#ridondanza
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𝗟𝗮 𝗯𝘂𝗹𝗶𝗺𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗶 #Ai
Il titolo può sembrare di segno assolutamente negativo, ma in realtà vuol essere interrogativo e portare elementi di riflessione oltre a statistiche reali. Mi appoggio ad un articolo di Everypixel | Creative Technologies apparso sul loro Journal. Dalla loro indagine/ricerca si ricava che in un solo anno i creatori di contenuti Ai-generated, hanno prodotto 𝟭𝟱 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗮𝗿𝗱𝗶 𝗱𝗶 𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗶 !Tanto per…
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ridondanza: paesaggi e ritratti. analisi: assiomi / vincenzo agnetti. 1971
cliccare per ingrandire [Vincenzo Agnetti, Ridondanza: paesaggi e ritratti. Analisi: assiomi. / Redundancy: portraits and landscapes. Analysis: axioms, 1971] da https://www.facebook.com/100001030945909/posts/6742737882437176/
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Vivere digitale, pensare analogico
Siamo così abituati a fare tutto con il cellulare, ad avere i numeri in rubrica e non saperli più a memoria, a comunicare attraverso le piattaforme più svariate, che non ci si rende conto che basta perdere il telefono per non essere più in grado di contattare qualcuno solo perché il suo numero era lì e da nessuna altra parte.
Non voglio invitare a rispolverare la vecchia rubrica di carta, che sarebbe utile in caso di blackout internet, ma almeno sarebbe il caso di attrezzarsi con strumenti alternativi allo smartphone. Ad esempio, collegare Telegram e WhatsApp (e Signal e tutte le altre app che lo permettono) anche al PC, così da poter restare in contatto e non fare preoccupare chi tiene a noi e non riesce più a contattarci, ma anche per essere noi in grado di recuperare tutti i nostri contatti in ogni momento.
In alternativa, ci sono sempre le chat interne ai social che usiamo quotidianamente, che sono accessibili anche da PC.
Ci sono tante soluzioni che si possono usare, se non ci focalizziamo solo ed esclusivamente sullo smartphone e ragioniamo, anziché delegare questa attività ad un mattoncino intelligente quanto vogliamo ma pur sempre una macchina soggetta a guasti, smarrimento, furto.
Troppo spesso sento persone che dicono di non ricordare la password di un account. Perché non provvedono ad usare un password manager o un blocco di carta? Nella tecnologia esiste il principio di ridondanza: se un sistema è vitale, ad esempio sugli aerei, ne esistono almeno altri due d'emergenza perché, se si rompe quello principale e quello secondario non funziona, ce n'è un terzo o, addirittura, un quarto di riserva, se la procedura manuale dovesse essere inutilizzabile.
Bisogna farlo anche nella vita quotidiana, vista l'importanza vitale che ha assunto il cellulare nella nostra vita. Fare preoccupare chi tiene a noi, solo perché si è dimenticato il telefono da qualche parte, è una cosa gratuita e non necessaria...
#attenzioni#tecnologia#smartphone#cellulare#telefono#digitale#analogico#principio di ridondanza#social network#chat#WhatsApp#Telegram
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Il comunismo cosmico di Franco Piperno - Jacobin Italia
Il comunismo cosmico di Franco Piperno - Jacobin Italia https://search.app/77gv63Re1jyNniS48
Il comunismo cosmico di Franco Piperno
Giuliano Santoro
15 Gennaio 2025
Dalla terribile bellezza del lungo Sessantotto al municipalismo, sempre osservando e raccontando le stelle: addio a Franco Piperno
Nella mia infanzia, al nome di Franco Piperno associavo una specie di brigante- licantropo. Mio padre mi portava ad Arcavacata, nel campus dell’Università della Calabria, a vedere «i lupi di Piperno». Cominciavamo a girare attorno alla rete al di là della quale vivevano i lupi. Mio padre certe volte prendeva un bastone e lo batteva sulla recinzione, perché venissero fuori e li potessimo vedere. Una volta uscirono fuori dagli arbusti all’improvviso, come accade nei film di paura quando la colonna sonora accompagna la tensione fino a farla esplodere. Grosso spavento e poi grosse risate. Chissà se quel Piperno, che Andrea Pazienza disegnava coi peli lunghi che uscivano dalle orecchie (appunto, un licantropo), ci guardava dal suo nascondiglio, con cappello a falde larghe, mantello e stivali.
Ma perché, poi, se ne stava rintanato? Quale sceriffo gli dava la caccia e quale reato gli veniva imputato? Mio padre non me lo spiegava e io non glielo chiedevo. Uno si immaginava questo signore che si era dato alla macchia, ma che allevava a distanza addirittura dei lupi. Venne fuori un altro indizio sulla licantropia del Pip. Proprio lui, «quello dei lupi» era anche solito uscire di notte e guardare le stelle.
Siccome la vita è fatta di cerchi che si chiudono e di anni che ritornano, a vent’anni dal mio primo incontro coi lupi finalmente chiesi a Pip quale fosse la loro storia. «Me li regalò un mio amico del dipartimento di ecologia dell’Università della Calabria che si occupava di lupi e di falchi – ha raccontato Pip – Li allevai amorevolmente, li allattai, li seguii, li filmai. Quei cuccioli mostravano un rapporto con la vita e con la violenza senza nessuna sbavatura e ridondanza. Era una dimostrazione di essenzialità. Sembravano chirurghi, quando azzannavano i conigli vivi». Ma perché li tenevi rinchiusi, Pip? «Volevo loro molto bene. Ne ero affascinato, ma ero costretto a tenerli in quel recinto. Altrimenti avrebbero azzannato le pecore dei contadini e quindi sarebbero stati uccisi. La natura aveva fornito loro un’autonomia totale, ma erano finiti per benevolenza umana in un recinto». In tutto ciò, Pip riconosceva la metafora della sua generazione: «Mi parlavano di quanto accadeva a molti dei miei compagni ed amici e un po’ anche a me stesso. Penso in particolare a mia moglie Fiora, che era stata condannata a dieci anni di galera per associazione sovversiva». Come finì? «Per otto mesi non mi staccai da quei lupi. Poi ricevetti anche io un mandato di cattura e non mi parve il caso di scappare con due lupi, era troppo complicato. Allora il rettore dell’università li accolse in quel grande recinto del campus di Arcavacata».
La storia dei lupi, della loro autonomia e della loro selvaggia potenza costrette dentro una prigione dimostra che Franco Piperno, scomparso a Cosenza il 13 gennaio 2025 a 82 anni, conosceva bene l’arte della retorica e della seduzione linguistica, usava gli aggettivi e gli avverbi da consumato spadaccino della discussione. Come un lupo coltivava l’agguato. Come quando ci spiegava che nel Sessantotto si era smesso di investire sul futuro e si era scelto di giocare tutto sul presente. Era stato il movimento statunitense, diceva Piperno, che «aveva indicato la possibilità di sostituire alla lotta per la presa del potere la sperimentazione collettiva di una diversa vita civile, basata sulla produzione autonoma di relazioni comunitarie, capaci di far posto al corpo, cioè alla sensualità e al piacere». Precisava: «Questo è un punto decisivo perché è come praticare l’esodo, dove esodo non significa più, come gli antichi ebrei, andare via dall’Egitto per raggiungere la terra promessa; piuttosto lasciare emergere un diverso Egitto dal suo stato di latenza».
Piperno dalla Calabria si era spostato, da studente, a Pisa e poi a Roma. Cacciato dal Pci per «frazionismo», era stato tra i fondatori di Potere operaio, con Toni Negri, Oreste Scalzone, Sergio Bologna, Mario Dalmaviva e tanti altri. Era una delle organizzazioni che si formarono nel contesto del lungo Sessantotto italiano ma anche la prima ad autosciogliersi, nel 1973. «Toni dice che eravamo una specie di strana massoneria – mi raccontò una volta, col consueto sarcasmo – Era difficile entrare ma una volta che eri dentro tolleravamo qualsiasi follia». Si differenziava da alcuni suoi compagni di strada che si sono formati alla formidabile scuola della «nefasta utopia» dell’operaismo politico, come la chiamava sarcasticamente Franco Berardi Bifo in un saggio di qualche anno fa. Non cercava nessuna centralità lì dove è più alto lo sviluppo capitalistico. Ma manteneva una caratteristica dello stile operaista, che lo preserva da qualsiasi forma di teorizzazione prescrittiva e lagnosa. La si riconosceva quando affermava che il comunismo, inteso come abolizione della riduzione della forza-lavoro a merce, non bisogna costruirlo magari armati di buone intenzioni e libretti rossi. Esso è già in atto. La potenza della cooperazione sociale è già, qui ed ora, più forte della solitudine del capitalismo. Bisognerebbe prenderne atto, dunque, e per questo vivere meglio. «La festa sessantottina è ritrovare l’interezza dell’essere – scriveva ancora Pip – dove nulla eccede o esclude, per essere completamente sé stessi, occorre fondarsi con gli altri nel tutto; come quando nel carnevale si è donne uomini animali, tutti insieme ebbri fino al punto che l’orgia appare sulla soglia, come assolutamente possibile».
Negli anni del ritorno in Calabria, dopo l’esilio in Canada e Francia a seguito della persecuzione giudiziaria che dal 7 aprile del 1979 in poi colpì lui e tanti suoi compagni e compagne, si occupò di Sud, del rapporto tra sviluppo e ricchezza sociale, della critica del tempo lineare del capitale. Prese la cattedra di fisica della materia e promosse, a Cosenza, la nascita dell’emittente comunitaria Radio Ciroma e lanciò in tempi non sospetti, ben prima dell’epoca di Porto Alegre e della democrazia partecipativa su base locale, la suggestione del municipalismo: «Potere alle città, potenza ai cittadini». Un piccolo aneddoto per dire della capacità di stare nelle cose del mondo. Erano i primi anni Novanta quando, ospite di una tribuna elettorale per esporre il programma della lista civica comunale che aveva messo insieme ai suoi, impiegò il tempo che gli era concesso per tessere l’elogio del locale collettivo di studenti medi che si dedicava alla crescita comune e al mutuo appoggio invece che per chiedere esplicitamente voti. Il dettaglio sta nel fatto che quegli adolescenti (mea culpa: quando si è così giovani si ha il diritto di essere estremisti) impegnavano parte del loro tempo anche a criticarlo duramente, imputandogli una qualche deviazione da chissà quale ortodossia rivoluzionaria. Chapeau, Franco.
Divenne, sempre a Cosenza, per due volte assessore «al planetario» e al traffico. Ruolo che interpretò invogliando gli agenti della polizia locale ad applicare con rigore il codice della strada per dissuadere i suoi concittadini dall’uso dell’automobile anche per i piccoli tratti. E uno dei suoi vecchi compagni infilò una battuta fulminante: «Finalmente Franco è davvero a capo di una banda armata». La sua nomina ad amministratore la si deve a Giacomo Mancini, segretario socialista prima di Craxi e ministro che concluse nella sua Cosenza la sua carriera politica. E che in nome del garantismo aveva difeso Piperno e tutti gli autonomi imputati. C’è una scena che rivela cosa rappresentasse Mancini all’epoca della grande repressione. Il 9 marzo del 1985 la polizia aveva ucciso a Trieste il militante dell’autonomia Pietro Pedro Greco, sparandogli addosso con la scusa che aveva scambiato un ombrello per un fucile. I funerali di Pedro si tennero nel suo paese d’origine, un villaggetto della provincia di Reggio Calabria. Bisogna immaginare che clima ci fosse: pochissimi compagni, affranti e braccati, con le bandiere rosse nel paesaggio lugubre della temperie degli anni Ottanta. A un certo punto davanti alla chiesa si fermò un’automobile e ne scese il leader socialista. Era l’unico personaggio politico a partecipare alle esequie e chiedere giustizia per quella morte.
Le analisi di Piperno di questa fase mettevano insieme l’osservazione filosofica e antropologica delle forme di vita meridiane con la strabiliante capacità affabulatoria di quando raccontava il cielo. Chiunque abbia avuto la fortuna di fare un’uscita notturna nei boschi con lui per assistere allo Spettacolo cosmico che metteva in scena spiegando le stelle, non può dimenticare il modo in cui teneva insieme nozioni astronomiche, narrazioni mitologiche, considerazioni esistenziali, divagazioni politiche. Era un modo di mettere in pratica la convinzione che le diverse materie erano fatte per essere mescolate, messe a confronto, intrecciate e che non esisteva la neutralità del metodo scientifico. Questo doveva essere il senso dell’università, sosteneva Piperno: un luogo in cui tutti i saperi si incontrano, oltre la gabbia delle discipline.
Quando, nel 1978, le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, Piperno era già tornato in Calabria, a insegnare Fisica della materia all’università. Capì che la morte del presidente della Democrazia cristiana sarebbe stata un disastro per tutti i soggetti in campo e si adoperò per salvargli la vita, approfittando anche del fatto che nel frattempo alcune sue vecchie conoscenze del Potere operaio romano avevano scelto di entrare nelle Brigate rosse. Gli rimase appiccicata una formula, quella che invitava a coniugare la «geometrica potenza» di via Fani con la «terribile bellezza» degli scontri di piazza del 12 marzo del 1977 a Roma. Era un modo per dire che ogni forma di scontro, anche la più radicale, non avrebbe dovuto prescindere dalla dimensione di massa. Ma la formula, che lui stesso avrebbe definito dannunziana, passò per l’esaltazione del terrorismo. Sempre alla Commissione parlamentare d’indagine sul terrorismo, Piperno disse senza mezzi termini ciò che pensava di quella vicenda e dei motivi che lo spinsero a immischiarsi nell’affaire: «Le Br erano davvero convinte che si potesse interrogare Moro e scoprire i legami con gli Stati uniti – affermò – C’era un livello di analfabetismo politico nel gruppo dirigente delle Br che faceva paura e che peraltro secondo me traduceva la situazione ingarbugliata del paese».
Accanto a saggi pensosi e a scritti densi (molti dei quali raccolti negli ultimi tempi dalla rivista online Machina), Piperno era abilissimo nel motto di spirito, nella risposta ironica lapidaria e dalla logica stringente, maneggiava paradossi che ti mettevano con le spalle al muro. A un interlocutore che in un programma televisivo gli rinfacciava di aver esaltato l’uso della violenza, replicò trasecolato ricordando con una metafora iperbolica il contesto della «piccola guerra civile italiana» degli anni Settanta: «Mi chiede se la violenza è giusta? È come se mi chiedesse se cacare è bello. Cacare non è giusto, è inevitabile». In un’altra occasione, venne accusato di aver favorito coi suoi amici sessantottardi la pratica del libero amore, contro la famiglia tradizionale: «Noi non costringevamo nessuno – replicò Pip, sinceramente sgomento – Se uno voleva essere libero poteva farlo, ma non era obbligato. Con noi a volte c’erano anche preti e suore, nessuno li costringeva al libero amore».
Una vita talmente piena, colma di tentativi, errori, sconfitte avventurose ed esperienze irripetibili, viene riassunta dalle cronache con formule giudiziarie e immaginette pigre e precostituite. Delle quali Piperno era consapevole. Anzi, ci giocava. Una decina di anni fa mi trovai con Franco a Torino, per un dibattito al quale avremmo dovuto partecipare. A un certo punto entrammo in una piccola rosticceria di fronte a Palazzo Nuovo per mangiare un boccone. Venne fuori che anche la signora che ci serviva al bancone era di origini calabresi. Allora attaccammo discorso. Lei era evidentemente sedotta dal suo eloquio elegante. (C’era un vezzo, non solo di Franco devo dire, che portava a mescolare il linguaggio di tutti i giorni a parole d’altri tempi: gendarme per dire poliziotto, malfattore per dire bandito, querulo per dire piagnone e così via). «Ma sa che non si sente molto che lei è di giù? Che mestiere fa?», gli disse la locandiera. Lui rispose con gli occhi di ghiaccio che ridevano, l’inconfondibile erre arrotata e i peli che gli uscivano dalle orecchie ben pettinati: «Dev’esserhe che sono stato in prhigione».
* Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto.
# Franco Piperno
# fondatore e dirigente di Potere operaio 1968
#università della Calabria / professore di fisica
# esilio in Francia e Canada
Brillante e raffinato intellettuale, rivoluzionario alla luce del sole ( citazione da "Il Manifesto), mai contraddittorio. Uomo profondamente legato alla sua terra di origine : la Calabria.
13 /1/2025 C' è luna piena e Venere e le stelle.. Buon viaggio. 🌹💫💫💫
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Le 40 regole per parlare bene l'italiano secondo Umberto Eco
1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare... indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è "fine".
9. Non generalizzare mai.
10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: "Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu."
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s'intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. L'iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19. Metti, le virgole, al posto giusto.
20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21. Se non trovi l'espressione italiana adatta non ricorrere mai all'espressione dialettale: peso el tacòn del buso.
22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono "cantare": sono come un cigno che deraglia.
23. C'è davvero bisogno di domande retoriche?
24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell'inquinamento dell'informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.
26. Non si apostrofa un'articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l'autore del 5 maggio.
31. All'inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
32. Cura puntiliosamente l'ortograffia.
33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
34. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.
35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
36. Non confondere la causa con l'effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
38. Non indulgere ad arcaismi, hapax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differenza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.
39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
40. Una frase compiuta deve avere.
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𝐋𝐞 𝟒𝟎 𝐫𝐞𝐠𝐨𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐝𝐢 𝐔𝐦𝐛𝐞𝐫𝐭𝐨 𝐄𝐜𝐨
1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9. Non generalizzare mai.
10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu. ”
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19. Metti, le virgole, al posto giusto.
20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.
22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?
24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.
26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.
31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
32. Cura puntiliosamente l’ortograffia.
33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
34. Non andare troppo sovente a capo. Almeno, non quando non serve.
35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.
39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
40. Una frase compiuta deve avere.
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E tuona pure, a dicembre, col buio, con 2 gradi sopra lo zero, a cinque giorni dal Natale. Tempo assai bizzarro, potremmo definirlo artico-tropicale, i gattini se ne staranno comodi comodi nella cuccia del cane, perché qui abbiamo un cane che dorme assieme ai gattini, fa parte del quadretto idilliaco (e qui potremmo anche aprire la consueta parentesi etimologica: idillio, dal gr. eidýllion, dim. di eîdos ‘immagine’; propr. “quadretto, bozzetto”, per cui "quadretto idilliaco" è un ridondanza, tipo "piove pioggia" o "entra dentro", perché entrare fuori è difficile). Insomma, che tempo di merda.
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Ch-ch-changes
🌟 Novità
Stiamo eseguendo un nuovo esperimento che modifica l'intestazione dei post per ridurre la ridondanza degli avatar nei reblog, cerchiamo di risparmiare spazio in verticale spostando le etichette dei suggerimenti, di offrire più spazio per i badge e altro ancora! Sul web desktop, vengono rimossi anche gli avatar mobili lasciando ai post tutta la larghezza intera con le barre laterali. Se hai un commento su questa modifica, invialo al supporto utilizzando la categoria "Feedback".
Abbiamo rimosso il carosello del blog nella parte superiore della scheda della dashboard Blog Subs (per coloro che lo hanno abilitato), poiché causava un drastico peggioramento del tempo di caricamento. (Puoi abilitare questa scheda nelle impostazioni di Tumblr Labs o tramite il nuovo pulsante di configurazione della scheda della dashboard sperimentale, se disponibile.)
Abbiamo ottimizzato la nostra navigazione in modo da rendere molto più semplice, per gli utenti nuovi e poco frequenti, il miglioramento della propria esperienza qui. Grazie a tutti coloro che hanno inviato i loro commenti, è stato di grande aiuto durante il perfezionamento!
La riprogettazione delle attività è ora disponibile nelle app Android e iOS! Dovrebbe essere molto più semplice identificare le notifiche non lette, così come le notifiche dei tuoi preziosi blog e blog che segui.
🛠 Correzioni
Risolto un problema nei caroselli di schede tag consigliate e correlate che mostravano un pulsante "Segui" quando stai già seguendo quel tag.
I blog che hai seguito di nuovo di recente, dopo aver smesso di seguirli, non saranno più nascosti dalla tua dashboard. Se ti è successo, smetti di seguire e segui nuovamente i blog in questione ancora una volta.
Stavamo riscontrando alcuni problemi con gli incorporamenti di SoundCloud che non funzionavano nei post, ma ora è stato risolto.
Gli incorporamenti di Spotify funzionano di nuovo! Grazie a Spotify per averci aiutato a risolvere questo problema!
Nei browser dei telefoni cellulari, il testo "Origine" e "Inviato da" nella parte inferiore dei post è ora correttamente allineato a sinistra (era spostato di qualche pixel).
Inoltre, nei browser dei telefoni cellulari, abbiamo risolto un problema visivo sulle pagine dei tag di tendenza che faceva sì che l'etichetta "Tendenze attuali" si trovasse sulla stessa riga del tag stesso.
Se hai autorizzato i contenuti per adulti, non riceverai più un avviso quando visiti un blog che contiene contenuti per adulti.
Facendo clic sugli elementi dell'intestazione di un reblog ora ti porterà negli stessi posti nell'app iOS come nell'app Android e sul web.
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Mercoledì scorso sul web abbiamo riscontrato alcuni brevi problemi con le informazioni del blog (come gli avatar e il pulsante Segui), ma sono stati risolti.
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Soul Kitchen - Bugs Bunny Crazy Castle 3
Sono preso male quindi scrivo. Vediamo se mi passa...
Non sono qui per parlare del gioco in se, ma piuttosto delle sensazioni di un momento, in un posto che per qualche motivo riesco ancora a ricordare abbastanza vividamente.
Mi trovo nella cucina di casa di mia nonna.
E' un martedì pomeriggio, giorno di chiusura dell'attività dei miei nonni all'epoca (avevano un bar), e si stanno preparando per andare a fare la spesa per casa/bar.
Io sono in questa cucina che gioco a Crazy Castle 3 e di base non c'è¨ niente di strano, normale amministrazione di me che gioco allo stesso gioco da un sacco di tempo perché sono bloccato all'ultimo livello della seconda tranche cioè la Hall (le tranche sono, in ordine: Garden > Hall > Basement > Treasury).
Fuori fa freddo, è febbraio.
Il sole è già in procinto di salutarci, sono circa le 16.30.
Dalla porta semiaperta della cucina vedo la sala del bar, buia e vuota.
Ogni tanto anche ripensare al bar pieno mi fa quasi strano.
In quel periodo, ovvero inverno del 2000 ("ritmo del duemila / adrenalina puraaaaah" cit. Ritmo - Litfiba - Mondi Sommersi - 1997) come si confà a un individuo di 7 anni (manco compiuti, fai anche 6) non ho un accesso a internet e quindi ignoro bellamente cosa mi si parerà davanti dopo questa sequela di livelli della Hall di sto castello sempre più difficili e ostici.
Ad un certo punto il miracolo. Supero il (per me) famigerato livello 39, mi prodigo di trovare carta e penna per segnarmi la password per continuare poi dal livello 40, siccome in quel momento mi chiama mio nonno dicendomi esser pronti per andare.
E proprio in quell'istante qualcosa da qualche parte del mio cervello si materializza, e rimane li ancora oggi come una fotografia che riesco a rivedere se ci ripenso. Come una fotografia su pellicola di quel tempo, che a lungo andare perde in dettagli ma rimane sempre riconoscibile.
"La camera ha poca luce
E poi è molto più stretta di come da giù immaginavo"
diceva Ligabue in Bambolina e Barracuda, e devo dire che la descrizione corrisponde quasi del tutto.
Questa cucina è una stanza dalla forma rettangolare, ma non troppo lunga. Un rettangolo un po' tozzo ma comunque non Umberto.
Al centro un grande tavolo con piano in marmo grigio la fa da padrone, sopra di esso una fruttiera in vetro verde, sempre piena.
Ai lati del tavolo (punto di vista dalla porta d'entrata) rispettivamente:
A sinistra
subito dietro la porta un piccolo angolo credenza zeppo di libri di cucina (sopra), incarti di vari prodotti, sacchetti di carta per il pane (nel mezzo) e due piccole ante contenenti ogni sorta di attrezzo quali chiavi, cacciaviti o anche prodotti spray tipo insetticida e simili che ovunque stan bene tranne che in una cucina (sotto). Superato questo angolo il frigorifero, un vecchio frigorifero incassato ricoperto dall'anta in legno, seguito dal piano cottura, un doppio lavello e alla fine della parete una delle due finestre.
A destra
subito all'altezza del gomito inizia quello che è un mobile angolare in legno anch'esso con piano di marmo grigio che fa il paio con suo fratello The Table, che proseguirà sino all'altro capo della stanza.
La parte sotto è composta di semplici ante che nascondono il loro contenuto fra vecchie riviste, la stecca di MS Bionde e attrezzi da cucito in capo, il posto dove viene tenuto il pane della giornata nell'angolo e poi (perdonate la ridondanza) lungo la parte lunga tovaglie, tovagliette, tovaglioli, pentole, bicchieri (che non erano li da ieri), insalatiere, e altri suppellettili TASSATIVAMENTE DA NON USARE MAI.
Sopra questo mobile vi sono diverse situazioni, anche abbastanza diverse fra loro. Sempre in prossimità del gomito, qualora si stesse entrando, è visibile con la coda dell'occhio un posacenere blu dell'Aperol cui da che ho memoria ha sempre ospitato al suo interno un mazzo di chiavi del quale ho sempre ignorato quali porte avrebbe potuto aprire, un elastico giallo, una graffetta e una 200 lire.
A fianco immancabile è la combo Sorrisi&Canzoni + rivista di gossip a piacere. Ma più ci si addentra con lo sguardo e più la situazione si fa complessa.
L'angolo viene dominato da una tv a tubo catodico della Mivar (top orgoglio italiano non ironicamente), con lo schermo bombato che mangia buona parte delle barre dell'energia in quasi tutti i picchiaduro che era possibile giocare su ps2 da li a pochi anni.
Dietro questo Golia ai fosfori osserviamo un buco nero nel quale nemmeno la luce fa in tempo a venire assorbita, non lo raggiunge proprio.
Letteralmente la camera dei segreti, nella camera.
Si dice vi sia stato ritrovato di tutto dietro a quel monolito grigio opaco, da svariate sorprese di ovetti kinder a un centrotavola che sembrava essere andato perduto per sempre.
Li giaceva anche un misterioso contenitore grigio, in metallo, che ricordava la forma di quelli che si appendono in doccia per poggiarvi i vari shampoo, bagnoschiuma e simili. Forse il suo scopo in origine era proprio quello, ma poi qualche sconvolgimento spazio-temporale ha fatto si che venisse dimenticato in quell'anfratto nascosto.
Sempre dietro al televisore, oltre al suo cavo di alimentazione se si disponevano di arti lunghi a sufficienza ci si poteva addentrare fino a scoprire sia ben tre prese a muro più una spina volante, anche lei senza padrone.
Un cavo di alimentazione si, ma per chi?
Se ci si chiede chi controlla i controllori allora sarebbe giusto anche chiedersi cosa alimenta l'alimentazione? Who watches the Watchmen?
Superata la Notte Eterna ritorna la luce, e a fianco del televisore spunta un cesto di vimini con al suo interno vari giochi e fumetti miei fra cui macchinine, volumi di Topolino, quaderni di disegni, pennarelli e cosi via.
Accanto vi è quella che per forma e scopo risulta esser a tutti gli effetti un'anfora. Non dell'avidità ma quasi. "Quindi chi sei tu per giudicare?" direbbe qualcuno a riguardo.
La sua forma ricorda una donna di Willendorf per le sue rotondità che suggeriscono fertilità e abbondanza. E di abbondanza in quell'anfora ce n'era, sicché era stata riempita fino all'orlo di documenti, ricevute, scontrini, un blocchetto di assegni, collane, bracciali, orecchini, alle volte anche monete. Ovviamente era imperativo il "LASCIA STARE NON TOCCARE".
E noi senza toccare, limitandoci a guardarla in tutta la sua bianca e lucente ceramica, gettiamo l'occhio (e non il cuore) oltre l'ostacolo per incontrare un piccolo forno a microonde che termina l'allestimento del piano.
Fra il piano e il muro vi è un angusto spazietto di 1 metro circa, nel quale viene confinata una rossa sedia da giardino.
Quello che per anni ha rappresentato un angolo strategico in quanto era l'angolo del termosifone, luogo di sollievo per i lunghi inverni passati col Game Boy fra le mani, a cercare sia calore che un angolo illuminato in epoca pre GBA SP.
Ah, che male al collo.
A parete troviamo una composizione di pensili che segue il perimetro del mobile di cui sotto, anche questo pieno di situazioni abbastanza varie dietro alle sue ante marroni.
Anche qui si nascondono servizi di piatti e bicchieri che si e no si vedevano a natale, alcuni calici "griffati" di varie bevande che si servivano nel bar ma la sezione più pittoresca rimane quella perpendicolare al tv, che precedentemente abbiamo battezzato come Notte Eterna.
Anta ad angolo, che si apre piegandosi su se stessa rivelando due mensole dalla conformazione quasi simile ad una casa delle bambole. Mancava solo una piccola scala per rendere comunicanti primo piano e piano terra. Videocassette, nastri vergini, palette di trucchi, altre collane e gioiellini fra bigiotteria e non sono solo alcuni dei generi che si possono trovare all'interno. E, come sotto, un infinita oscurità.
"Putèl, andom?"
Le parole di mio nonno che mi chiama per andare con loro,
spengo il gbc dopo aver segnato la password e inizio a fantasticare su cosa troverò poi nel Basement, del quale ho visto solo la schermata di selezione del livello.[continua nei commenti]
#racconti#flusso di coscienza#immagini tumblr#images and words#images#raccontare#in memoriam#memoriaspoeticas
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Le 40 regole
per parlare bene l'italiano
1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è "fine".
9. Non generalizzare mai.
10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: "Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu."
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. L’iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.
17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
19. Metti, le virgole, al posto giusto.
20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.
22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?
24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.
26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.
31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
32. Cura puntiliosamente l’ortograffia.
33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
34. Non andare troppo sovente a capo. Almeno, non quando non serve.
35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
38. Non indulgere ad arcaismi, hapax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differenza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.
39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
40. Una frase compiuta deve avere.
- Umberto Eco
Ecco... Seguendo queste semplicissime regole si impara benisssssssimo l'italiano...
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO PRIMO - di Gianpiero Menniti
LA CONOSCENZA LIMPIDA
Non c'è immagine dipinta da Piero della Francesca (1416-1492) che non possieda il dono della chiarezza espressiva: nei colori e nei toni, nelle figure, nel disegno, nello spazio. Le rappresentazioni esprimono una ricerca di esattezza che spinge la narrazione verso l'estremo confine del segno, laddove ridondanza e magniloquenza cedono il passo al tratto sommario, alla sintesi concettuale, al compendio scenico. Come se da una foresta oscura emergesse, dopo il diradarsi della fitta vegetazione, una lineare pianura a perdita d'occhio, inondata di luce. Così, ogni testo pittorico di Piero è poesia fatta delle sole parole necessarie e null'altro. E l'immagine diviene sapiente missione estetica che si rivela nell'immediatezza e nella lucidità, dei gesti e dei volti. La forma diventa conoscenza: accessibile, schietta, geometrica. È l'umanesimo di Piero, consapevole del limite oltre il quale la fedeltà al reale sprofonda nella voragine dell'indistinto. In questa scia, è ragionevole pensare agli artisti come ai veri filosofi del '400, artefici appassionati di un grandioso viaggio che, partito da Giunta Pisano due secoli prima, approderà fino alle avanguardie storiche del '900.
- Battesimo di Cristo, 1445
- Madonna di Senigallia, 1470 ca.
- Flagellazione di Cristo, 1444 - 1460
- Madonna del Parto, 1455-1465
- Sulla copertina del libro: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#piero della francesca#arte#arte medievale#arte italiana#maria casalanguida
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ULTRA MAGNUS ( Commander ) Studio Series 86 21
Ammetto che, alla notizia dell'uscita di questo Studio Series 86 ULTRA MAGNUS, non è che ho fatto tutti sti salti di gioia, dato che a mio avviso la classe Commander in cui l'hanno proposto è un bel po' sprecata, salvo poi eventualmente non riempire di ciccia ( ovvero gimmick ed accessori ) le eventuali lacune di massa del giocattolo, obiettivo però qui non del tutto raggiunto.
Infatti il problema principale con il ROBOT è che contemporaneamente troppo grande e troppo piccolo!! ^^' Troppo piccolo per essere un Commander, sfigurando vicino agli altri suoi colleghi Generations non solo per altezza ma anche per massa, ma troppo grande come scala vicino agli altri Voyager e Leader vari sinora usciti.
Per quanto fedeli al G1 solo nella modalità robotica assemblata, i 2 precedenti Magnus di War for Cybertron sono perfetti in scala con gli altri Generations, dato che sono una testa più alti di un Prime ma più bassi di un Dinobot, che nei cartoni Grimlock e soci sovrastavano abbondantemente un Optimus mentre Magnus era rappresentato non così alto rispetto a Rodimus.
Ora invece per forza di cose Magnus si ritrova a torreggiare abbondantemente sugli altri Voyager ma sopratutto ad essere mezza testa più alto dei Dinobot, senza contare l'esagerata ampiezza delle spalle, unico effettivo difetto estetico del robot, bisogna ammettere: colpa dei pannelli che sorreggono le braccia nel rimorchio ripiegati più volte, che se li ripiegavano diversamente e solo una volta l'effetto petto largo veniva smussato.
Ma diciamo che dopo un po' ci si fa l'abitudine, e digerite queste premesse ( magari ripetendosi in testa che un Magnus così grande omaggia il giocattolo originale, o cita eventuali svarioni di animazione del cartone… ^^'… o più praticamente, accorciando un po' le ginocchia come consente la trasformazione in modo che sia almeno alto COME e non più Grimlock e soci ), ci si trova davanti ad un robot davvero bello solido ed imponente, fedelissimo all'iconografia ed ai dettagli del settei del cartone.
Un altra critica che mossi mesi fa è la sua eventuale ridondanza con chi ha già la versione Masterpiece, quella sì perfetta in scala ( e vabbè, è un MP ^^' ), ma nel suo piccolo questo SS si permette di migliorare alcuni dettagli rispetto al Capolavoro Takara, anche se si possono gustare solo nel retro del modellino, ovvero la solidità delle gambe, la schiena con meno avanzi ed il pannello / gonnellino sul sedere, qui perfettamente compatto rispetto a quello magari troppo grande del Magnus Masterpiece.
Altamente posabile, lo SS ha pure le 4 dita snodate con tanto di indice separato, cosa che a pensarci dovrebbe essere lo standard dai Commander in su ( ed omessa invece nel collega d'annata Legacy Armada Optimus… ), rotazione del bacino, testa che guarda pure all'insù, e via così.
Purtroppo, pesato anche con gli accessori, il nostro resta fra i Commander più leggeri e quindi con meno massa, quasi un terzo in meno del primo Jetfire: per rincicciarlo un po' ( invano … ) hanno aggiunto gli effetti delle esplosioni già visti in Skylynx e Rodimus vari, il fucile classico ed un altro che si vede utilizzarlo nei cartoni e… la Matrice!
Ironicamente ed a pensarci anche giustamente, nella versione MP c'era la possibilità di aprire il petto e mettercene una, ma appunto NON era compresa nel set, mentre qui invece gliel'hanno concessa dato che effettivamente per un breve periodo di tempo ne è detentore. Già che c'erano, quindi, alzando la T blu del petto, automaticamente a molla si aprono poi i due pannelli a finestra, rivelando quindi l'artefatto Cybertroniano estrabile, che si può intravedere anche con petto chiuso grazie alla plastica trasarente di suddetti pannelli, che cita le finestrelle del giocattolo G1 che davano su quelle della cabina di comando del camion motrice che era l'anima del super mode.
I fucili possono sistemarsi a riposo in un paio di fessure dedicate dietro schiena e sedere, e non dimentichiamoci le altre sue due armi storiche, ovvero il lanciamissili sulle spalle bianchi, con i missili rossi che si possono separare. Altri due accessori inaspettati e personalmente sgraditi sono le antenne del casco, minuscole e non così salde, tendendo a staccarsi muovendo la testa o durante la trasformazione: ma c'era davvero bisogno di fare le antenne a parte col rischio che si stacchino così ogni volta, mi chiedo? ^^++
Ah, la testa ha pure il lightpiping con la plastica trasparente da nuca agli occhi, carino come effetto, ma la vera gimmick che differenzia questo modello è quella di poter staccare gli arti, per citare la scena del film del 1986 dove il nostro "moriva" esploso sotto i colpi degli Sweep, MA poi resuscitava venendo riassemblato dai Junkion. Diciamo che come aggiunta è carina ma estemporanea, con gli agganci belli solidi quindi senza perdere pezzi, ma suddetti agganci somigliano a quelli dei Combiner Wars ma al rovescio, ed è un peccato quindi che non ci sia una sorta di compatibilità fra modelli, così come quasi quasi a sto punto tanto valeva fare in modo di rendere ancor più scomponibile il robot con testa, bacino, pugni e altro che si potevano staccare, ma capisco che ciò poteva minare la solidità dello stesso.
La TRASFORMAZIONE è quella classica e fortemente ispirata in alcuni passaggi a quella del Masterpiece, sopratutto per come si allungano le braccia, o anche per come si estrare la cabina dal torso, ma ironicamente risulta più complessa in questo Commander che non nel succitato Capolavoro!
Il CAMION BISARCA infatti risulta per certi versi migliore e pure più fedele al cartone che non il Masterpiece!!! La parte interna del rimorchio, grazie a dei pannelli aggiuntivi, è decisamente più in disguise che non nel MP dove si intravedevano i coscioni bianchi, così come la motrice ricorda meglio il settei senza le strisce laterali argentate che in realtà ( così come per Optimus ) erano presenti solo nei giocattoli originali.
Certo, le canne fumarie piccine e bianchine non sono il massimo, ma il rimorchio ora può finalmente fare ciò per cui è nato, ovvero contenere fino a 4 auto Deluxe come ai vecchi tempi G1!! E così come ovviamente faceva pure il MP, il quale aveva i lanciamissili che dalle spalle del robot alla parte anteriore superiore del rimorchio non si staccavano e potevano spostarsi dalla posizione frontale come nel giocattolo originale a quella laterale come nel cartone, mentre qui semplicemente si accasano ai lati, così come in altri fori al centro possono sistemarsi i due fucili, laddove nel MP il fucile unico e principale andava a nascondersi in mezzo alle rampe superiori, cosa che non sarebbe stata affatto sgradita verdere in questo SS.
Inoltre nel Masterpiece poteva pure staccarsi motrice dal rimorchio, cosa qui non fattibile, ma a tal proposito, per quanto il modellino sposi la filosofia degli SS che ( quando fa comodo a loro …. ) devono citare al meglio quanto visto nel film di riferimento, e nella sua fattura sia il Magnus DEFINITIVO, beh, a mio avviso sarebbe stato DAVVERO definitivo se la cabina del camion si trasformava in un Optimus bianco come nei giocattoli originali.
Certo, la cabina è bella piena e diviene pure parte del pannello del torso, anche se avrei gradito che inglobasse pure la testa invece che lasciarla solo nascosta sotto, all'altezza dei serbatoi ( come già nel MP, ok ), ma ripeto, avrei compreso più la stazza esagerata del robot e la sua inclusione nella classe Commander se appunto ci fosse stato pure un Optimus bianco che magari semplicemente si raggomitolava sulla schiena… anzi, di più, sarebbe stato poi un bel ponte per fare poi anche un Powermaster Optimus classe Commander, così!
Certo, è vero che i Magnus Generations precedenti di WfC avevano pure loro il robot bianco, ma è anche vero che non ce l'hanno avuto il Generations CW e l'MP, quindi non è manco un discorso di eventuale ridondanza o ripetizione di una gimmick!!
Ma vabbè, alla fine per i fan del personaggio è un must da avere, ha le sue gimmick e migliorie estetiche e i difetti come le spallone o le antennine sono perdonabili: resta il discorso, al solito, della poca ciccia offerta in rapporto al prezzo di questa classe, ma dal canto mio l'ho trovato in offerta e quindi per fortuna il portafogli ha sofferto meno, e quindi resta un acquisto obbligato per i fan, sopratutto orfani del MP, ma restando sempre in attesa di una versione DEFINITIVA degna di questo nome.
#transformers#hasbro#generations#autobot#autorobot#ultra magnus#convoy#commander#studio series 86#transformers the movie 1986#recensione#review
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Pale
[…] Pale. Pale. Pale. Pale. Pale. Pale. Pale. […]
Versi tratti da Sacred Emily di Gertrude Stein.
Cannibalizzando un brano de La struttura assente di Umberto Eco:
Un uso indubbiamente inconsueto del codice. Il messaggio appare ambiguo proprio per un eccesso di ridondanza a livello dell’impiego dei significanti; e l’uso della ridondanza è cosi spinto da generare tensione informativa;
il messaggio appare ridondante anche a livello dei significati denotati; nessuna affermazione può essere meno equivocabile, il principio di identità è cosi provocatoriamente ribadito da diventare ambiguo, da ingenerare sospetto (domanda: in ciascuna delle sue apparizioni, il significante ha sempre lo stesso significato?);
scatta una informazione a livello dei lessici definizionali (scientifici e filosofici); la novità del procedimento ci impedisce quasi di riconoscere il significato denotato;
scatta una informazione a livello dei lessici allegorici e mistici: sistemi di attese retoriche in base ai quali “Pale ” connota abitualmente vari significati simbolici, che qui vengono suggeriti ed elusi al tempo stesso;
scatta una informazione a livello dei lessici stilistici e cioè di sistemi di attese stabilitisi quasi come norma in conseguenza di abitudini stilistiche acquisite nel corso di altre letture poetiche (siamo portati ad attenderci usi metaforici del termine “pale”, affermazioni emotive sulla parola "pale", ecc.).
Anche una semplice ispezione di questo tipo ci mostra come informazione e ridondanza si stabiliscono a livelli diversi interagendo tra di loro.
Infine, una mia (libera!) traduzione:
Chiara. Pallida. Smorta. Esangue. Scialba. Slavata. Triste.
G. Stein, da Sacred Emily, 1913. Online QUI.
U. Eco, La struttura assente [1968], Milano, Bompiani, 1980
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OBVIOUS PARFUMS - UN ÉTÉ - Eau de Parfum - Novità 2023 - No matter how busy the day I always try to carve out a meditative scented moment. Today I meditate on summertime. A new fragrance mixing memories and wishings, of summers lived, of a new summer to be fully experienced… ... Un progetto che merita attenzione, un altro viaggio nello sconfinato universo degli aromi per David Frossard che, a fine 2020, dopo aver condotto al successo numerosi brand indie, ha finalmente lanciato il suo marchio, Obvious, una collezione di undici fragranze, un manifesto olfattivo che privilegia l’essenzialità in un approccio alla fragranza privo di ridondanza ed eccessi, una visione personale e contemporanea dell’arte di far profumi.
È nell’insieme una riscoperta di autenticità e piacere primario, una sensazione ovvia e imprescindibile attraversa questi accordi, creare bellezza da olfazione attingendo ai capisaldi aromatici della profumeria… un bois, une rose, un musk etc., con lo sguardo proiettato al futuro, nel doveroso rispetto per l’ambiente. Un Été è l’ultima creazione in gamma e la prima che non cita un componente ma una stagione. La voglia d’estate è tutta qui, in queste note solari, saline, fresche di onde e brezza marina, calde di sabbia bianca e luce dorata sulla pelle. Invitante l’apertura con mandarino e zenzero vibrante, piccante q.b. e morbida l’evoluzione con un cremoso accordo matcha - fiori d’arancio reso soffice, lucente e longevo da vaniglia e tonka. Che bella promessa!
Creata da Meabh Mc Curtin. Eau de Parfum 100 ml. Online qui ©thebeautycove @igbeautycove
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36 consigli di scrittura di Umberto Eco:
1. Evitate le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
4. Esprimiti siccome ti nutri.
5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.
8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
9. Non generalizzare mai.
10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu”.
12. I paragoni sono come le frasi fatte.
13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
14. Solo gli stro*** usano parole volgari.
15. Sii sempre più o meno specifico.
16. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
17. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
18. Metti, le virgole, al posto giusto.
19. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non sempre è facile.
20. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
21. C’è davvero bisogno di domande retoriche?
22. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
23. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fa sbaglia.
24. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
25. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
26. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
27. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche e simili.
28. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del “5 maggio”.
29. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
30. Pura puntiliosamente l’ortograffia.
31. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.
32. Non usare mai il plurale maiestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
33. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
34. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva eccedono comunque le competenze cognitive del destinatario.
35. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.
36. Una frase compiuta deve avere
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Nella storia delle storie dove tutto scorre. Su Danubio, di Claudio Magris
La struttura è data dal corso stesso del Danubio, con i luoghi che hanno ospitato storie, biografie e vicende esemplari attraverso i secoli. Il metodo e l’invenzione scelta da Claudio Magris, al lettore di oggi potrebbero quasi sembrare ovvie, dato il proliferare di ibridi oggetti editoriali in cui il pretesto narrativo per un saggio proviene da viaggi e esperienze di «scrittura sul campo». A ben guardare, invece, «Danubio», antesignano per scritture ulteriori nella nostra letteratura, sembra invece accogliere e proseguire proprio quella tradizione tedesca e anglosassone per la letteratura di viaggio, il risultato è con molta probabilità un classico della nostra letteratura recente, uno di quei libri che resistono ai secoli.
È un raccontare la storia del Danubio attraverso gli stati e i periodi storici, i primi effimeri, affidati alle vicende degli uomini, i secondi che si assottigliano man mano che si approssima il presente, in un continuum dialettico dal quale di cerca sempre di salvare qualcosa del passato.
Gli anni, i giorni, le ore di un cammino di conoscenza si uniscono a una struttura leggera, il non-romanzo di un gruppo di amici, un gruppo informale i cui nomi vengono evocati al bisogno, come “spalle” del narratore-viaggiatore. Il pretesto è dato da un incarico di relazionare un viaggio. Le figure evocate divengono specchi per riflettere sé sulle bontà o sciagure del genere umano, sulla condizione del rapporto uomo-animale, ad esempio, sul rapporto con la Storia, sul nazifascismo, sull’Impero Absburgico. Il Danubio attraversa i luoghi dove nel cuore della Vecchia Europa si sono consumati tutti i drammi possibili, dove le battaglie hanno segnato confini di cui spesso il fiume si riappropria. Le estremità dell’umano albergano latenti in ogni punto, pronte a emergere dalla quiete di un’ansa. A tratti sembrano parabole, alla maniera di Kafka, o veri e propri «minima poetica» per citare Adorno, che pure ispira la forma di alcuni frammenti, che racchiudono un messaggio che cerca di allontanare il vuoto che affiora dall’essere parte di un disegno senza trama, l’ordito di nessuna superficie.
Frammenti che compongono un quadro evenemenziale, una storia che ha luogo nel cuore del corpo di un mondo che viene raccontato descrivendo il suo sistema sanguigno. Il Danubio, come oggetto di studio, è stato descritto in opere che raggiungono una perizia e ridondanza di particolari, quasi copie cartacee conformi all’originale acquatico, come in un racconto borgesiano. Qui si deve fuggire anche alla meticolosità e al puntiglio, per viaggiare leggeri. È un’opera che evoca le «Metamorfosi», qui è il Danubio il tempo che scorre, tramutando di luogo in luogo, di storia in storia, come accade con il ritmo mutevole che il poeta Ovidio inventa nel transito di racconti per uomini, divinità e semidei. La mutevolezza delle storie che scorrono è frutto della maestria narrativa di Magris nella materia fluente di una vita.
Quest’opera si interroga anche su una questione fondamentale che potrebbe essere così riassunta: dato che il mondo dell’uomo è dominato dal caos, anche laddove il razionalismo sembra imprigionare tutta l’esistenza nei suoi legacci, come possono coesistere queste due anime senza sfociare nella crisi, nel disordine, nella follia? La questione emerge e resta latente, percorre l’opera in modo carsico. La cieca obbedienza mascherata da senso del dovere e la pianificazione e messa in opera dell’Olocausto sono la macchia di sangue più nera che tinge il Danubio.
Ci sono individui, luoghi, letterature, in cui è più insito il dilemma della forma, fra libera espressione pulsioni e ordine. Il fiume scorre, si mostra uguale ad ambedue le sponde.
Pur raccontando storie e micro-storie che si innervano nella Storia attraversata dal fiume, incontriamo in più luoghi, da parte dell’autore, l’amara consapevolezza che non c’è spazio nella narrazione odierna per un mito così poetico come lo erano stati i miti che hanno dato vita all’Iliade e all’Odissea.
La terra resta terra ferma, spostarsi sulla terra è costoso. Così come spostarsi nell’aria. Spostarsi su un fiume è più economico. Il Danubio per l’Europa ha svolto un ruolo analogo a quello del Mare Mediterraneo per i paesi che si affacciavano su esso, per l’importanza che l’acqua riveste nella storia dei popoli che unisce, l’acqua come mezzo di trasporto e strumento di comunicazione.Tutta acqua.
Un occhio preveggente su quello che di lì a poco meno di cinque anni sarebbero stati mutamenti per l’Europa dopo la Caduta del Muro.
«Danubio» è un libro che ci insegna un modo differente rispetto al comune sentire per percepire il mondo, insieme a un’idea di confine. Il fiume è un confine labile, mutevole, e allo stesso tempo transitabile. Quando sei nel fiume, anche se questo costituisce un confine fisico tra due regioni, e sei dentro o e sei fuori, nello stesso tempo ti trovi dall’una e dall’altra parte. Anche per questo motivo, dalle sorti dell’Impero Absburgico, passando per quelle della Prima e della Seconda guerra mondiale, fino alle vicende della (ora) ex-Jugoslavia, ricordando quelle dell’Impero Romano, il mondo militare e le guerre giocano un ruolo importante, perché è in esse che si attua quel ruolo di ridefinizione dei confini, incessante, che da materia alla storia dei popoli.
«Danubio», il viaggio del fiume diviene un viaggio alla ricerca di tutte le storie minime che pur non appartenendo alla storia, anzi spesso lasciandosi annientare da essa, sono riuscite a salvarsi, a ritagliare un posto per il proprio essere nel mondo coniugando l’umano sentire, all’agire con il prossimo. Interessante, dal punto di vista storico, come si affrontano le vicende del nazismo, man mano che si presentano storie e luoghi che ne sono stati partecipi, interessante notare come in Bulgaria e Romania, il comportamento antisemita all’indomani della presa del potere da parte dei Nazisti, non abbia mai attecchito, e di come fossero esistiti chiari episodi e prese di posizione collettive, di vera e propria riluttanza e ostacolo alla deportazione degli ebrei. «Danubio» è un libro che ci fa conoscere paesi che sarebbero entrati nella Comunità Europea, che lo sono da quasi venti anni, e che sotto certi aspetti non legati al turismo o alla cronaca internazionale, ancora tardiamo a conoscere.
Il viaggio termina con il raggiungimento della foce del Danubio, in Romania, ripensando a come è iniziato, col desiderio di guardare il mondo con gli occhi del fiume che scorre.
La lezione di «Danubio» coincide con la grande letteratura, capace di evocare allo stesso modo fantasmi e sorrisi, poesia e filosofia, storia passata e cronaca presente. Gian Luigi Beccaria in chiusura della prefazione, suggerisce che «Danubio» non è un libro da «consumarsi» in un week-end, da esso provengono «riflessi d’infinito». L’impressione dopo la lettura – questo è il tipo di opera su cui fa piacere ritornare – è di avere compiuto uno dei viaggi letterari più importanti della nostra vita.
Danubio - Claudio Magris (Garzanti, 1986)
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