Mondadori ha pubblicato un libro, dal titolo End of the days, nella versione italiana Profezie, scritto da  Silvia Browne in collaborazione con Lindsay Harrison. La prima, defunta nel 2016, è stata un nota e discussa medium; la seconda, ancora vivente,  è una scrittrice specializzata in tematiche del paranormale. Il libro, una sorta di versione moderna delle “Centurie” di Nostradamus, raccoglie previsioni su eventi futuri di cui la Browne, grazie alle sue speciali capacità, sarebbe venuta a conoscenza. Mentre il citato famoso astrologo e farmacista francese del Cinquecento mise i suoi vaticini in versi dal linguaggio enigmatico, la Browne si sbilancia indicando in modo esplicito date e circostanze. Ricordiamo che gli appassionati esegeti di Nostradamus hanno ritenuto di trovare nelle sue oscure quartine traccia di molti avvenimenti storici successivi. I “nostradamologi”  considerano riferite ad avvenimenti di là da venire le quartine ancora senza spiegazione. A quanto pare, la medium statunitense è spesso incorsa in previsioni sbagliate. Nei giorni scorsi, qualcuno ha tuttavia scoperto nel testo di Profezie questo passo: ”Intorno all'anno 2020 una terribile malattia, simile ad una pneumopatia, si diffonderà in tutto il mondo e colpirà i polmoni e i bronchi. Ma la cosa assurda sarà la velocità con cui si manifesterà e la rapidità con cui svanirà all'improvviso così come era arrivata. Tornerà di nuovo dieci anni dopo, per poi scomparire definitivamente.” Si tratta decisamente di un’anticipazione della pandemia da covid-19 che stiamo vivendo.  In questo caso la profezia della Browne è azzeccata. Quale che sia la sua origine, è da prendere come buon auspicio per la previsione di un “lieto fine” con la scomparsa del virus. Molti diranno che non bisogna assolutamente credere ai profeti del futuro. Le coincidenze esistono e comunque, a forza di profetizzare, si finisce prima o poi per azzeccarci. Quanto a Nostradamus, il linguaggio criptico delle "Centurie" è fatto apposta per adattarsi, a posteriori, a qualsiasi evento. Considerazioni sagge e condivisibili. A me tuttavia viene in mente un altro caso di “coincidenza”, ancora più sbalorditivo. Riguarda il naufragio del  Titanic, avvenuto il 15 aprile del 1912, nell’oceano Atlantico, al largo di Terranova. Il transatlantico, considerato inaffondabile, andò a cozzare contro un iceberg sul lato di dritta, affondando. Purtroppo, mancando scialuppe per accogliere tutti i passeggeri, più di un migliaio di persone morirono assiderate immergendosi nelle acque gelide dell'oceano.  Che cosa pensereste se vi dicessi che quattordici anni prima un autore aveva scritto un romanzo in cui si narra l'immaginaria vicenda di un naufragio perfettamente sovrapponibile a quello del Titanic?  Con l'unica differenza che il piroscafo letterario si chiama Titan, invece che Titanic? Credereste  che vi sto prendendo in giro. Invece è tutto vero. Nel 1899 lo statunitense Morgan Robertson, nel suo romanzo Futility, fece affondare nell'oceano Atlantico, in aprile, il transatlantico Titan, considerato inaffondabile, a causa della collisione con un iceberg sul lato di dritta, a circa 400 miglia da Terranova. Il disastro venne aggravato dal fatto che le scialuppe di salvataggio erano insufficienti, così che migliaia di passeggeri dovettero immergersi nelle acque gelide, morendo assiderate... Rino Casazza Guarda gli ultimi libri di Rino Casazza - QUI Read the full article
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davincialba · 5 years ago
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                                                ARTICOLO 21
 PERIODICO D ‘ INFORMAZIONE  DEL LICEO DA VINCI  - N. 2  A.S. 2019/20
                      “Homo doctus in se semper divitias habet” - Fedro
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INNO ALLA BELLEZZA
Il numero di questo mese vuole affrontare un argomento  spesso sottovalutato: il piacere che deriva dal contemplare un'opera d'arte o dal leggere un testo d'autore. Si tratta di qualcosa che non ha "utilità" materiale  e non si traduce in profitto immediato, pertanto  non ci si sofferma a considerarne l'importanza, nella vita di oggi. La bellezza ci circonda e spesso neanche ce ne accorgiamo: è nel sorriso di un bambino, nel volo di un uccello, nel rombo di un tuono... Chi, con il suo genio ha saputo trasmettere su una tela, su di un foglio o semplicemente su di un muro, tali emozioni, merita il nostro grazie più sincero, poiché ha lasciato ai posteri un'eredità culturale peculiare della specie umana. Anche vicino a noi vivono artisti e  scrittori: ne conosceremo due molto bravi, attraverso alcune loro opere recenti. La loro creatività vi stupirà piacevolmente e vi farà riflettere su temi importanti e delicati che solo la penna di uno scrittore o il pennello di un pittore sanno trattare, con il dovuto rispetto. Buona lettura!
INVITO ALLA LETTURA
Il ritratto di Dorian Gray
Buongiorno cari lettori! Il giornalino è tornato, con un nuovissimo numero tutto da leggere. Ho scelto, per la sezione di invito alla lettura, il romanzo   di   uno   dei   più   criticati   e   geniali   scrittori dell'Ottocento: Oscar Wilde. Il ritratto di Dorian Gray è uno dei romanzi più belli che abbia mai letto. Oltre che un quadro impietoso della società vittoriana, è una vera allegoria dell'arte come veicolo di espressione illimitato e portatore di bellezza. Wilde infatti afferma che “ l'artista è il creatore di cose belle" e che “l'artista può esprimere qualsiasi cosa”. Ora però si pone un problema non indifferente, qual è l'utilità pratica di una cosa bella? Nessuna. Perciò l'arte sarebbe una forma di ozio; sorge quindi un' altra domanda: come si può tollerare, in una società come la nostra,incentrata sulla produttività, l'inutilità dell'arte? Ecco la risposta di Wilde: “ possiamo perdonare a un uomo l'aver fatto qualche cosa di utile purché non l'ammiri. L'unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente. Tutta l'arte è perfettamente inutile.” Lascio a voi lettori la riflessione su questa pragmatica citazione. Questo libro narra la storia del giovane Dorian Gray e della sua trasformazione, ad opera   dell'amico   Lord   Henry  Wotton.   La   loro   amicizia scaturisce da un incontro a casa del loro amico comune, il pittore Basil Hallward, nonché l'autore del magnifico ritratto che conferisce all'opera il suo titolo. Al centro dell'intreccio troviamo   tre   personaggi   organici,  agli   antipodi   l'uno dell'altro. Al mio occhio di lettrice il soggetto più criptico e importante – escludendo ovviamente il  protagonista e il suo ritratto – è Lord Henry Wotton. Infatti è proprio a lui che l'autore   affida   i   numerosi   paradossi   ed   aforismi,   che contraddistinguono il suo stile tagliente e cinico, e per i quali è largamente citato, criticato e lodato. Nella trama Lord Henry è il diavolo tentatore, che spinge Dorian verso una strada senza ritorno, la quale lo trasformerà in una persona spietata, sempre alla morbosa ricerca di nuovi​ piaceri ossessionato dalla bellezza. Al contrario, possiamo definire Basil Hallward la personificazione della ragione.  Il pittore, infatti, aveva predetto fin dall'inizio che l'influenza di Lord  Henry  non avrebbe giovato  al  ragazzo  e che l'avrebbe   trasformato   irrimediabilmente.   Dorian   Grayinvece   è   un   personaggio  estremamente   dinamico   che subisce una profonda trasformazione durante la narrazione, tanto che è possibile identificarne tre facce: il Dorian di cui è   infatuato   Basil,   dolce,   innocente   e   inconsapevole; il beniamino di Henry e sua cavia personale che comincia ad aprirsi la strada nell'immoralità;  infine, il peccatore ternamente giovane, ossessionato dalla bellezza e privo di coscienza. L' aspetto più degno di nota però, è senza dubbio il suo ritratto, che è la rappresentazione delle paure di Dorian e dei suoi numerosi peccati. Il quadro è allo stesso tempo la realizzazione dei suoi desideri e la sua condanna. Infatti è proprio la tela a condurlo alla pazzia.  Spero che le mie parole siano state all'altezza del genio che mi ha ispirata e che questa recensione vi abbia invogliati non solo a leggere il romanzo, ma anche a fare dell'arte la vostra passione.
Matilde Ruffa
INVITO ALLA LETTURA (2)
“Kafka comprende il mondo  con una chiaroveggenza che stupisce, e che ferisce come una luce troppo intensa”.
                                                                  Primo Levi
Ein Hungerkünstler
È questo il titolo in lingua tedesca di uno degli ultimi racconti dello scrittore Franz Kafka.
L'autore de La Metamorfosi lascia sempre al lettore la possibilità di interpretare le sue narrazioni in senso piuttosto libero e soggettivo, poiché chi legge comprende fin dalle prime righe di trovarsi di fronte a  metafore e allegorie, ma non vi è nessun tipo di aiuto per "sciogliere" tali simboli che, pertanto, si possono considerare forme di "allegorismo vuoto" ovvero aperti a diverse interpretazioni.
Ein Hungerkünstler esce nel 1922,appena due anni prima della morte dello scrittore.
Ein Hungerkünstler viene tradotto nelle diverse edizioni italiane "Un digiunatore" oppure "Artista del digiuno".
Racconta con una prosa molto asciutta la triste storia di un uomo che lavora in un circo e si esibisce praticando l'astinenza dal cibo.
Inizialmente, egli gode di uno straordinario successo, ma in seguito il pubblico inizia ad annoiarsi di fronte alla sua esibizione, preferendo altro.
Come interpretare, dunque, questo racconto?
Cosa dovrebbe rappresentare il digiunatore?
Come abbiamo già premesso non possiamo che fornire una delle molteplici chiavi di lettura:
è l'artista, in generale e soprattutto lo scrittore che forse si può identificare con questo personaggio, perché colui che si rifiuta di produrre un'arte finalizzata a compiacere esclusivamente il pubblico pagante va incontro anche alla delusione, infatti non sempre la gente comune o la critica sono disposte a sostenere una forma di arte che non dia profitto.
"Io sono costretto a digiunare[...] perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse. Se l'avessi trovato, credimi, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e come tutti ".
Ecco queste sono forse le parole più intense e drammatiche di tutto il racconto e suonano come l'eco di ciò che lo straordinario scrittore di Praga andava sostenendo: "sono soltanto letteratura e non posso e non voglio essere altro".
                                                                                                Alberto Esposito
INVITO ALL’ASCOLTO
Alla ricerca di China Town
In questo artistico numero del giornalino, avrei piacere di parlarvi di una canzone a me molto cara, tratta dall'album "Museica" del cantante italiano Caparezza: mi riferisco a "China Town", nella quale il cantante si rivolge a inchiostro, matite, penne, piume d'oca... insomma, a tutto ciò che orbita intorno alla scrittura e all'arte, personificandoli e ringraziandoli di tutti i benefici che hanno portato all'umanità, dal momento che, prima dell'avvento degli anni 2000, la cosiddetta "epoca digitale", la massima ambizione per l'uomo comune era quella di esprimere le proprie idee attraverso carta e inchiostro, in modo che tutti quanti potessero avere l'opportunità di leggerle e diffonderle. L'autore racconta di come la scrittura e la composizione siano in grado di rapirlo e trasportarlo in universi lontani e città nascoste, tra le quali proprio China Town (va letto come china, intendendo l'inchiostro nero  e non come China, nome inglese della Cina) un luogo mistico, ubicato nella mente di ognuno di noi, dove risiedono la creatività e l'immaginazione, insieme alla voglia di scrivere ed esprimersi.
Con versi come: "Il luogo non è molto distante L'inchiostro scorre al posto del sangue Basta una penna e rido come fa un clown A volte la felicità costa meno di un pound",
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Caparezza vuole farci capire che spesso la felicità, la soddisfazione, non risiedono in gesti eroici ai quali tutti miriamo, in cerca di una spesso impossibile popolarità, bensì in atti ritenuti da molti inutili o semplicemente trascurati per la loro semplicità, come sedersi, alla sera, dopo una giornata ricca d'impegni, e scrivere, sfogarsi, liberarsi di tutti ciò che ci affligge o ci ha ferito, raccontare tutto il bene e il male che abbiamo ricevuto, semplicemente per noi stessi, in modo da trovare un qualche ristoro che ci sollevi da ciò che in precedenza ci ha fatto soccombere.
Se vi capiterà perciò di avere tre minuti e cinquantacinque secondi di libertà e non saprete cosa fare, vi consiglio vivamente di ascoltare questa canzone, non solo per il testo, ma anche per le forbite similitudini e giochi di parole tipici dell'autore, in grado di lasciare qualcosa anche in seguito all'ascolto.
                                                               Alessandro Cauda
LA PAROLA AGLI ESPERTI
Intervista alla scrittrice albese Giulia Marengo
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                                            Immagine pubblicata per concessione dell’artista
Quando è nata la tua passione per la scrittura?
Da bambina sognavo di fare la scrittrice. Ma anche l’astronauta, l’archeologa e il Nobel per la medicina, quindi prima o poi dovevo azzeccarci. Ho sempre amato scrivere, però i miei temi erano sempre un po’ troppo fantasiosi, un po’ sopra le righe, difficili da imbrigliare nelle redini strette dei saggi rigorosi e degli articoli di giornale che tanto erano in voga al Liceo Classico in quegli anni. Perciò la passione è rimasta dormiente per qualche anno, fino a che ho deciso di partecipare a un gioco di narrazione a tema fantascientifico – su Star Wars, per la precisione, un’altra delle mie passioni. Da quel momento, si sono rotti gli argini e tutte le storie che avevo represso negli anni sono defluite su pagine e pagine, inarrestabili. A 19 anni, per scommessa, ho inviato un racconto a un concorso letterario nazionale – proprio “Anatomia di un paradosso”, che poi, anni dopo, è stato incluso nella raccolta “32 frammenti dell’anima”. Inaspettatamente, ho vinto. Così ho preso coraggio e mi sono lanciata in un progetto più corposo, poi un altro. E così è cominciata. Ma la passione? Quella è sempre stata lì.
Quanto tempo ti occorre per elaborare e scrivere un racconto?
Il tempo, quando si scrive, è relativo. La “sindrome della pagina bianca” può giocare brutti scherzi ma, quando le condizioni sono propizie, sono molto prolifica, e riesco a scrivere circa un racconto al giorno. Come è ovvio, il seme dell’idea deve essere già lì, annidato da qualche parte nella confusione della mia mente, ma poi sono le voci dei personaggi che prendono il sopravvento, e raccontano la loro storia. Io ci metto solo le dita, e qualche virgola qua e là.
Durante la stesura di “32” ero sotto contratto, quindi avevo delle tempistiche molto stringenti. In tre mesi – nonostante un lavoro a tempo pieno - ho consegnato al mio editore la raccolta completa.
In "32 frammenti dell'anima" spazi dal genere realistico all'umoristico al fantastico, quale di questi senti di incarnare meglio?
La sfida di “32” è stata proprio giocare con in generi e mettermi alla prova. Arrivavo da un discreto successo con il fantastico, che è molto nelle mie corde, ma volevo cimentarmi con qualcosa che mi venisse meno naturale. In tutta sincerità non riesco a giudicare da me quali siano stati i risultati, ma i lettori hanno molto apprezzato i racconti più noir e, con mia sorpresa, quelli umoristici. Nelle mie preferenze c’è sicuramente una vena tragica, come ahimè ben sanno i miei personaggi… nessuno di loro è al sicuro quando mi metto alla tastiera.
C'è un racconto "Anatomia di un paradosso" che affronta un tema molto delicato, ma lascia un po' scioccato il lettore nel finale, perché hai pensato ad un epilogo così?
"Anatomia di un paradosso" è un racconto che amo molto (vi si affronta il tema dell'omosessualità N. D. R.). Originariamente ambientata a San Francisco e poi ricondotta in Italia, è una storia che si è scritta da sé. È volutamente provocatoria per un Paese come il nostro, dove stentano a essere superati alcuni pregiudizi. L’epilogo è scioccante, è vero, ma non poteva essere diversamente. Fa pensare, quando la diversità – qualunque tipo di diversità – è così tanto temuta da dover essere taciuta a ogni costo, persino a quello della vita stessa.
In altri racconti come "Masca" ad esempio ti fai interprete delle tradizioni popolari e della storia del tuo territorio, quanto conta per te l'attaccamento alle tue origini?
Durante i miei primi anni di scrittura ho avuto il piacere di collaborare con Donato Bosca a un progetto, per Araba Fenice, che raccoglieva le storie delle masche, raccontate a voce dagli anziani dei paesi di Langa e poi da me ricondotte alla pagina scritta. Alcuni di questi racconti mi sono rimasti nel cuore, ma più di tutto vi occupa un posto speciale la mia bellissima terra. Ho avuto il privilegio di studiare e vivere all’estero, ma le colline, quella luce speciale che incendia le vigne solo nei pomeriggi più limpidi di metà ottobre, le pennellate di colore dei petali di rosa che occhieggiano fra il verde dei pampini, mi mancavano troppo. Così, sono tornata a casa. Amo viaggiare, tantissimo. Ma alla fine, le mie radici sono qui, e amo pagarne tributo nei miei lavori.
Il racconto "L'uomo della polvere" è molto poetico, avresti voglia di raccontare la genesi di questa particolare narrazione?
Anni fa avevo un collega molto peculiare. Silenzioso, modesto, laborioso. Un’acqua cheta, come si suole dire. Poi ogni tanto cominciava a parlare, e raccontava storie meravigliose di viaggi esotici e avventurosi. Come spesso succede, queste informazioni sono sedimentate lentamente e poi sono tornate a galla, e “l’uomo della polvere” ha preso forma sulla carta. Nella raccolta ci sono tantissimi riferimenti a persone che conosco nella vita reale, magari distorte, combinate un po’ a casaccio, rielaborate, abbinate e poi di nuovo spaiate come le perline di una collana. Se vi capiterà di leggere anche il racconto “il cervello di uno scrittore”, beh, è tutto spiegato lì.
Stai lavorando ad un nuovo progetto letterario?
Ahimè, no. Mi sono presa quello che è partito come un anno sabbatico – sono diventata mamma – ma scrivere, per me, significa lavorare anche dodici ore di seguito, chiusa da sola dentro a una stanza. Conciliare la scrittura con un lavoro a sua volta molto impegnativo e con la mia famiglia è diventato al momento troppo difficile. Ho comunque almeno due romanzi nel cassetto, che prima o poi vedranno la luce. Di certo la mia storia d’amore con la pagina scritta non è finita.
Cosa suggeriresti a chi, come noi, frequenta ancora il Liceo e avrebbe tanto desiderio di fare della letteratura un progetto di vita?
Leggete. Leggete, leggete, leggete. Qualsiasi cosa, di qualsiasi genere. L’importante è che vi piaccia, senza leggere non è possibile imparare a scrivere. Perché è solo attraverso la lettura che si assorbe il ritmo, quella melodia armonica e perfetta che poi verrà riarrangiata sulla carta.
E poi scrivete, cancellate, riscrivete, correggete, buttate via tutto e ricominciate. Scrivere è difficile, è un lavoro infinito di lacrime e sangue. Ma se vi piace, l’unico consiglio che posso dare è “non mollate”. Anche se i vostri scritti rimanessero inediti, ne sarà valsa la pena.
Intervista condotta dalle alunne Martina Borgogno e Chiara Calissano
LA PAROLA AGLI ESPERTI  (2)
Intervista al pittore Mauro Rosso
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                                                 Immagine pubblicata per concessione dell’artista
Mauro Rosso è nativo della città di Alba dove vive e lavora e nonostante i fitti impegni è stato così gentile da concederci un po' del suo tempo.
Da quanto tempo coltiva questa sua passione?
"Ci sono PASSIONI con le quali hai a che fare da quando apri gli occhi la prima volta, per fortuna poi la curiosità che ho oggi è la stessa di quando ero piccolissimo."
Da cosa è ispirato?
"Mi è sempre piaciuto osservare, badare alle sfumature... Mi piacciono le persone che - dicono qualcosa- e che sanno ascoltare e ragionare con la propria testa. Mi piace il battito di ciglia o il sorgere leggero di un sorriso, la voce musicale. Mi piace ascoltare musica, non potrei farne a meno, mi piace guardare le mie dita muoversi sulla tela, stanno bene insieme... Io parlo tanto, ma ci sono momenti in cui resto in silenzio ad ascoltarmi. È in quei momenti che fabbrico i miei pensieri più veri, mentre cammino per le strade, osservando la gente che passa... O assaporando il sole che mi scalda dentro... Amo le cose belle, le belle storie che dicono qualcosa, mi piace tutto ciò che fa palpitare il cuore "
Nella collezione Hero, il soggetto prediletto è Batman, perché?
Per quale motivo ha, inoltre, deciso di inserire i supereroi all'interno di contesti di vita quotidiana?
"... Una notte, senza prender sonno, mi è tornato in mente il mio eroe preferito di quando ero bambino... Sotto un'altra luce... Vestito dei problemi di tutti i giorni: la spesa, la famiglia, le bollette. Tutto questo mi ha suggerito la collezione Hero, la trasposizione dal fumetto alla vita reale.
Le tele - si presentano - come frame di un vecchio film, immagini di un uomo normale. Un uomo normale vestito da eroe".
Intervista condotta da Marta Caffa e Yasmine Hijji
LA FUCINA DELLE IDEE
L’arte della poesia
Io sono come il re di un paese piovoso,
ricco ma impotente, giovane e però vecchissimo,
che, sprezzando gli inchini dei suoi precettori,
s'annoia coi suoi cani come con ogni altra bestia.
Nulla può farlo gioire, né preda, né falcone,
né il popolo che muore in faccia al suo balcone.
Del buffone favorito la grottesca ballata
non distrae più la fronte di questo crudele malato.
Il suo letto gigliato si trasforma in sepolcro,
e le dame d'intorno, per le quali ogni principe è bello,
non san più che impudica toilette trovare
per cavare un sorriso a quel giovane scheletro.
Nemmeno il sapiente che gli fabbrica l'oro è stato in grado
di estirpare dal suo essere l'elemento corrotto;
e in quei bagni di sangue ereditati dai romani
che gli uomini potenti rimembrano nei loro vecchi giorni,
egli non ha saputo riscaldare quest'ebete cadavere
in cui non scorre il sangue, ma l'acqua verde del Lete
L’arte è la voce delle nostre anime. La musica sfama il nostro bisogno di emozioni. La letteratura e la poesia sono la voce della nostra società, una voce spesso scomoda che denuncia un disagio generazionale o sociale. E’ stata spesso la voce di proteste, rivoluzioni, di idee o sentimenti. Spesso l’arte è un veicolo con il quale condividere emozioni, energie.Ho sempre pensato che la poesia fosse meravigliosa perché la si può interpretare come il cuore accoglie le parole che modellano la poesia stessa e il pensiero di ognuno non potrà essere criticato poiché l’arte è libera e così deve rimanere. Ho deciso di citare una nota poesia di Baudelaire perché nella sua espressione geniale,atratti macabra, che può piacere o no, è un esempio di protesta. Premetto che, oggettivamente, l’idea artistica dello spleen baudelaireiano ha posto le basi della letteratura moderna, trasportando con séil suo disagio, la sua apatia e il suo ribrezzo per il mondo industrializzato in una realtà che mescola storia con mondi fantasiosi. Il poeta si sente impotente, mutilato da una società che valorizza il prodotto, non le persone, non le idee. In molte delle sue poesie appare un elemento comune ovvero l’umiliazione a cui la società lo sottopone e il poeta sceglie, non a caso, la parola spleen, che indica la nausea per la nuova società modellata dalle industrie. Per questo motivo, il poeta inizia a condurre una vita alternativa, sull’onda dell’eccesso. La poesia è mistero, la poesia è un’arte che seduce l’anima con giochi di parole perfetti, spesso poco precisa o enigmatica,appare come un paesaggio annebbiato, dove i contorni non sono ben delineati. Tutto questo dovrebbe farci riflettere: l'arte e tutti i suoi mezzi per esprimersi sono un bisogno primordiale di comunicare… più potente delle armi, più potente della violenza.
​Stefan Huru
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alemicheli76 · 5 years ago
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Blog Tour "Il senso del limite" di Gianni Zanolin, Rizzoli editore. Terza Tappa "L'ambientazione del romanzo".
Blog Tour “Il senso del limite” di Gianni Zanolin, Rizzoli editore. Terza Tappa “L’ambientazione del romanzo”.
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  Quando un libro è di difficile interpretazione, o scritto con un linguaggio criptico e poco scorrevole, o quando il genere non è ben definito, ci può aiutare, per dare un senso al testo uno dei suoi elementi chiave l’ambientazione. La localizzazione geografica o simbolica di un testo non solo ci dice molto sui personaggi che si muovono in esso, ma spesso racchiude l’intero senso e significato…
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didaghini · 6 years ago
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bobi bazlen (trieste 1902 – milano 1965) vanno letti insieme, in successione contraria: il primo (saggio del 2019) completo e pieno di nomi, il secondo (romanzo di ricerca del 1983) criptico e solo con qualche traccia che ci basta a ricostruire il puzzle, mettendo in conto una sottile antipatia per il narratore.
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thecrazybookaholic · 8 years ago
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Titolo: “Lord of Shadows” Autore: Cassandra Clare
Genere: Fantasy/YA
Pagine: 701
Livello linguistico: Medio-Alto
Voto: 🌟🌟🌟🌟🌟
•Trama:
Emma Carstairs ha finalmente vendicato i suoi genitori. Pensava di essere in pace con se stessa. Ma ora è tutto fuorché tranquilla. Combattuta tra il desiderio per il suo parabatai Julian e il bisogno di proteggerlo dalle brutali conseguenze che scaturirebbe una relazione tra parabatai, ha iniziato a vedere suo fratello Mark. Ma Mark ha passato gli ultimi cinque anni prigioniero delle fate; potrà mai essere un vero Shadowhunter di nuovo? Anche il regno fatato è in tumulto. Il Re Unseelie è stanco della Pace Fredda e non è più disposto ad accettare le richieste degli Shadowhunters. Combattuti tra le pretese delle fate e le leggi del Conclave, Emma, Julian e Mark devono trovare un punto d'incontro per difendere tutto ciò che hanno a cuore, prima che sia troppo tardi.
•Recensione: *Se non avete letto Lady Midnight vi sconsiglio di leggere questa recensione*
Ciao a tutti lettori e benvenuti in un nuovo post! Oggi parliamo dell'attesissimo “Signore delle Ombre” di Cassandra Clare che uscirà in Italia il 19 Settembre , quindi possiamo dire che questa è una recensione in anteprima!
Partiamo col dire che sono rimasta piacevolmente colpita nel notare i progressi di Cassie da City of Bones fino ad oggi, è sempre un piacere vedere quanto un autore possa maturare e crescere, così come le sue storie.
La storia inizia esattamente da dove ci eravamo fermati nel romanzo precedente ovvero con la rottura della relazione tra Emma e Jules. Quello che mi ha colpito nella prima metà è stato che, stranamente, tutto si svolgeva in modo veloce. Generalmente i libri della Clare tendono ad essere un po’ lenti ed introduttivi all'inizio  (cosa che non apprezzo molto personalmente) mentre questo libro inizia subito con una carica di adrenalina e con l'arrivo di nuovi personaggi. I Centurioni. Tra questi nuovi Shadowhunters c'è il personaggio più odiato in assoluto in TDA: Zara. CREDETEMI, NON ESISTE UNA PERSONA PIÙ FASTIDIOSA DI ZARA. Il disprezzo nei confronti dei Blackthorn e dei Nascosti la rende incredibilmente irritante, se non odiabile addirittura (ho letteralmente alzato gli occhi al cielo mentre leggevo le sue parti😂). Un altro personaggio che non ho apprezzato è stata Cristina. Non abbiate quella faccia sconvolta, ho le mie ragioni. Quello che davvero non ho potuto sopportare di questo personaggio è questa specie di aura che la Clare vuole per forza disegnarle. Qualunque cosa faccia questa benedetta ragazza resterà sempre altruista, amorevole e gentile. Ebbene no Cassandra, questa volta non mi freghi. Ogni volta che Cristina cerca di essere saggia e gentile con Kieran ero sicura che mi sarebbe venuta l'orticaria… voglio dire, COME PUOI BACIARE MARK E POI FARE L'AMICA DEL CUORE DI KIER?! Mi sembra una persona abbastanza egoista (per non dire altro) e spero proprio che lasci stare in pace Mark.
Okay, effettivamente vi ho parlato solo di personaggi irritanti finora. Parliamo dei veri punti forti di questo romanzo.
La prima cosa da notare sono le Ship e in particolare ce ne sono due che hanno praticamente distrutto la mia sanità mentale. Sto parlando di Jules ed Emma (Ovviamente 😂) eeeee…. Ty e Kit.
La storia d'amore tra Jules ed Emma è il fulcro di questa storia, quindi è impossibile non amarli. Insomma, È IMPOSSIBILE NON AMARE JULIAN! Questo sì che è un personaggio vero! La cosa che più mi affascina di questo personaggio è la sua totale dedizione alla famiglia, che però non lo rende perfetto. Egli stesso è consapevole di essere incurante degli altri quando si tratta di salvare i propri cari, infatti, spesso viene definito come spietato. È decisamente un personaggio positivo ma con dei difetti (come tutti noi insomma) ed è proprio questo che lo rende speciale e reale. Si capisce che mi sono innamorata?!😻
Anche il personaggio di Emma mi è piaciuto molto. Finalmente una protagonista con un po’ di carattere! Dimenticate Clary e Tess, Emma Carstairs è di tutt'altra pasta. È decisamente una ragazza con un bel caraterrino e che per certi versi mi ricorda la cara Isabelle!
E ora…….. passiamo ai “piccoli” di casa Blackthorn! Ognuno è speciale a modo loro ma tra questi nessuno può battere Tiberius. Non so perché ma Ty è un personaggio così criptico e unico che è impossibile non apprezzarlo. Ha degli atteggiamenti particolari e vede il mondo con altri colori, ecco perché lo adoro. Beh, poi assieme a Kit mi ha dato modo di sclerare un po’ durante la lettura! Credo che ormai sappiamo tutti che le coppie migliori di Cassandra Clare sono quelle omosessuali (basti pensare ai MALEC🤗).
Vi ho appena parlato di una delle due caratteristiche che rendono questo libro uno dei migliori mai scritti dalla Clare. Certo, i protagonisti sono una parte essenziale del romanzo ma nulla (nulla!) batte gli antagonisti! Cassandra Clare è davvero maturata da questo punto di vista! Mai e poi mai avrei pensato che Malcolm facesse parte della schiera di antahonisti. Questo colpo di scena mi ha lasciato di stucco, il che è fantastico perché è  esattamente l'effetto che deve fare. Ma tralasciando Malcolm vorrei parlarvi di altri due antagonisti meravigliosi che hanno reso questo libro una fantastica avventura. Il primo è il Re della Corte Unseelie, personaggio di cui avevamo sentito nominare nei precedenti libri ma che non abbiamo mai incontrato finora. Il suo scopo è quello di annientare i poteri degli Shadowhunters e annientarli. Ora, questo aneddoto ci porta a riscoprire la Corte Seelie che si oppone alle regole del Re e che, per la prima volta, agisce anche per il bene degli Shadowhunters (incredibile ma vero). Un altro antagonista di cui vorrei parlarvi è Annabel. In realtà la sua posizione mi è ancora poco chiara. È una ragazza vissuta nel XIX° secolo che è stata torturata fino alla pazzia dalla sua stessa famiglia per via della sua relazione con Malcolm. Non posso dirvi cosa succede esattamente in questo libro ma vi dico solo che non è una persona lucida e che le sue azioni influiranno molto sulla famiglia Blackthorn.
Ovviamente lo stile di scrittura di questa autrice è sempre impeccabile (ma che ve lo dico a fare?). Mi è piaciuto visitare luoghi diversi dal solito e conoscere nuovi personaggi! Complimenti Cassandra! 👏
Credo che sia tutto. Anzi no. Voglio dirvi un ultima cosa: preparate una montagna di fazzoletti perché per la prima volta qualcuno di molto importante morirà. In effetti devo dire che non credevo che la Clare fosse così tanto sadica fino a che non ho finito questo libro. Credetemi, è il più straziante insieme a “La Principessa”.
Bene, credo di aver davvero finito adesso. Spero che questa recensione vi sia stata utile e che questo libro vi piaccia.  Inoltre vorrei ricordarvi che potete seguirmi su Instagram | Goodreads | Twitter | Wordpress |
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whogoesthere-thething · 7 years ago
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“Oh, Dio mio… Sono a casa… Sono a casa. L’astronave… È ricaduta sulla Terra sconvolta dalle esplosioni atomiche. Voi, Uomini… L’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità! Tutti!”
Se 2001: odissea nello spazio può essere considerato lo spartiacque della fantascienza cinematografica per quanto riguarda i temi trattati e l’impatto audio-visivo sullo spettatore, lo stesso si può dire de Il pianeta delle scimmie, uscito lo stesso anno, dal punto di vista di successo di pubblico, nonostante i temi che il film veicolava non fossero da meno, seppur presentati in modo più digeribile del colossale e criptico film di Kubrick, rappresentando uno degli esempi più interessanti e brillanti di fantascienza sociologica. L’enorme successo mondiale trasformò un pessimistico film perfettamente autoconclusivo in una delle prime corpose saghe di fantascienza cinematografica che ancora oggi fa sentire il proprio influsso. Prima dell’arrivo della saga di Guerre stellari e del suo merchandising sfrenato, Il ciclo de Il pianeta delle scimmie cavalcò l’onda del successo inondando i negozi di giocattoli e gadget legati alla saga, cosa oggi abbastanza scontata, ma all’epoca era quasi una novità. Nell’arco dei cinque film in cui si articola la saga, è mostrato in modo abbastanza coerente un possibile sviluppo futuro della società e tocca alcuni dei sottogeneri tipici della fantascienza come il dramma spaziale, il viaggio nel tempo, la distopia, il catastrofico e il post-apocalittico, trattando temi quali il pericolo nucleare, i conflitti razziali e la pulizia etnica, argomenti oggi tutt’altro che datati, purtroppo.
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IL ROMANZO                                                                        
Il romanzo Il pianeta delle scimmie (La Planète des singes), in Italia conosciuto anche col titolo Viaggio a Soror, uscì nel 1963 scritto dal francese Pierre Boulle, autore alla prima esperienza con la fantascienza ma già famoso per il romanzo Il ponte sul fiume Kwai (Le Pont de la Rivière Kwai, 1952) da cui nel 1957 cui fu tratto un famoso film diretto da David Lean.
La trama, come vedremo, è abbastanza diversa da quella che poi vedremo ridotta sullo schermo nel film di Schaffner. Nel prologo una coppia di viaggiatori spaziali rinviene una bottiglia alla deriva con dentro un manoscritto che iniziano a leggere. L’io narrante dello scritto è Ulisse Mérou, un giornalista francese del XXVI secolo che insieme all’equipaggio di un’astronave scientifica raggiunge il pianeta Soror (sorella), nel sistema di Betelgeuse. Sul pianeta trovano una società dominata da scimmie antropomorfe che parlano una loro lingua e possiedono tecnologia avanzata, città, aerei, automobili simile a quella della Terra. L’essere umano è invece ridotto allo stato selvaggio, poco più che un animale da cacciare o da utilizzare come cavia per esperimenti scientifici e medici. La società scimmiesca è divisa in tre classi ben distinte per razza: i burocrati sono gli orango, i militari sono i gorilla e gli scienziati, gli scimpanzé.
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L’equipaggio è catturato e separato. Il protagonista, tenuto in cattività in un laboratorio scientifico, impara col tempo la lingua locale e riesce a convincere un archeologo, Cornelius, della propria intelligenza diventandone l’assistente. Insieme scoprono che l’umanità di quel pianeta si era autodistrutta in un remoto passato e che le scimmie, geneticamente modificate per compiere lavori pesanti, avevano preso il sopravvento dopo questa catastrofe. La scoperta entra presto in contrasto con l’establishment politico e religioso della società scimmiesca, che giudica inaccettabile l’idea che un tempo gli umani dominassero il pianeta. Alla fine Mérou riesce a fuggire su un’astronave e insieme a una ragazza indigena torna sulla Terra, dove nello stesso tempo sono passati 700 anni, solo per scoprire che nel frattempo anche la società umana si è autodistrutta e le scimmie hanno preso il sopravvento. Nel sottofinale si scopre che anche i due increduli viaggiatori spaziali sono scimmie, avendo la nuova razza soppiantato l’uomo in tutto l’universo…
  Il romanzo mostra una società di scimmie che ha ereditato tutto il peggio dell’umanità del passato e tutte le contraddizioni di uno spirito distruttivo che sembra quasi congenito in una società evoluta, rifiutando il luogo comune che vuole tecnologia e scienza andare di pari passo con l’evoluzione di una civiltà sempre più pacifica. Insomma gli aspetti più negativi della natura umana si sono profondamente radicati anche nella nuova società scimmiesca descritta da Boulle. Lo scrittore francese aveva probabilmente sviluppato questo pessimismo verso il genere umano durante la prigionia sotto i giapponesi in Malaysia (esperienza che portò alla stesura del suo romanzo più famoso). Boulle non considera La Planète des singes uno dei suoi migliori lavori. In realtà non lo considera neanche un romanzo di fantascienza ma solo una metafora o un’allegoria per raccontare l’umana follia (ma d’altronde, che cos’è la fantascienza in fondo?). In un’intervista rilasciata a Jean Claude Morlot nel 1972 lo stesso letterato francese disse:
“(…) È una storia, e la fantascienza è solo il pretesto. Non saprei neanche definire la fantascienza… Penso che sia il genere tramite il quale è possibile mettere in scena e immaginarsi personaggi non umani, ma nel mio libro le scimmie sono uomini, non c’è alcun dubbio.”
 “(…) Per me è stato solo un piacevole racconto di fantasia.”
Da qui si capisce, lo afferma lui stesso, che probabilmente Boulle non aveva ben presente cosa sia la fantascienza, il suo romanzo è decisamente di fantascienza, non c’è alcun dubbio, perché anche quando mette in scena personaggi non umani e di mondi lontanissimi, il genere parla sempre dell’uomo!
IL FILM CAPOSTIPITE
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Durante una missione interstellare, l’astronave Icarus con a bordo George Taylor (Charlton Heston) e i suoi colleghi Langdon e Dodge precipitano su un pianeta molto simile alla Terra. Per via delle implicazioni legate alla teoria della relatività, quello che per loro è stato un viaggio di diciotto mesi, sulla Terra dovrebbero essere in realtà passati duemila anni. I tre non tardano a scoprire che il pianeta è tutt’altro che disabitato.
Esso è infatti abitato da esseri umani muti e selvaggi, cacciati come bestie da scimmie antropomorfe dotate di parole. In pratica i tre assistono a un ribaltamento della scala evolutiva darwiniana. Anche Taylor è ferito e catturato durante una battuta di caccia all’uomo da parte delle scimmie e finisce in una gabbia come cavia per esperimenti della dottoressa Zira (Kim Hunter). Durante la prigionia conosce l’attraente Nova (Linda Harrison), muta come il resto della sua gente, e riesce a dimostrare alla scienziata di non essere come gli altri umani del pianeta, di possedere cioè il dono della parole e dell’intelligenza.
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Per la società delle scimmie tutto ciò è scioccante e contraddice tutti i loro dogmi scientifici e religiosi. Il dottor Zaius (Maurice Evans), capo dell’Assemblea delle Scimmie, vorrebbe eliminarlo ma Taylor, insieme a Nova, riesce a fuggire con l’aiuto di Zira e del marito archeologo Cornelius. I fuggitivi, al tramonto, arrivano in groppa a un cavallo su una spiaggia e qui Taylor ha una scioccante rivelazione. Convinto fino ad allora di essere atterrato su un pianeta alieno, si rende invece conto di essere sulla Terra di un lontano futuro, trovandosi di fronte ciò che resta della Statua della Libertà semidistrutta da una catastrofe nucleare (anche se per tutto il film non si era mai stupito che le scimmie parlassero in perfetto inglese o che il giorno durasse 24 ore come sulla Terra!) e pronunciando il famoso monologa citato sotto il titolo.
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Il soggetto del primo film della saga era un po’ che girava per Hollywood ma produttori e manager ritenevano che proporre in un film delle scimmie antropomorfe e parlanti in modo convincente fosse all’epoca impossibile. Fu solo grazie alla caparbietà della star Charlton Heston e al successo di un altro film di fantascienza davvero incredibile come Viaggio Allucinante di Richard Fleischer (Fantastic Voyage, 1966) che la 20th Century Fox si convinse a realizzarlo.
La sceneggiatura fu scritta da Rod Serling, il creatore della celebre serie televisiva Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959-1964) e da Michael Wilson (Lawrence D’Arabia) che eliminarono il tono satirico e parodistico del romanzo, e rifiutarono l’ambientazione metropolitana e tecnologicamente avanzata del testo originale optando per una società scimmiesca con uno sviluppo sociale comparabile a quella umana della seconda metà del XIX secolo. Quest’ultima scelta fu presumibilmente dettata da motivi di budget ma fu funzionale per dare grande risonanza al tema di una Terra post-apocalisse nucleare, con l’umanità ridotta a uno stato primitivo e una civiltà scimmiesca in via di sviluppo. Fu proprio l’elemento apocalittico a inquietare il pubblico e a decretarne il successo tra un pubblico provato da anni di Guerra Fredda e paura nucleare.
Nonostante il produttore Arthur P. Jacobs si attribuisca il merito dell’idea del finalone a sorpresa, essa appare verosimilmente farina del sacco di Rod Serling. Non è infatti difficile riconoscerne il tocco di Serling che in un episodio della prima stagione di Ai confini della realtà del 1959, nell’episodio Una freccia verso il Sole (I Shot an Arrow Into the Air), aveva già messo in scena degli astronauti che precipitati in una zona desertica di un pianeta che considerano alieno, si rendono conto solo alla fine di essere sulla Terra. Nel romanzo, il colpo di scena che ci si trovava in un universo dominato dalle scimmie era stato facile da ottenere, era bastato omettere alcune informazioni sulla natura dei due viaggiatori spaziali del prologo. In un film ciò sarebbe stato molto difficile da ottenere. Serling aveva già tentato qualcosa di simile sempre in un memorabile episodio della sua serie televisiva più famosa, È bello quel che piace (Eye of the Beholder, 1960), dove una donna, che per tutta la durata dell’episodio ha il volto coperto da bende, è descritta come deforme e orribile e sta per sottoporsi a un intervento di chirurgia estetica. Per mezzo di particolari inquadrature anche i volti dei dottori e degli infermieri sono nascosti. Solo alla fine si scopre che la donna è invece bellissima ma vive in una società dove tutti sono deformi e il diverso deve essere “curato” o esiliato. L’episodio durava circa venti minuti e riuscire a ottenere lo stesso effetto in un film di due ore era quasi impossibile. Il prologo col manoscritto fu quindi eliminato, la narrazione iniziò direttamente con l’equipaggio dell’astronave e il colpo di scena finale si trasformò in quello che tutti conosciamo.
A dirigere il film fu scelto Franklin J. Schaffner alla prima esperienza con la fantascienza cui ritornerà nel 1978 con I ragazzi venuti dal Brasile (The Boys from Brazil) tratto dal romanzo omonimo di Ira Levin.
Sorprendente fu il trucco delle scimmie, soprattutto per quei tempi, che permetteva agli attori di recitare e mostrare espressioni facciali ed emozioni anche sotto un pesante make-up. Responsabile del trucco fu John Chambers, famoso anche per aver creato le orecchie a punta di Spock della serie televisiva Star Trek, che per il suo lavoro vinse un Premio Oscar speciale nel 1969, cosa non scontata poiché era in competizione con gli ominidi di Stuart Freeborn del quasi coevo 2001: odissea nello spazio. Decisivo per la vittoria fu probabilmente il fatto che le scimmie del film di Kubrick non parlano se non a grugniti. Le labbra delle maschere degli attori dovevano infatti muoversi in sincronia con quelli degli attori, cosa non facile da ottenere.
  I SEQUEL
L’inatteso successo della pellicola di Schaffner convinse la Fox a fare quello che oggi è la norma, mettere in cantiere un sequel. Diversi script furono presentati da Rod Serling. Uno di essi, come finale a effetto, si rifaceva a quello del romanzo di Boulle. Taylor insieme a un gruppo di uomini civilizzati della Zona Proibita, un’area tabù per le scimmie dove l’astronauta aveva ricevuto la sconcertante rivelazione alla fine del film precedente, riescono a riparare la Icarus e fuggire dal pianeta. Arrivati su un pianeta simile alla Terra, scoprono che anche qui esiste una società scimmiesca. In seguito fu chiesto allo stesso Pierre Boulle di redigere una sceneggiatura. Il risultato fu Il pianeta degli uomini, considerato però dalla produzione infilmabile. Il terzo sceneggiatore scelto fu quello definitivo. Paul Dehn era noto per aver lavorato sulla sceneggiatura di Goldfinger (1964), uno dei migliori film di James Bond e da quel momento sarà il responsabile delle storie di tutti i film della saga, dando una discreta omogeneità all’arco narrativo circolare che si verrà a creare. Riprendendo, insieme a Mort Abrahams, alcuni spunti delle sceneggiature precedenti, darà origine allo script definitivo di L’altra faccia del pianeta delle scimmie (Beneath the Planet of the Apes).
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Il film inizia con un riassunto del finale del precedente per poi passare alle vicende di Brent (James Franciscus), altro astronauta, unico sopravvissuto dello schianto della propria astronave proveniente dal passato che come Taylor è ignaro di trovarsi nella Terra del futuro e non su un altro pianeta. Attraversando la Zona Proibita incontra Nova (Linda Harrison) e riconosce al suo collo le piastrine militari del suo collega disperso. Taylor aveva esposto a Nova la sua intenzione di inoltrarsi all’interno della Zona Proibita poiché convito che lì potrebbe trovarsi una comunità di umani intelligenti ma ovviamente questo Brent non può saperlo essendo la ragazza muta.
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Nova porta l’astronauta nella città delle scimmie a sua insaputa, dove rimane scioccato nel vederla popolata da scimmie antropomorfe. I due s’incontrano con Zira e Cornelius (Kim Hunter e David Watson che sostituisce Roddy McDowall), i due scienziati che nel film precedente avevano aiutato Taylor e forniscono loro una mappa della Zona Proibita. Contemporaneamente le scimmie, istigate dal gorilla Ursus, il capo dell’esercito, a malapena frenato dal più moderato Zaius, decidono di invadere la Zona Proibita ed eliminare tutti gli uomini vi troveranno. Intanto Nova e Brent, prima catturati e poi sfuggiti alla spedizione delle scimmie, arrivano attraverso un tunnel in una città della Zona Proibita e Brent, leggendo un cartello che recita “QUEENSBOROUGH PLAZA” si rende conto per la prima volta di trovarsi sulla Terra e più precisamente in quel che rimane di New York dopo una catastrofe nucleare. Tra le rovine vive una comunità di umani senzienti sopravvissuti alla catastrofe da cui sono catturati. I loro volti sono segnati da generazioni di mutazioni e possiedono poteri mentali con cui comunicano tra di loro e creano illusioni per tenere lontane le scimmie dal loro territorio. Adorano inoltre una bomba atomica come una divinità, “lo strumento di Dio sulla Terra, sacro strumento di pace”, chiara metafora dell’equilibrio del terrore mantenuto dagli arsenali nucleari durante la Guerra Fredda. Altro richiamo al periodo sono le manifestazioni delle scimmie pacifiste che cercano di bloccare la marcia dell’esercito di Ursus, facendo eco ai movimenti che nella realtà protestavano contro la guerra in Vietnam. Nella cella dove sono portati, Brent e Nova ritrovano Taylor ma la situazione precipita. Le scimmie riescono a superare le barriere mentali dei mutanti e penetrano nella città. Segue una feroce lotta di tutti contro tutti fin quando Taylor, ferito e schifato da tutta quella violenza e dalla consapevolezza che uomini o scimmie, sono tutti in preda alla stessa pazzia distruttiva, urla “È il giorno del giudizio! La fine del mondo.” e attiva la detonazione della bomba. Il film si chiude con una voce fuori campo che recita:
“L’universo, così com’è oggi, contiene miliardi e miliardi di galassie spiraliformi. In una di esse, a un terzo dai suoi confini, si trova una stella di media grandezza, e uno dei suoi satelliti, un pianeta verde e insignificante, ora non c’è più”.
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L’accoglienza al film fu buona ma non così entusiastica come per il primo. La regia di Ted Post, alla sua prima e quasi unica esperienza con la fantascienza, lo stesso anno dirigerà Amore extraterrestre (Night Slaves) con protagonista ancora James Franciscus, fu giudicata ottima ma la critica principale riguardava il fatto di essere troppo esplicito e banale nel richiamare i temi di attualità.
Inizialmente la serie del Pianeta delle scimmie doveva concludersi qui, con la distruzione della Terra. I buoni riscontri al botteghino convinsero la Fox di mettere in cantiere un altro film. Richiamato lo sceneggiatore Paul Dehn, questi si trovò di fronte al problema di non poter procedere con la narrazione in avanti e un ambientazione su un altro pianeta era esclusa dal budget ridotto rispetto i precedenti film. Optò quindi per un viaggio nel tempo a ritroso rispetto quello compiuto da Taylor e Brent, dall’epoca delle scimmie agli anni Settanta, cosa che permetteva un notevole risparmio economico. Fuga dal pianeta delle scimmie (Escape from the Planet of the Apes) uscì nel 1971 per la regia dell’ex attore Don Taylor, anche lui al debutto con un film di fantascienza e che in seguito avrebbe diretto, relativamente al genere, L’isola del dottor Moreau (The Island of Dr. Moreau, 1977) e Countdown dimensione zero (The Final Countdown, 1980).
  Zira e Cornelius (Kim Hunter e Roddy McDowall, che riprende il ruolo del primo film), insieme al dottor Milo (Sal Mineo), riescono a rimettere in funzione la Icarus, sprofondata in un lago all’inizio del primo film, e a entrare in orbita prima dello scoppio della bomba fatta detonare da Taylor (ecco una delle prime incongruenze del ciclo, come fanno le scimmie a recuperare l’astronave in così poco tempo e con quale tecnologia a loro sconosciuta riescono a metterla in funzione?). L’onda d’urto dell’esplosione della scaraventa l’astronave indietro nel tempo facendo precipitare le tre scimmie sulla Terra del 1973, epoca da cui provenivano sia Taylor sia Brent. I tre vengono inizialmente scambiate dalle autorità per scimmie per esperimenti di volo spaziale dei sovietici e rinchiusi in una gabbia dello zoo di Los Angeles dove il dottor Milo trova la morte, ucciso da un gorilla rinchiuso con loro. Resisi conto che si tratta di scimmie intelligenti, vengono prima accolti come ospiti d’onore diventando delle celebrità ma in seguito si crea un clima di sospetto intorno la coppia. Gli umani, soprattutto nella figura del dottor Hasslein (Eric Braeden), consulente scientifico della Casa Bianca, vogliono sapere come mai nel futuro le scimmie si evolveranno e che fine farà la razza umana. Scoperto che Zira è incinta nasce la convinzione che il nuovo nato possa essere il primo di una nuova generazione di scimmie intelligenti e che il futuro disastroso per gli uomini da cui provengono i due scienziati possa cominciare a svilupparsi proprio in quei giorni.  Presi di nuovo in custodia per essere sterilizzati, i due fuggono nascondendosi nel circo del signor Armando (Ricardo Montalbán) dove Zira da alla luce il piccolo scimpanzé chiamato Milo. Le autorità comunque incalzano e i tre sono costretti di nuovo alla fuga. Raggiunti mentre si nascondevano su una nave in disarmo, sono uccisi dalla polizia. Nel controfinale si scopre che quello che sembrava essere il piccolo figlio di Zira e Cornelius, ucciso con loro, era invece un altro scimpanzé dello zoo mentre il nuovo nato, rinominato Cesare, è rimasto sotto la custodia di Armando. Il film, come si vede, ribalta nuovamente il ruolo scimmia/uomo. Questa volta a essere perseguitati sono i primati. Anche se per la prima volta nella serie il clima è meno cupo e con toni da commedia, il finale è drammatico e amaro. Ancora una volta è messo in evidenza il clima di sospetto, pregiudizio e diffidenza verso il diverso che già aveva portato alla distruzione della Terra nel film precedente.
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Col finale aperto di Fuga dal pianeta delle scimmie, un quarto lungometraggio era a questo punto inevitabile. La scenggiatura fu affidata al solito Paul Dehn, al suo ultimo film della saga. Come regista fu scelto J. Lee Thompson, che dirigerà anche il successivo e ultimo film. 1999: Conquista della Terra (Conquest of the Planet of the Apes) vide la luce nel 1972.
Sulla Terra del 1991 (anno in contraddizione con quello del titolo italiano, cosa che succederà anche con il successivo), dieci anni dopo gli eventi del precedente film, una misteriosa epidemia ha sterminato tutti i cani e i gatti. Inizialmente, come sostituti degli animali di compagnia, furono addomesticati i primati. In seguito s’iniziò a usarli per i lavori più pesanti o umili, diventando dei veri e propri schiavi. Come scriveva Boulle nel suo romanzo, la razza umana è sempre più apatica e in decadenza. Alle scimmie è stato incoraggiato lo sviluppo mentale e insegnato come risolvere complicati problemi fisici e dialogare con gli umani. In questo contesto si muovono Armando (ancora interpretato da Ricardo Montalbán) e Cesare (Roddy McDowall che passa dal ruolo del padre a quello del figlio). Lo scimpanzé nasconde agli altri la sua vera natura di scimmia evoluta e nello stesso tempo osserva la crudeltà con cui i suoi simili sono maltrattati dagli umani. Ben presto le autorità cominciano a sospettare che Armando abbia conosciuto Zira e Cornelius, le due scimmie provenienti dal futuro. Catturato dall’ispettore Kolp e, sottoposto a una macchina che lo costringe a dire la verità, preferisce suicidarsi che rivelare l’esistenza di Cesare. Sconvolto dalla perdita, Cesare complottare contro gli umani organizzando una vera e propria ribellione di scimmie schiave insegnando loro come usare oggetti come armi. Ribellione che si scatena quando Cesare è arrestato e torturato dagli uomini del governatore Breck. Liberato dall’esercito scimmie, Cesare assale il centro di comando delle scimmie schiave, appiccando un incendio all’edificio e massacrando la maggior parte del personale. Breck è catturato per essere giustiziato dalle scimmie. Cesare sceglie di non ucciderlo e così ordina alle scimmie di abbassare le armi. Il film si chiude con il discorso che Cesare recita ai suoi alleati:
“Per ora… Metteremo da parte il nostro odio… Metteremo da parte le nostre armi. Abbiamo attraversato la lunga notte dei fuochi e coloro che erano nostri padroni adesso sono nostri servi! E noi, che non siamo esseri umani, possiamo permetterci di dimostrarci umani! Il destino è volontà di Dio e se il destino dell’uomo è quello di essere dominato, è volontà di Dio che venga dominato con pietà e comprensione. Quindi… Vi risparmiamo la nostra vendetta, perché stanotte abbiamo assistito alla nascita del Pianeta delle Scimmie!”
Questo quarto capitolo della saga mette in scena, in modo neanche tanto velata, i conflitti razziali dell’America del periodo. Proprio la grossolanità della metafora fu una delle maggiori critiche rivolte al film. In varie scene del film si possono vedere panchine con la scritta “NON PER SCIMMIE” oppure dei dimostranti manifestare con cartelli che recitano “DATE LAVORO AGLI UOMINI, NON AGLI ANIMALI” (slogan drammaticamente ancora attuale, sostituendo la parola “animali” con “stranieri”…). 1999: Conquista della Terra abbandona inoltre quella che era stata la cronologia della saga fino ad allora e mostra alcune contraddizioni. L’ascesa delle scimmie era stata intesa in modo lento e graduale nell’arco di duemila anni. Il primo film dava a intendere che fosse stata una guerra nucleare a dare avvio al decadimento dell’uomo e allo sviluppo delle scimmie, idea confermata anche dal secondo film, qui tutto avviene in una decade e di guerre nucleari non c’è traccia. Zira e Cornelius, nel terzo film, affermano che la prima scimmia conosciuta in grado di parlare fu Aldus, che disse per la prima volta “no” a un ordine di un umano, e non Cesare. Troppo repentino poi appare il passaggio di quest’ultimo da uno stato emotivo di rabbia accecante durante la ribellione a essere più mite e pacato nel finale. Espedienti e distrazioni per mandare avanti la storia senza pensarci troppo su e mantenere basse le spese di produzione o la sceneggiatura lascia intendere che il corso della storia è stata in qualche modo cambiato dai precedenti viaggi nel tempo?
Il quinto e ultimo film della saga arriva puntuale l’anno dopo 1999: Conquista della Terra. Il titolo italiano, Anno 2670 – Ultimo atto (Battle for the Planet of the Apes), come per il precedente, non rispecchia la linea temporale della vicenda che viene narrata. Le vicende del film sono raccontate come un lungo flashback da un orango, chiamato Il Legislatore, che dall’anno 2600 (quindi circa 1300 anni prima dell’arrivo di Taylor nel primo film) descrive gli eventi svoltisi nel 2001, circa dodici anni dopo la rivolta delle scimmie. Cesare, sposatosi con lisa e padre di uno scimpanzé di nome Cornelius, è impegnato a tentare di far convivere il proprio popolo con gli umani superstiti. La Terra è un desolato scenario post-apocalittico, giacché nella guerra che ha visto le scimmie trionfare sono state usate anche armi nucleari. Il gorilla Aldus, guerrafondaio come tutti gli altri gorilla che si sono susseguiti nella saga, è in disaccordo con lui e trama per sterminare definitivamente gli umani. Alcuni di essi vivono nella Città Proibita e, visto alto tasso di radiazione presente, hanno cominciato a subire delle orribili mutazioni. Si tratta dei progenitori dei mutanti visti in L’altra faccia del pianeta delle scimmie guidati dal governatore Kolp. I mutanti, scoperto dove si trova la città delle scimmie, si preparano ad attaccarla. Nel frattempo Cornelius ode per caso Aldus complottare contro il padre. Il gorilla, accortosi dell’involontaria spia, la insegue e la fa precipitare da un albero, uccidendolo. Prostrato dalla perdita, Cesare deve anche fronteggiare l’attacco dei mutanti, scontro che vede le scimmie ancora una volta prevalere. A questo punto Aldus vorrebbe uccidere tutti gli umani superstiti ma Cesare glielo impedisce. Sembra l’inizio di una guerra civile tra scimmie ma un testimone rivela a Cesare che è stato il gorilla a causare la morte di Cornelius. Accecato dalla rabbia, lo scimpanzé uccide Aldus, contravvenendo al precetto “Una scimmia non ucciderà mai scimmia” il dogma più sacro della loro nuova civiltà. Passata la tempesta Cesare libera gli umani, insieme alle scimmie condivideranno gli stessi diritti e daranno inizio a una nuova società. Il film si chiude tornando seicento anni dopo al sermone del Legislatore davanti ad una platea mista di giovani scimmie e umani. Quando una bambina gli chiede se vivranno sempre in pace, lui risponde con la criptica frase “Forse, solo i morti conoscono il futuro…” mentre la telecamera inquadra la statua di Cesare che sembra lacrimare dagli occhi.
Anno 2670 – Ultimo atto è considerato il più debole dei film che compongo la saga. È l’unico sequel dove la sceneggiatura non fu realizzata da Paul Dehn e si vede. Le incongruenza con la cronologia temporale sviluppata nei precedenti film si sprecano. Ad esempio, nel finale il guardiano dell’armeria della città delle scimmie afferma di svolgere quel ruolo da ventisette anni, il che si andrebbe collocare all’anno dopo l’arrivo di Zira e Cornelius in Fuga dal pianeta delle scimmie. Il finale di riconciliazione poi mal si sposa con la futura distruzione della Terra, avvenuta nell’anno 3978 in L’altra faccia del pianeta delle scimmie. Dehn aveva inizialmente presentato una sceneggiatura dove Cesare era ucciso da un’altra scimmia, ribadendo il pessimismo del secondo film. Fu la produzione a rifiutarla, indirizzata ormai verso un pubblico di ragazzi e famiglie, facendola riscrivere dalla coppia John William e Joyce Hooper Corrington (co-autori nel 1971 anche della sceneggiatura di 1975 – Occhi bianchi sul pianeta Terra), annacquando il potenziale della vicenda. A non aiutare alla riuscita del film anche il budget ridotto, il più basso dell’intera saga, cosa che si nota, ad esempio, nelle scene di massa dove alcune comparse si vede palesemente che indossano delle maschere da scimmia.
OLTRE IL CICLO ORIGINALE
Con l’ultimo film del ciclo e la morte del produttore Arthur P. Jacobs si chiude la prima avventura cinematografica de Il pianeta delle scimmie ma il brand riscuoteva ancora molto successo perché la Fox non cercasse di prolungarne lo sfruttamento. La serie televisiva Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes) fu lanciata nel 1974 e riproponeva l’espediente degli astronauti giunti dal passato nell’era delle scimmie. Ambientata nel 3085, circa 900 anni prima il film capostipite, segue le vicende degli astronauti Virdon (Ron Harper) e Burke (James Naughton) alle prese con la nuova società dominata dalle scimmie. Roddy McDowall, unico superstite del cast originale, interpretava un altro scimpanzé, Galen, che salva e si unisce alla coppia di umani inseguiti dall’esercito gorilla comandati dal generale Urko. A differenza che nel film, qui gli umani uno sono completamente devoluti allo stato animalesco, ma sono solo meno intelligenti e assoggettati al governo scimmiesco di stampo feudale. Lo scarso successo, dovuto probabilmente alla ripetitività degli episodi, ne decretò la chiusura dopo soli 13 episodi.
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Del 1975 è invece la volta di una serie a cartoni animati per un pubblico infantile dal titolo Ritorno al pianeta delle scimmie (Return to the Planet of the Apes), con un’ambientazione più vicina al romanzo di Boulle. Qui le scimmie posseggono una tecnologia avanzata con grandi città, autoveicoli e televisioni, collocando la serie su una linea temporale alternativa rispetto quella dei film. Anche questa serie chiuse dopo 13 episodi nel 1976 e scrivendo temporaneamente la parola “fine” sull’avventura sullo schermo del franchise (che invece continuò fino al 1993 sulle pagine di alcune serie e miniserie a fumetti).
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Da ricordare c’è anche la serie televisiva giapponese Saru No Gundan (letteralmente Esercito delle scimmie), inedita in Italia e andata in onda nel 1974, che riprendeva lo spunto del romanzo di Boulle. Quando un terremoto colpisce il Giappone, Kazuko Izumi, una scienziata e due bambini che stanno visitando il laboratorio dello zio, rimangono accidentalmente in animazione sospesa. Quando si risvegliano, si ritrovano in un mondo dove le scimmie hanno preso il sopravvento e gli umani sono schiavizzati. Il trio cerca di trovare un modo per tornare nel XX secolo. La serie andò avanti per 26 episodi. Nel 1987, montando il primo e ultimo episodio, fu realizzato un film di 90’ dallo stesso titolo (conosciuto nei paesi anglosassoni col titolo di Time of the Apes).
Tim Burton, nel 2001, riporta le scimmie alla ribalta con un remake su commissione, Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes), considerato, a ragione, il meno burtoniano dei suoi film. Il film reinventa la storia del primo film miscelandola con alcune trovate del romanzo e con scenari completamente inediti. Un pasticcio con momenti di comicità involontaria, come il trucco scimmiesco dell’attrice Helena Bonham Carter che la fa assomigliare a Michael Jackson. Charlton Heston, il Taylor del film originale, compare in un cameo questa volta nei panni di un’anziana scimmia che ripete la frase di chiusura del film del 1968.
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Di ben altro tenore è invece la nuova trilogia composta da L’alba del pianeta delle scimmie (Rise of the Planet of the Apes, Rupert Wyatt, 2011), Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie (Dawn of the Planet of the Apes, Matt Reeves, 2014) e The War – Il pianeta delle scimmie (War for the Planet of the Apes, Matt Reeves, 2017), che racconta la nascita e l’ascesa delle scimmie intelligenti.
Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, USA 1968, 112’, C). Regia di Franklin J. Schaffner. Sceneggiatura di Michael Wilson e Rod Serling dal romanzo di Pierre Boulle Viaggio a Soror. Il pianeta delle scimmie (La Planète des singes, 1963). Con Charlton Heston (George Taylor), Roddy McDowall (Cornelius), Kim Hunter (Zira), Maurice Evans (Professor Zaius), James Daly (Dottor Honorious), Linda Harrison (Nova).
L’altra faccia del pianeta delle scimmie (Beneath the Planet of the Apes, USA 1970, 95’, C). Regia di Ted Post. Sceneggiatura di Paul Dehn e Mort Abrahams. Con James Franciscus (Brent), David Watson (Cornelius), Kim Hunter (Zira), Linda Harrison (Nova), Maurice Evans (Professor Zaius), James Daly (dottor Honorious), Charlton Heston (George Taylor), James Gregory (Ursus), Paul Richards (Mendez XXVI).
Fuga dal pianeta delle scimmie (Escape from the Planet of the Apes, USA 1971, 98’, C). Regia di Don Taylor. Sceneggiatura di Paul Dehn. Con Roddy McDowall (Cornelius), Kim Hunter (Zira), Sal Mineo (Dottor Milo), Bradford Dillman (Dottor Lewis Dixon), Natalie Trundy (Dottoressa Stephanie Branton), Eric Braeden (Dottor Otto Hasslein), Ricardo Montalbán (Armando), William Windom (Presidente degli Stati Uniti).
1999-La conquista della Terra (Conquest of the Planet of the Apes, USA 1972, 88’, C). Regia di J. Lee Thompson. Sceneggiatura di Paul Dehn. Con Roddy McDowall (Cesare), Don Murray (Governatore Breck), Natalie Trundy (Lisa), Ricardo Montalbán (Armando), Hari Rhodes (McDonald), Severn Darden (Governatore Kolp), Lou Wagner (Busboy), John Randolph (Presidente della Commissione).
Anno 2670 – Ultimo atto (Battle for the Planet of the Apes, USA 1973, 93’, C). Regia di J. Lee Thompson. Sceneggiatura di Paul Dehn, John William Corrington e Joyce Hooper Corrington. Con Roddy McDowall (Cesare), Paul Williams (Virgilio), Claude Akins (Generale Aldus), Natalie Trundy (Lisa), Severn Darden (Governatore Kolp), Lew Ayres (Mandemus).
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IL PIANETA DELLE SCIMMIE, la saga originale “Oh, Dio mio... Sono a casa... Sono a casa. L'astronave... È ricaduta sulla Terra sconvolta dalle esplosioni atomiche.
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redazione-rosebud · 6 years ago
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L’ultima incazzatura di Cacciari da dagospia.com
27 Maggio 2016
Calabresi titola Referendum, Cacciari: “Riforma maldestra ma è una svolta. L’attacca chi ha fallito per 40 anni”, Renzi gode. L’orgasmo potrebbe essere diventato intenso in quel di Palazzo Chigi quando è stata letta la prima risposta del filosofo “(Chi ha fallito?) Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali”. Cacciari avrebbe fatto anche i nomi e i cognomi “Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda?”. Come no! La speranza è che il cronista se li sia ricordati, perché oltre la madre dubito che qualcuno li ricordi: un intellettuale italiano valido degli ultimi cinquanta anni è più raro dei panda cinesi esposti a una definitiva estinzione.
Secondo Cacciari alle radici del suo fallimento generazionale ci sarebbe il fatto che lui e i suoi coetanei “Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori”. Quindi, con la logica di un sillogismo andato a male, conclude “Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del Sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana”.
Dunque, mi fa male la testa ma provo a estendere di mio le 3 proposizioni del criptico sillogismo cacciariano e la mia comprensione dello stesso:
Cacciari e i suoi hanno fallito anche perché hanno mantenuto una Costituzione debole nei confronti dei poteri forti (perché così interpreto l’espressione “decidono altri, da fuori”).
Il governo Renzi è indubbiamente il governo italiano più apprezzato dalle lobby e dai poteri forti che vogliono la vittoria del SÌ al Referendum.
Cacciari vota SÌ al Referendum
Straordinario! Ma a ben guardare questo comportamento intellettualmente spastico dimostra in pieno perché la generazione di Cacciari ha fallito. Altro che identità della sinistra! Peccato pure per lo stesso ex sindaco di Venezia che a volte riesce a stupire e a volte proprio non riesce a vincere l’insostenibile tentazione dell’intellettuale italiano di “servire”.
Ma almeno ci toglie ogni dubbio: dovendo scegliere, SALVIAMO I PANDA!
Diario dai giorni del golpe bianco è una cronaca atipica dell’attualità nazionale negli anni del governo Renzi. È un racconto goliardico che è storia, fatto, testimonianza, commento, opinione, leggenda internettiana, diario politico e irriverente… ed è una ridda di personaggi (giornalisti, politici, conduttori, commentatori, opinionisti, blogger) che animano una commedia umana quasi goldoniana nel suo essere prima di tutto appassionata baruffa chiozzotta. Una commedia che sembra non avere mai avuto inizio e che non dovrà finire mai tra le contrade soleggiate e scaltre di un bellissimo paese, patria di Dante, di Michelangelo e di Machiavelli, casa dell’anima di molti Pinocchio e di tanti don Camillo e Peppone: l’Italia.
Diario dai giorni del golpe bianco 
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Rina Brundu is an Italian writer and publisher who lives in Ireland. Author of several books and hundreds of articles and literary reviews, she has a keen interest in literary criticism, philosophy, e-writing and journalism.
Website www.rinabrundu.com.
Dopo l’ultima incazzatura… storia delle incazzature di Massimo Cacciari dal Diario dai giorni del golpe bianco. Dalla “Kehre” (la svolta) renzista di stampo heideggeriano al perché è necessario salvare i Panda…
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Libro difficile, tortuoso, forse il più criptico di Bevilacqua, ma non per questo meno interessante. Credo debba essere letto più volte e, soprattutto, cercando di immedesimarsi nella condizione del protagonista: un uomo disilluso, stanco, senza senza più emozioni, senza più voglia di continuare il suo percorso di vita. Insomma uno che non ci sta più con la testa. Significativo, al riguardo, il brano in cui prova a spiegare alla ex moglie il suo malessere: "...il male in una testa dispone di un numero infinito di possibilità, mura le idee e dentro le consuma con i suoi acidi, incatena gli slanci del'intelligenza, raffredda il calore molecolare con cui si percepiscono visioni della vita: lascia, declamo, una pianura buia e fredda dove qualche idea ancora rimbalza, come un rottame". Si noti anche il modo di scrivere, a volte senza l'uso delle virgole, quasi come se il narratore fosse in uno stato febbrile, paranoico. Ciò che lo tiene ancora legato al mondo è unicamente il portare a compimento la "beffa", come lui la chiama, nei confronti della ex moglie e della madre di lei. Conclusasi la sua vendetta non gli resta altro che il suicidio, che però non è un atto tragico, disperato, bensì la naturale fine della sua esistenza terrena, quasi dolce, normale, proprio come la palpebra che si chiude e si abbandona al sonno. Ripeto, per capire il senso del romanzo, a mio parere, bisogna leggerlo più volte, sforzandosi di entrare nella mente del suo protagonista, nella fattispecie procedimento più facile per gli uomini che per le donne. Se non ricordo male, Bevilacqua scrisse il libro nel periodo in cui si stava realmente separando dalla moglie, con la quale ha avuto un rapporto assai burrascoso, culminato anche con una denuncia per percosse da parte di lei e caratterizzato da una lunga battaglia legale. Bellissime poi le frequenti citazioni dei versi della Divina Commedia. Molto belle anche le pagine finali, dove il protagonista saluta per l'ultima volta i luoghi, le persone e le cose che lo hanno accompagnato, nel bene e nel male, nella sua vita, prima di porre termine alla sua esistenza. Fu un'ottima, sebbene difficile, lettura.
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