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The O.C: quando una serie diventa qualcosa di più
Ben ritrovati! Si torna (finalmente) a parlare di serie tv, e in questa giornata di fine agosto ci sentiamo nostalgici quindi tiriamo fuori una chicca dal passato: The O.C.
Per me è LA serie teen per eccellenza, una delle prime- se non la prima- che ho guardato dall’inizio alla fine, (quando ancora le serie si guardavano in tv e se ti perdevi una puntata eri fregato), e quindi occupa il posto d’onore nel mio cuoricino da #tvseriesaddicted.
È un evergreen, non passa proprio mai di moda, ma ho recentemente notato che anche se è datata non è scontato che tutti l’abbiano vista. Però diciamocelo, a chi non è capitato di sentirne parlare o di beccare un episodio in tv (in una delle innumerevoli repliche)? Se vi è successo ma siete andati oltre credendo che fosse una cavolata, vi dovete ricredere e ora vi spiegherò il perché.
O.C. è un teen drama americano, composto da 4 stagioni, creato da Josh Schwartz e trasmesso da Fox dal 2003 al 2007. La trama segue le vicende di Ryan Atwood (Benjamin McKenzie), un adolescente problematico di Chino con una difficile situazione familiare alle spalle (la madre alcolizzata, il padre e il fratello in prigione), che viene accolto e successivamente adottato dai Cohen, una facoltosa e altruista famiglia di Newport Beach. Arrivato a Newport, Ryan si trova catapultato in un nuovo mondo, fatto di raccolte fondi e feste sulla spiaggia, casette in piscina, scuole private e macchinoni. Conosce subito Seth (Adam Brody), figlio dei Cohen, sarcastico adolescente un po’ nerd snobbato dai coetanei, che invece sono figli di papà e “pallanuotisti palestrati”. Ryan incontra cosi Marissa Cooper (Mischa Barton), la classica ragazza della porta accanto, apparentemente perfetta nei suoi abiti firmati Chanel taglia 38 e con la sua chioma bionda, legata sentimentalmente a Luke Ward (Chris Carmack), capitano della squadra di pallanuoto (ma va?) e stronzo megagalattico. Aggiungiamoci poi Summer Roberts (Rachel Bilson), la frizzante migliore amica di Marissa, di cui Seth è segretamente innamorato dalle elementari.
Ma al di là della trama, che è bene o male conosciuta da tutti, è importante capire che O.C. è un’icona, è il simbolo di una generazione di teenagers rimasti incantati dal mondo patinato di Orange County, un mondo in cui però non è stato difficile riconoscersi. Con i suoi personaggi, con le tematiche affrontate, con la musica, O.C. ha toccato tasti che fino ad allora nessuno aveva sfiorato (no nemmeno Dawson’s Creek), dando inizio così ad una vera e propria rivoluzione della cultura pop dell’epoca: i (terrificanti) primi anni 2000. È una serie tv che ha ispirato milioni di adolescenti nel mondo e che ha spianato la strada ad altrettanti teen-drama, da Gossip Girl a Thirteen Reasons Why. Anche se quando è andato in onda la prima volta non ero ancora adolescente, non ne perdevo una puntata, e a distanza di qualche anno sono riuscita ad apprezzarlo a pieno e a comprenderlo meglio.
Ora, a 15 anni (!!!) dalla prima messa in onda vi elenco alcuni motivi per cui dovete guardarla.
1) SETH COHEN
Prima che i nerd e i geek andassero di moda c’era Seth Cohen. Sfigato, intelligente, pungente, appassionato di fumetti, di videogiochi e musica indie, portatore sano di Vans e skateboard. Il personaggio sarcastico per eccellenza, in anni in cui le serie tv il sarcasmo non sapevano quasi che cosa fosse. Capitan Avena, il Chrismukkah, Atomic County, le dichiarazioni d’amore assurdamente romantiche e impacciate, questo è Seth Cohen.
2) La colonna sonora
“CALIFORNIAAA, CALIFORNIAAA, HERE WE COOOOOOOOME!!”
Tutti l’avrete letto cantando, e se non l’avete fatto state mentendo. Canzone ICONA della serie, cantata dai Phantom Planet, piazzata in apertura. Appena partivano le prime note di corsa sul divano!
Ma non c’è solo questa, la verità è che O.C. è pieno zeppo di pezzi monumentali che sono stati fondamentali per il successo e la riuscita della serie, e che hanno reso uniche e indimenticabili parecchie scene. Inoltre ad O.C. va il merito di aver portato sugli schermi un genere musicale che ancora non era molto diffuso: l’indie.
Un’altra canzone che fra tutte si è contraddistinta è l’Hallelujah di Leonard Cohen cantata da Jeff Buckley, proposta in più di un’occasione, una più straziante dell’altra, che ti fa venire voglia di piangere per la disperazione, per sempre.........
Per non parlare di Hide And Seek degli Imogen Heap, di Forever Young, di Dice. E come non menzionare i Coldplay, gli Oasis, i Killers, i Death Cab, insomma tutta roba emotivamente destabilizzante, che ha reso O.C. un viaggio indimenticabile.
3) Le frasi iconiche
“Tu chi sei?” “Chiunque tu vuoi che io sia.” Ma che ve lo dico a fareeeeeee!
4) Ryan Atwood in canottiera
E non serve dire altro.
5) La quarta stagione
La quarta stagione di O.C. è stata un fallimento per molti, e anche gli ascolti lo hanno confermato. Dopo il FINALONE della terza stagione infatti la serie è stata rinnovata solo per un’ultima stagione di 16 episodi (contro il 24/25 normali) anche a causa di una diminuzione drastica degli ascolti. In questo senso io sono una voce fuori dal coro: la quarta stagione mi è piaciuta, e pure tanto. È stata una boccata d’aria fresca dopo anni di drammi pesanti e di scenate (chissà di chi). Vengono alla luce nuove sfaccettature di alcuni personaggi, e le loro storyline sono più leggere e divertenti, quindi per me assolutamente promossa.
D’altro canto esistono anche dei motivi per cui consiglierei di non guardare O.C, anzi solo uno: Marissa Cooper. Ecco, l’ho detto. Non ho mai sopportato Marissa, e non credo sia difficile capire il perché. Frignona, petulante, viziata, la classica donzella in difficoltà, stronzetta, con l’espressione da cagnolino bastonato e soprattutto DRAMA QUEEN. Per quanto irritante però non si riesce a non provare pena per lei qualche volta, e anche affezionarsi, perché nel bene e nel male anche lei ha reso O.C. quello che conosciamo.
Ce ne sarebbero di cose da dire e potrei stare qui ore (e mi sono già dilungata a sufficienza) a parlare di Seth, Summer, Ryan e Marissa e delle loro disavventure, perché se non l’avete capito O.C. è la mia serie tv del cuore, quella che difenderesti nonostante tutto, quella che non ti stanchi mai di vedere (e quindi fai 34827645 rewatch) perché sai che saprà emozionarti come la prima volta. Sono passati tanti anni e sarei curiosa di tornare a Newport e rivedere i nostri amici ormai 30enni, e in un periodo di reunion e revival io ci spero, chissà che i miei desideri non verranno realizzati.
Non mi resta quindi che augurarvi buona visone (o buon rewatch 😉) e “Benvenuti a O.C. stronzetti!”.
Di Marta Bossio
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Alfredo aka Serena
Ho conosciuto un uomo, si chiamava Alfredo aveva gli occhi come Sartre e guardava i treni che sfrecciavano in direzioni opposte.
Mi ha guardata e mi ha detto: “una passo alla volta”.
Io ho detto: “come scusi?”
Alfredo ha sussurrato: “un passo alla volta”
Al che io ho risposto: “ok”.
Poi Alfredo ha storto il naso e ha detto due o tre parole a vanvera.
“Ok” è una risposta che non lascia niente indietro, nessuna sensazione buona dietro un “ok” e Alfredo lo sa.
Come dire va bene ma taci.
Poi Alfredo è arrivato e mi si è seduto di fianco.
Così gli occhi trapiantati di Sartre dentro ad Alfredo mi hanno placcata. Non potevo fare altro che disorientarmi in quello sguardo confuso.
Alfredo racconta quanto segue, senza respirare.
C’è una casa stratosferica e tu ci sei dentro, hai appena oltrepassato la soglia d’ingresso e tu ci sei dentro. Da fuori è proprio una bella casetta: la riproduzione stereotipata di una casetta. La porta si chiude dietro di te e quella casa è il tuo mondo, è la tua vita, i tuoi impegni, le tue lamentele, le tue malattie.
Quella casa è la tua vita che appare incasinata, sparsa, rumorosa.
E allora entri in cucina, è incasinata perché nessuno ha sparecchiato. E quindi che fai? Sparecchi tu?
E allora entri in garage e lì c’è un letto, tutto così casuale, chi ci deve dormire su quel letto?
E allora entri nella tua camera e la radio è accesa e spara contro le tue orecchie una canzone triste.
Ma COS’E’ STO CASINO?
E’ la tua vita, incasinata, sparsa e rumorosa.
E allora che fai? Un passo alla volta.
Chiude tutte le porte e apri una porta alla volta.
Ogni porta è un momento. Se le lasci aperte tutte non ci capirai più un cazzo.
“Casssso.”
Alfredo è veneto.
E forse ha ragione.
Scritto e disegnato da Serena Caramaschi
#racconti#scrittura creativa#dialogo con me#alfredo#vita#un passo alla volta#porte#scrivere#radiciposterzine#storie
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Una storia non del tutto inventata
CAPITOLO 1 "progetti"
Ore 19:15 solito aperitivo “vetrina” dove i più si guardano in giro fingendo di aspettare qualcuno o rileggono i messaggi di whatsapp per mostrarsi occupati. Mi annoio, da quando è nata questa cosa degli aperitivi forzati il mercoledì e ogni sera del weekend, la cosa del trovarsi con gli amici ha perso un po’ senso, spesso non abbiamo niente da raccontarci e finiamo col criticare questa o quella persona. <Hey Matte! ti ho mai parlato dell’idea dell’ex macello?> <No Nico, mi ricordo che mi avevi parlato di costruire una palafitta in golena…> <Ah si! beh, quella era un’altra idea che prima o poi si farà! no, no, quindi non ti ho mai detto del collettivo?! sarà una cosa figa!>.
CAPITOLO 2 "tanti progetti"
Giro in bici. Quanto è bella la nostra terra?! In dieci minuti passi da strade asfaltate a caradoni ghiaiati (strade bianche) con solchi di 30 centimetri scavati dai trattori. <Ohi Fabri, non sarebbe bello creare una rete di ciclabili che passano per il Po e uniscono l’Emilia alle altre regioni?! un po’ come nella zona del lago (per lago noi intendiamo quello di Garda)> <è si Nico! però sai quanti traffici bisogna fare? poi siamo in Italia…> <si ok! bisognerebbe parlare con qualcuno del comune o un’urbanista…> <Nico, e l’idea della zattera?!> <è si, il progetto l’ho disegnato ma devo trovare collaboratori> .
CAPITOLO 3 "non è vero che non ricordo. Ricordo anche il nome del pub! ma non ha importanza…"
Serata tranquilla di un weekend tranquillo. Decidiamo di spostarci in un altra città par evitare i soliti due pub e per non vedere le stesse facce. <ohi Nico, io vorrei scrivere, cioè, scrivo già ma vorrei fare qualcosa, un blog o una rivista.> <Ah si sere?! spiegami.>.
CAPITOLO 4 “Si fa!”
Tum Patum-za Tum, Padova, capodanno 2017 e Reggaeton, la mezzanotte è passata già da un po’ e ora si balla e si beve per inerzia, alcuni ballano e si fanno foto con lo spumante magnum di Pier… <Nico, spiegami, allora fate una rivista te e la Sere?!> <Si Verdi!! sarà figo! e non sarà solo una rivista, coinvolgeremo tanta gente!> la vedo, mi guarda come si guarda uno che straparla. E infatti <Tu Nico hai sempre mille progetti!> non le do torto… < si, Ma stavolta SI FA!>.
La Sere non è sintetica quindi lo sarò io ;)
Grazie a chi c'è stato, a chi c'è e a chi ci sarà!
Di Nicolò Artoni
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Lo spazio capovolto
Dopo quel giorno non sono più salito su quel tetto, avevo il timore di offuscare quel ricordo ancora così limpido. Passavano i giorni, le nuvole, i cieli di grafite, ma di Alice nemmeno l’ombra. Sparita nel nulla così come si era presentata la prima volta. Senza di lei le giornate si fecero più lunghe, i pensieri più frequenti e io iniziavo a sentirmi sempre più piccolo. Percepivo un tremendo bisogno di salire in alto, proprio come faceva sempre lei, osservare le macchine sfrecciare e portarsi via i problemi. Bisogno di godermi con calma quello spettacolo di luci lasciate dal passaggio delle persone. Da lassù le cose non fanno poi così paura e per una volta mi sarei sentito grande. Così decisi, almeno per quella volta, di salire sul tetto. Quel pomeriggio vi era un cielo particolarmente aperto e si riusciva a guardare più lontano del solito. Non avevo idea della reale ampiezza della mia cittadina. In particolare i miei occhi furono rapiti da tre grattacieli, posti in serie, con vetrate tendenti al nero come se in quel momento stessero riflettendo il mio animo. Rimasi a fissarli per qualche minuto, incantato dalla profondità di quel gioco di luce. La nebbia non mi aveva mai permesso di espandere, fino a quel punto, i miei orizzonti. Distolsi e abbassai lo sguardo: poco più in basso, come fosse avvolta e protetta da quelle tre maestose costruzioni, vi era una ruota panoramica. Elegante, bianca, lucente. Nonostante tutto quel ferro, trasmetteva leggerezza e fu un grosso sollievo per il mio buio interiore. Riuscivo già ad immaginarmici sopra, chiudere gli occhi e lasciarmi cullare dal quel lento movimento rotatorio. Dovevo assolutamente salirci. Scesi in strada e mi diressi verso quella direzione, non avevo la minima idea di come fare per raggiungerla ma usai il mio acerbo istinto. Ad una certa iniziai a chiedere indicazioni e venni consolato dal fatto che non tutti sapevano dell’esistenza di questa, fino ad oggi misteriosa, ruota panoramica. Dovetti fare il cambio su due linee diverse della metro e fare diversi chilometri a piedi quando finalmente me la trovai davanti. Mi sembrava di averci messo una vita ma ne valse la pena. Scoprii, in realtà, che quella ruota era situata all’interno di un parco divertimenti assieme ad un centinaio di attrazioni coloratissime. Non vi era molta gente ma questo fu un bene, non mi sento molto a mio agio quando sono in mezzo a troppe persone, nonostante io sia un grande estimatore del caos. Rimasi piacevolmente stupito dall’atmosfera onirica che fluttuava nell’aria. Una delle cose che mi colpì maggiormente fu che ad ogni sguardo incrociato, seguiva un sorriso spontaneo. Nessun tipo di pregiudizio, semplicemente individui accumunati da un’irrefrenabile voglia di spensieratezza e giocondità. Provai ogni giostra, perdendo completamente la cognizione del tempo. Venni contagiato dai colori, dalle luci, dal profumo di mandorle tostate, dalle grida di gioia, forse tutte cose scontate ma di certo non banali e mi serviva ricordarlo. Si era fatto buio quando mi accorsi che da quell’ora in poi non vi erano più mezzi pubblici e avrei dovuto farmi tutta quella strada a piedi. L’adrenalina di tutta quell’euforia era oramai svanita lasciando spazio a una terribile stanchezza e pensare di dover attraversare mezza città prima di poter riabbracciare il mio letto, mi faceva innervosire non poco. Impostai il navigatore del mio smartphone per avere circa un’idea di quanto mi trovavo distante e non riuscivo a crederci. Percorrendo una strada tutta dritta, mi sarei trovato sotto casa in poco meno di mezz’ora. Non me lo spiegavo, come se la mia concezione di spazio si fosse totalmente capovolta. Mi piaceva pensare che fosse merito della città, un modo per ringraziarmi dopo averla esplorata cercando zone secondarie che hanno ancora qualcosa da trasmettere. Camminai piuttosto lentamente e mi presi diverse pause per via della stanchezza, ma il viaggio non fu più di tanto faticoso. Arrivato a casa mi fiondai in camera e mi voltai verso la finestra per vedere se da lì riuscivo a scorgere la luminosità della ruota. Fu così che vidi Alice, seduta a gambe incrociate sul mio davanzale. Il modo migliore per concludere questa giornata inizialmente agrodolce. Alla vista del suo volto assonato ma sorridente, ebbi una sorta di brivido seguito da una vampata di calore partita da dietro le orecchie e arrivata giù lungo i fianchi. Aprii la finestra senza dire nulla, non v’era bisogno di nessuna parola, i nostri sguardi parlavano già abbastanza. Presi una coperta e andai fuori. Passammo tutta la notte abbracciati fino ad addormentarci uno sulla spalla dell’altro.
Racconto di A. Azzara
Illustrato da Leonardo Artoni
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Button poetry of mine
Tutti conoscono la storia di cenerentola, dolce donzella figlia di un re, schiava delle sorellastre, amata dal buon padre e poi dal prode principe azzurro, eroe senza tempo. Vogliamo parlare di Biancaneve? Figlia di un re, inutile dirlo, bellissima. Invidiata, per la sua bellezza, dalla matrigna, viene avvelenata e lasciata in uno stato comatoso, ma guarda caso, un bellissimo e prode principe, eroe senza tempo, la bacia e salva.
E raperonzolo? Figlia di un re, bellisima, incarcerata da una donna malvagia e salvata da un bellissimo principe. Cos'hanno in comune le storie di queste tre giovani donne? La protagonista è una dolce e indifesa fanciulla. Donne cattive come antagoniste e un prode cavaliere pronto a salvare la protagonista.
Quindi, ragazze, se non siete dolci, indifese e pronte a essere salvate da un principe azzurro siete voi le streghe di turno.
Queste sono solo tre delle più celebri fiabe che ci vengono raccontate continuamente da bambini.
Ci martellano la testa fino a insinuare inconsciamente nel nostro pensiero l'idea che una donna ha solo due possibilità: Essere servile, umile, indifesa, dolce e bellissima o essere una brutta strega malvagia. E' chiaro, questa è una iperbole. Ma possiamo essere certi che anche questo contribuisce alla formazione del carattere?
Ho immaginato di scrivere una lettera a una eventuale figlia, una fantasia:
Ti racconterò di come
cappuccetto cintura rossa
stese il lupo
grazie a una mossa segreta
di ninjutsu,
e di come celebrò
la sua vittoria
limonando il timido cacciatore
che le dedicò una poesia. Ti parlerò di Cenerantola
che sputò sulle scarpette di vetro
e indossò anfibi sgualciti al concerto dei “fata madrina”,
-LA BAND HEAVY METAL PIU' TOSTA DEL REAME-
di come tornò a casa
alle quattro del mattino,
ubriaca persa,
accompagnata da Biancaneve,
la sua ultima conquista.
Cenerantola non permise alle sorellastre
di tenerla in scacco,
studiò ingegneria
e inventò un aspirapolvere nucleare
che la rese ricca da far schifo.
Ti spiegherò, che tu,
e solo tu,
potrai essere il tuo principe azzurro,
non ti farai soggiogare dalla paura,
pur facendotela addosso,
indomita e coraggiosa ti salverai
da orchi e streghe,
la tua spada la favella,
la tua armatura la cultura.
Il tuo castello, mia cara,
sarà uno zaino capiente
e il tuo regno
il mondo intero.
- anche lo spazio se sarai astronauta-
Pasticciere, astronauta, meccanico,
il punto è che potrai essere chi vorrai,
come vorrai
e quando lo vorrai.
Tu sarai la fiamma
dalla mia scintilla,
sarai l'oceano
dalla mia lacrima.
Sarai un tornado
in continua e costante rivoluzione.
Indaga gli abissi del tuo cuore
e immergiti nelle profondità della tua mente,
la superficialità è roba
per deboli cronici.
Conoscere se stessi è la chiave
per conoscere gli altri
e vedere i veri colori del mondo.
Meravigliati e sii meraviglia.
E sappi, che se poi vorrai essere
una dolce e indifesa principessa
e ti farai conquistare da un principe azzurro
a me starà bene, benissimo,
purchè sia una tua scelta.
In questo caso,
e solo in questo,
scordati la cazzo di eredità,
Giovanni Irimia
#radiciposterzine#radici#poetry#princess#antihero#cenerentola#biancaneve#raperonzolo#cappuccettorosso
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La vita vista dall’alto
A volte mi capita di fermarmi a guardare la pioggia, credo sia il modo migliore per affogare i pensieri e fermare il tempo. Apro la finestra, esco, e mi siedo sul davanzale con i piedi appoggiati alla pensilina. Amo ammirare l’asfalto bagnarsi e riflettere le cose donandogli profondità.
Ho imparato persino a prevederla, l’aria si fa più salubre e solleva un profumo inebriante.
Non capisco perché la gente abbia tutta questa paura di inzupparsi. Conosco solo una persona a cui non dà fastidio e forse è quella che dovrebbe esserne più infastidita.
Non so il suo vero nome ma io la chiamo Alice, alludendo al pesce, perché non parla molto e inoltre mi sembrava il nome di specie più carino.
L’ho incrociata per caso, una sera particolarmente luminosa, mentre guardavo, da camera mia, una finestra cambiare colore con i riflessi della televisione. Me la trovai davanti all’improvviso, era così carina che non riuscii nemmeno ad esserne spaventato.
Ci guardammo intensamente per un paio di secondi, tra paura e stupore. Aveva uno sguardo alquanto tetro e penetrante.
- Come ci sei finita qui su? -
Abbassò lo sguardo senza emettere alcun suono.
- Non sarà pericoloso per una ragazzina minuta come te? -
Ancora una volta non ricevetti nessuna risposta. L’ osservai meglio e notai delle mani rattrappite e laboriose, come di solito ha chi arrampica da molto tempo.
- A giudicare dalle mani è tanto che ti issi tra un tetto e l’altro, perché hai bisogno di andare così in alto? Da cosa stai scappando? -
- Da qua su tutto è piccolo e insignificante, non sei condizionato dalle dimensioni e osservi le cose senza alcun pregiudizio. Inoltre noti cose che non noteresti stando a terra, come i moscerini ad esempio. Questi sciami che fluttuano a mezz’aria sprezzanti del pericolo, un misto di incoscienza e audacia. -
La scrutai un po’ stranito ma la lasciai proseguire con il suo sproloquio.
- Tutti gli esseri viventi riescono a percepire un pericolo imminente e, solitamente, si preparano ad affrontarlo nel migliore dei modi. I moscerini no, loro se ne stanno lì, quasi con aria di sfida facendosi forza l’un l’altro. Mi chiedo se siano coraggiosi o solo molto ingenui. -
Provai a seguirla.
- Forse ho capito che intendi. I moscerini non sono mai soli, sono consapevoli del fatto che comunque vada, riusciranno sempre a trovare un modo per cavarsela. Agiscono semplicemente d’istinto. Mentre noi spesso siamo frenati, dalla nostra testa, dalla nostra coscienza. Talvolta avremmo bisogno di lasciarci andare contando di più sulla nostra forza e, magari, su quella delle persone che ci affiancano. -
- Sei il primo che si sforza di capirmi, di solito non ho molta fiducia nelle persone, preferisco starne lontana. La verità è che ho paura, oltre di non essere compresa e apprezzata, degli addii. -
- Prova a vederla diversamente, ogni persona ti dona qualcosa, che sia un gesto, un ricordo o del tempo da condividere. Tu immagazzina e fanne tesoro. Gli addii non sono a priori una cosa definitiva e poi, finché l’immagine sarà chiara, le persone vivranno per sempre dentro di te. -
Gli occhi di Alice si aprirono, come se le mie parole gli avessero lievemente crepato quel suo spesso muro di convinzioni.
Da quel momento tornammo a goderci il silenzio con più fiducia e cognizione, cercando di non sprecare neanche un secondo di quel presente.
Avevo tremendamente paura di non rivederla mai più ma ovviamente non le dissi nulla di tutto questo, e mi limitai ad avvicinare le dita gradualmente fino ad incontrarla.
Scritto da A. Azzara
Illustrazione di Leonardo Artoni
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Al binario uno c’erano due che si amavano
A lei che l’ama profondamente.
A lei che l’ha baciata e ribaciata prima di farla salire su un treno.
A lei che ha sorriso quando il treno arrivava, quando salutava e quando il treno è ripartito lasciandola sul binario uno al freddo.
A lei che l’ha seguita da dietro il vetro mentre sceglieva la sua postazione e le ha detto “saluta tua mamma a casa”.
A lei che ha corso verso il treno che partiva sfidando le leggi della fisica.
A lei che correndo salutava.
A lei che è innamorata.
A loro che guardarle è stato come guardare un film.
A loro, due ragazze che si amano e cambiano il mondo.
Serena Caramaschi
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This is real, this is love, THIS IS US
Dopo un bel po' di assenza, ben tornati!
Anno nuovo, nuove serie tv, quindi mettiamoci all’opera.
Ricomincerò parlando di una delle rivelazioni televisive degli ultimi anni che per me è diventata un altro pezzo di cuore: This is us.
This is us è un family drama americano creato da Dan Fogelman e trasmesso dal settembre 2016 da NBC. Attualmente è composto da due stagioni di 18 episodi ciascuna, più una terza stagione che sta andando in onda da settembre 2018.
Nel cast troviamo volti conosciuti come Milo Ventimiglia (Jess, sei tu?), Mandy Moore, Sterling K. Brown, Justin Hartley (il primo e originale Oliver Queen) e altri meno noti come Chrissy Metz, Susan Kelechi Watson e Chris Sullivan. Ma scopriamola meglio insieme.
Quando, più di due anni fa, mi è capitato casualmente sotto il naso il promo di This is us mi sono detta: “Okay dai, sembra carina, appena inizia la guardo” (come se non avessi avuto altre 49373 serie in lista), ma mai mi sarei aspettata di ritrovarmi in una valle di lacrime già dopo un solo episodio. E potevo solo immaginare che il meglio - o forse il peggio - doveva ancora arrivare.
Basta un episodio solo per capire che This is us è qualcosa di speciale e unico.
Ci sono Jack e Rebecca, una coppia di giovani innamorati che si trova a dover affrontare una situazione inaspettata e dolorosa; c’è Kate, una 36enne obesa che cerca di risolvere i suoi problemi di peso e di autostima; Kevin, un attore di sitcom insoddisfatto della sua vita; e infine Randall, un padre affettuoso e un gran lavoratore che decide di dare una grande svolta alla sua vita e a quella della sua famiglia.
Soltanto alla fine del primo episodio i pezzi si uniscono, creando un puzzle inaspettato e sorprendente, che ti fa venire voglia di saperne sempre di più, episodio dopo episodio. Le vite dei protagonisti sono infatti collegate da un sottile intreccio, e ci vengono narrate in modo impeccabile anche attraverso emozionanti flashbacks e flashfowards.
Ciò che colpisce di This is us è la sua semplicità, è il modo gentile con cui ti vuole fare capire quanto è straordinaria la vita nel suo essere ordinaria. È una serie senza pretese, che racconta storie di vita che potrebbero appartenere a chiunque, in qualunque parte del mondo. In poche parole, This is us è ordinarietà, e attraverso il racconto di questa straordinaria ordinarietà ci trasmette innumerevoli insegnamenti. Per prima cosa ci insegna come la famiglia sia sempre lì, no matter what; che la vita è fatta di seconde chances, di cuori spezzati e di ostacoli che sembrano insormontabili; ci insegna che, accada quel che accada, “non c’è nessun limone tanto aspro da non poterci fare qualcosa di vagamente simile ad una limonata”, e che sta a noi prendere in mano la nostra vita e farne qualcosa di cui poter andare fieri.
This is us quindi parla di vita, in tutte le sue sfaccettature, e ora tocca a voi scoprirne tutte le sfumature, conoscendo meglio Rebecca, Randall, Kevin, Kate ma soprattutto Jack, il sole attorno al quale gira il mondo di This is us (e ormai il mio) ed emozionarvi assieme a loro. Buona visione!
P.S.: Io lo psicologo non ve lo pago, vi avverto.
P.P.S: No, purtroppo Jack Pearson non esiste, stiamo tutte cercando di farcene una ragione.
Di Marta Bossio
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Io, che amo salvare i libri
Ho una passione insolita per i libri vecchi, impregnati di umidità, il cui odore sa di “cantina” (e muffa).
Sotto casa ho la fortuna di avere una libreria, “libreria Minerva”, esposti all’entrata i libri costano 2 euro.
Sono per lo più libri vecchi, libri anziani che sanno di vite passate, libri che hanno avuto su di essi molti sguardi, tutti diversi. A sfogliarli ci sono stati occhi attenti ma anche occhi distratti, a leggerli ci sono stati occhi che hanno dato una letta veloce, ci sono stati occhi che hanno pianto e si sono commossi, ci sono stati occhi stanchi che hanno letto per cullarsi verso il sonno.
Inizio a pensare che alla fine questi libri siano impregnati di umidità perché assorbono gli sguardi delle persone che li leggono.
E’ un’esistenza traballante quella dei libri vecchi, non sanno mai dove rimarranno. Un po’ come noi, con la differenza che un libro non muore, rimane sospeso e aspetta.
A volte mi sento colei che salva i libri dimenticati. Li trovo, li sfoglio, li annuso, li leggo e li ringrazio. So di non essere l’unica. Trasportata dal mio eroismo atipico, la settimana scorsa ho trovato un classico: Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Era all’ultimo piano in basso di uno scaffale in legno, vicino al pavimento e alla polvere, come appoggiato nel limbo della dimenticanza.
Non starò a parlarvi della trama perché non sono brava a recensire e non riuscirei a parlarvi di un libro talmente profondo senza sminuirlo. Quindi, vi descriverò l’Antologia di Spoon River che ho trovato (o che mi ha trovata?), così per com’è al suo esterno.
E’ un libro verde chiaro ai lati e al centro bianco. E’ sbiadito e al tatto è quasi ruvido. In copertina un disegno ad inchiostro di due scheletri. Le pagine sono gialle, soprattutto il loro contorno è giallo, è un alone ben delineato che racconta il tempo; ne è passato tanto dall’ultima volta che questo libro è stato anche solo aperto.
E’ un libro che regala pazienza perché va sfogliato molto molto piano, ogni movimento troppo brutale potrebbe far staccare le sue pagine.
E’ un libro fragile, delicato, che infonde, anzi, impone in me la calma anche se il circostante è scompigliato e rumoroso, profuma di carta invecchiata.
L’edizione Einaudi è la quarta integrale (con il doppio delle poesie) anno: 1947. Ci sono segni di biro che ormai non si vedono quasi più ma che hanno lasciato tracce scavate sulla carta.
Ora, dite quello che volete, ma un libro del 1947, di quanti momenti è stato partecipe in settant’anni?
E’ da questo che nasce la mia passione, dagli oggetti indelebili che rimangono oltre il tempo, che sfidano gli anni, i giorni, che invecchiano ma non muoiono, anzi oltrepassano la storia, la percorrono e poi Tu persona fortunata (in questo caso io) puoi trovarli e portare con te una piccola porzione di tempo, a cui regalare anche tu qualche istante. Sommiamo tempo al tempo tramite un libro, e andiamo lontano, a volte lontanissimo.
Noi lettori diventiamo i protagonisti di un viaggio e spesso non ce ne accorgiamo. Aggiungiamo segni a matita, briciole di cibo, lacrime, gocce di sudore, odori a quei libri che poi un giorno dovremo lasciare.
Per questo ho bisogno di dirlo, per quanto sia un concetto prevedibile: un libro non è solo un oggetto.
Mai gettare via un libro. Mai.
Mi raccomando, piuttosto portatelo a qualche mercatino dell’antiquariato o del riuso, o a una libreria come quella che ho sotto casa. Vi assicuro che qualcun’altro lo troverà e salverà, rendendolo suo.
Un libro continua ad esistere di fronte agli sguardi di chi lo legge.
Ps: potete portarlo anche a me!
Album consigliato: Non Al Denaro, Non All'Amore, Ne Al Cielo - Fabrizio De Andrè
Serena Caramaschi
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TERRA - 3° Classificato | concorso di poesia
Saggio Maggio
Smeriglia tra le tue biade, o maggio, quell’armonia vivace che’l poeta non si tace e con liriche esaltò. I flutti del tuo lungo giorno diramansi tra i primi grani spargendo seme tutt’intorno d’una letizia irreplicante che s’invola, ammanta e sfugge, non può esser catturata, poiché solo in te prefigge d’esser in tal miracolo spiata. Hai poter del creato alzare fino al metafisico trascendere come a avvolger la creatura tra le braccia del divino rivelandoti per mezzo di ciò cui l’uom può sol inchino.
L’omaggio brioso del tuo fasto plana su di rondini le ali, leggiadri angeli dal gentil moto su purpurei papaveri: tini rossi, randagi come l’humus che li cresce senz’avviso dare ai bordi delle vie e contrade accanto ai ruscelletti in fiore, sfiora i tetti di cascine al servizio degl’incanti.
Quanta opra tra i tuoi steli, su una falce o un voltafieno il tuo servo contadino del tuo sole si fa pieno e le api ricche in zelo scovan lor grano tra le corolle dove ‘l polline le attende a lor nettare dar cielo.
In te esulta, saggio maggio, l’universo e l’alma mia il bel canto del profumo trova in te la parusia. Com’effige di perfetto fai risplender melodia che l’inverno ha pian covato e l’estate brucia via. Mi risvegli nel profondo nei pensieri l’eufonia di un ricordo, di una rosa, di indomabile magia. Mi avventuro tra i tuoi prati finché sera tornerà per attender la mattina sotto astri e galassie in frak. Ed i vetri che a te schiudono scuri anfratti delle case ti corteggian per entrare dopo ‘l chiarore plenlunare spirto lieto a inebriare invito al sole a navigare.
Sul celeste la colomba Mostra placida il suo manto Mentre tuba storli salgon senza foga, senza vanto. In questo tempio della grazia, in questo tempo di speme e gioia, rendo grazie della Vita che fa festa, si fa storia in questa Luce mai finita.
-Daniele Alberini
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Zappare di più, pensare di meno.
Una vacanza, per definizione, è un periodo di riposo concesso a chi studia o lavora.
Se fossi una brava studentessa passerei le vacanze a studiare, ma non tradisco mai le definizioni dei dizionari, tantomeno quella di “vacanza”. La scorsa vacanza di pasqua quindi, come tradizione, l’ho passata a far niente: guardare un film dopo l’altro su sky cinema (sia benedetto), leggere un libro, coccolare il cane… null’altro. Il mio scopo dal risveglio all’ora di andare a letto era solo uno: rilassarmi, per poi tornare all’università fresca come un rosa e vogliosa di studiare (quando mai?). Dopo due giorni di mal di testa e rilassamento forzato, durante i quali non mi sentivo per niente rilassata, mio padre mi ha chiesto di aiutarlo nell’orto. Ho vissuto quasi tutta la mia vita in campagna ma, me ne vergogno, non ho mai preso in mano nemmeno un rastrello da giardinaggio; nonostante questo, ho deciso di andare.
Quella mattina dovevo zappare. Inizialmente ho preso la zappa in mano e con gesti sempre calcolati ho iniziato a zappare zolla dopo zolla stando attenta a seguire un preciso schema. La mia testa non era mai stata così affollata “vai dritta! Attenta a quell’ape! Ti si sono impigliati i capelli nel ramo! Questa è ortica?” e così ho continuato per un po’. Poi però ho iniziato a sentire il calore del sole sulla pelle, ho smesso di ascoltare la mia testa e ho iniziato ad ascoltare il silenzio della campagna, la calma. Se chiudete gli occhi potete immaginarlo anche voi: il rumore cadenzato della zappa, il vento che fa frusciare le foglie degli alberi da frutto, il ronzio delle api che adesso non ti preoccupano più, il profumo di fiori selvatici da poco sbocciati. Tu stai lì e senti la fatica, senti la calma che c’è intorno a te e ti rendi conto che adesso è anche dentro di te. E allora ti fermi, ti metti un attimo a sedere sotto l’albero mentre bevi dell'acqua fresca e vedi il tuo lavoro. La parte della terra zappata è un po’ più scura, se guardi con attenzione magari noti un lombrico che per errore hai portato in superficie e che adesso lotta per tornare al buio nella sua terra. Tu sei là, ferma all’ombra dell’albero e ti rendi conto di quanto tutto intorno a te sia vivo: se guardi bene l’erba, la terra, la corteccia dell’albero, nulla è immobile, ci sono mille esserini che sentono il tuo stesso sole e si muovono con un ritmo solo loro.
Sono una ragazza di campagna che a 24 anni ha riscoperto veramente la campagna, ha riscoperto la sua bellezza, il suo ritmo e la sua pace. Sono una ragazza di campagna che finalmente ha capito cosa le serve per riposarsi e rilassarsi. Nella mia breve vita mi son sempre ripetuta “amare di più, pensare di meno”, beh adesso io vi esorto, come esorto me stessa, a zappare di più e pensare di meno.
Da quanto non sentite l’erba sotto i piedi, da quanto non rincorrete una lucciola? Da quanto non togliete le erbacce dal giardino per poi sentirvi veramente soddisfatti del vostro lavoro?
Zappare di più, pensare di meno.
Camilla Follino
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Sfiga atomica e come sopravvivere
Vi è mai capitato di svegliarvi la mattina e sentire la sfiga che incombe dietro l’angolo? A noi sì, spesso! Molto spesso!
Ecco alcuni consigli utili e da tenere a mente quando la giornata parte col piede sbagliato!
Prima di iniziare, però, sappiate che anche quando vi sentite gli unici sfigati, attorno a voi la sfiga ne ha intrappolati altri.
Chiediti se hai fatto qualcosa di sbagliato e se la risposta è sì, fai un respiro profondo e pensa che il karma esiste (lo sai per la prossima volta).
Una giornata piena di disavventure la sai riconoscere dal momento in cui ti capita la prima sfiga. Ricordati sempre che le sfighe non arrivano mai da sole.
Assicurati di avere in tasca il minimo necessario per sopravvivere.
Se il tuo cellulare è al 30% togli la connessione dati e leggi un libro, non rischiare! (lo sappiamo tutti che fino al 1% farai scorrere instagram).
Diffida degli sconosciuti (anche di quelli che ti vogliono dare una mano!).
Dopo aver constatato e messo in atto tutte queste cose, cerca di mantenere il controllo di te stesso anche se vorresti solo piangere e urlare, accetta tutto. Rassegnarsi è l'unica soluzione per farcela.
Ricorda che solo il momento in cui arrivi a casa è il momento giusto per sentirsi in salvo e rilassarsi (non è detto).
Dopo di che, non uscire di casa fino all'alba di nuovo giorno.
Serena Caramaschi
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1° concorso di Poesia: TERRA
Oggi inizia il primo concorso di RADICI. Il tema è la TERRA. Un concetto nostalgico che ci fa ripensare alle nostre origini contadine, il simbolo della fertilità, il pianeta che ci contiene tutti senza discriminazione, l’ultimo album delle Luci della Centrale Elettrica. Se la TERRA vi ispira una poesia, allora vi abbiamo trovato! O meglio, sta a voi farvi trovare scrivendo a quest’indirizzo: [email protected] Anche se non siete poeti, anche solo se a volte vi sentite tali. Anche se volete esserlo per un’unica volta. Ci piacciono gli scrittori di poesie convenzionali e non. Ogni scrittore è ammesso. Le tre poesie vincitrici verranno pubblicate sul cartaceo di giugno (la prima stampa interamente legale di Radici).
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Un giorno in cui essere impassibili
Oggi giornata di merda. Così, assolutamente senza motivo. La giornata ha deciso di essere così e me lo sta facendo capire in tutti i modi.
Ma la cosa fondamentale è non farsi trovare impreparati: mai dire "peggio di così che può capitare?".
La giornata di merda ha le orecchie lunghe e ti sente.
Quindi oggi la grande troiona che non è altro mi troverà impassibile.
Mi ha trovato impassibile quando mi sono svegliato trovando metà soffitto caduto, proprio sul punto in cui c'è l'armadio che casualmente avevo lasciato aperto;
Mi ha trovato impassibile di fronte alla fila a mensa mai vista prima;
Mi ha trovato indifferente quando mi si è rovesciato addosso il riso;
Mi ha trovato indifferente quando per poco insieme allo scorreggio non usciva dell'altro.
Mi ha trovato così, col sorriso;
Anche quando mi si è rotto l'accorcia-barba;
Anche quando il libro che la prof mi ha indicato come fondamentale si è rivelato inutile alla mia tesi.
Mi ha trovato indifferente anche quando Gennara, quella caga-cazzi mi ha detto "più tardi ti chiamo, ho bisogno di parlare".
Ma la giornata di merda non avrà la meglio su di me. Non la temo. Anzi, L'aspetto.
Perché la (ri)conosco e so prepararmi al peggio.
Loris Stornaiuolo
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Mamma ho preso il regionale “veloce”
È giovedì. È il giovedì prima di Pasqua. E tutti tornano. Masse incasinate di studenti fuori sede riempiono fino a scoppiare le loro valige e si dirigono verso la stazione, verso un regionale veloce pronto, ma neanche troppo pronto, a portarli a casa. Una casa dove non dovranno più pensare ai piatti da lavare o alla cena, li aspetta. Arriva il treno, arriva con tre minuti di ritardo, che per un regionale veloce è come essere in anticipo. È in quell’istante che i giovani fuori sede realizzano che il viaggio di ritorno a casa non sarà un viaggio come gli altri. No no e no. Perché la gente è dappertutto, perché la puzza anche, puzza di piscio di solito, e poi c'è il sudore. Sudano i pendolari, sudano perché per trovare il loro posticino devono fare il triathlon, che chissene frega della palestra, con un solo viaggio perdono 4 kg: valige come ostacoli tra un sedile e l’altro rigorosamente da saltare con in braccio la propria valigia. E nei ritorni in cui ritornano tutti c'è sempre il sole, però, c’è un però, basta cambiare vagone per ritrovarsi prima alle Maldive e poi all’ Antartico. Che poi perché? Non si sa perché. Un vagone ha l'aria condizionata e un altro no. Semplice. E quindi? E quindi i fuori sede si ammalano, cosa altrettanto semplice. Metafora di quanto la vita sia dura. Per alcuni. Perché poi per gli altri, beh per gli altri... C'è la business class sul Freccia Rossa. Ci sono i sedili in pelle, il Wi Fi (incredibile vero?) e c’è la merenda (ad una certa). Però occorre ammetterlo. Sì, bisogna dirlo. Sui regionali veloci c'è la solidarietà. Sui regionali veloci ci sono gli sguardi d' intesa quando il treno ritarda e dice a tutti che è fermo nel mezzo del nulla per farne passare un altro. Ci sono gli sguardi di intesa quando la tua valigia non entra nel porta valigia perché è un porta valigia grande come una gabbia per criceti. Ci sono gli sguardi di intesa quando il controllore passa e la gente, la buona gente, non può fare altro che pensare: ma davvero passa anche con 45 minuti di ritardo? Ebbene sì. I regionali veloci sono questo. E un fuori sede lo sa bene. I regionali veloci sono così, sono quel posto dove regna la puzza e la bontà d'animo.
Serena Caramaschi
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Un libro per il week-end
Camere separate, Pier Vittorio Tondelli (Bompiani, 1989)
Questo week end vorrei parlarvi di Camere separate, un libro che ho scoperto da poco, scritto da un autore emiliano a lungo inspiegabilmente dimenticato ma straordinario, Pier Vittorio Tondelli. Si tratta di un romanzo in ampia misura autobiografico che in tre capitoli (o Movimenti, come ha scelto di chiamarli l’autore) racconta la storia d’amore tra due uomini, Leo, il protagonista, e Thomas. Leo è uno scrittore italiano affermato, tiene conferenze in mezza Europa, ha molti amici ed è un uomo assolutamente e totalmente indipendente. A Parigi conosce Thomas, uno studente tedesco poco più che ventenne e questo incontro gli cambia la vita. Nelle prime pagine però è subito chiaro che Thomas, gravemente malato, muore dopo pochi anni dal loro incontro, lasciando Leo nella più totale solitudine. Da questo incipit quasi brutale, parte però il racconto della loro storia, difficile, spesso turbolenta e dolorosa - Camere separate significa infatti incomunicabilità e separazione, lontananza - ma bellissima perché per entrambi si tratta di quello che potrebbe essere definito il vero amore, l’amore della vita. Il racconto non segue un percorso cronologico, dà la sensazione di un flusso di coscienza del protagonista (l’autore in realtà) nel tentativo di mettere insieme un periodo di svolta della propria esistenza. Il fatto poi che si raccontino solo alcuni eventi e fatti importanti della relazione evita di scadere nel facile melodramma che una storia del genere potrebbe comportare. Molto è lasciato all’immaginazione del lettore, alcuni tratti sono ben marcati, altri solo sfumati e qui sta il fascino del romanzo.
È un libro che segna un passaggio, una transizione, non a caso Tondelli scrive questo romanzo appena dopo i trent’anni, un’età che ha segnato per lui la maturazione e la consapevolezza di sé. D’altro canto è quel che cerca di fare il protagonista, trovare appunto una consapevolezza di sé, un amore per sé stesso dopo e oltre la morte del suo compagno, dopo e oltre la solitudine. Si tratta di questo in fondo, fare i conti con la propria solitudine dopo l’abbandono. Questo significa per Leo accettare sé stesso, accettare il fatto di aver passato i trent’anni, accettare che l’amore della sua vita se n’è andato e soprattutto accettare di essere ancora vivo e di poter ancora creare bellezza e vita, attraverso la sua passione, la scrittura. Un percorso questo assolutamente difficile e doloroso che costerà a Leo molti anni in cui compirà viaggi solitari, cercando di trovare conforto in sé stesso, consapevole del fatto che gli amici non possono capire e comunque, non lo possono aiutare.
Lo stile di Tondelli nel raccontare questa storia è abbagliante e commovente. La narrazione a volte rapida, a volte più lenta accompagnata da un linguaggio accurato e incredibilmente efficace rende impossibile non immedesimarsi nei personaggi e nel vortice di emozioni e riflessioni densamente cerebrali di cui si compone l’intera storia.
Ma oltrepassando i particolari stilistici, ci sono un’infinità di motivi per leggere, ora, anno domini 2017, una storia d’amore omossessuale degli anni ’80 del secolo scorso. La naturalezza e il romanticismo - ebbene sì, un romanticismo sincero e per nulla banale – con cui viene raccontata la loro storia d’amore, permettono di capire, non compatire, coinvolgendo il lettore dall’inizio alla fine.
Fondamentale è anche il tema del viaggio che personalmente ho apprezzato moltissimo. I due protagonisti viaggiano insieme in varie città europee e, dopo la morte di Thomas, Leo si reca in Inghilterra da solo. Le pagine su Londra sono alcune delle più belle del libro, perché con pochi tratti precisi e intensi accennano a temi come la globalizzazione e l’immigrazione che influiscono in modo pesantissimo - ancora oggi e sempre di più - sulle vite di un numero enorme di persone nel nostro vecchio continente e non solo. Il viaggio che propone l’autore poi, è soprattutto un viaggio in se stessi, per capirsi e accettarsi reciprocamente all’interno di una relazione e per capirsi e accettarsi dopo l’abbandono.
Camere separate, in conclusione, è un libro davvero stupendo, di quelli che non hanno la pretesa di insegnarti qualcosa ma inevitabilmente lo fanno, e che ogni tanto ti fanno provare il desiderio di leggerlo di nuovo.
.Claudia Passerini
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