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The O.C: quando una serie diventa qualcosa di più
Ben ritrovati! Si torna (finalmente) a parlare di serie tv, e in questa giornata di fine agosto ci sentiamo nostalgici quindi tiriamo fuori una chicca dal passato: The O.C.
Per me è LA serie teen per eccellenza, una delle prime- se non la prima- che ho guardato dall’inizio alla fine, (quando ancora le serie si guardavano in tv e se ti perdevi una puntata eri fregato), e quindi occupa il posto d’onore nel mio cuoricino da #tvseriesaddicted.
È un evergreen, non passa proprio mai di moda, ma ho recentemente notato che anche se è datata non è scontato che tutti l’abbiano vista. Però diciamocelo, a chi non è capitato di sentirne parlare o di beccare un episodio in tv (in una delle innumerevoli repliche)? Se vi è successo ma siete andati oltre credendo che fosse una cavolata, vi dovete ricredere e ora vi spiegherò il perché.
O.C. è un teen drama americano, composto da 4 stagioni, creato da Josh Schwartz e trasmesso da Fox dal 2003 al 2007. La trama segue le vicende di Ryan Atwood (Benjamin McKenzie), un adolescente problematico di Chino con una difficile situazione familiare alle spalle (la madre alcolizzata, il padre e il fratello in prigione), che viene accolto e successivamente adottato dai Cohen, una facoltosa e altruista famiglia di Newport Beach. Arrivato a Newport, Ryan si trova catapultato in un nuovo mondo, fatto di raccolte fondi e feste sulla spiaggia, casette in piscina, scuole private e macchinoni. Conosce subito Seth (Adam Brody), figlio dei Cohen, sarcastico adolescente un po’ nerd snobbato dai coetanei, che invece sono figli di papà e “pallanuotisti palestrati”. Ryan incontra cosi Marissa Cooper (Mischa Barton), la classica ragazza della porta accanto, apparentemente perfetta nei suoi abiti firmati Chanel taglia 38 e con la sua chioma bionda, legata sentimentalmente a Luke Ward (Chris Carmack), capitano della squadra di pallanuoto (ma va?) e stronzo megagalattico. Aggiungiamoci poi Summer Roberts (Rachel Bilson), la frizzante migliore amica di Marissa, di cui Seth è segretamente innamorato dalle elementari.
Ma al di là della trama, che è bene o male conosciuta da tutti, è importante capire che O.C. è un’icona, è il simbolo di una generazione di teenagers rimasti incantati dal mondo patinato di Orange County, un mondo in cui però non è stato difficile riconoscersi. Con i suoi personaggi, con le tematiche affrontate, con la musica, O.C. ha toccato tasti che fino ad allora nessuno aveva sfiorato (no nemmeno Dawson’s Creek), dando inizio così ad una vera e propria rivoluzione della cultura pop dell’epoca: i (terrificanti) primi anni 2000. È una serie tv che ha ispirato milioni di adolescenti nel mondo e che ha spianato la strada ad altrettanti teen-drama, da Gossip Girl a Thirteen Reasons Why. Anche se quando è andato in onda la prima volta non ero ancora adolescente, non ne perdevo una puntata, e a distanza di qualche anno sono riuscita ad apprezzarlo a pieno e a comprenderlo meglio.
Ora, a 15 anni (!!!) dalla prima messa in onda vi elenco alcuni motivi per cui dovete guardarla.
1) SETH COHEN
Prima che i nerd e i geek andassero di moda c’era Seth Cohen. Sfigato, intelligente, pungente, appassionato di fumetti, di videogiochi e musica indie, portatore sano di Vans e skateboard. Il personaggio sarcastico per eccellenza, in anni in cui le serie tv il sarcasmo non sapevano quasi che cosa fosse. Capitan Avena, il Chrismukkah, Atomic County, le dichiarazioni d’amore assurdamente romantiche e impacciate, questo è Seth Cohen.
2) La colonna sonora
“CALIFORNIAAA, CALIFORNIAAA, HERE WE COOOOOOOOME!!”
Tutti l’avrete letto cantando, e se non l’avete fatto state mentendo. Canzone ICONA della serie, cantata dai Phantom Planet, piazzata in apertura. Appena partivano le prime note di corsa sul divano!
Ma non c’è solo questa, la verità è che O.C. è pieno zeppo di pezzi monumentali che sono stati fondamentali per il successo e la riuscita della serie, e che hanno reso uniche e indimenticabili parecchie scene. Inoltre ad O.C. va il merito di aver portato sugli schermi un genere musicale che ancora non era molto diffuso: l’indie.
Un’altra canzone che fra tutte si è contraddistinta è l’Hallelujah di Leonard Cohen cantata da Jeff Buckley, proposta in più di un’occasione, una più straziante dell’altra, che ti fa venire voglia di piangere per la disperazione, per sempre.........
Per non parlare di Hide And Seek degli Imogen Heap, di Forever Young, di Dice. E come non menzionare i Coldplay, gli Oasis, i Killers, i Death Cab, insomma tutta roba emotivamente destabilizzante, che ha reso O.C. un viaggio indimenticabile.
3) Le frasi iconiche
“Tu chi sei?” “Chiunque tu vuoi che io sia.” Ma che ve lo dico a fareeeeeee!
4) Ryan Atwood in canottiera
E non serve dire altro.
5) La quarta stagione
La quarta stagione di O.C. è stata un fallimento per molti, e anche gli ascolti lo hanno confermato. Dopo il FINALONE della terza stagione infatti la serie è stata rinnovata solo per un’ultima stagione di 16 episodi (contro il 24/25 normali) anche a causa di una diminuzione drastica degli ascolti. In questo senso io sono una voce fuori dal coro: la quarta stagione mi è piaciuta, e pure tanto. È stata una boccata d’aria fresca dopo anni di drammi pesanti e di scenate (chissà di chi). Vengono alla luce nuove sfaccettature di alcuni personaggi, e le loro storyline sono più leggere e divertenti, quindi per me assolutamente promossa.
D’altro canto esistono anche dei motivi per cui consiglierei di non guardare O.C, anzi solo uno: Marissa Cooper. Ecco, l’ho detto. Non ho mai sopportato Marissa, e non credo sia difficile capire il perché. Frignona, petulante, viziata, la classica donzella in difficoltà, stronzetta, con l’espressione da cagnolino bastonato e soprattutto DRAMA QUEEN. Per quanto irritante però non si riesce a non provare pena per lei qualche volta, e anche affezionarsi, perché nel bene e nel male anche lei ha reso O.C. quello che conosciamo.
Ce ne sarebbero di cose da dire e potrei stare qui ore (e mi sono già dilungata a sufficienza) a parlare di Seth, Summer, Ryan e Marissa e delle loro disavventure, perché se non l’avete capito O.C. è la mia serie tv del cuore, quella che difenderesti nonostante tutto, quella che non ti stanchi mai di vedere (e quindi fai 34827645 rewatch) perché sai che saprà emozionarti come la prima volta. Sono passati tanti anni e sarei curiosa di tornare a Newport e rivedere i nostri amici ormai 30enni, e in un periodo di reunion e revival io ci spero, chissà che i miei desideri non verranno realizzati.
Non mi resta quindi che augurarvi buona visone (o buon rewatch 😉) e “Benvenuti a O.C. stronzetti!”.
Di Marta Bossio
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Alfredo aka Serena
Ho conosciuto un uomo, si chiamava Alfredo aveva gli occhi come Sartre e guardava i treni che sfrecciavano in direzioni opposte.
Mi ha guardata e mi ha detto: “una passo alla volta”.
Io ho detto: “come scusi?”
Alfredo ha sussurrato: “un passo alla volta”
Al che io ho risposto: “ok”.
Poi Alfredo ha storto il naso e ha detto due o tre parole a vanvera.
“Ok” è una risposta che non lascia niente indietro, nessuna sensazione buona dietro un “ok” e Alfredo lo sa.
Come dire va bene ma taci.
Poi Alfredo è arrivato e mi si è seduto di fianco.
Così gli occhi trapiantati di Sartre dentro ad Alfredo mi hanno placcata. Non potevo fare altro che disorientarmi in quello sguardo confuso.
Alfredo racconta quanto segue, senza respirare.
C’è una casa stratosferica e tu ci sei dentro, hai appena oltrepassato la soglia d’ingresso e tu ci sei dentro. Da fuori è proprio una bella casetta: la riproduzione stereotipata di una casetta. La porta si chiude dietro di te e quella casa è il tuo mondo, è la tua vita, i tuoi impegni, le tue lamentele, le tue malattie.
Quella casa è la tua vita che appare incasinata, sparsa, rumorosa.
E allora entri in cucina, è incasinata perché nessuno ha sparecchiato. E quindi che fai? Sparecchi tu?
E allora entri in garage e lì c’è un letto, tutto così casuale, chi ci deve dormire su quel letto?
E allora entri nella tua camera e la radio è accesa e spara contro le tue orecchie una canzone triste.
Ma COS’E’ STO CASINO?
E’ la tua vita, incasinata, sparsa e rumorosa.
E allora che fai? Un passo alla volta.
Chiude tutte le porte e apri una porta alla volta.
Ogni porta è un momento. Se le lasci aperte tutte non ci capirai più un cazzo.
“Casssso.”
Alfredo è veneto.
E forse ha ragione.
Scritto e disegnato da Serena Caramaschi
#racconti#scrittura creativa#dialogo con me#alfredo#vita#un passo alla volta#porte#scrivere#radiciposterzine#storie
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Una storia non del tutto inventata
CAPITOLO 1 "progetti"
Ore 19:15 solito aperitivo “vetrina” dove i più si guardano in giro fingendo di aspettare qualcuno o rileggono i messaggi di whatsapp per mostrarsi occupati. Mi annoio, da quando è nata questa cosa degli aperitivi forzati il mercoledì e ogni sera del weekend, la cosa del trovarsi con gli amici ha perso un po’ senso, spesso non abbiamo niente da raccontarci e finiamo col criticare questa o quella persona. <Hey Matte! ti ho mai parlato dell’idea dell’ex macello?> <No Nico, mi ricordo che mi avevi parlato di costruire una palafitta in golena…> <Ah si! beh, quella era un’altra idea che prima o poi si farà! no, no, quindi non ti ho mai detto del collettivo?! sarà una cosa figa!>.
CAPITOLO 2 "tanti progetti"
Giro in bici. Quanto è bella la nostra terra?! In dieci minuti passi da strade asfaltate a caradoni ghiaiati (strade bianche) con solchi di 30 centimetri scavati dai trattori. <Ohi Fabri, non sarebbe bello creare una rete di ciclabili che passano per il Po e uniscono l’Emilia alle altre regioni?! un po’ come nella zona del lago (per lago noi intendiamo quello di Garda)> <è si Nico! però sai quanti traffici bisogna fare? poi siamo in Italia…> <si ok! bisognerebbe parlare con qualcuno del comune o un’urbanista…> <Nico, e l’idea della zattera?!> <è si, il progetto l’ho disegnato ma devo trovare collaboratori> .
CAPITOLO 3 "non è vero che non ricordo. Ricordo anche il nome del pub! ma non ha importanza…"
Serata tranquilla di un weekend tranquillo. Decidiamo di spostarci in un altra città par evitare i soliti due pub e per non vedere le stesse facce. <ohi Nico, io vorrei scrivere, cioè, scrivo già ma vorrei fare qualcosa, un blog o una rivista.> <Ah si sere?! spiegami.>.
CAPITOLO 4 “Si fa!”
Tum Patum-za Tum, Padova, capodanno 2017 e Reggaeton, la mezzanotte è passata già da un po’ e ora si balla e si beve per inerzia, alcuni ballano e si fanno foto con lo spumante magnum di Pier… <Nico, spiegami, allora fate una rivista te e la Sere?!> <Si Verdi!! sarà figo! e non sarà solo una rivista, coinvolgeremo tanta gente!> la vedo, mi guarda come si guarda uno che straparla. E infatti <Tu Nico hai sempre mille progetti!> non le do torto… < si, Ma stavolta SI FA!>.
La Sere non è sintetica quindi lo sarò io ;)
Grazie a chi c'è stato, a chi c'è e a chi ci sarà!
Di Nicolò Artoni
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Lo spazio capovolto
Dopo quel giorno non sono più salito su quel tetto, avevo il timore di offuscare quel ricordo ancora così limpido. Passavano i giorni, le nuvole, i cieli di grafite, ma di Alice nemmeno l’ombra. Sparita nel nulla così come si era presentata la prima volta. Senza di lei le giornate si fecero più lunghe, i pensieri più frequenti e io iniziavo a sentirmi sempre più piccolo. Percepivo un tremendo bisogno di salire in alto, proprio come faceva sempre lei, osservare le macchine sfrecciare e portarsi via i problemi. Bisogno di godermi con calma quello spettacolo di luci lasciate dal passaggio delle persone. Da lassù le cose non fanno poi così paura e per una volta mi sarei sentito grande. Così decisi, almeno per quella volta, di salire sul tetto. Quel pomeriggio vi era un cielo particolarmente aperto e si riusciva a guardare più lontano del solito. Non avevo idea della reale ampiezza della mia cittadina. In particolare i miei occhi furono rapiti da tre grattacieli, posti in serie, con vetrate tendenti al nero come se in quel momento stessero riflettendo il mio animo. Rimasi a fissarli per qualche minuto, incantato dalla profondità di quel gioco di luce. La nebbia non mi aveva mai permesso di espandere, fino a quel punto, i miei orizzonti. Distolsi e abbassai lo sguardo: poco più in basso, come fosse avvolta e protetta da quelle tre maestose costruzioni, vi era una ruota panoramica. Elegante, bianca, lucente. Nonostante tutto quel ferro, trasmetteva leggerezza e fu un grosso sollievo per il mio buio interiore. Riuscivo già ad immaginarmici sopra, chiudere gli occhi e lasciarmi cullare dal quel lento movimento rotatorio. Dovevo assolutamente salirci. Scesi in strada e mi diressi verso quella direzione, non avevo la minima idea di come fare per raggiungerla ma usai il mio acerbo istinto. Ad una certa iniziai a chiedere indicazioni e venni consolato dal fatto che non tutti sapevano dell’esistenza di questa, fino ad oggi misteriosa, ruota panoramica. Dovetti fare il cambio su due linee diverse della metro e fare diversi chilometri a piedi quando finalmente me la trovai davanti. Mi sembrava di averci messo una vita ma ne valse la pena. Scoprii, in realtà, che quella ruota era situata all’interno di un parco divertimenti assieme ad un centinaio di attrazioni coloratissime. Non vi era molta gente ma questo fu un bene, non mi sento molto a mio agio quando sono in mezzo a troppe persone, nonostante io sia un grande estimatore del caos. Rimasi piacevolmente stupito dall’atmosfera onirica che fluttuava nell’aria. Una delle cose che mi colpì maggiormente fu che ad ogni sguardo incrociato, seguiva un sorriso spontaneo. Nessun tipo di pregiudizio, semplicemente individui accumunati da un’irrefrenabile voglia di spensieratezza e giocondità. Provai ogni giostra, perdendo completamente la cognizione del tempo. Venni contagiato dai colori, dalle luci, dal profumo di mandorle tostate, dalle grida di gioia, forse tutte cose scontate ma di certo non banali e mi serviva ricordarlo. Si era fatto buio quando mi accorsi che da quell’ora in poi non vi erano più mezzi pubblici e avrei dovuto farmi tutta quella strada a piedi. L’adrenalina di tutta quell’euforia era oramai svanita lasciando spazio a una terribile stanchezza e pensare di dover attraversare mezza città prima di poter riabbracciare il mio letto, mi faceva innervosire non poco. Impostai il navigatore del mio smartphone per avere circa un’idea di quanto mi trovavo distante e non riuscivo a crederci. Percorrendo una strada tutta dritta, mi sarei trovato sotto casa in poco meno di mezz’ora. Non me lo spiegavo, come se la mia concezione di spazio si fosse totalmente capovolta. Mi piaceva pensare che fosse merito della città, un modo per ringraziarmi dopo averla esplorata cercando zone secondarie che hanno ancora qualcosa da trasmettere. Camminai piuttosto lentamente e mi presi diverse pause per via della stanchezza, ma il viaggio non fu più di tanto faticoso. Arrivato a casa mi fiondai in camera e mi voltai verso la finestra per vedere se da lì riuscivo a scorgere la luminosità della ruota. Fu così che vidi Alice, seduta a gambe incrociate sul mio davanzale. Il modo migliore per concludere questa giornata inizialmente agrodolce. Alla vista del suo volto assonato ma sorridente, ebbi una sorta di brivido seguito da una vampata di calore partita da dietro le orecchie e arrivata giù lungo i fianchi. Aprii la finestra senza dire nulla, non v’era bisogno di nessuna parola, i nostri sguardi parlavano già abbastanza. Presi una coperta e andai fuori. Passammo tutta la notte abbracciati fino ad addormentarci uno sulla spalla dell’altro.
Racconto di A. Azzara
Illustrato da Leonardo Artoni
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Button poetry of mine
Tutti conoscono la storia di cenerentola, dolce donzella figlia di un re, schiava delle sorellastre, amata dal buon padre e poi dal prode principe azzurro, eroe senza tempo. Vogliamo parlare di Biancaneve? Figlia di un re, inutile dirlo, bellissima. Invidiata, per la sua bellezza, dalla matrigna, viene avvelenata e lasciata in uno stato comatoso, ma guarda caso, un bellissimo e prode principe, eroe senza tempo, la bacia e salva.
E raperonzolo? Figlia di un re, bellisima, incarcerata da una donna malvagia e salvata da un bellissimo principe. Cos'hanno in comune le storie di queste tre giovani donne? La protagonista è una dolce e indifesa fanciulla. Donne cattive come antagoniste e un prode cavaliere pronto a salvare la protagonista.
Quindi, ragazze, se non siete dolci, indifese e pronte a essere salvate da un principe azzurro siete voi le streghe di turno.
Queste sono solo tre delle più celebri fiabe che ci vengono raccontate continuamente da bambini.
Ci martellano la testa fino a insinuare inconsciamente nel nostro pensiero l'idea che una donna ha solo due possibilità: Essere servile, umile, indifesa, dolce e bellissima o essere una brutta strega malvagia. E' chiaro, questa è una iperbole. Ma possiamo essere certi che anche questo contribuisce alla formazione del carattere?
Ho immaginato di scrivere una lettera a una eventuale figlia, una fantasia:
Ti racconterò di come
cappuccetto cintura rossa
stese il lupo
grazie a una mossa segreta
di ninjutsu,
e di come celebrò
la sua vittoria
limonando il timido cacciatore
che le dedicò una poesia. Ti parlerò di Cenerantola
che sputò sulle scarpette di vetro
e indossò anfibi sgualciti al concerto dei “fata madrina”,
-LA BAND HEAVY METAL PIU' TOSTA DEL REAME-
di come tornò a casa
alle quattro del mattino,
ubriaca persa,
accompagnata da Biancaneve,
la sua ultima conquista.
Cenerantola non permise alle sorellastre
di tenerla in scacco,
studiò ingegneria
e inventò un aspirapolvere nucleare
che la rese ricca da far schifo.
Ti spiegherò, che tu,
e solo tu,
potrai essere il tuo principe azzurro,
non ti farai soggiogare dalla paura,
pur facendotela addosso,
indomita e coraggiosa ti salverai
da orchi e streghe,
la tua spada la favella,
la tua armatura la cultura.
Il tuo castello, mia cara,
sarà uno zaino capiente
e il tuo regno
il mondo intero.
- anche lo spazio se sarai astronauta-
Pasticciere, astronauta, meccanico,
il punto è che potrai essere chi vorrai,
come vorrai
e quando lo vorrai.
Tu sarai la fiamma
dalla mia scintilla,
sarai l'oceano
dalla mia lacrima.
Sarai un tornado
in continua e costante rivoluzione.
Indaga gli abissi del tuo cuore
e immergiti nelle profondità della tua mente,
la superficialità è roba
per deboli cronici.
Conoscere se stessi è la chiave
per conoscere gli altri
e vedere i veri colori del mondo.
Meravigliati e sii meraviglia.
E sappi, che se poi vorrai essere
una dolce e indifesa principessa
e ti farai conquistare da un principe azzurro
a me starà bene, benissimo,
purchè sia una tua scelta.
In questo caso,
e solo in questo,
scordati la cazzo di eredità,
Giovanni Irimia
#radiciposterzine#radici#poetry#princess#antihero#cenerentola#biancaneve#raperonzolo#cappuccettorosso
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La vita vista dall’alto
A volte mi capita di fermarmi a guardare la pioggia, credo sia il modo migliore per affogare i pensieri e fermare il tempo. Apro la finestra, esco, e mi siedo sul davanzale con i piedi appoggiati alla pensilina. Amo ammirare l’asfalto bagnarsi e riflettere le cose donandogli profondità.
Ho imparato persino a prevederla, l’aria si fa più salubre e solleva un profumo inebriante.
Non capisco perché la gente abbia tutta questa paura di inzupparsi. Conosco solo una persona a cui non dà fastidio e forse è quella che dovrebbe esserne più infastidita.
Non so il suo vero nome ma io la chiamo Alice, alludendo al pesce, perché non parla molto e inoltre mi sembrava il nome di specie più carino.
L’ho incrociata per caso, una sera particolarmente luminosa, mentre guardavo, da camera mia, una finestra cambiare colore con i riflessi della televisione. Me la trovai davanti all’improvviso, era così carina che non riuscii nemmeno ad esserne spaventato.
Ci guardammo intensamente per un paio di secondi, tra paura e stupore. Aveva uno sguardo alquanto tetro e penetrante.
- Come ci sei finita qui su? -
Abbassò lo sguardo senza emettere alcun suono.
- Non sarà pericoloso per una ragazzina minuta come te? -
Ancora una volta non ricevetti nessuna risposta. L’ osservai meglio e notai delle mani rattrappite e laboriose, come di solito ha chi arrampica da molto tempo.
- A giudicare dalle mani è tanto che ti issi tra un tetto e l’altro, perché hai bisogno di andare così in alto? Da cosa stai scappando? -
- Da qua su tutto è piccolo e insignificante, non sei condizionato dalle dimensioni e osservi le cose senza alcun pregiudizio. Inoltre noti cose che non noteresti stando a terra, come i moscerini ad esempio. Questi sciami che fluttuano a mezz’aria sprezzanti del pericolo, un misto di incoscienza e audacia. -
La scrutai un po’ stranito ma la lasciai proseguire con il suo sproloquio.
- Tutti gli esseri viventi riescono a percepire un pericolo imminente e, solitamente, si preparano ad affrontarlo nel migliore dei modi. I moscerini no, loro se ne stanno lì, quasi con aria di sfida facendosi forza l’un l’altro. Mi chiedo se siano coraggiosi o solo molto ingenui. -
Provai a seguirla.
- Forse ho capito che intendi. I moscerini non sono mai soli, sono consapevoli del fatto che comunque vada, riusciranno sempre a trovare un modo per cavarsela. Agiscono semplicemente d’istinto. Mentre noi spesso siamo frenati, dalla nostra testa, dalla nostra coscienza. Talvolta avremmo bisogno di lasciarci andare contando di più sulla nostra forza e, magari, su quella delle persone che ci affiancano. -
- Sei il primo che si sforza di capirmi, di solito non ho molta fiducia nelle persone, preferisco starne lontana. La verità è che ho paura, oltre di non essere compresa e apprezzata, degli addii. -
- Prova a vederla diversamente, ogni persona ti dona qualcosa, che sia un gesto, un ricordo o del tempo da condividere. Tu immagazzina e fanne tesoro. Gli addii non sono a priori una cosa definitiva e poi, finché l’immagine sarà chiara, le persone vivranno per sempre dentro di te. -
Gli occhi di Alice si aprirono, come se le mie parole gli avessero lievemente crepato quel suo spesso muro di convinzioni.
Da quel momento tornammo a goderci il silenzio con più fiducia e cognizione, cercando di non sprecare neanche un secondo di quel presente.
Avevo tremendamente paura di non rivederla mai più ma ovviamente non le dissi nulla di tutto questo, e mi limitai ad avvicinare le dita gradualmente fino ad incontrarla.
Scritto da A. Azzara
Illustrazione di Leonardo Artoni
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Al binario uno c’erano due che si amavano
A lei che l’ama profondamente.
A lei che l’ha baciata e ribaciata prima di farla salire su un treno.
A lei che ha sorriso quando il treno arrivava, quando salutava e quando il treno è ripartito lasciandola sul binario uno al freddo.
A lei che l’ha seguita da dietro il vetro mentre sceglieva la sua postazione e le ha detto “saluta tua mamma a casa”.
A lei che ha corso verso il treno che partiva sfidando le leggi della fisica.
A lei che correndo salutava.
A lei che è innamorata.
A loro che guardarle è stato come guardare un film.
A loro, due ragazze che si amano e cambiano il mondo.
Serena Caramaschi
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This is real, this is love, THIS IS US
Dopo un bel po' di assenza, ben tornati!
Anno nuovo, nuove serie tv, quindi mettiamoci all’opera.
Ricomincerò parlando di una delle rivelazioni televisive degli ultimi anni che per me è diventata un altro pezzo di cuore: This is us.
This is us è un family drama americano creato da Dan Fogelman e trasmesso dal settembre 2016 da NBC. Attualmente è composto da due stagioni di 18 episodi ciascuna, più una terza stagione che sta andando in onda da settembre 2018.
Nel cast troviamo volti conosciuti come Milo Ventimiglia (Jess, sei tu?), Mandy Moore, Sterling K. Brown, Justin Hartley (il primo e originale Oliver Queen) e altri meno noti come Chrissy Metz, Susan Kelechi Watson e Chris Sullivan. Ma scopriamola meglio insieme.
Quando, più di due anni fa, mi è capitato casualmente sotto il naso il promo di This is us mi sono detta: “Okay dai, sembra carina, appena inizia la guardo” (come se non avessi avuto altre 49373 serie in lista), ma mai mi sarei aspettata di ritrovarmi in una valle di lacrime già dopo un solo episodio. E potevo solo immaginare che il meglio - o forse il peggio - doveva ancora arrivare.
Basta un episodio solo per capire che This is us è qualcosa di speciale e unico.
Ci sono Jack e Rebecca, una coppia di giovani innamorati che si trova a dover affrontare una situazione inaspettata e dolorosa; c’è Kate, una 36enne obesa che cerca di risolvere i suoi problemi di peso e di autostima; Kevin, un attore di sitcom insoddisfatto della sua vita; e infine Randall, un padre affettuoso e un gran lavoratore che decide di dare una grande svolta alla sua vita e a quella della sua famiglia.
Soltanto alla fine del primo episodio i pezzi si uniscono, creando un puzzle inaspettato e sorprendente, che ti fa venire voglia di saperne sempre di più, episodio dopo episodio. Le vite dei protagonisti sono infatti collegate da un sottile intreccio, e ci vengono narrate in modo impeccabile anche attraverso emozionanti flashbacks e flashfowards.
Ciò che colpisce di This is us è la sua semplicità, è il modo gentile con cui ti vuole fare capire quanto è straordinaria la vita nel suo essere ordinaria. È una serie senza pretese, che racconta storie di vita che potrebbero appartenere a chiunque, in qualunque parte del mondo. In poche parole, This is us è ordinarietà, e attraverso il racconto di questa straordinaria ordinarietà ci trasmette innumerevoli insegnamenti. Per prima cosa ci insegna come la famiglia sia sempre lì, no matter what; che la vita è fatta di seconde chances, di cuori spezzati e di ostacoli che sembrano insormontabili; ci insegna che, accada quel che accada, “non c’è nessun limone tanto aspro da non poterci fare qualcosa di vagamente simile ad una limonata”, e che sta a noi prendere in mano la nostra vita e farne qualcosa di cui poter andare fieri.
This is us quindi parla di vita, in tutte le sue sfaccettature, e ora tocca a voi scoprirne tutte le sfumature, conoscendo meglio Rebecca, Randall, Kevin, Kate ma soprattutto Jack, il sole attorno al quale gira il mondo di This is us (e ormai il mio) ed emozionarvi assieme a loro. Buona visione!
P.S.: Io lo psicologo non ve lo pago, vi avverto.
P.P.S: No, purtroppo Jack Pearson non esiste, stiamo tutte cercando di farcene una ragione.
Di Marta Bossio
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TERRA - 3° Classificato | concorso di poesia
Saggio Maggio
Smeriglia tra le tue biade, o maggio, quell’armonia vivace che’l poeta non si tace e con liriche esaltò. I flutti del tuo lungo giorno diramansi tra i primi grani spargendo seme tutt’intorno d’una letizia irreplicante che s’invola, ammanta e sfugge, non può esser catturata, poiché solo in te prefigge d’esser in tal miracolo spiata. Hai poter del creato alzare fino al metafisico trascendere come a avvolger la creatura tra le braccia del divino rivelandoti per mezzo di ciò cui l’uom può sol inchino.
L’omaggio brioso del tuo fasto plana su di rondini le ali, leggiadri angeli dal gentil moto su purpurei papaveri: tini rossi, randagi come l’humus che li cresce senz’avviso dare ai bordi delle vie e contrade accanto ai ruscelletti in fiore, sfiora i tetti di cascine al servizio degl’incanti.
Quanta opra tra i tuoi steli, su una falce o un voltafieno il tuo servo contadino del tuo sole si fa pieno e le api ricche in zelo scovan lor grano tra le corolle dove ‘l polline le attende a lor nettare dar cielo.
In te esulta, saggio maggio, l’universo e l’alma mia il bel canto del profumo trova in te la parusia. Com’effige di perfetto fai risplender melodia che l’inverno ha pian covato e l’estate brucia via. Mi risvegli nel profondo nei pensieri l’eufonia di un ricordo, di una rosa, di indomabile magia. Mi avventuro tra i tuoi prati finché sera tornerà per attender la mattina sotto astri e galassie in frak. Ed i vetri che a te schiudono scuri anfratti delle case ti corteggian per entrare dopo ‘l chiarore plenlunare spirto lieto a inebriare invito al sole a navigare.
Sul celeste la colomba Mostra placida il suo manto Mentre tuba storli salgon senza foga, senza vanto. In questo tempio della grazia, in questo tempo di speme e gioia, rendo grazie della Vita che fa festa, si fa storia in questa Luce mai finita.
-Daniele Alberini
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Un libro per il week-end
Camere separate, Pier Vittorio Tondelli (Bompiani, 1989)
Questo week end vorrei parlarvi di Camere separate, un libro che ho scoperto da poco, scritto da un autore emiliano a lungo inspiegabilmente dimenticato ma straordinario, Pier Vittorio Tondelli. Si tratta di un romanzo in ampia misura autobiografico che in tre capitoli (o Movimenti, come ha scelto di chiamarli l’autore) racconta la storia d’amore tra due uomini, Leo, il protagonista, e Thomas. Leo è uno scrittore italiano affermato, tiene conferenze in mezza Europa, ha molti amici ed è un uomo assolutamente e totalmente indipendente. A Parigi conosce Thomas, uno studente tedesco poco più che ventenne e questo incontro gli cambia la vita. Nelle prime pagine però è subito chiaro che Thomas, gravemente malato, muore dopo pochi anni dal loro incontro, lasciando Leo nella più totale solitudine. Da questo incipit quasi brutale, parte però il racconto della loro storia, difficile, spesso turbolenta e dolorosa - Camere separate significa infatti incomunicabilità e separazione, lontananza - ma bellissima perché per entrambi si tratta di quello che potrebbe essere definito il vero amore, l’amore della vita. Il racconto non segue un percorso cronologico, dà la sensazione di un flusso di coscienza del protagonista (l’autore in realtà) nel tentativo di mettere insieme un periodo di svolta della propria esistenza. Il fatto poi che si raccontino solo alcuni eventi e fatti importanti della relazione evita di scadere nel facile melodramma che una storia del genere potrebbe comportare. Molto è lasciato all’immaginazione del lettore, alcuni tratti sono ben marcati, altri solo sfumati e qui sta il fascino del romanzo.
È un libro che segna un passaggio, una transizione, non a caso Tondelli scrive questo romanzo appena dopo i trent’anni, un’età che ha segnato per lui la maturazione e la consapevolezza di sé. D’altro canto è quel che cerca di fare il protagonista, trovare appunto una consapevolezza di sé, un amore per sé stesso dopo e oltre la morte del suo compagno, dopo e oltre la solitudine. Si tratta di questo in fondo, fare i conti con la propria solitudine dopo l’abbandono. Questo significa per Leo accettare sé stesso, accettare il fatto di aver passato i trent’anni, accettare che l’amore della sua vita se n’è andato e soprattutto accettare di essere ancora vivo e di poter ancora creare bellezza e vita, attraverso la sua passione, la scrittura. Un percorso questo assolutamente difficile e doloroso che costerà a Leo molti anni in cui compirà viaggi solitari, cercando di trovare conforto in sé stesso, consapevole del fatto che gli amici non possono capire e comunque, non lo possono aiutare.
Lo stile di Tondelli nel raccontare questa storia è abbagliante e commovente. La narrazione a volte rapida, a volte più lenta accompagnata da un linguaggio accurato e incredibilmente efficace rende impossibile non immedesimarsi nei personaggi e nel vortice di emozioni e riflessioni densamente cerebrali di cui si compone l’intera storia.
Ma oltrepassando i particolari stilistici, ci sono un’infinità di motivi per leggere, ora, anno domini 2017, una storia d’amore omossessuale degli anni ’80 del secolo scorso. La naturalezza e il romanticismo - ebbene sì, un romanticismo sincero e per nulla banale – con cui viene raccontata la loro storia d’amore, permettono di capire, non compatire, coinvolgendo il lettore dall’inizio alla fine.
Fondamentale è anche il tema del viaggio che personalmente ho apprezzato moltissimo. I due protagonisti viaggiano insieme in varie città europee e, dopo la morte di Thomas, Leo si reca in Inghilterra da solo. Le pagine su Londra sono alcune delle più belle del libro, perché con pochi tratti precisi e intensi accennano a temi come la globalizzazione e l’immigrazione che influiscono in modo pesantissimo - ancora oggi e sempre di più - sulle vite di un numero enorme di persone nel nostro vecchio continente e non solo. Il viaggio che propone l’autore poi, è soprattutto un viaggio in se stessi, per capirsi e accettarsi reciprocamente all’interno di una relazione e per capirsi e accettarsi dopo l’abbandono.
Camere separate, in conclusione, è un libro davvero stupendo, di quelli che non hanno la pretesa di insegnarti qualcosa ma inevitabilmente lo fanno, e che ogni tanto ti fanno provare il desiderio di leggerlo di nuovo.
.Claudia Passerini
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Un’idea, ed è tutto.
Da quando ho imparato, scrivere è un modo di esprimermi che ho sempre privilegiato e soprattutto che ho scoperto sola soletta, non avendo genitori con questa passione.
Tra le prime cose che ho scritto, c’è una poesia per mia madre “mia allegra mamma” che ormai so a memoria perché incorniciata in casa.
Tra le altre cose, agli inizi, c’è anche un racconto horror scritto nelle profonde Marche (che non trovo horror) un giorno d’estate in vacanza, sollecitata da mio fratello. Un racconto che sono certa non ritroverò mai, non saprei se per fortuna o per sfortuna.
Comunque tornando alla scrittura, forse è proprio questo che me l’ha fatta amare dal primo momento, il fatto che rappresenti qualcosa di mio, un’espressione che ho trovato da sola, ascoltando quello che avevo da dirmi, faticando a parlare.
Ora, la premessa era necessaria ma è anche necessario arrivare al punto perché ahimè, lo spazio è limitato. Dicevo che scrivere è una cosa che amo e aggiungo, che anche leggere è una cosa che amo, perchè come dice Pennac “leggere dilata il tempo per vivere” (Pennac amo anche te).
Un’altra cosa che amo tantissimo (poi ho finito con l’elenco) è la cultura che considero ricchezza, nel senso che mi fa sentire ricca anche se non ho soldi (dato di fatto). Mi sono sempre detta che avrei dovuto fare qualcosa, costruire uno spazio dove farla scorrere, la cultura, l’espressione di quello che siamo. Così una sera al pub (che Nico non ricorda) io ho guardato a Nico come all’amico che poteva capire quello che avevo in mente. Qualche anno dopo… sì perché siamo stati un po’ lenti, Nico è diventato Nico “il grafico” (io sono rimasta solo Sere, “la Sere”) un grafico di cui ho scoperto davvero le potenzialità guardando il primo incredibile Radici. Quel numero uno, il punto di partenza che mi ha fatto capire la cosa più importante: eravamo sulla strada giusta. Anche se non sapevamo dove ci stava portando.
Ebbene: la scrittura ha trovato la grafica ed è nata Radici. Nick & Sere da qui direste che ce l’hanno fatta. E invece no. Perché nonostante il primo numero stampato (200 copie autofinanziate) c’era una cosa di cui non avevamo tenuto conto, una sola: la legge. Da piccoli bravi anarchici (si fa per scherzare).
Radici dal primo istante doveva essere uno spazio felice e aver agito travolti dalla creatività senza calcolare la burocrazia ci aveva regalato un risultato cartaceo, concreto, che ci ha reso più semplice non arrenderci di fronte alle mille difficoltà sopraggiunte, magari non mille, ma comunque tante e una dietro fila. La prima, la ricerca di un giornalista che ci facesse da direttore (Lore grazie per averci supportato da subito) poi sono arrivati i viaggi inconcludenti in tribunale per raggiungere l’ufficio di R. il nome di un fiore ma un’unica spina nel fianco per noi.
Comunque, devo arrivare al punto nonostante non abbia il dono della sintesi, dicevo: 200 copie, stampa inconsapevolmente clandestina, trovato Lorenzo quindi trovata la salvezza, ma non ancora perché ci attendeva il tribunale.
Passate tutte queste fasi, SI. Radici è davvero diventata una rivista anche per gli altri. Ed eravamo solo all’inizio. E siamo solo all’inizio. E’ passato un anno, i progetti aumentano, le difficoltà rimangono ma abbiamo incontrato tante belle persone che ora fanno parte di tutto questo e niente, noi non ci fermiamo.
Io e Nico, se ci guardate è facile dirlo… siamo timidi, ma questa è stata la nostra rivoluzione. La rivoluzione dei timidi.
Di Serena Caramaschi
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Gli ospiti del Père Lachaise
Ogni notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre, un ospite del cimitero Père Lachaise di Parigi, può esprimere i suoi sentimenti di fronte a tutti gli altri ospiti. Morti. Tutti morti.
Sì, è di morti che parla questa storia, morti che ascoltano.
Un unico ospite all’anno ha diritto ad avere voce, così come venne stabilito il 21 maggio 1804 dal custode di allora, subito dopo l’apertura.
William Durzmorkik era un umano ingenuo, smemorato e sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, nuotatore in trasferta, capelli biondi, un biondo camomilla all’eccesso causato dal cloro, spalle larghe e imponenti, uno zio amorevole e un nuotatore spaventoso, a volte si chiedeva se fosse in grado di fare altre cose oltre al nuoto e non trovava risposte. Amava le leggende popolari e tanti anni prima aveva letto di questa storia al Père Lachaise ma come già scritto William Durzmorkik era un uomo smemorato, non ricordava nemmeno che l’orario di chiusura del cimitero erano le 17:45 e non sapeva della campane che vengono suonate per annunciarla.
Un corvo nero gli ruotò attorno: CRA-CRA! Se ne alzarono altri cento, CRA-CRA!
Che diavolo stava accadendo?
William sentiva come se un alone di umidità lo inseguisse, vedeva calare la luce e il cielo farsi investire da un blu oscuro, vi era però nel momento precedente al calare della sera, una luce giallastra che sembrava alzarsi dal prato, dalle tombe… e spostarsi verso l’alto. Come se la brina avesse un colore, un colore spento.
Sentì di nuovo le campane, si guardò attorno: nessuna persona nell’arco di pochi metri. Con la sua lenta intuizione capì, iniziò quindi a correre verso le uscite, gli parve di vedere un gatto correre con lui, lo sentì tra le gambe e inciampò; allora rallentò il passo pensando di averlo preso a calci e non vide più nulla, sembrava svanito. Riprese la sua corsa verso l’uscita ma quando arrivò ai cancelli, li trovò chiusi. Il suo casio indicava le 18:00. E lui William Durzmorkik, bravo ragazzo smemorato e non troppo perspicace era rimasto chiuso dentro al Père Lachaise. Provò a telefonare ai suoi compagni di squadra ma il suo cellulare era come annullato, non vi era campo e ogni tanto si spegneva per riaccendersi come un neon mal funzionante. William iniziò a gridare, qualche passante così lo avrebbe sentito e sarebbe arrivato ad aiutarlo. Si sentiva intrappolato. Certo era un luogo bellissimo ma la bellezza non elimina la paura e William di paura ne aveva molta, soprattutto perché continuava a sentirsi circondato da un’umidità inconsueta. Camminava per riscaldarsi e allo stesso tempo urlava per trovare chi gli aprisse. L’umidità era fredda, il tempo di alzare lo sguardo per imprecare e un ramo si spezzò e lo colpì, fece in tempo a vedere tutto cambiare colore, le croci in cima ai mausolei si staccarono e volarono via, e William svenne.
Quando le sue palpebre riuscirono a riaprirsi, il cimitero era illuminato delicatamente come se ovunque ci fossero candele accese, William continuava ad avere freddo, mancava poco a mezzanotte, era steso a terra e senza forze, vide una tomba a cui appoggiarsi e la raggiunse stordito, stava seduto e si strinse le gambe al petto per proteggersi. Non era normale quel freddo, William provava una sensazione non troppo rassicurante, come se stesse indossando degli abiti fradici, c’era puzza di decomposizione.
Fu mentre pensava a questi dettagli che da dietro la collina si alzò di nuovo una brina giallastra che diventò sempre più densa, lentamente prendeva sempre più le somiglianze di un fumo, un fumo da concerti, il gatto lo sfiorò di nuovo ma stavolta rimaneva lì, non fuggiva, William lo poteva vedere, allungò la mano per accarezzarlo ma il corpo del gatto non poteva essere toccato, la mano oltrepassava l’animale.
Il ragazzo sentì una canzone emergere dal silenzio, era una canzone che lui conosceva bene: The Ghost Song dei Doors. William era lì per la tomba di Jim Morrison e conosceva tutte le canzone dei Doors, pensò che vi era qualcosa di incantato nell’aria, il suo cuore pulsava fortissimo.
Comparirono da dietro la collina delle persone sorridenti, non erano zombie, erano fantasmi. Tutti avevano la consistenza di quel gatto. Come lo sapeva? Perché ad un certo punto erano dappertutto e lo attraversavano come se lui non fosse lì.
E’ in quel momento che al centro del cimitero vi erano tutti, tutti i morti del Père Lachaise, una fiumana di morti, tutti i suoi “ospiti”. E’ così che li chiamava un tizio che indossava una divisa verde marcio, diceva: “OSPITI! Per favore! Avanti! Ormai sapete come funziona! In cerchio tutti in cerchio!” fu in quell’attimo che William li vide: Jim Morrison, Edith Piaf, Oscar Wilde, Maria Callas, Marcel Proust, Frédéric Chopin… come tutti gli altri morti erano sorridenti, muti e si accomodavano a sedere al centro del Père Lachaise, in cerchio.
“L’ospite eletta dal consiglio quest’anno è… Elizaveta Aleksandrovna Stroganova”.
Si sentì un urlo di gioia immensa, di liberazione. Nessun altro oltre al custode aveva voce, fino a quel momento. Il custode infatti, dopo aver fatto la sua introduzione fu come se passasse la voce, o semplicemente la capacità di parlare ad alta voce, a questa nobildonna.
Sì era decisamente una nobildonna, pensò anche William.
“Signori e signore. Quest’anno è arrivato il mio momento, la mia notte! La mia! Si tende a pensare che i morti non abbiamo più nulla da dire quando sono morti ebbene, invece io credo che proprio dopo essere morti, accumulano cose da dire. Perché è solo quando si è morti che gli altri iniziano a parlare per noi. Sono qui ormai da 199 anni, a breve duecento… Ho vissuto la mia esistenza, troppo breve, tra la Russia e la Francia, ho apprezzato così tanto Napoleone… sono stata una donna allegra, anche se non ho avuto un allegro matrimonio. Sono stata pur sempre una baronessa, ma mi annoiavo. Ho voluto una bara in cristallo di rocca e voi tutti sapete cos’altro volevo dopo la morte. E io mi chiedo PERCHE’ tutto questo è risuonato così strano e tutt’ora risuona in tal modo. Desideravo un mausoleo con vista sulla città, una tomba altissima, desideravo dominare il Pere Lachaise, è tanto orribile? Può darsi, ma pensare di dominare mi faceva sentire così viva che volevo dominare anche nella tomba. E poi… vi ringrazio per non gettare su di me sguardi giudicanti come sanno fare bene i vivi, soltanto un’altra cosa volevo: che qualcuno vincesse la sfida.”
William era come totalmente coinvolto dalla storia della signora Stroganova, si sentiva come vittima di un incantesimo ma stava bene, era preso benissimo, troppo forse. Si ritrovò ad esclamare con una voce curiosa e squillante: “che sfida?”
Quando si trattava di sfide William era sempre pronto a farsi avanti, gli piaceva soprattutto sfidare se stesso.
Tutti i morti si girarono come se fossero parte di un gruppo di danza che faceva lo stesso balletto. Lo guardarono e con gli occhi dissero quello che la Stroganova poi espresse: “E tu chi sei?”
“Io sono William e sono rimasto incastrato qui.”
“Qui negli inferi? Qui dove?”
“Qui al Pere Lachaise. Mi state dicendo che questi sono gli inferi?”
“William… gli inferi sono l’unica cosa che accade quando muori. Rimaniamo qui ad aspettare questa notte per sempre. E aspettiamo e aspettiamo, sperando che sia il nostro momento per parlare.”
“Non volevo interromperla, continui…che sfida?”
“Ero un’aristocratica così ricca… la mia eredità era tanto alta. Ma non volevo lasciarla a nessuno, se non a colui che avesse accettato di farmi compagnia nel mio mausoleo per 366 notti, da solo, leggendomi libri. Dissi che potevano andarsene quando volevano se era troppo. E tutti quelli che ci hanno provato, se ne sono andati via, non hanno potuto sopportarlo… impazziti, spaventati, c’è chi è addirittura morto a sua volta. Hai altre domande, mio caro?”.
William continuava imperterrito la sua conversazione con i morti: “Come sarebbero sopravvissuti se fossero rimasti?”
“Ho garantito scorte di cibo, acqua e un po’ di ottimo alcol… Ho garantito anche un bidone per le necessità del corpo… Ma nessuno William, nessuno ha voluto farmi compagnia, o per lo meno… nessuno ci è riuscito. Quindi, signori e signore, stanotte, illuminata dalla città riprendo la mia voce per dirvi che la sfida è ancora aperta e non mi arrenderò fino a quando un essere umano sarà riuscito a ottenere la mia eredità. Provo disgusto per quelli che si sono fatti sfuggire una simile occasione.”
I morti si strinsero le mani, uno ad uno, crearono una catena e attorno a loro si alzò un’onda che sembrava galleggiare sul nulla: erano parole, frasi, pensieri, William li sentiva parlare, sentiva quell’onda trafiggergli la testa, faceva male ma la sentiva, lo sapeva cos’era: era quello che avrebbero voluto far sapere agli umani laggiù in città, appena le loro mani si lasciarono: il vortice di pensieri volò via.
William era confuso, ma sapeva cosa voleva… accettare la sfida.
“Signorina Elisaveta? Mi può indicare la strada per il mausoleo?”.
Le ore passarono, la voce ritornò al custode che annunciò che per ancora qualche ora avrebbero potuto starsene lì, poi regalò gli ultimi tre minuti di voce di nuovo a Jim Morrison, che intonò di nuovo Ghost Song. Mai visto un concerto così. Mai visto Jim Morrison dal vivo, pensò William.
E’ passato quasi un anno e al Père Lachaise i corvi continuano a gracchiare e gli umani addolorati continuano a portare fiori che poi appassiranno ai loro cari. Ogni tanto qualcuno getta ceneri nel giardino delle rimembranze mentre i turisti passeggiano. Gli abitanti del cimitero continuano ad essere solo gatti, forse vivi o forse no e le tombe, alcune crepate, rimangono lì per essere contemplate.
La notte dei fantasmi si avvicina, il momento di risvegliarsi dalla tenebre è arrivato. Chi sarà l’ospite d’onore quest’anno?
Le campane suonano, i cancelli stanno per essere chiusi, questa volta tutti i visitatori sono usciti in tempo.
E William?
Presto saranno 365 giorni che nessuno l’ha più rivisto.
Serena Caramaschi
Immagine tratta dal libro: Guide de la France mystérieuse, éditeur Tchou
Racconto inventato, storia di Elizaveta Aleksandrovna Stroganova non inventata. Per approfondire: http://lacustodeditombe.blogspot.it/2015/07/117-elizaveta-alexandrovna-stroganoff.html
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Dipendenza
Non so cosa sia davvero la dipendenza, o meglio, so cos'è, ma non l'ho mai provata sulla mia pelle. Un tempo fumavo, 20 sigarette al giorno, chiodi di bara, ho smesso perché non riuscivo a sopportare l'idea di non avere il controllo sul mio corpo e sulle mie azioni. Ma la dipendenza da nicotina è solo una dipendenza fisica, il corpo umano, una macchina perfetta, si libera molto velocemente della nicotina e nel giro di pochi mesi i polmoni più neri tornano lindi, quello che rimane è l'abitudine, la dipendenza psichica. I miei genitori e molti dei miei amici non riescono proprio a superare questo scoglio, la parte rituale della sigaretta, il piacere mentale della pausa, quei 5 minuti che dedichi solo a te stesso, utili a rilassarti. Per me non è stato così, nel momento in cui ho deciso che non avrei più fumato non c'è stato spazio nella mia testa per romanticherie da tabagisti o giustificazioni. Quella doveva essere l'ultima sigaretta e lo è rimasta. Mi piace pensare che la mia capacità di pensiero possa davvero abbattere le montagne. Ma una sigaretta è la passione di 5 minuti, un po' come masturbarsi, piacere temporaneo, una valvola di sfogo. Tra tutte le dipendenze che temo di poter sviluppare quella che davvero trovo terrificante, autolesionistica e folle è la dipendenza affettiva. Ho il terrore di questa cosa perché ne sono circondato, ovunque attorno a me vedo uomini o donne dipendenti dal proprio partner, persone che non sono in grado sopravvivere da sole perché hanno modellato la propria esistenza attorno a quella di un altro, che non sono in grado di porre fine una relazione malsana perché nemmeno si rendono conto che il loro amore è solo ideale, alimentato dalla fiamma di vecchi ricordi di cui ora rimane solo la cenere. Il rapporto che si viene a creare è tossico perché chi è dipendente da una persona annulla la propria personalità dedicando tutto il tempo all'altro, si passa dal passare ore insieme al tramonto sul fiume, a controllarne i tabulati telefonici, alla ricerca della prova schiacciante che la persona da cui dipendono li stia tradendo. Da vittima a carnefice, la situazione si inverte, l'amore diventa abuso, un vincolo, una catena nera che unisce due persone. Mi spaventa l'idea di svegliarmi un giorno accanto a una donna, qualcuno che ho amato, rendermi conto di non sentire più nulla e non fare niente. Semplicemente aspettare invano che passi. Mi piace pensare che la mia capacità di pensiero possa davvero abbattere le montagne, ma certe volte fuori piove e tutto quello di cui hai bisogno è un abbraccio, e lei è lì, pronta a dartelo. Detesti questa cosa, detesti tutto quello che lei rappresenta, detesti te stesso, ma fuori piove.
Giovanni Irimia
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OCEANO
Lo avete mai fatto quel sogno in cui vi ritrovate immersi in una profonda acqua blu, senza riferimenti, spaventati senza un reale motivo e avete come la sensazione che sia però il luogo adatto a voi? Quel sogno confuso che vi porta a provare un vortice di emozioni, che oscillano tra il disagio e l'appagamento. Non comprendete bene perché quella situazione vi spinga a scappare, ma allo stesso tempo vi inchioda lì, infuocando la vostra curiosità. Un'acqua così blu da apparire cupa, ma non priva di naturale eleganza, e voi non potete fare altro che salpare in questo Oceano, perché a riva il panorama è troppo ampio e vi devasta, vi lascia storditi. Vi accorgete che, per quanto voi tiriate le cime, le vele vogliono farsi accarezzare dai venti. Decidete così di respingere le vostre idee più nere dietro la linea dell'orizzonte, avete scelto di cominciare e di scoprire se Eolo vi cullerà coi suoi sospiri, o se Nettuno vi colpirà con le sue maree. I vostri pensieri vengono e svaniscono come la schiuma che nasce dal bacio fra le onde e la chiglia della nave, e lì sul ponte, per quanto sia bellissima la superficie di questo Oceano, iniziate a comprendere che è l'idea delle profondità abissali che vi affascina e sconvolge l'immaginazione. Scriveva Madame de Stael: "lo spettacolo del mare produce sempre una profonda impressione: è l'immagine di quell'infinito che attira senza sosta il pensiero, e in cui senza sosta il pensiero si perde". Vi confesso che ora ho paura di svegliarmi da questo sogno, ho paura di ritrovarmi in un arido deserto, dove non riconosco più i colori e col quale non voglio avere nulla a che fare, perché ormai questo Oceano ha su di me un potere ipnotico, e rimango in attesa di scoprire se mi permetterà di ammirare nuovi tramonti e di scoprire nuovi orizzonti.
G.
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Un libro per il week-end
Per chi suona la campana, Ernest Hemingway (Mondadori, 1940)
Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.
John Donne (1573-1651)
Per chi suona la campana è il capolavoro con cui Hemingway racconta la sanguinosa e terribile guerra civile spagnola (luglio 1936 – aprile 1939). È un romanzo complesso, definibile come uno dei “romanzi del secolo”, perché racconta una pagina difficile del ‘900, ma fondamentale per le implicazioni che ha avuto sulla formazione di una cultura europea post bellica, influenzando e ispirando in modo pregnante la coscienza civile e politica di innumerevoli generazioni che l’hanno seguita. È curioso per altro che un libro di questa portata su una vicenda prettamente continentale sia stata scritta da un americano, anche se nella sua intera vicenda biografica Hemingway ha dimostrato di amare profondamente l’Europa, di capirla e di ammirarne la cultura, la storia e la gente. In particolare in Spagna, dove è ambientato il romanzo, egli racconta appunto tramite il suo personaggio principale la sua esperienza di spregiudicato cronista di guerra.
Il protagonista è Robert Jordan, un professore americano che combatte da volontario tra le fila dei Repubblicani contro i fascisti, il quale deve portare a termine un’importante missione, su ordine del comandante Golz: deve far saltare un ponte tra i monti della Castiglia per isolare i nemici e ostacolarne l’avanzata.
Per compiere questa missione deve unirsi a un gruppo di repubblicani, “la banda di Pablo” che raccoglie un piccolo gruppo guerriglieri per la maggior parte inesperti e con pochissime risorse a disposizione. Robert Jordan intuisce subito che l’impresa è disperata e nel suo animo sa che potrebbe condurli tutti alla morte ma con caparbietà e passione cercherà di svolgere al meglio il suo compito in nome delle sue profonde convinzioni libertarie e con il supporto dei compagni che trova al suo fianco.
In questo gruppo Robert Jordan incontra Maria, una ragazza sopravvissuta alla repressione squadrista dei franchisti e se ne innamora in modo travolgente pur consapevole che l’amore che prova nei suoi confronti potrebbe ostacolare il compimento della sua missione. A queste proposito vi sono innumerevoli pagine di riflessione del protagonista che spesso sfociano in un vero e proprio tormento interiore per la necessità di proteggere Maria e assicurarle un futuro migliore insieme e lontano dalla guerra e l’opposta irrinunciabilità della sua missione bellica che coincide con la missione della sua vita, l’esplicazione delle sue convinzioni. Questa complessa vicenda interiore culminerà in una delle più belle dichiarazioni d’amore che siano state scritte su pagina (“..ti amo come amo tutto ciò per cui abbiamo combattuto. Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli uomini di lavorare e non avere fame. Ti amo come amo Madrid che abbiamo difeso e come amo tutti i miei compagni che sono morti. E ne sono morti molti. Molti. Molti. […]).
I compagni che qui cita il protagonista sono i Repubblicani che hanno combattuto e perso la guerra civile spagnola ma il libro offre un’interessante panoramica sulla composizione di questa resistenza antifascista: leggendo il romanzo si scopre che oltre agli spagnoli combattono per la Repubblica di Spagna anche un gran numero di stranieri, ad esempio molti russi come il generale Golz e altri piccoli gruppi di americani, francesi, ungheresi e, tra le fila franchiste uomini e mezzi italiani. Questo a dimostrazione che la guerra civile raccontata da Hemingway era molto più di una guerra interna spagnola, tanto per gli intrighi politici che visi dipanavano quanto per i sentimenti libertari e repubblicani che molti all’epoca hanno fatto propri al punto da partecipare come volontari.
Bellissimo inoltre il ritratto che fa del popolo spagnolo: un popolo sanguigno che in quella guerra mostra tutta la sua violenza e al contempo una grande umanità, corredate da tradizioni, superstizioni onnipresenti, provincialismi e slanci verso ideali profondi al servizio dell’amore per il proprio Paese.
In questo romanzo Hemingway riesce a condensare in modo perfetto la complessità del momento storico e del percorso psicologico individuale dei personaggi che sono tutti dipinti in modo così profondamente umano e non stereotipato da trasmettere in ogni riga il dolore, lo sgomento, il senso di colpa e la determinazione che pur nella difficoltà e nell’incertezza della riuscita dell’azione prevale sulla paura della morte. In questa complessità rientra anche il rapporto dell’autore con la vicenda politica della guerra di Spagna. Hemingway parteggia chiaramente per i Repubblicani infatti il libro è scritto per la maggior parte dal loro punto di vista ma non manca di ricordare le atrocità che furono commesse da ambo le parti affidando a Pilar (guerrigliera instancabile e colonna della banda) il racconto di una rappresaglia contro i fascisti nella sua città: una carneficina terribile, una violenza cieca come sfogo di una rabbia antica, frutto di secoli di oppressione. Questo per ricordare che “nessun uomo è un’Isola” e gli orrori della guerra sono una ferita per tutta l’umanità. I dubbi di Robert Jordan, le fughe codarde di Pablo (l’ex capo banda), i ricordi di Pilar, le riflessioni di Anselmo (il vecchio della banda) sulla colpa e l’espiazione compongono un quadro umano dalle mille sfumature.
La profondità delle vicende psicologiche e personali dei personaggi unita alla tensione che si respira in ogni riga per l’esito incerto della missione rende il romanzo appassionante e coinvolgente in un crescendo di drammaticità che toglie il respiro.
Per chi suona la campana è stato per decenni un libro che ha influenzato generazioni su generazioni, ed è uno di quei romanzi che trasmette ancora il vero amore per la letteratura, non come esercizio di stile ma come dono al prossimo di pensieri e idee su cui riflettere, e sulla base di queste riflessione formare un coscienza critica su ciò che e stato, sul perché è stato e, poiché i drammi legati alla natura umana tendono a ripetersi pur in molteplici forme, offre un’ àncora cui aggrapparsi nell’incertezza di ciò che sarà. Il bello delle storie che paiono antiche ma conservano sempre un po’ di eternità.
Claudia Passerini
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Come capisco se un film è bello oppure brutto? Parte II
Rieccoci di nuovo, immersi nella calura estiva, tra una fetta di anguria fresca e l’aria condizionata, a parlare di cinema. Nella puntata precedente avevamo analizzato il soggetto, la sceneggiatura e il budget, in questa proverò a fornirvi qualche informazione su montaggio, fotografia e regia. Come al solito gli argomenti sono vasti e non basta questo articolo a spiegarli fino in fondo, se mai vi verrà la curiosità di approfondirli vi lascerò sempre un libro di riferimento. Ma bando alle ciance e Iniziamo subito!
MONTAGGIO: Il montaggio è quella fase fondamentale e imprescindibile della post produzione di un film che si occupa di dare ordine alle sequenze girate; il montatore seleziona le migliori e le posiziona una dopo l’altra creando la narrazione della storia. Ogni volta che si passa da un’inquadratura ad un’altra avviene un taglio di montaggio, fino agli anni Duemila un vero e proprio taglia e incolla della pellicola ora con il digitale un semplice “cut & paste”. Il montaggio divide il film in sequenze e inquadrature e dà il ritmo al film, se non ci fosse avremmo un unico piano sequenza, cioè un’unica ripresa mai interrotta per tutta la durata del film: come ed esempio “Arca Russa” di Aleksandr Sokurov o “Birdman” di Innaritu anche se in realtà quest’ultimo ha utilizzato qualche trucchettino digitale... Uno dei punti cardine del montaggio è il fatto che questo permetta delle vere e proprie ellissi temporali senza inficiare la linearità del racconto. Cosa vuol dire? Facciamo un esempio. Immaginate tre gangster russi che stanno per entrare in un losco locale. La scena può essere risolta in tre inquadrature come mostrano le immagini qui sotto tratte da “La promessa dell’assassino” di David Cronenberg. 1. I tre gangster davanti alla porta, 2. Un uomo inserisce la chiave e cerca di aprire la porta 3. I gangster dentro all’edificio.
Come vedete non è stato necessario mostrare nel dettaglio ogni fase dell’azione “entrare nell’edificio” per ottenere il risultato finale. Il merito di tutto ciò va al montaggio, che permette di omettere alcune sequenze al fine di accelerare i tempi del racconto senza però creare buchi nella narrazione. Ma i poteri del montaggio non si fermano qua, infatti in alcuni casi è utilizzato dal regista per ingannare o addirittura inquietare lo spettatore. Facciamo un altro esempio. Immaginate un uomo in piedi che punta una pistola contro una donna seduta su una sedia come nella scena de “I 7 Psicopatici” di Martin McDonagh. Analizziamo la sequenza insieme. Prima inquadratura: primo piano del killer minaccioso e incazzato nero che punta la pistola.
Seconda inquadratura: primo piano della donna intimorita e indifesa. BAAM!! Colpo di pistola. Cos’è successo? La donna è morta ? E’ viva? Era un colpo a salve o il proiettile è effettivamente partito? Nessuno lo sa. In questo momento si crea suspense, lo spettatore attende la prossima inquadratura per capire effettivamente cos’è successo.
Il regista con l’uso del montaggio ha deciso se la donna doveva solo spaventarsi ad esempio con un colpo che le ha solamente sfiorato il volto o invece morire.
FOTOGRAFIA: la fotografia è tutto il processo artistico e tecnico attraverso il quale viene realizzata la registrazione delle immagini di un film. Esattamente come quando realizziamo una foto con una macchina fotografica, nel cinema realizziamo un’inquadratura impostando prima di tutto la composizione dell’immagine, chi si trova in primo piano, chi sullo sfondo ecc... e poi i vari parametri più tecnici quali tempo di esposizione, apertura del diaframma, filtri, luci e così via. Una fotografia di un film western potremmo dire che tende più a colori spenti, opachi, mentre un film di Tim Burton come “Edward mani di forbice” ha sicuramente colori più accesi e luminosi (si pensi alle casette del villaggio in pieno stile pop-art). Così come il montaggio anche la fotografia è un mezzo che contribuisce a dare spessore alla narrazione. Proprio per questo deve essere studiata con cura e non essere in contrasto con i fatti narrati dal racconto. Cosa che non succede nei blockbuster americani degli ultimi tempi dove a prescindere dal genere e dalla storia, il colore delle immagini è sempre saturo, le luci sono più che mai patinate come se si trattasse di spot pubblicitari e i tagli di luce sono completamente assenti. Allo stesso modo un film non può vivere solo di fotografia, la bellezza di un’inquadratura, per quanto ricercata, non è sufficiente a narrare una storia. Film che basano la loro narrazione sull’esperienza visiva e che allo stesso tempo riescono ad essere convincenti sono pochi, uno di questi è “Lacrime di Sangue” di Helene Cattet e Bruno Forzani. Al contrario, uno che invece non ce l’ha fatta è “La giovinezza” di Sorrentino dove il mero esercizio estetico per quanto interessante e appagante per gli occhi non basta ad approfondire e sviluppare la miriade di temi toccati dal regista italiano.
REGIA: La regia è termine con il quale si riassumono tutte le scelte tecniche fatte dal regista per realizzare il film, che hanno contribuito a raccontare la trama in un modo, piuttosto che in un altro. La regia è ciò che determina lo stile del regista. In letteratura e nei manuali di storia del cinema ne vengono presentati diversi tipi: ad esempio può essere definita invisibile, tipica dei film western anni 40 come “Ombre Rosse” di John Ford, in cui, come dice il nome, c’è ma non si vede. In questo caso i movimenti della macchina da presa sono molto delicati e poco vistosi al fine di focalizzare l’attenzione dello spettatore principalmente sui fatti narrati piuttosto che sul modo con cui vengono descritti. Oppure, al contrario, nei film orientali di Park Chan-wook o ancora prima di Ozu la regia diventa molto vistosa, con complicati movimenti di macchina e inquadrature riprese da angolazioni insolite. Ancora, un tipo di regia può prediligere il piano sequenza piuttosto che il montaggio, come nei film neorealisti italiani (vedi De Sica, De Sanctis) oppure può fare gran uso della macchina a mano piuttosto che della steadycam, come i primi film di Lars Von Trier. Come vedete ci vorrebbe un solo libro che tratti il vastissimo argomento di regia, qui solo accennato. In ogni caso spero di aver suscitato in voi un po’ di curiosità e di avervi quanto meno indirizzato verso una visione filmica un po’ più consapevole. A questo punto però, dopo tutto questo pippone e tutto questo parlare di regia invisibile, fotografia, montaggio cazzi e mazzi è giunto il momento di provare ad analizzare un film insieme ma...
...lo faremo nella prossima puntata... quindi, visto che fa caldo e visto che alcuni come me sono in vacanza...
COMPITO PER LE VACANZE
Ma stiamo scherzando?!! Io leggo radici quando capita, boh, prima di addormentarmi!! magari non leggo nemmeno tutti gli articoli che non c’ho voglia e tu mi dai un compito per le vacanze??!!
Tranquillo caro lettore, nulla di impegnativo... si tratta di vedere due spezzoni di film che analizzeremo la prossima volta insieme e che è necessario conoscere altrimenti le chiacchiere senza un riferimento visivo sarebbero inutili. Eccoli qua:
Velluto Blu – David Lynch – scena iniziale
Old Boy – Park-Chan Wook – scena combattimento
Passate una buona estate e vedetevi tanti film!
consigli:
Libro di riferimento: Geografia del Cinema: viaggi nella messainscena – Bruno Fornara – 2001
Film estivo consigliato: Le Orme - Luigi Bazzoni - 1974
Nicola Montali
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