#pubblico in sala morto tanto quanto me
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ladyinrosso · 9 months ago
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Solo per i Megara. Solo per loro resisto a tutto questo
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beavakarian · 6 years ago
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Thor: Senza parole - Endgame Spoiler [ITA]
SPOILER E TANTO, TANTO RANT.
Per il fandom italiano. Siete avvisati, qui sotto mi scaglio contro Chris e tutti quelli che han permesso questa merda di avere spazio, origine, fine. Se amate il Chris odierno, come è diventato, se amate Ragnarok, se amate Waititi, NON LEGGETE OLTRE. Non voglio flame, non voglio un cavolo. E’ un mio rant, sul mio blog.
Sono qui, seduta sul divano di casa, un’ora dopo aver scritto in capslock tutto il mio schifo al mio migliore amico e alla @lasimo74allmyworld , così come ho scritto qualcosina a @piccolaromana . E sono ancora incredula rispetto a cosa ho visto.
Sono qui sul divano con una nausea pazzesca, una rabbia assurda e solo un gran senso di schifo e ribrezzo su cosa Chris Hemsworth, Waititi (eh sì, perché lui c’è sempre di mezzo quando si parla di stronzate) e i Russo hanno avuto il coraggio di propinarci. 
Questo non sarà un sunto di Endgame, lo farò poi. Questo sarà un vomitare fango perché ne ho bisogno, ne ho assolutamente bisogno, ora, a caldo, perché quello che ho visto ha rischiato di farmi uscire dalla sala dopo 30 minuti dall’inizio del film.
Sono riusciti a distruggere l’unica cosa buona di Thor in Infinity War. Ovvero cosa era diventato. Tolta la prima mezzora, ove si prende la sua meritata vendetta in un modo stupido, ci ritroviamo davanti ad un INSULTO a tutto il fandom di Thor, a tutto il franchise, a chi ha ideato il personaggio per l’MCU (leggasi Branagh). Ci troviamo davanti ad un BUFFONE.
Ma stiamo scherzando? New Asagard in Norvegia come villaggio di pescatori, con i superstiti del popolo Asgardiano lasciati a loro stessi, con Val che informa Banner che Thor si mostra in pubblico solo una volta al mese per recuperare la birra.
Si apre uno scenario con un Thor alcolizzato, panzone, che gioca a Fortnite con Korg. Ragazzi, ma veramente? MA VERAMENTE, PORCA PUTTANA? E se la ride. Un buffone alcolizzato, trasandato, che straparla, che... Che risulta il cretino del gruppo poi, man mano che la trama va avanti.
Non un cenno al fottuto fratello morto, non un cenno al gesto di Heimdall. Cambio di personalità completa, un ridicolizzare il personaggio per puro piacere di ridicolizzarlo. Se vi lamentavate di Ragnarok, non potete immaginare la MERDA che sia il personaggio di Thor in questo dannato film. 
Io non so che cazzo sia successo nella mente di Chris, come abbia potuto cagare così nel piatto dove ha mangiato per 10 fottuti anni, Come Faige abbia potuto permettere ciò! 
Dove sono i valori di Thor? Il Thor dell’MCU non è così. E’ un dannato principe destinato a diventare Re. Gli han tolto la madre, ha perso suo padre, LOKI E’ MORTO PER LUI, Heimdall è morto difendendolo. La sua gente è morta. E in 5 anni, tutto quelle che ti ritrovi a fare è giocare a Fortnite con quel cretino di personaggio inutile come la merda, in una catapecchia? E affidare poi il trono, QUEL DANNATO TRONO!, a Val alla fine di tutto e andare a fare il buffone con i Guardiani? 
Chris, io ti stimavo. Ti amavo. Ti ho amato nella tua performance di Thor, di Avengers. Apprezzavo i pregi e difetti di Thor, amavo la sua arroganza, la sua ingenuità, ma amavo anche il cuore di Thor. Amavo come sbagliava, come tentava di rimediare. Come scherzava ed ironizzava. Amavo quanto stesse diventando umano man mano che passava il tempo accanto agli Avengers, come fosse geloso di Midgard, il suo realm protetto. Ho amato TDW, ho amato odiare Thor che nega a Loki di condividere il dolore per la morte di Frigga, perché per quanto sbagliato, ci stava. Era in character in un certo senso. Ho amato come Thor è andato contro il volere di Odino, liberando Loki. Ho amato le lacrime per la morte di tuo fratello in TDW, ho amato la risolutezza di Age of Ultron, ho amato come, sanguinante, ti sei arreso sul corpo inerme di Loki all’inizio di IW. Come urlavi vendetta, in una spirale di fulmini.
Ragnarok è stato un incubo. Ma la conclusione di Ragnarok, intima, con Loki, è stata una delle pochissime cose accettabili e buone di quel film. Quel sorriso di Thor, un sorriso vero, nell’avere suo fratello di nuovo con lui.
In Endgame non esiste più nulla. Il Thor di Endgame non è degno di esistere. Ti ci doveva buttare Loki dalla rupe a Vormir, almeno avresti avuto una degna fine, un’utilità, come gemma dell’anima. E non avresti fatto, Chris, questa figura di merda atomica.
Sono fuori di me. Io, come tanti, che ho sempre amato Loki e Tom sì, ma poco più indietro di lui, tu e Thor vi eravate fatti strada nel mio cuore. Ho iniziato come fan di Iron Man, per poi amare Loki e Thor quasi alla stessa maniera, come un qualcosa d unico, inscindibile.
E invece... Invece hai rosicato Chris. Sei diventato presuntuoso e arrogante. Hai fatto la più grande cazzata che potessi fare. Io ti auguro di essere in pace con te stesso, ma quando la tua avvenenza cesserà di esistere, perché cesserà, e potrai contare solo sulle tue capacità recitative, io sarò seduta qui a guardare il tuo fallimento. Con la morte nel cuore, perché ero affezionata a te, tanto, tantissimo. 
E so che dietro a questa pagliacciata ci siete tu e il tuo egocentrismo. E no, questo non lo accetto. Sono incredula. Non avrei mai pensato di scrivere queste cose e chi mi conosce sa che, in questo momento, mi sta sanguinando il cuore. Perché sto ruolando il tuo personaggio con tanto amore e rispetto. Sto cercando di rendere omaggio a Thor, ma sono arrivata a capire che il fandom tiene più a Thor, che tu al personaggio che ti ha fatto arrivare dove sei.
Non hai rispetto per Thor. Hai distrutto tutto con le tue stesse mani. 
Congratulazioni.
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thebigbrohill · 4 years ago
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[ Hyun & Blake Edward Hill - Casa Fitzgerald - 22.04.2019  _  #ravenfirerpg _ #danceinwonderland ]
Meraviglia. Questa fu la prima parola che associò a casa Fitzgerald non appena arrivò, rimanendo a bocca semi aperta. Gli occhi quasi non riuscirono a tenere il conto di tutti gli sfarzosi addobbi tanto che quasi non fece caso al padrone di casa quando l'accolse. Gli sorrise e ricambiò la cortesia, facendo una semiriverenza e chiedendo indicazioni su dove le partecipanti all'asta per il primo ballo dovessero andare. Hyun aveva trovato divertente la trovata dei Fitzgerald, inoltre se il denaro andava a qualcuno che ne aveva più bisogno era ancora più felice, oltretutto la veggente aveva colto l'occasione per incontrare e conoscere nuove persone. "Perché no?" Aveva pensato quando si era iscritta, pensando che se nessuno avesse voluto ballare con lei era sicura che uno dei suoi fratelli sarebbe venuta in suo soccorso. [...] Era in piedi, in linea con le altre ragazze in attesa del suo turno. Quando venne chiamata, fece qualche passo avanti, mostrandosi al pubblico. Era nervosa, non conosceva tante persone in città e all'improvviso l'idea che nessuno avrebbe offerto qualche soldo per lei le fece venire il panico: si strinse appena nelle spalle magre scoperte, poiché il vestito era a cuore e cadeva vaporoso in strati di tulle e raso nero e viola fino a metà coscia. Fu mentre attendeva che vide una mano alzarsi, forse per fare un'offerta, ma la veggente non aveva riconosciuto la persona che aveva compiuto quel gesto e, nello stesso istante, sentì il cuore sollevarsi appena per il sollievo.
Blake Edward Hill * Casualità. Caos. Erano quelle le parole che definivano il ragazzo vestito in uno smoking rosso e nero in totale stile fante di cuori. Blake Edward Hill era proprio lui, un fante di cuori, ma di cuori spezzati, perché di quelli interi non ne aveva mai conosciuti. Il tema suggestivo di Alice l’aveva condotto lì, a casa Fitzgerarld, senza un vero e proprio scopo. Blake, infatti, non era il tipo da beneficenza né tantomeno il tipo che amava le feste e la gente. Lui odiava il contatto fisico, le persone e la loro positività, non solo perché la sua natura volgeva verso la negatività in generale, ma anche perché la sua vita era sempre stata un inferno. Morfina, morti, tatuaggi, disegni, cadaveri e tormenti abitavano la sua vita sia da sveglio che da dormiente. Quando lui e Vanille, sua collega di lavoro e una tra le sue poche e vere amicizie, entrarono in quella villa qualcosa incominciò ad andare storto. Il venticinquenne Blake Hill aveva chiesto alla ragazza di andare con lui, perché era stato incuriosito dal tema, ma appena si addentrò in quel mondo comprese quanto fosse allergico. Lui odiava le meraviglie. [...] Aveva girovagato tra i pilastri della sala fino a poco prima quando i suoi occhi ghiacciati incominciarono a cercare qualcosa di interessante, ma non vi era nulla. All’orizzonte, aldilà di una moltitudine sorridente e dannatamente schifosa, vi era una schiera di ragazze che, udite udite, aspettavano un ragazzo con cui poter ballare. Edward roteò gli occhi spostando i suoi capelli corvini che ricadevano lunghi sulle spalle. Era disgustato, non avrebbe mai toccato delle sconosciute eppure..... Un violinista dietro di lui continuava a mormorare cose strane mentre con un altro cercava di organizzare uno scherzo a qualcuno, o meglio all’ignaro Blake. Gli alzarono un braccio e poi lo spinsero verso la pista, Blake li maledì e si promise che sarebbero morti. Ad ogni passo verso quella povera ragazza sentiva la forca avvicinarsi alla sua vita. E ora come avrebbe fatto a ballare ? Prese un respiro. Doveva avere coraggio, forse da questo suo sforzo letale avrebbe guadagnato qualcosa per la sua attività. * Hyun-Ae Jang Gli occhi quella sera erano velati dalle lenti a contatto azzurre con tanto di pupilla verticale, come se fosse realmente una gatta.. O posseduta da un demone. Chi conosceva Hyun sapeva bene che possedeva un lato misterioso che a pochi era concesso accedere, perciò aveva trovato affine nel costume dello stregatto il suo essere. Si avvicinò cautamente al ragazzo che aveva alzato la mano, scendendo i gradini lentamente, e ringraziava il cielo nel aver imparato a camminare sui tacchi; una volta arrivata vicino a colui che l'aveva scelta, lo guardò in viso e lo sguardo lo scrutò nei minimi particolari, dai capelli corvini e lunghi agli occhi azzurri: aveva letto molte leggende giapponesi e quel ragazzo le ricordava terribilmente un demone tengu, dalle sembianze di un corvo oscuro. Scende dal palco, fermandosi davanti a lui, e gli sorride in modo divertito ma anche con gratitudine mentre si prodiga in una piccola riverenza. < Grazie mille per avermi scelta.. Cavaliere. > Disse, con tono leggermente ironico alludendo alla sua mise per quella serata, restando ferma davanti a lui, anche se doveva ammettere che lo trovava anche affascinante. Qual'era la prossima mossa? Ballare forse, ma non sapeva molto da dove iniziare e se soprattutto toccava a lei la prima mossa. Beh, forse poteva semplicemente presentarsi prima di tutto, ma preferì tacere, mantenendo quella sorta di mistero fra loro. Blake Edward Hill * Avete presente quella sensazione quando da bambini eravate costretti a fare qualcosa che in realtà non avreste mai voluto fare? Ecco quella era la sensazione che Blake avvertiva dentro di sé, una sensazione che l’avrebbe fatto fuggire a gambe levate o l’avrebbe condotto direttamente al musicista, o meglio a quella tomba ambulante. Già, quel violinista sarebbe morto molto presto. Passo dopo passo, il giovane tatuatore sentì dentro di sé sentimenti contrastanti, da una parte ballare gli piaceva e dunque non gli avrebbe dato fastidio, dall’altra parte, invece, sarebbe andato via perché l’unica, la vera e unica ballerina per lui rimaneva la sua Johanna. Deglutì non appena i suoi occhi cerulei non incontrarono la figura della giovane che sembrava essere davvero innocente. Che peccato! Avrebbe toccato un’altra innocente e se.... No, non voleva pensarci nemmeno, non avrebbe di certo ucciso un’altra donna. La distanza si era fatta minima e Blake fu costretto a fare il galantuomo. Offrì il suo braccio mentre, dentro di sé, sentiva l’intestino contorcersi. Non toccava mai nessuno, non era abituato. Fu forse per questo che non sorrise nemmeno, o forse era per la sua natura cruenta da Dooddrear? Chissà! * Sono stato obbligato. Ma prego. *Tagliò corto in modo diretto. Non era di certo il ragazzo che voleva provarci con lei, gli avevano fatto un dispetto ed entrambi ora avrebbero pagato le conseguenze. In fondo al suo cuore fragile gli dispiaceva per la giovane asiatica che gli era ora affianco. Avrebbe potuto godere di miglior compagnia, ma come un’anima nera le era capitato lui, il demone, il ragazzo dalle nove dita. * Hyun-Ae Jang Alle sue parole di risposta, un brivido corse sulla schiena pallida della veggente, fissando gli occhi in quelli del ragazzo davanti a sé. Era stato obbligato? Cosa voleva dire? L'espressione di lei si fece appena guardinga e fredda, guardando il braccio del ragazzo ancora davanti a sé. Allungò la mano verso il suo braccio, quasi come se lo stesse per toccare, ma all'ultimo cambiò idea. Per lei un tocco significava molte cose, ma soprattutto poteva anche attivare i suoi poteri, cosa che per quella sera (onde evitare di impazzire completamente) aveva cercato di "spegnerli". Alzò appena il mento mentre iniziò a camminare verso la pista da ballo, in modo fiero. < Se la cosa ti disturba troppo non sei obbligato a.. Godere della mia compagnia, mr Tengu. > Era da lei affibiare dei soprannomi a chiunque incontrasse, e lui non faceva altro che trasmettergli una sensazione cupa che non poteva far altro che ricordarle un demone come quello. Forse lo era veramente e raramente si sbagliava, ma allo stesso tempo era curiosa verso quel ragazzo. < Allora cosa sceglierai di fare? Di far vedere che sei superiore a chi ti ha obbligato a ballare con me oppure te ne andrai, facendo vincere gli altri? > Chiese con un leggero tono di sfida, guardandolo in altrettanto modo, stringendosi nelle spalle magre e intrecciando le braccia sotto il seno, attendendo la sua decisione.
Blake Edward Hill * Cosa può significare un tocco se non la scoperta di una vita intrisa di dolore e di morte? In un mondo favolistico e lontano dalle dinamiche di sempre, una sola regola era rimasta immutata quella sera: non toccarsi. Il tocco era una delle componenti essenziali delle vite dei sovrannaturali a Ravenfire, peccato che Blake non si preoccupava soltanto di questo, ma lo odiava a tal punto da utilizzarlo in casi estremi. Casi estremi. Quello era un caso estremo, un caso in cui, purtroppo per lui, o forse più per lei, il tocco era fondamentale. Un’espressione fredda condivisa sostituì ben presto il contatto. Alla vista di un gesto alquanto insicuro, Blake Hill, il Dooddrear spietato e tatuatore, ritirò il braccio, distendendo il gomito. Un colpo di sopracciglia fu la risposta a quel mento femminile alzato ed orgoglioso. * Mr Tengu.. * La interruppe con fare pensieroso. Aveva già sentito quel nome da qualche parte, o meglio letto! Si, l’aveva letto in qualche fumetto che gli aveva prestato un cliente. Un barlume di ironia dipinse il suo sguardo. * Hai una cultura dei disegni e dei fumetti non indifferente, occhi a mandorla.. Hai un punto a tuo favore. *Si voltò verso di lei, i suoi occhi color ghiaccio incontrarono quelli della ragazza. Accennò un sorriso e con voce calda e sicura disse* Non vado mai via dalle situazioni. Chi mi ha obbligato farà una brutta fine. Intanto cerco di salvare la tua reputazione. E anche la mia. Quindi accetta la sorte e non lamentarti. * La sicurezza nella sua voce diede anche alle sue mani un certo coraggio. Allungò la mano e le afferrò il fianco avvicinandola* Fallo. Ti conviene. Hyun-Ae Jang Ascoltò le sue parole in risposta al suo nomignolo e al tentato atto di sfida, poiché quel ragazzo ancora reticente non accennava ad avvicinarsi. Le labbra carnose si allungarono in un cenno di sorriso alla menzione della sua conoscenza in ambito di fumetti e manga, dopotutto si autodefiniva una piccola nerd, ma quel cenno di sorriso sparì al nomignolo che le affibiò. Dopotutto "occhi a mandorla" non era poi così tanto male, l'avevano chiamata anche in modo ben peggiore, ma il solo ricordare il passato la faceva fremere di rabbia. Fece per rispondere quando sentì la sua mano toccarle il fianco e successivamente il corpo spostarsi verso il suo, sorprendendola alquanto, tanto che gli occhi dalle pupille da gatto si sgranarono appena, fissi ancora nei suoi. Inutile dire che una conseguente fila di immagini le si pararono nella testa, immagini di un presente e un passato che non le apparteneva, ma del ragazzo che ora la cingeva a se per un ballo. Cercò di mantenere un'espressione neutra per ciò che aveva scorto, come aveva fatto per tutta la serata, capendo ora chi aveva davanti. Non era la prima volta che aveva a che fare con un droddear, ma era la prima con cui aveva una conversazione.. Decente, perciò il cuore le batteva appena più velocemente, sia per il timore che anche per l'eccitazione. Poggiò lentamente la mano destra sulla sua spalla, guardandolo continuamente negli occhi, e un sorriso più furbo e scaltro le si formò sulle labbra. < È un tango, lo sai ballare, Tengu? > Disse, guardandolo ancora e posizionandosi nella posizione adatta ad iniziare quel ballo, sfidandolo appena con lo sguardo e facendo finta di nulla, sperando di riuscire nell'intento. Non era molto brava a mentire. < Ed ho una reputazione? Non lo sapevo, ma mi fa piacere sentirlo, spero sia buona.. Ma sono curiosa della tua reputazione ora. > Blake Edward Hill * Pronunciare nomignoli e far incontrare il proprio sguardo con un altro totalmente estraneo erano davvero passi avanti in quella che sembrava essere una vera e propria fobia per Blake Hill. Toccare qualcuno sembrava un pericoloso demone da evitare a tutti i costi, nonostante egli, prima di quel maledetto momento in cui era paralizzato davanti alla ragazza dagli occhi a mandarla, aveva volteggiato con la sua futura moglie, donna che era morta a causa sua. Lui era un veleno estremo per chiunque, eppure, così tanto velenoso, ora era obbligato a mettere quella paura da parte. Era solo un ballo, uno di quegli stupidi balli che entrambi avrebbero dimenticato. Era questo che si ripeteva negli ultimi secondi mentre la sua mente, ancora segnata dalla sua vita precedente, incominciava ad immaginare un'altra persona al posto di quella ragazza. Probabilmente con quell'immaginazione sarebbe riuscito a portare avanti un ballo come si deve. Prese un respiro e la toccò. La sua presenza agghiacciante, il suo colorito pallido ed il suo tocco velenoso sembrò essere quasi sfiorito, ma non era così, perché dietro quell'essere quasi umano giaceva un veleno che aveva un odore gradevole, che era profumo. Quel toccò fu leggero, era lo stesso tocco fragile che dedicava spesso alla sua siringa di morfina, quella dose che giornalmente lo accompagnava. * Non ho mai saputo ballare un tango meglio di questo. Conosco le pause della musica. Lasciati condurre e saremo i migliori qui dentro. * Sussurrò con fare sicuro. I loro occhi si incontrarono e i loro fianchi incominciarono ad ondeggiare come mai avevano fatto prima. Gli occhi sofferenti di Blake si chiusero per un attimo. Dentro di sé l'immagine di lui e Johanna che danzavano latino-americani e che continuavano a parlare spagnolo come se fosse la loro prima lingua. Era un segreto, un segreto che però ora la donna che stava toccando avrebbe potuto vedere a discapito del ragazzo. * Non ho reputazioni, sono un ragazzo tutto tatuaggi, morte e cimiteri. Non vivo una vita normale...* La voce calda del ragazzo continuava ad echeggiare in quello spazio interminabile eppure così stretto che si era formato tra i due. La fece volteggiare appena fece una pausa nel suo discorso. L'afferrò nuovamente dai fianchi e la inclinò all'indietro. Quei passi erano la poesia muta che le labbra di Blake non aveva mai pronunciato. Ancora inclinata all'indietro, a mo' casché, Blake sussurrò * Ogni passo è vita vissuta e sogno infranto.. Hyun-Ae Jang Inevitabilmente davanti agli occhi della veggente figurarono immagini ben definite, come se fossero suoi ricordi ma non del tutto. Per lei era sempre stato difficile descrivere il suo dono, un dono che nonostante tutto lei apprezzava e non malediceva, anche se il 90% delle volte si trattava incubi orrendi, come in quel preciso caso. Appena il droddear la toccò, la prima cosa che vide fu il volto dolce di una donna che non aveva mai visto in città, almeno così le sembrava, e successivamente scorse immagini di violenza e droga che la veggente si affrettò ad escludere dalla mente, socchiudendo gli occhi e volteggiano fra le sue braccia mentre cercava di mantenere il più possibile il proposito che si era data per quella serata. Ascoltò la sua voce accompagnare i loro passi e la musica intorno a loro, concentrandosi per lo più su quest'ultima, ma la mente nonostante tutto continuava a ripercorrere ciò che aveva appena "visto". Della pelle d'oca corse lungo la pelle pallida delle braccia nude e gli occhi a mandorla si aprirono, fissandosi nei suoi al momento del caschè in modo deciso nonostante sapesse qualcosa di più sul suo conto e sulla sua natura. < I sogni si infrangono ogni giorno per tutti, ma nonostante ciò bisogna andare avanti e cercarne di più forti e grandi. È così che io sopravvivo.> Commentò forse con tono troppo basso, ma le uscirono di getto quelle parole. Troppe volte si era sentita dire che non poteva fare qualcosa o che non sarebbe riuscita a raggiungere il suo sogno, ma perché poi? Chi erano loro per decidere il suo destino? < Finché vivo e respiro cercherò sempre di raggiungere ciò che è il mio sogno. > Disse, tornando davanti a lui e non distaccando gli occhi dai suoi, stringendosi in quel ballo che ormai contagiava la veggente ancora un po' intimorita davanti a quel ragazzo dal cupo passato e molto probabilmente anche oscuro presente. Blake Edward Hill * Mille ricordi sembrarono riversarsi sulla sua pelle ed essere trasmessi alla giovane donna che stava toccando. La bellezza dell'avere un contatto con un veggente era proprio quel mistero che placava ogni pensiero, ma che leggeva ogni ricordo. Vi si stava innescando una sorta di simbiosi tra i due che entrambi non avrebbero potuto bloccare se non con lo staccarsi ed un toccarsi mai più. Come pagine sfogliate velocemente, la mente di Blake passò ogni singolo ricordo alla veggente, o meglio i ricordi più importanti che, in fondo, potevano essere letti anche sulla sua pelle tatuata, ma erano coperti dalla giacca e dalla camicia. Il giovane Hill aveva, infatti, tatuato, la maggior parte della sua vita sulla sua pelle, perché egli credeva di essere il prodotto di tutta quella sfortuna che l'aveva accompagnato addirittura fin lì, di fronte a quella fanciulla. Fortunatamente non aveva compreso chi avesse di fronte in quel momento e quali fossero le vere potenzialità di quella piccola donna dagli occhi a mandorla; fu probabilmente per questo che si sforzò a non andare via. Blake era sempre stata una persona riservata e sapere che qualcuno, in quell'istante in cui si stava sforzando a ballare, stava divorando quelle pagine di memoria a sua insaputa l'avrebbe di certo danneggiato. * Non si sopravvive sognando. I sogni, come schiuma contro una roccia, si infrangono una volta per tutte, una volta per mai più ritornare. Si vive rischiando, sempre. * Sussurrò cercando di non spostare assolutamente quello sguardo dal suo mentre rialzava la ragazza dal casché come una bambola. * Buona fortuna. * Continuò leggermente ironico una volta tornati nella posizione di base per ricominciare un'altra ottava di quel tango. Blake era davvero molto sicuro in ogni suo passo di danza, era una dote che non metteva più in atto, ma fu soddisfatto del fatto che non aveva dimenticato come attrarre una donna a sé nel ballo. Attrarre.... forse una parola grossa, ma d'altra parte si era sempre narrato nel mondo che gli opposti si sarebbero attratti. * Hyun-Ae Jang Le sue parole furono come un cubetto di ghiaccio passato sulla pelle, freddo e come se mille aghi invisibili passassero attraverso la cute pallida, ma allo stesso tempo aveva un qualcosa di attraente e piacevole. Si, decisamente stava impazzendo. Deglutì, ora nuovamente dinnanzi a lui, stretta in quel vestito da stregatta e con gli occhi resi azzurri e con la pupilla verticale da delle lenti, rendendo forse il suo sguardo meno decifrabile e di questo ne era solo sollevata. Era la prima volta che le capitava di parlare così con un droddear, e di questo ne era inconsapevolmente felice, non pensando che potesse sentirsi così attratta anche da un essere così lontano da lei, o forse nemmeno tanto. Appena si rese conto di quella consapevolezza, le dita fasciate da dei guanti neri strinsero appena la sua giacca mentre il corpo si muoveva con il suo in quella parte della canzone che non conosceva, lasciandosi condurre da lui. Si sentiva stordita da quella rivelazione e si vergognava anche, perché non poteva immaginare che dopo nemmeno un ballo di pochi minuti poteva farle quell'effetto, e invece si sbagliava. Tornò a guardare il ragazzo di fronte a lei, trovando il soprannome ancora più azzeccato, e sorrise appena, forse anche in modo un po' inquietante e prendendo coraggio; dopotutto lei era Hyun la matta, no? < Mi stai suggerendo di rischiare, Tengu? > Chiese, in tono forse più curioso, volendo sapere da lui in che modo doveva avvicinarsi al rischio. Voleva dire altro, ma non voleva rischiare di fargli sapere che sapeva di lui o di rischiare di rivelare anche lei la verità su sé stessa, non sapendo se il ragazzo avrebbe accettato di buon grado la cosa. Blake Edward Hill * Spesso il calore e il freddo venivano confusi, ma in quella situazione i brividi erano così strani che era difficile decidere quale sensazione predominasse. Probabilmente la sensazione agghiacciante date dalle parole del Dooddrear era quella dominante. Blake Hill, l’attraente spietato pezzo di ghiaccio, stava avendo un contatto con una pelle, con la pelle di una donna, dopo quasi millenni di solitudine. Egli era un vento che sferzava forte contro tutti, ma che, nella sua profondissima oscurità, aveva qualcosa di meramente piacevole. Chiunque avesse visto quella scena avrebbe detto che anche il male poteva essere attraente, perché, in fondo, Blake lo era e lo si notava da come faceva volteggiare la donna, da come era sicuro in quell’arte musicale. Gli occhi azzurri del ragazzo, come pezzi di un cielo dipinto di una lontana celeste speranza che a lui era stata privata, incontrarono gli occhi della giovane che aveva ora di fronte e tremarono come quelli di un bambino ladruncolo appena scoperto. Fragile dentro, ma con mani decise fuori. Passò una mano sul suo fianco, quasi per accarezzarla. Quello strano calore che caratterizzava la sua anima stava forse riscaldando quella del Dooddrear. La cosa sconvolgente di quell’incontro restava, però, la conoscenza che egli era riuscito a trasmettere alla giovane senza esserne consapevole: la donna sapeva chi egli fosse un Dooddrear, ma ella restava ignota. * « Si... Siamo fatti per rischiare.» * Ribadì sussurrando ed involontariamente la strinse a sé facendo volteggiare entrambi i corpi. Quel soprannome gli strappò un sorriso e scosse appena la testa cercando di nasconderlo, ma era troppo tardi. Si avvicinò, dunque, al suo orecchio. Era strano, ma quella ragazza sembrava una bambola nelle sue mani, egli riusciva a muoverla come voleva. * « Anch’io dovrei imparare a farlo...» * Continuò e chiuse per un attimo gli occhi. Non l’aveva notato fino a quel momento: la donna aveva indosso lo stesso solito profumo di Johanna.* Hyun-Ae Jang Non appena i due corpi si strinsero, per la schiena della veggente corsero dei brividi, forse dettati dalla sua conoscenza non volontaria di chi egli fosse o da quello che aveva scorto nel suo passato. O forse perché per la prima volta non veniva trattata diversamente o per le sue parole sussurrate. Si mosse ancora a ritmo di musica con quello che era il suo partner per quel ballo soltanto, poiché alla fine era per una mera coincidenza che i due si fossero incontrati e, visto il passato di Hyun, quest'ultima non credeva che si sarebbero mai più visti, dopotutto il destino era sempre stato un'entità che la coreana non era mai stata in grado di identificare. Appena si avvicinò al suo orecchio, involontariamente la veggente strinse le mani sottili sulle sue spalle, sentendo le gote arrossarsi. Perché mai stava avendo questa reazione, e perché poi con lui? Si allontanò di poco con il viso, guardandolo negli occhi con intensità cercando di tornare se stessa, rallentando finché la musica non si fermò. < Davvero? Pensavo fossi tu un esperto, quasi volevo chiederti un consiglio. > Rispose, aprendosi in un leggero sorriso strafottente, staccandosi lentamente da lui. < Beh, penso che il tuo supplizio si sia concluso. È stato tanto terribile? > Chiese, pentendosene poi il secondo dopo ma cercando di non far trasparire nulla dalla sua espressione. Blake Edward Hill * Blake aveva quasi dimenticato quella strana sensazione di provare dei brividi sulla propria pelle o di percepire quelli altrui sotto il suo tatto, d’altronde non toccava più nessuno da una vita. Quel contatto, invece, risvegliò qualcosa in lui che aveva pensato di aver rimosso per sempre: sentire qualcuno rabbrividire visibilmente faceva rabbrividire anche lui. Ed ecco un brivido lungo la schiena che colse il ragazzo alla sprovvista. Che fosse quello il destino del giovane dai lunghi capelli corvini? Che la sua vocazione fosse toccare di nuovo le persone, amarle e accarezzare le loro pelli e non marchiale soltanto con i disegni nel suo studio? Finse che nulla come tutti quei secondi intensi fosse mai accaduto e cercò di godersi gli ultimi passi di danza che avevano unito quei due tipi così bizzarri, che aveva sciolto un’anima nera e degli occhi a mandorla insieme, in un’unica strana essenza. La giovane si appoggiò alle sue spalle, quasi stringendole. Blake non se lo aspettava, per niente. Nonostante la musica finì proprio in quel momento, il ragazzo non si mosse di un solo millimetro, anzi continuò ad ondeggiare un po’, non volendo dare nell’occhio. * « Dovremmo chiedere consiglio a chi da lì Su ci governa. Sono un comune mortale. Non posso esercitare il dono del consiglio. Posso soltanto dire la mia. » * Gli occhi di un blu cielo si incastonarono in quelli della giovane. Sembrava quasi che volesse offrirle un altro ballo ed invece.... Leggermente si staccò da lei. * « Già... Terribile eppure spiacevolmente gradevole. » * Alzò un sopracciglio* « E ora se permetti... Miss China preziosa.. » Hyun-Ae Jang Forse si sbagliava, o forse no, ma il giovane davanti a lei non sembrava voler concludere quel loro ballo. Si sentì appena euforica a quella prospettiva, forse non era andata poi così male il loro incontro casuale dettato dal fato travestito da violinista. La sua euforia si frantumò non appena lui si allontanò, facendole crepare appena il sorriso che si era formato sulle sue labbra senza che se ne accorgesse. Annuí alle sue parole e si guardò le scarpe, non sapendo come allontarsi e lasciarlo andare, anche se la curiosità di conoscere meglio il ragazzo la stava divorando dentro. Forse in realtà non era proprio destino come lei credeva. Alzò lo sguardo e fissò gli occhi da gatta nei suoi, mentre il sorriso si trasmutava in uno più malinconico e con una nota di dolcezza. < Hyun.. Mi chiamo Hyun-Ae Jang. > Disse semplicemente, poiché si era resa conto che non si erano presentati all'inizio di quel ballo. Forse lui l'aveva sentito dalla presentazione della ragazza, o forse poiché non aveva nessuna intenzione di partecipare non aveva prestato troppa attenzione, ma decise comunque di ridirglielo e lasciarlo con il suo nome come ringraziamento. Si allontanò definitivamente da lui, distogliendo lo sguardo dal suo così penetrante per dirigersi verso la parte opposta della sala, non volendo sapere il di lui nome, poiché non credeva che si sarebbero più rivisti. Per la veggente sarebbe stato sempre il Tengu che aveva danzato con lei quella sera, non aspettandosi in cambio tutte quelle emozioni che non credeva le appartenessero piú.
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praisingalmightygod-blog · 5 years ago
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La tribolazione ha ispirato il mio amore per Dio
                                        Meng Yong Provincia di Shanxi
Sono una persona onesta di natura, ed è per questo motivo che sono stato sempre infastidito dalle altre persone. Di conseguenza, ho assaggiato la freddezza del mondo degli uomini e ho sentito che la mia vita era vuota e priva di significato. Dopo aver iniziato a credere in Dio Onnipotente, attraverso la lettura delle Sue parole e vivendo la vita della Chiesa, provai delle sensazioni di sincerità e gioia nel mio cuore che non avevo mai provato prima. Vedendo i fratelli e le sorelle della Chiesa di Dio Onnipotente amarsi gli uni con gli altri come una famiglia, ho capito che soltanto Dio è giusto, e che esclusivamente nella Chiesa di Dio Onnipotente c’è la luce. Dopo aver sperimentato personalmente per svariati anni l’opera di Dio Onnipotente, sono arrivato ad apprezzare veramente che le parole di Dio Onnipotente possono di fatto cambiare e salvare le persone. Dio Onnipotente è amore, ed è salvezza. Affinché più persone possano godere dell’amore di Dio, e cercare e ricevere la Sua salvezza, ho lottato insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle per fare del nostro meglio per diffondere il Vangelo, ma non ci saremmo mai aspettati di essere catturati e perseguitati dal Partito Comunista.
Il 12 gennaio del 2011, insieme a diversi fratelli e sorelle, guidammo verso un luogo in cui avremmo diffuso il Vangelo, e finimmo per essere denunciati da persone malvagie. Non molto tempo dopo, il governo della contea ordinò a funzionari provenienti da vari dipartimenti di ordine pubblico, come ad esempio la buoncostume, le forze di sicurezza nazionali, l’antidroga, le forze di polizia armate e il dipartimento della polizia locale, di venire con oltre dieci veicoli della polizia per arrestarci. Quando insieme a un fratello ci stavamo preparando per andare via, vedemmo sette o otto poliziotti che picchiavano selvaggiamente un altro fratello con dei manganelli. A quel punto, quattro funzionari di polizia arrivarono velocemente e bloccarono la nostra macchina. Uno dei funzionari malvagi estrasse le chiavi dell’auto senza alcuna spiegazione, e ci ordinò di rimanere immobili in macchina. In quel momento vidi che quel fratello era stato picchiato talmente tanto che era seduto per terra, incapace di muoversi. Non potei fare a meno di sentirmi pieno di giusta indignazione e mi precipitai fuori dall’auto per mettere fine alla loro violenza, ma il poliziotto malvagio mi storse il braccio e mi spinse lontano. Tentai di ragionare con loro: “Di qualunque cosa si tratti, ne possiamo parlare. Come potete iniziare a picchiare semplicemente le persone?” Essi risposero urlando con cattiveria: “Sbrigati e ritorna in macchina, presto arriverà il tuo turno!” Più tardi ci portarono alla stazione di polizia, e la nostra auto venne confiscata d’ufficio.
Quella sera, dopo le nove, vennero a interrogarmi due funzionari di polizia. Quando videro che non avrebbero potuto avere alcuna informazione utile da me, si innervosirono e si spazientirono, digrignando i denti in uno slancio di rabbia e imprecando: “Dannazione, ci occuperemo di te più tardi!” Poi mi chiusero nella sala d’attesa degli interrogatori. Alle 23:30, due funzionari mi portarono in una stanza priva di videocamere di sorveglianza. Avevo la sensazione che mi avrebbero usato violenza, quindi iniziai a pregare Dio ripetutamente nel cuore, chiedendoGli di proteggermi. In quel momento, un malvagio funzionario di polizia di cognome Jia venne a interrogarmi: “Hai viaggiato a bordo di una Volkswagen Jetta in questi ultimi giorni?” Risposi di no, e lui mi gridò furiosamente: “Altre persone ti hanno già visto, e tuttavia lo neghi ancora?” Dopo avere detto queste parole, mi schiaffeggiò in volto con cattiveria. Tutto quello che riuscii a sentire fu un dolore bruciante sulla mia guancia. Poi mi urlò a gran voce: “Vediamo quanto sei tosto!” Mentre parlava, prese un’ampia cintura e continuò a usarla per frustarmi sulla faccia, non so quante frustate mi inferse, ma non potevo fare altro che gridare di dolore più e più volte. Dopo aver visto tutto questo, mi misero la cintura attorno alla bocca. Alcuni funzionari malefici poi posarono una coperta sul mio corpo, prima di colpirmi ferocemente con i loro manganelli, fermandosi soltanto quando erano troppo stanchi, per prendere fiato. Ero stato picchiato così forte che mi girava la testa e avevo il corpo tanto indolenzito, come se ogni osso fosse stato frantumato. In quel momento non sapevo perché mi stessero trattando così, ma più tardi scoprii che mi avevano messo addosso una coperta per evitare che i pugni mi lasciassero dei segni sulla pelle. Lasciarmi in una stanza senza videosorveglianza, imbavagliarmi e coprirmi con una coperta: avevano fatto tutto questo perché avevano paura che le loro azioni perverse fossero rese pubbliche. Non ho mai pensato che i dignitosi “poliziotti della gente” potessero essere così perfidi e feroci! Quando tutti e quattro si stancarono di picchiarmi, scelsero un altro metodo per torturarmi: due funzionari malvagi mi storsero un braccio, tirandolo energicamente verso l’alto, mentre altri due malvagi funzionari mi sollevavano l’altro braccio al di sopra della spalla verso il dorso, premendolo poi con forza. Ciò nonostante, non riuscivano a unirmi le mani, e così mi spinsero perfidamente un ginocchio nel braccio. Tutto quello che sentii fu un “clic”, ed ebbi la sensazione che mi fossero state staccate le braccia. Il dolore era così forte che ero quasi sul punto di spirare. Questo tipo di metodo di tortura era denominato “Portare una spada sulla schiena”, qualcosa che la gente normale non sarebbe minimamente in grado di sopportare. Non impiegai molto tempo a perdere la sensibilità in entrambe le mani, ma ciò non era ancora sufficiente a farli desistere, e così mi ordinarono di inginocchiarmi per aumentare la mia sofferenza. Soffrivo così tanto che tutto il mio corpo cominciò a sudare freddo, sentivo uno scampanellio in testa e cominciavo a perdere coscienza. Pensai: “Ho avuto una vita così lunga; anche se ho sempre avuto malattie, non ho mai avuto la sensazione di essere incapace di controllare il mio stato di coscienza. Sto per morire?” Più tardi non ce la facevo davvero più, e così pensai di cercare sollievo attraverso la morte. In quel momento, la parola di Dio mi illuminò dal di dentro: “Oggi, la maggior parte della gente non ha quella consapevolezza. Crede che la sofferenza sia priva di valore, […] La sofferenza di alcune persone raggiunge un certo livello e i loro pensieri si rivolgono alla morte. Questo non è il vero amore di Dio; questa gente è vigliacca, non ha la perseveranza, è debole e incapace!” (“Solamente affrontando prove dolorose puoi conoscere l’amabilità di Dio” in La Parola appare nella carne). Le parole di Dio mi fecero improvvisamente svegliare e capire che il mio modo di pensare non era conforme alle intenzioni divine, e avrebbe soltanto intristito e deluso Dio. Poiché in mezzo a questo dolore e a questa sofferenza, Dio non vuole vedermi cercare la morte, ma che io riesca a ingoiare l’umiliazione, a sopportare il pesante fardello e a fare affidamento sulla Sua guida per portarGli testimonianza e per lottare contro Satana, mortificandolo e sconfiggendolo. Cercare la morte vorrebbe dire cadere proprio nella trama di Satana, e comporterebbe la mia incapacità di portare testimonianza, diventando invece un marchio di vergogna. Dopo aver compreso le intenzioni di Dio, Lo pregai in silenzio: “Oh Dio! La realtà ha mostrato che la mia natura è troppo debole. Non ho la volontà e il coraggio di soffrire per Te e volevo morire solo per un po’ di dolore fisico. Adesso so che non posso fare nulla che svergogni il Tuo nome e devo portare testimonianza e soddisfarTi, a prescindere da quanta sofferenza io debba sopportare, ma in questo momento il mio corpo fisico è estremamente debole e sofferente, e so che è molto difficile superare le bastonate di questi demoni da solo. Per favore, dammi più sicurezza e forza in modo che io possa affidarmi a Te per sconfiggere Satana. Giuro sulla mia vita che non Ti tradirò, e non tradirò nemmeno i miei fratelli e le mie sorelle”. Dopo aver ripetutamente pregato Dio, il mio cuore si mise lentamente a suo agio. Il poliziotto malvagio vide che respiravo a fatica, e se fossi morto temevano di doversi fare carico della responsabilità, e quindi vennero a togliermi le manette. Ma le mie braccia si erano già irrigidite, e le manette erano così strette che erano diventate molto difficili da staccare. Se avessero usato più forza, mi avrebbero rotto le braccia. I quattro poliziotti malefici impiegarono svariati minuti per rimuovere le manette prima di riportarmi nella sala d’attesa degli interrogatori.
Il pomeriggio seguente, la polizia mi attribuì arbitrariamente un “reato penale” e mi riportò a casa per perquisirla, e poi mi spedì in un centro di detenzione. Non appena entrai nel centro di detenzione, quattro guardie carcerarie mi confiscarono il giubbotto di cotone, i pantaloni, gli stivali, l’orologio e i 1.300 yuan in contanti che avevo. Mi fecero indossare l’uniforme standard della prigione e mi costrinsero a spendere 200 yuan per acquistare da loro una coperta. Successivamente, le guardie carcerarie mi rinchiusero a chiave con rapinatori a mano armata, assassini, stupratori e trafficanti di droga. Quando entrai nella mia cella, vidi dodici prigionieri pelati che mi guardavano con ostilità. L’atmosfera era oscura e terrificante, e immediatamente sentii il cuore salirmi in gola. Due dei boss della cella camminarono verso di me e mi chiesero: “Perché sei qui dentro?” Risposi: “Per aver diffuso il Vangelo”. Senza aggiungere altro, uno di loro mi diede uno schiaffo in faccia due volte, e disse: “Sei un ‘Vescovo’, non è vero?” Gli altri prigionieri iniziarono tutti a ridere barbaramente e mi presero in giro, chiedendomi: “Perché non fai in modo che il tuo Dio ti salvi da qui?” Tra il beffardo e il ridicolo, il boss della cella mi schiaffeggiò qualche altra volta. Da allora mi soprannominarono “Il Vescovo” e spesso mi umiliarono e mi derisero. L’altro boss della cella vide le pantofole che indossavo e gridò con arroganza: “Non conosci neanche il posto che ti compete. Sei degno di indossare queste scarpe? Toglitele!” Dopo aver detto queste parole, mi forzò a toglierle e a indossare un paio delle loro pantofole consumate. Diedero via anche la mia coperta per condividerla con gli altri prigionieri. Quei prigionieri lottarono avanti e indietro per la mia coperta, e alla fine mi lasciarono con una vecchia coperta che era sottile, strappata, sporca e puzzolente. Istigati dalle guardie carcerarie, questi prigionieri mi sottoposero a ogni sorta di sofferenza e tormento. La luce era sempre accesa nella cella di notte, ma un boss mi disse con un sorrisetto malefico: “Spegni quella luce per me”. Dato che non fui in grado di farlo (non c’era neppure un interruttore), iniziarono a ridermi in faccia e a prendermi di nuovo in giro. Il giorno dopo, alcuni prigionieri giovani mi costrinsero a stare in un angolo e a memorizzare le regole del carcere, minacciandomi: “Te la faremo vedere noi se non le memorizzi entro due giorni”. Non potevo fare a meno di essere terrorizzato, e quanto più pensavo a quello che avevo passato negli ultimi giorni, tanto più mi spaventavo. L’unica cosa che potevo fare era continuare a chiamare Dio a gran voce e chiederGli di proteggermi in modo da poter superare quella situazione. In quel momento, un inno della parola di Dio mi illuminò: “Se riesci comunque ad amare Dio, indipendentemente dal fatto che tu sia prigioniero o malato, che gli altri ti disprezzino o ti insultino, o che tu sia arrivato in un vicolo cieco, questo significa che il tuo cuore si è rivolto verso Dio” (“Il tuo cuore si è rivolto verso Dio” in Segui l’Agnello e canta dei canti nuovi). La parola di Dio mi diede forza e mi indicò un sentiero da seguire – ricercare il Dio amorevole e rivolgere il mio cuore verso di Lui! In quel momento, tutto divenne improvvisamente chiarissimo nel mio cuore: Dio permetteva che mi toccasse vivere questa sofferenza non per tormentarmi né per farmi patire intenzionalmente, ma per allenarmi a rivolgere il mio cuore verso di Lui in un ambiente del genere, affinché io potessi resistere al controllo delle influenze oscure di Satana e il mio cuore potesse ancora essere vicino a Lui e amarLo, non lamentandosi mai e obbedendo sempre alle Sue orchestrazioni e disposizioni. Tenendo a mente tutto questo, non avevo più paura. Comunque Satana mi tratti, tutto ciò di cui mi preoccuperò sarà di dare me stesso a Dio e di fare tutto il possibile per cercare di amarLo e soddisfarLo, non chinando mai il mio capo davanti a Satana.
La vita in prigione è praticamente paragonabile all’inferno sulla terra. Le guardie carcerarie continuavano a elaborare dei modi per torturare le persone: venivo spinto insieme a tanti altri prigionieri durante il riposo notturno. Perfino rigirarsi nel letto era difficile. Dal momento che ero l’ultimo arrivato, dovetti addirittura dormire accanto ai servizi igienici. Dopo essere stato arrestato, non ero riuscito a dormire per diversi giorni ed ero diventato talmente insonnolito da non reggere la stanchezza e finire per appisolarmi. I prigionieri di turno che facevano la guardia venivano a importunarmi, colpendomi intenzionalmente sulla testa fino a farmi svegliare prima di andarsene. Una volta, verso le tre del mattino, un prigioniero mi svegliò di proposito perché voleva controllare la dimensione dei miei mutandoni per vedere se avesse potuto indossarli. Portò un set di mutandoni sottili sporchi e strappati per scambiarli con i miei. Erano i giorni più freddi dell’anno, ma questi prigionieri volevano ancora portarmi via l’unico paio di mutandoni che avevo. Questi detenuti erano incivili come le bestie. Avevano un’indole malvagia e un cuore bieco, senza un briciolo di umanità, come i demoni che torturano per divertimento le persone all’inferno. Inoltre, il cibo era peggiore perfino di quello che veniva dato a cani e maiali. La prima volta ricevetti mezza ciotola di riso bianco, e vidi che nel piatto c’erano molte macchie nere. Non sapevo che cosa fossero, e anche il colore del riso era nerognolo. Era molto difficile deglutire. Volevo realmente digiunare in quel momento, ma le parole di Dio mi illuminarono: “[…] negli ultimi giorni dovete rendere testimonianza a Dio. Per quanto sia grande la vostra sofferenza, dovreste andare avanti fino alla fine, e anche al vostro ultimo respiro, dovete ancora essere fedeli a Dio e alla Sua mercé; solo questo è vero amore per Lui e una testimonianza forte e clamorosa” (“Solamente affrontando prove dolorose puoi conoscere l’amabilità di Dio” in La Parola appare nella carne). Le parole di Dio erano piene d’amore e affetto come il conforto dato da una madre, e rinfocolavano il mio coraggio di affrontare la sofferenza. Dio mi vuole vivo, ma io ero troppo debole, e desideravo costantemente trovare sollievo attraverso la morte. Non ho gran cura neanche di me stesso; è sempre Dio che mi ama più di tutti. Una sensazione di calore improvvisamente si fece largo nel mio cuore, rendendomi così emotivo che le lacrime sgorgarono dai miei occhi e andarono a finire nel riso. Il fatto di essere mosso dall’amore di Dio mi diede ancora una volta energia. Devo consumare questo pasto a prescindere dal suo sapore. E così mangiai il piatto di riso tutto d’un fiato. Dopo colazione, il boss della cella mi fece pulire i pavimenti. Erano i giorni più freddi dell’anno e non c’era acqua calda, quindi potevo usare soltanto l’acqua fredda per il panno della pulizia. Il boss mi aveva anche ordinato di pulire in questo modo tutti i giorni. Poi, svariati rapinatori a mano armata mi fecero memorizzare le regole del carcere. Se non fossi riuscito a memorizzarle, mi avrebbero preso a pugni e a calci; essere schiaffeggiato sul viso era ancora più comune. Di fronte a un ambiente del genere, spesso mi chiedevo che cosa avrei dovuto fare per essere in grado di soddisfare le intenzioni di Dio. La sera, mi tiravo la coperta sulla testa e pregavo in silenzio: “Oh Dio, hai permesso che mi toccasse vivere in questo ambiente, quindi le Tue buone intenzioni devono nascondersi qui dentro. Per favore svelamele”. In quel momento, le parole di Dio mi illuminarono: “I fiori e l’erba ricoprono i pendii, ma i gigli danno lustro alla Mia gloria in terra prima dell’arrivo della primavera; l’uomo è forse in grado di realizzare tanto? Potrebbe renderMi testimonianza in terra prima del Mio ritorno? Potrebbe votarsi al Mio nome nel paese del gran dragone rosso?” (“Il trentaquattresimo discorso” dei Discorsi di Dio all’intero universo in La Parola appare nella carne). Sì, io e i prati siamo creature di Dio. Dio ci ha creati per mostrarLo, per glorificarLo. L’erba è in grado di dare lucentezza alla gloria di Dio sulla terra prima che arrivi la primavera, compiendo così il suo dovere come creatura di Dio. Il mio dovere oggi è obbedire all’orchestrazione di Dio e portarGli testimonianza davanti a Satana, per far vedere a tutti che Satana è un demone vivente che danneggia e divora gli uomini, mentre Dio è l’unico vero Dio che ama e salva gli uomini. Adesso io sopporto tutta questa sofferenza e questa umiliazione non perché abbia commesso un reato, ma per l’amore del nome di Dio. Sopportare questa sofferenza è glorioso. Quanto più Satana mi umilia, tanto più devo stare a fianco di Dio e amarLo. In questo modo, Dio può conquistare la gloria, e io avrei compiuto il dovere che avrei dovuto compiere. Finché Dio è felice e compiaciuto, anche il mio cuore riceverà conforto. Sono intenzionato a sopportare la sofferenza finale per soddisfare Dio e lasciare che tutto sia orchestrato da Lui. Quando iniziai a pensare in questa maniera, mi sentii particolarmente commosso nel cuore, e ancora una volta fui incapace di controllare le mie lacrime: “Oh Dio, Tu sei troppo adorabile! Ti seguo da così tanti anni, ma non ho mai sentito il Tuo tenero affetto come oggi, né mi sono mai sentito vicino a Te come succede oggi”. Dimenticai completamente la mia sofferenza personale e mi immersi in questo sentimento di commozione per un lungo, lungo periodo…
Durante il mio terzo giorno di detenzione in prigione, un secondino mi portò nel suo ufficio. Una volta giunto lì, vidi più di una dozzina di persone che mi fissava con occhi curiosi. Uno di loro teneva in mano una videocamera davanti a me alla mia sinistra, mentre un altro mi si avvicinò con in mano un microfono, e mi chiese: “Perché credi in Dio Onnipotente?” Fu allora che mi resi conto che si trattava di un’intervista con i media, quindi risposi con orgogliosa umiltà: “Da quando ero piccolo, sono spesso stato oggetto di atti di bullismo e della freddezza della gente, e ho visto persone ingannarsi a vicenda e approfittarsi le une delle altre. Pensai che questa società fosse troppo oscura, eccessivamente pericolosa; le persone stavano vivendo vite vuote e inutili, senza nulla in cui sperare e senza obiettivi da raggiungere. Successivamente, quando qualcuno mi predicò il Vangelo di Dio Onnipotente, iniziai a crederci. Dopo aver creduto in Dio Onnipotente, ho percepito che altri fedeli mi trattavano come se fossi un loro familiare. Nessuno nella Chiesa di Dio Onnipotente trama contro di me. Tutti sono vicendevolmente comprensivi e premurosi. Si prendono cura gli uni degli altri, e non hanno paura di dire quello che pensano. Nella parola di Dio Onnipotente ho trovato lo scopo e il valore della vita. Penso che credere in Dio sia piuttosto bello”. Il giornalista poi mi chiese: “Sai perché sei qui?” Risposi: “Dopo aver creduto in Dio Onnipotente, non mi preoccupo più delle perdite e dei guadagni personali, e neppure dell’onore e del disonore. Il mio cuore si sta volgendo sempre più verso la gentilezza, e sono sempre più disposto a essere una brava persona. Vedendo come la parola di Dio Onnipotente può realmente cambiare le persone e farle diventare buone, pensai che se tutta l’umanità potesse credere in Dio, allora anche il nostro paese sarebbe molto più ordinato, e il tasso di criminalità potrebbe pure ridursi. Pertanto, decisi di comunicare questa bella notizia ad altre persone, ma non avrei mai pensato che un’azione così buona potesse essere illegale in Cina. E quindi sono stato arrestato e condotto qui”. Il giornalista vide che le mie risposte non erano vantaggiose per lui, e così mise immediatamente fine all’intervista, si girò e andò via. In quel momento, il vicecapo della Brigata per la Sicurezza Nazionale era così furioso che continuava a battere i piedi. Mi fissò con cattiveria, digrignando i denti e sussurrando: “Aspetta e vedrai!”, ma non avevo per niente paura di tutte le sue minacce o intimidazioni. Al contrario, mi sentivo profondamente onorato di essere stato in grado di portare testimonianza a Dio in un’occasione del genere, e inoltre Gli resi gloria per l’esaltazione del Suo nome e la sconfitta di Satana.
Il 17 gennaio le temperature erano molto basse. Poiché il perfido poliziotto aveva confiscato il mio cappotto di cotone, indossavo soltanto un paio di mutandoni, e finii per prendermi un raffreddore. Riportai una febbre alta e non riuscivo a smettere di tossire. La notte mi avvolgevo in una coperta logora, sopportando il tormento della malattia e nel contempo pensando agli infiniti maltrattamenti e all’abuso perpetrati dai prigionieri nei miei confronti. Mi sentivo molto desolato e indifeso. Proprio quando la mia miseria aveva raggiunto una certa portata, mi risuonò nelle orecchie un inno della parola di Dio: “Se Tu mi dai malattia, e Ti prendi la mia libertà, io posso continuare a vivere, ma se il Tuo castigo e il Tuo giudizio mi abbandonassero, non troverei un modo per continuare a vivere. Se non avessi il Tuo castigo e il Tuo giudizio, avrei perso il Tuo amore, un amore che per me è troppo profondo per essere espresso a parole. Senza il Tuo amore, vivrei sotto il dominio di Satana…” (“La conoscenza di Pietro del castigo e del giudizio” in Segui l’Agnello e canta dei canti nuovi). Si trattava della preghiera autentica e sincera rivolta da Pietro a Dio. Pietro non si fece mai guidare dagli istinti carnali. Amava profondamente e apprezzava il giudizio e il castigo di Dio. Fintanto che il giudizio e il castigo di Dio non lo avessero lasciato, il suo cuore avrebbe ricevuto il suo conforto più grande. Adesso dovrei anche seguire l’esempio della comprensione e della ricerca di Pietro. La carne è corrotta e inevitabilmente si degraderà. Anche se sono colpito da una malattia e perdo la mia libertà, devo sopportare la sofferenza, ma qualora perdessi il giudizio e il castigo di Dio, cosa che equivarrebbe a perdere il Suo amore e la Sua presenza, perderei anche la possibilità di essere purificato. E questa sarebbe la conseguenza più dolorosa. Sotto la luce di Dio, ho sperimentato ancora una volta il Suo amore. Ho anche odiato la mia debolezza e la mia dappocaggine, e ho visto che la mia natura è troppo egoista, e non mostra mai alcuna considerazione nei riguardi dei sentimenti di tristezza provati da Dio. Il giorno seguente, diversi altri prigionieri nella stessa cella si ammalarono, ma miracolosamente la mia febbre alta scese. Sentii la protezione e l’attenzione di Dio nei miei riguardi, e vidi anche le meraviglie della Sua opera. Nei giorni successivi, i piccoli panini al vapore che ci davano da mangiare divennero ancora più piccoli, e così alcuni prigionieri iniziarono a lamentarsi: “Da quando è arrivato il ‘Vescovo’, prima siamo stati colpiti da un’epidemia e ora dalla carestia”. Dicevano che era tutta colpa mia e che l’unica cosa ragionevole sarebbe stata la mia condanna a morte. Una sera, un venditore si avvicinò alla finestra e il boss della cella comprò una grande quantità di prosciutto, carne di cane, cosce di pollo, eccetera. Alla fine, mi ordinò di pagare. Dissi di non avere il denaro, e così lui mi rispose con cattiveria: “Se non hai i soldi, ti tormenterò lentamente!” L’indomani mi fece lavare le lenzuola, i vestiti e i calzini. Anche i secondini del carcere mi fecero lavare i loro calzini. Dovetti sopportare le loro botte quasi ogni giorno. Ogniqualvolta non ne potevo più, ero sempre guidato interiormente dalle parole di Dio: “Devi compiere il tuo dovere finale per Dio durante il tuo periodo in terra. Nel passato, Pietro fu crocifisso a testa in giù per Dio; tuttavia, tu alla fine devi soddisfare Dio ed esaurire tutte le tue energie per Dio. Che cosa può fare per Dio una creatura? Così devi donarti alla mercé di Dio al più presto. Finché Dio è contento e soddisfatto, lasciaGli fare ciò che vuole. Che diritto hanno gli uomini di lamentarsi?” (“Interpretazione del quarantunesimo discorso” in La Parola appare nella carne). Le parole di Dio mi davano una forza infinita. Malgrado di tanto in tanto fossi ancora oggetto di attacchi, umiliazioni, condanne e botte da parte dei prigionieri, la mia anima era capace di trovare conforto e gioia. Come un potente flusso caldo, l’amore di Dio mi spingeva ad andare avanti, permettendomi di sentire veramente la Sua sconfinata grandezza.
Al mattino, un secondino consegnò specificamente un foglio di giornale. I detenuti sorridevano in modo orribile, mentre usavano un tono beffardo per leggere le parole scritte sul giornale, insultando e bestemmiando Dio Onnipotente. Dentro di me ero così furioso che cominciai a digrignare i denti. I detenuti si avvicinarono per chiedermi quale fosse il problema, e io dissi ad alta voce: “Questa è una calunnia del Partito Comunista!” Ascoltando questi prigionieri, che si limitavano a seguire la folla, diffamando la verità e bestemmiando Dio, parlando lo stesso linguaggio del diavolo, mi sembrò di vedere l’approssimarsi della loro fine. Poiché il peccato della bestemmia contro Dio non verrà mai perdonato, chiunque offenda la Sua indole, riceverà il castigo e la punizione più pesanti! Così facendo, il Partito Comunista sta portando tutto il popolo cinese verso il suo destino finale, mostrando completamente il suo vero volto di demone mangia-anime! Più tardi il funzionario di polizia che si occupava del mio caso mi interrogò di nuovo. Stavolta non usò la tortura per provare a estorcermi una confessione, e invece cambiò modo di porsi, usando una faccia “gentile” per chiedermi: “Chi è il tuo leader? Ti darò un’altra possibilità. Se ce lo dici, tutto si risolverà per il meglio per te. Dimostrerò di avere grande clemenza nei tuoi riguardi. Eri comunque innocente, ma altre persone ti hanno tradito. Quindi perché dovresti coprirle? Sembri una persona così ben educata. Perché devi dare la tua vita per loro? Se ce lo dici, potrai tornare a casa. Perché restare qui a soffrire?” Questi ipocriti dalla doppia faccia avevano visto che l’approccio duro non funzionava, e quindi decisero di optare per quello morbido. Conoscono davvero tanti trabocchetti scaltri, e sono grandi maestri di manovre e macchinazioni! Vedere quella sua faccia da ipocrita riempì il mio cuore di odio per questa manica di demoni. Gli dissi: “Le ho raccontato tutto quello che so, non so altro”. Osservando il mio atteggiamento risoluto, si rese conto che non avrebbe potuto estorcermi nessuna informazione, e quindi si allontanò avvilito.
Dopo aver trascorso mezzo mese in carcere, venni rilasciato soltanto dopo che la polizia chiese alla mia famiglia di pagare 8.000 yuan di cauzione, ma mi avvisarono di non andare da nessuna parte, e mi dissero di restare a casa e garantire la mia reperibilità. Il giorno del mio rilascio, i secondini non mi diedero niente da mangiare intenzionalmente, mentre i detenuti dissero: “Il tuo Dio è straordinario. Noi non eravamo malati, ma qui lo siamo diventati tutti. Tu sei venuto qui pieno di malattie, ma adesso stai uscendo completamente sano. Buon per te!” In questo momento, il mio cuore diventò ancora più grato e pieno di gloria verso Dio! Mio zio lavora come guardia carceraria. Continuò a sospettare che fossi stato rilasciato perché mio padre aveva una relazione speciale con qualcuno potente, perché in caso contrario non ci sarebbe mai stata la possibilità che fossi rilasciato da un carcere di massima sicurezza nel giro di mezzo mese: avrei dovuto trascorrervi almeno tre mesi. Tutta la mia famiglia sapeva molto bene che questo era stato determinato dall’onnipotenza di Dio, che stava svelando la Sua meravigliosa opera su di me. Vidi chiaramente che questa era la contesa tra Dio e Satana. A prescindere da quanto sia selvaggio e feroce, Satana sarà sempre sconfitto da Dio. Da allora in poi, mi convinsi che ogni cosa che incontravo facesse parte del disegno di Dio. Alla fine di maggio del 2011, sotto il reato di “disturbo dell’ordine sociale”, la polizia comunista mi condannò a un anno di rieducazione attraverso il lavoro, da effettuare fuori dal carcere sotto sorveglianza, e fui sospeso per due anni.
Dopo aver sperimentato questa persecuzione e queste tribolazioni, avevo raggiunto un livello di comprensione sufficiente per riuscire a discernere l’essenza malvagia dell’ateo Partito Comunista Cinese, e avevo sviluppato un odio radicato nei suoi confronti. Tutto ciò che fa è usare metodi violenti per mantenere il suo status dominante, colpendo e sopprimendo tutte le giuste cause, e detestando la verità all’estremo. È il più grande nemico di Dio. Allo scopo di raggiungere il suo obiettivo di controllare permanentemente le persone, non si ferma davanti a niente pur di ostacolare e distruggere l’opera di Dio sulla terra, sopprimendo furiosamente e perseguitando coloro che credono in Dio, usando il bastone e la carota, portando gli altri a obbedire ai suoi ordini, dicendo una cosa e facendone un’altra, e nascondendo inganni e complotti in ogni occasione. Il contrasto che esso evidenzia mi permette di vedere ancora meglio che soltanto la parola di Dio può portare vita alle persone nei momenti di sofferenza. Quando qualcuno è all’estremo della disperazione o a un passo dalla morte, la parola di Dio è come acqua vitale, che alimenta gli aridi cuori della gente. È anche un elisir miracoloso che può curare le ferite delle anime delle persone, salvandole dal pericolo, nutrendo le loro vite con fiducia e coraggio, e portando loro un’energia illimitata, permettendogli di godere della dolcezza della parola di Dio in mezzo alla loro sofferenza, cosa che può dare conforto alle loro anime, e far loro sentire che la vitalità della parola di Dio è inesauribile e infinita. In queste due settimane di vita in prigione, se Dio non fosse stato con me, usando le Sue parole per ricordarmi, illuminarmi e incoraggiarmi, in nessun modo la mia natura debole avrebbe potuto sopportare una tale sofferenza. Se Dio non avesse vegliato su di me e non mi avesse protetto, il mio corpo fiacco e fragile non avrebbe resistito alle torture e alle sevizie inflittemi dalla malvagia polizia, che, pur non avendomi tormentato fino alla morte, avrebbe comunque lasciato il mio corpo malconcio e ferito, ma Dio mi protesse meravigliosamente in quei giorni così oscuri e difficili, curando perfino la mia malattia originale. Dio è realmente onnipotente! Il Suo amore per me è davvero troppo profondo, meraviglioso! Di fatto non so come esprimere la mia gratitudine nei Suoi confronti, e posso solo dire dal profondo del mio cuore: “Oh Dio, spero di amarTi sempre più profondamente! Non importa quanto sia difficile e accidentata la strada da percorrere o quanta sofferenza io debba sopportare, obbedirò ai Tuoi disegni e sarò determinato a seguirTi fino alla fine!”
Sebbene in questa esperienza il mio fisico abbia sofferto un po’, i benefici che ne ho tratto sono rilevanti. Questo è un punto di svolta lungo la strada della mia fede in Dio, e anche un nuovo punto di inizio nella strada della mia fede in Dio. Sento profondamente che, da quando iniziai a credere in Dio dieci anni fa, non ho mai apprezzato il Suo amore così intensamente come faccio oggi, e ho realmente provato che il valore e il significato di credere in Dio, di seguirLo e di adorarLo sono grandissimi; e inoltre, non sono mai stato così intenzionato a cercare di amare Dio e a donare il resto dei miei giorni per sdebitarmi con Lui per il Suo amore come invece faccio oggi. Vorrei cogliere questa opportunità per offrire la mia lode e la mia sincera riconoscenza. Tutta la lode e la gloria a Dio Onnipotente!
Fonte: La Chiesa di Dio Onnipotente
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pangeanews · 4 years ago
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“Un’alba piena di cani, ecco, un’alba simile alla testa di un dio bambino, sbranato, decapitato”. L’ossessione per le lettere d’amore. “Pangea” finisce in una (sontuosa) tesi di laurea
L’epistolario non è mai pari – nasce mutilo. Le mutilazioni sono diverse, di diverso ordine. A volte sono meramente editoriali: si ritiene che siano degne di pubblicazione – cioè sassi che infrangono il privato, iene che irrompono in sala da pranzo – le lettere di un autore notevole (chessò: Samuel Beckett) ignorando quelle dell’altro, l’interlocutore. Eppure, l’epistolario non è un rispecchiamento, non è un gioco di specchi – è una danza. Senza le lettere di uno – ovvio – non ci sarebbero le altre; c’è sempre uno che fomenta la fiamma dell’altro: insieme, si è incendio. L’altra mutilazione deriva dal destino: le lettere di uno dei due sono state eliminate, bruciate, nascoste. Strana malia dell’epistolario: lotta, in fondo, per restare nascosto, privato, uno sposalizio tra due, i soli, da cui gli altri sono estinti. In effetti, ci si scrive per fondare un alfabeto – potrei parlare e scrivere in quel modo soltanto a te, non ad altri.
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Poi c’è la mutilazione più profonda. Un epistolario non rispetta mai le attese – a volte porta più in là; a volte in un punto morto; a volte in una giungla desertificata. Scrivere è sempre un atto d’offesa, torcere la quiete di un lago, alterare le superfici, rompere i vetri. Svegliare la serpe che dorme. L’esito è inesplicabile, ma sempre inquieto – l’uomo non dovrebbe scrivere, comporre verbi, ma accennare. Ci si scrive per non darsi pace, per darsi un appuntamento, spesso frainteso, più sovente mancato.
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Lavorare negli epistolari è una trappola. Impaniarsi nelle vite altrui significa soffocare la propria, alterarla. Nel terremoto della retina ci scopriamo visionari prima che voyeur, minimizzando le isole del possibile.
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Anna Maria Domenella si è recentemente laureata – magistrale – all’Università degli Studi di Verona con una tesi sull’“evoluzione della scrittura d’amore: dagli scambi epistolari su carta a quelli in rete”. Nel lavoro, la Domenella usa, come forme esemplari, tre testi: le Lettere a Bruna di Giuseppe Ungaretti (edite nel 2017 da Mondadori), narrate anche attraverso un dialogo con Bruna Bianco; lo straordinario lenzuolo su cui Clelia Marchi scrive la sua confessione/biografia (pubblicato dalla Fondazione Mondadori nel 1992 come Gnanca na busia); l’epistolario, “Senza gestire l’ignoto”, che ho condiviso con Veronica Tomassini, pubblicato su “Pangea”, per qualche mese, dal gennaio del 2019, e sul blog della Tomassini.
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In ogni caso, le mutilazioni sono multiple: a volte nell’assenza di risposte, altre di prospettiva. La mutilazione è implicita nella lettera di carta, perché modifica il tempo: ricevo oggi una lettera che hai scritto qualche giorno fa, sono valide, ora, quelle asserzioni? Compressione – il tempo esiste solo quando ti leggo – e mutazione – è ancora autentico il nostro patto?, quanto sei cambiato da allora? – rendono l’epistolario un ‘genere’ che alimenta i dubbi, e dunque le grandi passioni.
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Il lavoro della Domenella è generoso e audace: sfocia su un epistolario fittizio, creato in rete da autori di oggi, senza la prospettiva di una pubblicazione cartacea, per ora. Per ragioni diverse, dettate dal destino con il mirto in mano, io e la Tomassini abbiamo l’ossessione per le lettere, forse perché sono qualcosa di tanto fragile, improvvido, foriero di incomprensioni, che va accudito. La Tomassini – scrittrice di rabbiosa grandezza, che ha il coraggio, tra i rarissimi, di consumarsi scrivendo, come una liturgia di ghiaccio – ha fatto degli epistolari una virtù letteraria, una formidabile forza. In fondo, ne sono stato graziato. “Dei tre epistolari, di certo, questo è quello che mi ha richiesto più energie. Oscuro e luminoso, insieme. Il buio altro non è che una forma di luce”, scrive la Domenella. (d.b.)
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Qui pubblico, in sequenza, le risposte che ho dato ad alcune questioni della Domenella.
LA SCINTILLA. Motivo di scrittura. Perché ha scritto?
Mi è giusta una richiesta. Inattesa. Che andava esaudita. La scrittrice Veronica Tomassini si è chinata su di me, proponendomi la scrittura di un epistolario fittizio, di un romanzo epistolare. Fu una domanda così nitida, candida, bianca, che dissi di sì. Ogni ‘sì’, però, chiede una responsabilità: morale e estetica. Insieme a Veronica Tomassini abbozzai l’ipotesi dei due protagonisti di questo romanzo epistolare, Vera e Nathan. Uno scrittore non ha vita, è un crocevia di ossessioni, immagina le vite degli altri. Ho dovuto guardare con esattezza microscopica alla vita raminga di Nathan. Poi, abbiamo cominciato a scrivere. Scrivendo, è importante complicarsi la vita, interrare trappole, ideare svolte e capovolgimenti. Scrivere è l’ingresso nel rischio. Dire ‘sì’ a una richiesta, infine, è l’equivalente del sì di Abramo che è disposto a sacrificare ciò che ha di più caro, il figlio, senza tentennamenti.
IL FUOCO. Contenuto. Cosa ha detto quando ha scritto?
Nathan è un nome che amo: significa ‘dono’, ed è il profeta, nella Bibbia, che raddrizza – per lo meno, tenta – le violenze del re Davide. Ho amato confondermi in quel re caratterizzato dalla fionda e dalla cetra, da seduzione e omicidio – e ho voluto un nome da usare come pungolo, come cilicio. In realtà, Nathan è un uomo disadatto: colleziona tigri di vetro, vende preziose mappe celesti, antiche, avute chissà come, a personaggi di dubbia moralità, ama il sottosuolo e l’attico della Storia. Ha incontrato soltanto una volta Vera – crede sia sua sorella – è la sua stimmate – la ama a distanza, non intende raggiungerla, consapevole che ciò che tocca si lacera, si rompe, si disintegra. Nel suo vagare disordinato, passa da Praga a Parigi, poi volge a Est, in Georgia, in Armenia, fino ai recessi della Mongolia. Ama la carne, fa incontri al limite del grottesco, infine preferisce sparire, essere la traccia d’argento di un ricordo contraffatto. Per virtù discorde, non può accontentare Vera: al contrario, le scrive con esattezza le parole che lei non vorrebbe sentirsi rivolgere.
LA BRACE. Eredità. Cosa lascia con questo epistolario?
L’eredità non riguarda lo scrittore, gettato in uno spazio incontaminato, in un futuro che alterna deserto e bosco. Lo scrittore nasconde i verbi tra i cespugli, reclina le proprie storie in un nido, tra le rupi. Vuole essere scovato, eventualmente condannato. Non so se il libro, quello che vediamo in libreria, in piramidi, sia oggi il supporto adatto per una grande storia. Forse lo scrittore dovrebbe fabbricare in libro le proprie storie, fotocopiarle, lasciarle sulla soglia delle case, scelte casualmente. Consegnarsi, così, povero, nudo, scabro, irrichiesto. D’altronde, il romanzo epistolare scritto con Veronica Tomassini – e retto dalla sua richiesta di cristallo –, di cui ha parlato, per grazia, anche qualche quotidiano nazionale – ricordo “Avvenire” e “il Giornale” – è rimasto inedito e non vi è intenzione di pubblicarlo. È stato un momento, un gesto unico, come un’alba memorabile, seghettata di verde, che perfora l’oscurità. Un’alba piena di cani, ecco, un’alba simile alla testa di un dio bambino, sbranato, decapitato.
*In copertina: Liv Ullmann e Bibi Andersson in “Persona” (1966) di Ingmar Bergman
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giancarlonicoli · 6 years ago
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Marco Travaglio e Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano
Due minuti prima di salire sul palco: "Come sto?". In che senso? "Sono vestito troppo scuro?". No, stai bene. "E quanta gente c' è in platea?" Circa 1.800 persone.
"Cooosa?" Ti aspettano 1.800 persone. "Incredibile". Sei Carlo Verdone, il Lucio Battisti del cinema. "Non mi rendo conto. Mi stupisco di tutto questo affetto". Non è falsa modestia, low profile scontato, o ricerca febbrile di partecipazione emotiva altrui.
Lui è così e, quando supera il sipario della Versiliana, un sorriso a labbra serrate avvolge i presenti.
N on sai di essere Carlo Verdone Non mi sono molto reso conto di ciò che mi è successo, ed è una fortuna; altrimenti, a un certo punto, rischi di diventare un po' un geometra della tua carriera, ed è là che sbagli e tenti di trovare il film per compiacere il pubblico in sala: ho sempre preferito l' istinto, e con il tempo mi sono reso conto che alcune pellicole hanno anticipato un periodo storico e sociale di questo Paese, con una chiave divertente e un po' malinconica.
Quanto è importante l' improvvisazione?
(Sullo schermo scorre il monologo finale dell' emigrante in "Bianco, Rosso e Verdone") In alcuni casi, come in questo, è al 100 o all' 80%; o non è stato rispecchiato il copione o è stata completamente riscritta la scena. L' emigrante doveva parlare a velocità supersonica e per la prima e unica volta; alla fine doveva esplodere in una lingua incomprensibile, a parte 'l' andatevela a pià tutti nel culo'.
Come l' avete girata?
Ho chiesto alla troupe di lasciarmi solo, venti minuti chiuso in una stanza. Silenzio.
Dovevo riepilogare nel cervello le disavventure dell' emigrato. Poi esco, 'pronti, non fiatate. Ciak si gira'.
Alla fine
Non so se è stato un colpo di fortuna, talento o altro. Ma la prima è stata quella che poi ho montato; alla fine del monologo tutti mi dedicarono un applauso, e io: 'Grazie, ma è tremendo doversi ricordare tutti i passaggi'. A quel punto il direttore della fotografia mi ferma: 'Giriamo una seconda, non possiamo fermarci a una sola, se poi c' è qualche problema siamo nei guai'.
Di nuovo "ciak"
Il problema è che avevo dato tutto con la prima, ero scarico, sudato fradicio, recitavo rallentato, così mi sono arreso: 'Basta e se c' è un pelo sulla pellicola, chi se ne frega'.
Per il personaggio, a chi ti sei ispirato?
Nel 1971 sono partito con due amici per la Polonia, viaggio che ha ispirato anche Un sacco bello
Le calze di nylon in valigia.
Le calze no, solo le penne biro; ma nei film ho spesso riportato esperienze vissute, mi sono preso in giro. A quel tempo eravamo convinti che, grazie alle penne, le calze, i dischi dei Beatles, di Little Tony, di Bobby Solo, ce l' avrebbero data con il frisbee.
Verificato?
Ho rimorchiato al secondo giorno. Comunque quando siamo arrivati all' ostello della gioventù di Bratislava, ho scoperto uno dei più importanti punti di osservazione della mia futura carriera: lì ho trovato una categoria di italiani miserabili, cafoni, cialtroni tanto da farmi sentire cialtrone a mia volta; noi arrivati grazie a una Fiat 127 bianca
L' ispirazione
A un certo punto un cafone di Viterbo scende da una Dino (auto utilizzata in Un sacco bello), e mi dice una cosa volgarissima, irripetibile.
Proviamo
No, no, no
E dai
Rischio di diventare davvero molto volgare.
Va bene lo stesso.
Entriamo in ascensore e lui arriva abbracciato a una polacca: 'Sete venuti pure voi pe' e con il pugno chiuso mima l' amplesso, e davanti a lei. Noi turbatissimi ci guardiamo: 'Ma dove siamo capitati?'.
E invece la ragazza inizia a sorridere e scopriamo che non ha denti ma solo capsule e ponti in ferro. Scoppiamo a ridere, con garbo. Usciti dall' ascensore tento la frase spiritosa: 'Ma in quella bocca non rischi di prendere la scossa?'.
Lui, senza scomporsi: 'Aoh, a me i boccagli me li può fa' pure mi' nonna!'. Ecco, a quella realtà ho attinto, e quando non pensavo di diventare regista e attore
Perché in realtà?
Sono laureato in Storia delle Religioni poi ho vinto un premio in Giappone grazie a un mediometraggio sperimentale e Rossellini mi ha accolto nel Centro Sperimentale.
In che anno?
Nel 1972. Quando arrivò il telegramma della vittoria, mio padre disse: 'Lo dobbiamo mostrare a Rossellini'.
E così Convocato da lui al Centro, e dentro quegli stanzoni enormi di epoca fascista, con finestre altrettanto enormi, impossibili da chiudere, mi sentivo angosciato perché non sapevo come creare il buio necessario per mostrare il Super8. 'Dai Verdone, piazza la cinepresa'; e io: 'Maestro, la stanza è inondata di luce'; 'Non importa, avvicina la cinepresa al muro'.
Risultato?
Vide il film come in un francobollo, inoltre l' opera non era neanche parlata, solo immagini, venivo dall' esperienza underground, con immagini rarefatte e psichedeliche.
Quanto durava?
Venticinque minuti e purtroppo la Rai lo ha perso. Ricordo un momento incredibile: salgo sul davanzale della finestra e con la mano aperta tento di coprire il sole che batteva sull' occhio di Rossellini; alla fine distrutto sono caduto, e lui: 'Si vede che ti piace Antonioni'; peccato che di Antonioni non avevo visto nulla. Bluffai: 'È vero'.
L' osservazione del quotidiano ha ispirato molti dei tuoi personaggi. Oggi è ancora possibile?
Ho rubato dai bar, dalle botteghe, dai seggi elettorali; le strade e le piazze erano teatri; ma negli ultimi anni è diventato sempre più difficile perché è cambiata la società e con lei le persone, e quello che ha ucciso tutto questo, è l' omologazione. Siamo tutti omologati. Stessi tatuaggi, tagli di capelli, calciatori docet, sono loro i veri divi. E poi non c' è più un luogo di ritrovo Al bar ci vai sempre Sì, ma una volta ascoltavo, oggi sono loro a voler ascoltare me. Ricordo l' ultimo pranzo con Alberto Sordi, era affranto, distrutto, non sapevo stesse male; a un certo punto si guarda attorno e sentenzia: 'A Carlé, te vedo male: sarà sempre più difficile interpretare questo Paese'. Perché? 'Nessuno si stupisce più di niente'.
È andata così, anche per colpa della tecnologia, la gente non la guardi più in viso, stiamo con lo sguardo basso, immerso nel cellulare. Ci trasciniamo, non camminiamo.
In questi 40 anni cosa hai raccontato dell' Italia?
I grandi attori del passato hanno narrato un' Italia molto importante dal punto vista storico, hanno portato al cinema la guerra, il dopoguerra, il boom economico e le tensioni sociali, e grazie a scrittori come Moravia, Gadda, Flaiano, Zavattini e altri
E tu?
Con Troisi siamo riusciti a focalizzare la nostra attenzione verso la caduta del maschio e l' evoluzione della donna; perché in quegli anni, quando abbiamo iniziato, avevamo ancora ben presente la rivoluzione femminista, con l' uomo non più legato all' immagine portata avanti dai Gassman o dai Mastroianni I seduttori. Mentre con la nostra generazione la donna non è più oggetto, diventa imprevedibile, lunatica e tenera, l' uomo è all' angolo, insicuro e fragile.
Per questo molti miei personaggi sono dei tontoloni.
Tipo Sergio con la Giorgi in "Borotalco".
Anche in Io e mia sorella sono completamente scavalcato.
Abbiamo portato sullo schermo dei drammi vissuti dentro il rapporto affettivo, fino a quando nel 1988 la maggior parte dei miei amici inizia a separarsi: crollava l' istituzione del matrimonio; la mia agenda si era improvvisamente sdoppiata, avevo il numero del lui dalla madre e della lei dalla madre.
"Compagni di scuola".
Tutti infelici dal punto di vista sentimentale, e poi le nevrosi, la psicoanalisi: si andava in analisi come una delle conseguenze della società del benessere; ricordo la quantità di amiche dedite allo psicologo per comprendere i motivi dell' addio, e pensavo: 'Che vòi capì? È finita, punto'.
"Ma che colpa abbiamo noi" inizia con l' analista morta con la sigaretta in mano e i pazienti disperati.
È un episodio reale: andavo da un neurologo per problemi di sonno. Un giorno ci torno e sotto al portone trovo trenta persone in lacrime; mi avvicino al portiere: 'Cosa è successo?'. 'È morto il professore, è morto il professore!'. Le persone attorno oltre alle lacrime iniziano a urlare: 'Come faccioooo!', 'Sono depressa!'.
E tu?
Mi veniva da ridere e dentro di me, cinicamente, penso: 'È un grande inizio di film'.
(Sullo schermo parte uno spezzone de "Lo sceicco bianco" con Leopoldo Trieste) Perché questa scelta?
Spesso la commedia italiana si è esaltata più per i caratteristi che per gli attori protagonisti, e penso a Giacomo Furia, Ugo D' Alessio, i fratelli Carotenuto, Tina Pica e Leopoldo Trieste: lui ha ispirato il personaggio di Furio.
Qui l' ispirazione è nata da un film, mentre in altri casi hai "sfruttato" anche il vicino di casa, come per Mimmo
Era un condomino del primo piano, mia madre chiedeva di giocare insieme a mio fratello: 'Stefano domanda sempre di voi, hanno un presepio meraviglioso. Andate, è solo'. Un pomeriggio suonano alla porta, apro e mi trovo davanti a un bambino bassino con un vocione incredibile. Scendiamo a casa sua, 'tiri in porta?'. Va bene. A ogni colpo il pallone rompeva uno dei vetri della porta del corridoio.
Torniamo alla capacità di saper 'rubare', sempre.
Devo copiare la vita, amare la gente; devo stare insieme agli altri, sennò non avrei inventato nulla Un giorno mi telefona un' amica: 'Ti chiedo un favore: vieni a casa, oggi pomeriggio c' è un mio spasimante e desidero un consiglio'. Accetto. Entro, lei nervosissima, le unghie in bocca: 'Ti prego, se ti fa ridere non sbottargli in faccia, è un po' strano'. Suona il citofono e mi trovo davanti un tizio con il cappello tirolese e tanto di pennetta, il cappotto la sciarpa e una scatola di Baci Perugina: 'Ti domando scusa per il ritardo, purtroppo c' era traffico, e poi dicono che ce sta la crisi, ma 'ndo sta la crisi? E comunque questi sono cioccolatini per addolcirti la bocca'.
 in viaggio con papa sordi e verdone  
Troppo
L' ho guardata sconfortato, e lui mi ha ispirato il personaggio della pistola e del porto d' armi e anche Un sacco bello: il qualunquista puro
(Tocca a uno spezzone de "L' amore è eterno finché dura")
Un "duello" con Morante.
In alcune scene ero esausto, perché Laura è un' ottima attrice, brava alla prima scena, alla seconda, la terza, la quarta, ma poi te devi ferma'. Mentre lei cerca sempre la perfezione e a volte non ne potevo più, anche perché ero conscio di un fatto: quasi sempre andava bene la prima.
Con Sordi hai passato un Capodanno particolare
Alberto davanti al pubblico era contagioso, ma in casa cambiava, diventava un monaco che viveva nell' oscurità, con tutte le serrande abbassate, soprattutto da quando nel 1972 è morta la sorella Savina: da allora Sordi ha rinunciato alla feste. Lutto totale. Come un religioso un po' fanatico.
E un primo dell' anno
Arrivo alle 11 in punto, la sorella Aurelia mi offre un aperitivo. Rifiuto. Nell' attesa di Alberto mi guardo intorno e vedo alcuni festoni appesi e un tavolo con in cima un mazzetto di fagioli e quattro cartelle, al centro altri fagioli e altre cartelle; all' altro apice il cartellone. 'Aure', avete fatto festa?'; e lei: 'L' ultimo dell' anno è tradizione'; 'Avete avuto gente?'; 'No! Io, Alberto ed Ersilia'. Ersilia era la cameriera.
'E il cartellone chi lo tiene?'.
'Ersilia'.
Malinconia pura.
La sua grandezza era anche in questo: era come nei film. Però attenzione: Alberto è stato di una generosità enorme, pure troppo; l' errore è non aver lasciato un testamento.
Oltre a in "Viaggio con papà" ci hai lavorato in "Troppo forte"
In realtà quella parte l' avevo scritta per Leopoldo Trieste, poi il produttore decise per Sordi. Per carità, è andata bene così, però lì ha forzato un po' troppo il ruolo, con Leopoldo sarebbe stato diverso. E sempre grazie ad Alberto ho capito come tutti, anche i grandi attori, poi finiscono con un velo di tristezza
Che episodio?
Alla fine di un pranzo, Sordi malato, scende le scale. Scivola. Casca a terra. Il parcheggiatore appoggiato alla macchina, sigaretta in bocca, sentenzia: 'Se semo invecchiati eh, Albè?'. Sono rimasto allibito. E ho capito come tutto, nel crepuscolo, svanisce e diventa presa per il culo.
A Roma c' è un po' il gusto del cinismo, della presa in giro.
Anni fa, sul Lungotevere, mi affianca una motocicletta con un tizio senza casco: 'Ma sei Verdone?'. Sì. 'Mamma mia, a Roma ce sta er Papa e ce stai te.
Fermate. Fatte abbraccia', e famme gli auguri a mi' fratello che è ricoverato'. Non posso sottrarmi. Lo chiamo: 'Pronto Alfio, ciao sono Verdone'. E lui: 'Ma chi cazzo sei?'.
Perfetto
Il motociclista insiste e mi strappa pure un' imitazione. Alla fine quando se ne va mi regala una battuta formidabile: 'Grazie per avermi regalato il sorriso a un' adolescenza de merda'.
Sei l' ultimo ad aver creato dei caratteristi diventati poi importanti
Lella Fabrizi è la nonna che tutti noi avremmo voluto. Ma Sergio Leone era preoccupatissimo: 'Ha 300 di colesterolo, questa ce more sul set. Poi il film lo paghi tu!'.
Aveva ragione?
Con lei mi ero raccomandato: 'Per favore, stia a dieta', 'Nun te preoccupà'. Al terzo giorno già cucinava l' amatriciana alla troupe; alla fine del film pesavo quattro chili in più.
Quanti colleghi ti chiedono consigli medici?
La sera c' è sempre qualcuno che mi rompe le palle mentre sto cenando. Ma ormai sono diventato come il medico di Viaggi di nozze e rispondo: 'No, non mi disturbi affatto'. E più o meno ci prendo.
(E così Carlo Verdone ha la ricetta del sorriso e della salute)
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brucioredistomaco-blog1 · 7 years ago
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Cuori infranti e altre stronzate
Che più mi sforzo di non pensarci più il mio cervello continua a ripercorrere i suoi passi e a riportarmi esattamente al punto di partenza. Che sono due anni che aspetto di camminare nella neve e sono qui con i capelli ghiacciati, il naso che cola e i vestiti fradici ma non mi godo il silenzio perché continuo a chiedermi cosa diavolo dovrei fare a questo punto. Non sono brava ad aspettare. Il tempo si dilata svuotandosi di contenuto, resto seduta come in un sala d’attesa in ospedale. Scomoda e angosciata, in corpo troppo caffè scadente delle macchinette che sapeva di bruciato e un generico senso di disagio che enfatizza lo squallore architettonico di turno. Che nel frattempo potrei leggere una di quelle belle riviste di moda e imparare come rimodernare il mio guardaroba alla modica cifra di non si sa quante centinaia di euro, potrei parlare con il tizio seduto qui davanti facendo pratica di convenevoli e ripassando tutti i luoghi comuni che conosco, potrei informarmi sul mese della prevenzione sfogliando uno dei trenta volantini sparsi sul tavolino alla mia destra, seppellire la faccia nel telefono ridendo fra me e me per qualche stronzata nichilista controllando che nessuno mi stia guardando. Invece no. Io resto lì a spostare lo sguardo da una parete verde vomito all’altra, a fare su e giù con la gamba fino a farmi venire i crampi, a pensare a tutto e a niente perché tanto questo tempo è già morto, tanto vale accettarlo e non sprecare energie nel tentativo di rianimarlo. Odio aspettare perché non riesco a fare niente per occupare il tempo e la mia paranoia prospera in questo spazio vuoto come se fosse fatto apposta per lei. La mia paranoia adora le attese, ama riempirle di domande, di se, di ma, di quindi. Di scenari ipotetici, di percorsi alternativi, di catastrofi come se piovesse. Cammino sotto la neve nella speranza di sviarmi fino ad avere le mani gonfie di freddo e le gambe rigide eppure non vedo niente perché sono troppo presa a cercare di far tacere la mia mente iperattiva che in qualche modo salta avanti e indietro di continuo riuscendo sempre a restare nello stesso punto. Che non è nemmeno un pensiero così importante, non è vitale, non è decisivo, ma in qualche modo lo diventa a furia di rigirarmelo fra una sinapsi e l’altra, che non c’è nessun problema reale che non sia il pensare troppo a stronzate che mi portano all’esasperazione e crearmi aspettative irraggiungibili che quando la realtà si fa avanti riesce a dissipare nell’arco di un secondo. Che sono stronza e cinica e fredda come un pezzo di ghiaccio ma alla fine sono solo misure di sicurezza che innalzo per tenere fuori dallo sguardo del pubblico il mio essere una romanticona senza speranza. Che mi dico “smettila di starci male e di fare la cogliona, credevi davvero potesse funzionare?” Ma allo stesso tempo mi scolo mezzo litro di jack e cola perché in fondo (e nemmeno troppo in fondo) ci ho creduto davvero e ora sto soffrendo come un cane e finisco ubriaca a scrivere roba che nessuno vuole leggere. Che son tre giorni che mi sveglio col mal di testa e accumulo bottiglie di birra vuote mentre mi ripeto “no, ma tutto ok, e alla fine sticazzi”, ma il fatto è che mi odio disperatamente perché sono come neve stesa sotto al sole di luglio e mi bastano pochi minuti per diventare acquetta sporca a bordo strada. Che è bastato un mese e ora quella faccia da cazzo è tutto ciò che vedo quando cerco di pensare ad altro, a furia di cercare soluzioni non so nemmeno più quale sia il problema. Invece lo so benissimo. Sono io con tutta la mia impaziente pazienza che mi fa restare in questa situazione e me la fa detestare insieme, che la detesto di quell’odio sublimato in familiarità perché sottoni si nasce, non si diventa. E io a quanto pare ho proprio la vocazione per questa parte. Un cliché imbarazzante giusto perché sono donna e quindi è esattamente ciò che ci si aspetta da me. Ovvero che resti, ovvero che sopporti, ovvero che continui a sorridere vacuamente anche quando sono incazzata come una biscia ed esco a correre con così tanta rabbia in corpo da superare ogni mio primato finendo con le ginocchia sfasciate e i polpacci talmente contratti da poterci spaccare le pietre. Il tutto per sprecare il benessere da endorfine che mi sono appena sudata scrivendo a qualcuno che ancora non ha deciso se gli interesso o meno e che molto probabilmente non si deciderà in tempi utili stando all’andazzo, scrivendo a qualcuno che nel dubbio ha fatto di tutto per farmi credere il contrario, probabilmente nell’ottica di una scopata facile. Che di per sé è sintomo di una falla logica non indifferente, perché se non sei sicuro di essere preso dovresti agire di conseguenza invece di inondarmi di messaggi carini e domande personali. Non è difficile con me, non mi sbilancio facilmente, non sono tipo da dichiarazioni premature e cuoricini alla fine di ogni frase a cui non sai come rispondere. Sono tipo da “Prendiamo una birra dall’indianino domani?” come più grande manifestazione d’interesse. Che non direi di no a una scopata facile se intorno non ci fosse tutto questo teatrino di indecisioni. Avrei apprezzato di più un onesto “voglio buttartelo ma non mi frega un cazzo di sentirti parlare”, e avrei accettato senza pensarci troppo. Ma no, dovevi farmi sentire a mio agio, dovevi farmi sentire come se ti interessasse conoscermi davvero. Quindi adesso sono fottuta perché fin quando non mi dirai chiaramente di levarmi dalle palle continuerò a sperare che succeda qualcosa. E continuerò a dirmi di smetterla di starti dietro senza troppi risultati. Che manco volevo uscirci con te la prima volta che me lo hai chiesto, quindi tutta la situazione fa abbastanza ridere.
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pangeanews · 4 years ago
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L’incendio e la pietà: su Roberto Roversi, il poeta che invecchiando infanciullisce
Lʼopera di Roberto Roversi deve ancora cominciare ad essere studiata (mi verrebbe da dire: letta). La difficoltà nellʼintraprendere un percorso di studi roversiani consiste non solo nella personalità dellʼautore, particolarmente obliqua e imprendibile nelle dinamiche ottusamente dualistiche della cultura italiana (basti pensare, per farsi unʼidea, alla sua tesi di laurea presso la Facoltà di filosofia di Bologna su “Le origini dellʼirrazionalismo in Nietzsche studiate nelle opere giovanili”, anno 1946, a pochi passi dalla guerra di liberazione cui partecipò fisicamente e non solo con le armi della ragione) ma anche dalla mole di materiale non organizzato sistematicamente, fogli sparsi e canzoni volanti che spuntano ancora oggi come funghi.
*
Vale per Roversi la categoria nicciana dei pensieri in cammino, contro i falsi pensieri del linguaggio (Genealogia della morale), vale a dire unʼidea di scrittura come diario di bordo, taccuino in atto di considerazioni erranti. Ciò caratterizza anche la natura dei suoi faldoni soggetti a numerose edizioni parziali o con varianti e aggiunte anche a distanza di decenni. La lunga lista bibliografica può essere, per intraprendere un primo percorso di studi, ridotta a pochi titoli fondamentali (mi concentro in questo momento sulla poesia e sui romanzi, tralasciando il teatro su cui si dovrebbe aprire un capitolo a parte) che invito il “nuovo lettore di Roversi” a rinvenire. Per la poesia: Dopo Campoformio (1962; edizione definitiva 1965), Le descrizioni in atto (1970; 1985; edizione definitiva 1990) e LʼItalia sepolta sotto la neve (2010; a partire da 1984). Per la scrittura in prosa: Caccia allʼuomo (1959), Registrazione di eventi (1964) e I diecimila cavalli (1976).
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A partire da questo nucleo di “fondamentali” si potrà dunque procedere, per chi vorrà, a ritroso fino alle plaquette di esordio (il battesimo giovanile è con Poesie nel 1942, cui seguono dodici anni di silenzio, e un nuovo esordio con le Poesie per l��amatore di stampe nel 1954) o in esplorazione verso i capitoli a margine che costellano la mappa bibliografica dellʼavventura roversiana (il portale robertoroversi.it, curato dal nipote Antonio Bagnoli, offre una labirintica mappatura e anche la possibilità di sfogliare alcuni titoli, per quanto lʼinvito implicito del poeta, anche alla luce della sua predilezione per pubblicazioni in copie limitate con piccoli editori o addirittura fuori commercio, mi pare resti quello dellʼattraversamento del mondo sotterraneo delle biblioteche o delle librerie antiquarie e di modernariato, un universo minore – nellʼaccezione di Benjamin, di una marginalità come dimensione salvifica dalle dinamiche maggiori della storia – profondamente amato da Roversi che proprio nella Libreria antiquaria Palmaverde di Bologna fondò la sua dimora intellettuale).
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Unʼantologia nutriente di brani in prosa, poesia e alcuni interventi teorici, e che è possibile ancora oggi trovare in commercio, è stata pubblicata da Luca Sossella nel 2008 con il titolo Tre poesie e alcune prose (a cura di Marco Giovenale). Traggo da questo volume uno splendido frammento di poetica, da una conversazione con Giancarlo Ferretti, originariamente posta a premessa del romanzo I diecimila cavalli, e che mi pare segni, anche, la differenza sostanziale tra la sperimentazione vivente del poeta bolognese, il cui centro è la vita dellʼuomo che attraversa la storia, e i laboratori autoptici della neo-avanguardia italiana, il cui centro è piuttosto il linguaggio della storia che attraversa lʼuomo. Il rifiuto di un approccio ideologico alla scrittura non poteva che porsi anche in rifiuto delle estetiche precedenti del realismo pedagogico del dopoguerra e questa distanza tanto dal neorealismo quanto dal teppismo teorico dei Novissimi, intesi entrambi come momenti di sottomissione della poesia alla comunicazione, e della dimensione umana alla necessità politica, è la lezione sostanziale della rivista “Officina”, e delle opere che da lì fuoriescono: Roversi, Pasolini, Fortini.
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Qui Roversi dice, in relazione a I diecimila cavalli: “Il libro prende moto nel segno di due riferimenti emblematici: l’incendio di Mosca (cioè la violenza di quell’incendio) e l’arpa birmana (cioè l’autentica pietà, anche in quel film); tutto ciò che brucia per la violenza del fuoco e tuttavia non finisce per bruciare e tutto ciò che la pietà, non dico solo salva, ma riordina e torna a riportarci perché possa ancora durare e servire soprattutto la nostra coscienza e i nostri pensieri. Ecco un elemento del libro che ci terrei se riuscisse a saltare fuori: non una tenerezza per le cose, non una tenerezza solo generica per noi ma la vera dura grande e faticosa, direi faticata, pietà che dovrebbe segnare il rapporto civile e virile tra tutti; un grande vento sconvolgente. […] Scusami ma insisto perché per me è importante: credo che la pietà, e l’esercizio della pietà, rappresenti un sentimento vittorioso, capace di caricare la nostra azione, anche e soprattutto politica, di elementi nuovi, di una tensione che ci permetta di incontrare e affrontare i problemi senza pregiudizi o falsa coscienza. La pietà è naturalmente comprensione ma è anche aspettare a giudicare, non concludere tutto in fretta con la rabbia dell’insoddisfazione”. E ancora: “Discutendo parlando scrivendo adesso abbiamo bisogno, direi un bisogno urgente, di ricuperare al nostro discorso una serie di temi, di elementi antropologici che erano stati accantonati frettolosamente e con un certo snobismo squallido come deteriori, reazionari, invecchiati; insomma come inutili e perfino pericolosi. Il discorso sull’amore, sul sesso, sulla paura della morte, inesistenti nel realismo spiritato di tanti anni, vanno recuperati uno per uno, collocandoli in una diversa disposizione che ci consenta di sentirli, direi: di risentirli, subito come nostri e come parte di una vita ritrovata”.
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I romanzi e lʼopera poetica, fino a Le descrizioni in atto, possono essere in parte illuminati da questa conversazione che segna, mi pare, uno spartiacque tra due epoche. Ciò che la precede è la forsennata opera dello sperimentatore bolognese, i suoi “materiali ferrosi” tra Tommaso Campanella e Jim Morrison, Agrippa dʼAubigné, Hölderlin e Osip Mandelʼstam, poesie in forma di canzoni per la radio (assieme a Lucio Dalla, con cui ruppe con pacifica intransigenza luterana), lettere in versi ciclostilate in proprio e volantinate in strada, le riviste, lʼabbandono della grande editoria per lʼautodistribuzione, il teatro incendiario (alla prima de Il crack al Piccolo di Milano il pubblico militante di studenti insorse mettendo a soqquadro la sala: “Fu meglio di tanti applausi”, mi disse in conversazione privata. Su “LʼUnità” del 10 aprile 1969 scrisse invece di “vecchio ingorgo ideologico di una sinistra impallata su congelati schematismi”). Ciò che ne segue è il lungo, misterioso e silenzioso viaggio dʼinverno de LʼItalia sepolta sotto la neve.
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LʼItalia sepolta sotto la neve, la cui composizione certificata ha inizio almeno dal 1984 e si conclude nel 2010, è il vero grande enigma dellʼopera roversiana. Sono persuaso si tratti del capolavoro di Roberto Roversi ma anche, probabilmente, di uno dei libri di poesia europea più importanti degli anni Duemila. Lo immagino, a volte, come il poema che battezza il millennio e lʼultimo Roversi un uomo antico, poeta guerriero e filosofo che invecchiando infanciullisce. Come spesso accade, per un dolce gioco di armonie segrete, la destinazione del tragitto umano pare convergere con il suo principio. Il poema, composto lungo tre decenni di smottamento epocale (dalle macerie del muro di Berlino alle Twin Towers; dalla fine del Novecento allʼimplosione della bolla speculativa del postmoderno), e suddiviso in cinque sezioni dai titoli adamantini e arcani (Premessa; Fuga dei sette re prigionieri; La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche; Astolfo trasforma sassi in cavalli e Trenta miserie dʼItalia), mi pare infatti intimamente connesso a quella scintillante tesi di laurea su Nietzsche (oggi edita da Pendragon) in cui il poeta, poco più che ventenne, appuntava: “Ricorda la sorella come Nietzsche scrivesse le sue opere, cominciando dalla fine del quaderno e risalendo via via – da una sola facciata – verso il principio; e io mi sono spesso domandato se questo non possa prendersi come motivo per giudicare il filosofo: intendo – cioè – cominciando dalle opere ultime per risalire – lentamente – a quel gioioso e profondo fremito giovanile che è la Nascita della tragedia. In Nietzsche non vi è svolgimento: non è uomo da sciogliersi nel tempo in una progressione continuata e sicura, nel ritrovamento di nuovi motivi o di nuovi pensieri scaturenti lʼuno dallʼaltro secondo un ordine logico, naturale: poiché è così, dico, che si formano i sistemi. E in Nietzsche non vi è sistema, naturalmente: poiché un irrazionalista non può giungere al trionfo della razionalità, che è – appunto – il sistema. Nel sistema la logica celebra la propria vittoria: entro quei confini sacri la ragione, dopo lʼaspro travaglio speculativo, trova per quanto è possibile il proprio appagamento. Lʼirrazionalista si lascia condurre invece da tutti i motivi che i razionalisti dispregiano o sottomettono al proprio logico discorso: impulsi, intuizioni, baleni rapidi che avvampano. Lontano da ogni metafisica, lʼirrazionalista celebra nella vita, senza più misura, in una libertà sconfinata, il proprio tripudio e – magari – la propria salvazione. Al coerente si oppone lʼincoerente e la vita dello spirito è vista nel suo svolgersi indeterminato e indeterminabile. […] Raccontano che i marinai di una nave bordeggiante presso unʼisola sconosciuta udirono gridare, disperatamente, in pieno meriggio: “il dio Pan è morto”. Dopo secoli, Nietzsche fu il primo che udì disperatamente il richiamo di antichi tempi: “il dio Dioniso è morto”. Così è nata questʼopera nuova e diversa”.
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Se dovessi scegliere una parola che esprima la forza misteriosa di questʼopera-viaggio, questa parola, mi ripeto, è “enigma”, con tutto il carico ruvidamente arcaico di significati che porta in sé. Ma enigma non è cifra di irrazionalità, né si può certo definire Roberto Roversi un irrazionalista (come a ventʼanni definiva il suo Nietzsche), tantomeno di una volontà di essere o di apparire oscuri per capriccio ermetico. Enigma è un fare luce nel buio, un camminare nellʼignoto, attraversando la complessità simultanea degli eventi senza idee a priori circa quanto si intenderà trovare. Vale a dire trovare senza cercare, oppure cercare qualsiasi cosa, nello stupore del viaggio di conoscenza. Essere un uomo nel paesaggio della storia e non un narratore onnisciente. Inserire la propria voce nella sinfonia dei suoni, essere sempre in ascolto. Non un comprendere quanto un essere compresi, piuttosto. Lʼopera deposta da Roversi sulla battigia storica, prima del grande viaggio verso lʼisola dei beati, è un sistema neuronale, i cui versi sono articolazioni nervose, sentieri innervati che si dipanano azionando delle parole-immagini evocative di sensazioni tattili o olfattive, o di visioni o di ragionamenti e ricordi come forze attive plastiche, viventi e sempre in atto. Gli enigmi dellʼultimo Roversi sono frammenti di visione senza biografia, appunti di riflessione in cammino, scritture come lembi residuali di unʼavventura, in cui lʼoggetto dellʼesperienza giace sotto la carta, non sulla sua superficie (Dante: “Sotto ʼl velame de li versi strani”), dove la carta è il diario di bordo di un viaggio (ma non è il viaggio), e in cui il soggetto siamo anche noi. Viaggio che invita al viaggio, alla sua prosecuzione e completamento. Così si chiude il poema:
Il tuo destino è oscuro Italia trenta, trenta. Ogni viottolo un tumulo d’antichi guerrieri ogni cima una fortezza abbandonata nelle vallate cunicoli di trincee mani di vecchi soldati affiorano fra i sassi. Con il fuoco nel cuore e il suono dolente di una campana nell’orecchio. Chi vincerà le tue battaglie? Ancora una volta per te? Il futuro ti aspetta…
Davide Nota
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pangeanews · 6 years ago
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Cagnacci esposto in osteria! Per tutti è una figata (compreso uno Sgarbi felliniano), per me è una boiata pazzesca. In ogni caso, sul geniale pittore ha scritto tutto Alberto Arbasino
Io non so nulla, sento solo puzza di bruciato, vedo tanto fumo verbale e perfino l’arrosto retorico, purtroppo. Soprattutto, non mi piacciono gli intellettuali titanici che scodinzolano intorno all’imprenditore-principino, all’interessato mecenate.
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Penso d’essere l’unico, nell’alcova giornalistica, a impiccarsi con un interrogativo. Possibile che a nessuno sembri una inesorabile ca**ata? Per carità, io sono sempre il più cretino di tutti. Mi riferisco alla notizia divulgata come “Guido Cagnacci. Ritorno a Santarcangelo”. In realtà, Cagnacci non entra in un museo – che non dovrebbe essere il mausoleo del morto, ma il sacrario del meraviglioso. Va in osteria. Torna a Santarcangelo, certo. Ma nel ristorante di un privato. Alla prima mi metto a ridere. Sono cretino, avrò capito male. Purtroppo, la realtà supera la mia idiozia.
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La notizia, di per sé, è buona. Un privato non proprio ignoto, Manlio Maggioli – guida del Gruppo Maggioli – ha fatto spesa e si è comprato alcuni Cagnacci. Leggo dal Resto del Carlino: “Tra le opere acquisite ci sono due ritratti (databili tra il 1640 e il 1645), ‘Testa di ragazzo cieco’ e ’San Bernardino’, che provengono dalla collezione Albicini di Forlì, mentre gli altri due quadri, che hanno come soggetto entrambi ‘La Maddalena penitente’, l’imprenditore santarcangiolese li ha acquistati all’asta, a Londra e a Vienna”. Intorno all’imprenditore mecenate si palesano due esperti del Seicento pittorico italiano: Massimo Pulini, già Assessore alle arti al Comune di Rimini, valente pittore, e Vittorio Sgarbi. La notizia è ribattuta così: “Quattro capolavori di Cagnacci sono tornati finalmente a Santarcangelo”. Esulto. Cagnacci è un pittore straordinario, un avanguardista, uno che indossava svariati cognomi (“Cagnaccio, Cagnazzi, Canalassi, Canlassi”), che “per essere uomo obeso, barbuto e tozzo fu detto Cagnacci” (così il pettegolo Abbecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi, 1731), che litigò con tutti e non ci pensò due volte a fulminarsi la fama per l’amore scandaloso con la ricca vedova Teodora Stivivi, riminese. Il problema, però, si fa chiaro fin dal sottotitolo. E io ululo d’indignazione.
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Il sottotitolo: “Valgono un milione, le tele presto saranno esposte nella sala Cagnacci del ristorante Sangiovesa”. Non ci credo. La Sangiovesa è effettivamente un’osteria, sta a Santarcangelo, è proprietà di Maggioli, e tra le sale una ha il nome di Sala Cagnacci. In quella sala, come è lecito, si mangia. I quadri del Cagnacci tra gli afrori della carne che cuoce e il chiasso dei magnoni. Mi pare una scena delirante di un film felliniano, uso a sfottere gli abusi della borghesia trionfante. Da oggi, dunque, Cagnacci si può ammirare nella Chiesa Collegiata di Santarcangelo, pregando, o nel ristorante di Maggioli, mangiando e pagando. Che orrore.
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C’è dunque un lieve difetto nella comunicazione giornalistica, mi dico. I quadri del Cagnacci acquistati da Maggioli – felice chi li ha comprati tanto quanto chi li ha venduti, d’affari si parla mica di arte – non tornano a Santarcangelo. Verranno esposti nel ristorante di Maggioli. La cosa è diversa perché, nonostante le trombe pubbliche, questo non è un fatto pubblico – è pubblicità.
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Fino all’ultimo penso a una fake news. Macché ristorante: Maggioli predisporrà nella sua azienda uno spazio per i Cagnacci, dove andare, gratuitamente, a meditare. Oppure, già che c’è, comprerà uno stabile atto a costruire un breve ‘Museo Cagnacci’. Perché il criterio, per amare l’arte, è predisporsi al contemplare, nell’aureola del silenzio – all’osteria, piuttosto, presti attenzione al palato e agli amici. Ma, si sa, qui basta rimpinzare la pancia per pensare di avere la mente piena.
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Invece. Leggo un referto giornalistico on line (qui). Alla Rocca Malatestiana, mercoledì scorso, sono state presentate le opere del Cagnacci. Sgarbi ha detto – cito testuale – “restituire a Santarcangelo, interpretando il desiderio e il piacere di Tonino Guerra, delle opere, spiritualmente sensuali, di Guido Cagnacci, che prefigurò il sogno di Fellini, è una decisione preziosa e inevitabile quando la volontà, l’amore e la cura sostengono un luogo dell’anima come La Sangiovesa. E ciò accade grazie alla costante attenzione di Manlio Maggioli, mecenate del nostro tempo, custode della tradizione e interprete perfetto del mio pensiero”. C’è modo e modo di gratificare un mecenate, credo, gli incensi intossicano l’aria e dire di un ristorante che è “un luogo dell’anima” è un eccesso fisiologico e filologico.
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Le parole del patron ce le possiamo risparmiare. Cito due frasi. La prima conferma, contro la mia ingenua idiozia, che le cose stanno proprio così: il Cagnacci – immagino, debitamente protetto – entra in osteria. “Ho ritenuto quindi più saggio riportare il Cagnacci – che poi sono diventati quattro – a Santarcangelo, così che anche i santarcangiolesi potessero goderne; ho posizionato le opere in Sangiovesa, proprio nella Sala Cagnacci, che, guarda caso, esiste da sempre”. La seconda è più intrigante, esemplifica la bulimia del possesso. “Ho sempre desiderato avere un Cagnacci”, dice Maggioli. Come se Cagnacci fosse una griffe. Un Rolex. Una Ferrari. Un segno come un altro di un potere qualsiasi.
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La questione non è di luoghi o di abiti estetici (meglio l’osteria del monastero, per carità), ma di dignità estatica. Qual è il modo migliore per amare Cagnacci? Domandatevelo. Altrimenti, è la solita spacconeria dell’imprenditore danaroso che compra una cosa sua, per metterla in uno spazio suo, doma mangi e bevi e lo paghi.
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Immagina. Una Maddalena penitente in osteria. C’è una sacralità nei segni che non può essere dissacrata.
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Al Cagnacci di Maggioli – e alle scodinzolate di Sgarbi – preferisco quello di Alberto Arbasino. Lo scrittore ne scrive, sommamente, in Fratelli d’Italia (“davanti ai Cagnacci ci si ferma di colpo. È un pittore talmente hanté di immagini di seni femminili turgidi e di seggioloni finto-Cinquecento di pelle rossa, con le loro borchie, che intorno a queste immagini fa il vuoto; abolisce tutto il resto, paesaggi e suppellettili; ma con queste continua a costruire una serie di straordinarie Morti di Cleopatra”). Poi ci torna, in Le Muse a Los Angeles, così: “Questa magnifica raccolta italiana… viene presieduta da un sensazionale Guido Cagnacci… Un Cagnacci addirittura più ‘intriguing’ delle sue varie e notorie Cleopatre e Maddalene porcellone che muoiono sui seggioloni da notaio in un tripudio di splendide tette da casino emiliano, agitate, sballottate, frementi; o volano al Cielo in un vortice di stupende cosce bolognesi sorrette da robusti facchini alati, bene accolte da angioletti sviluppatissimi, pesantissimamente commentate dai visitatori padani alle mostre locali, e dipinte con squisitezza soave. La sua Europa migliore, ebbra di velocità con le tette salmastre e aulenti al maestrale o al libeccio, nemmeno sente se eventualmente pungono le rose ‘pompier’ accumulate in grembo per la navigazione sul mitico toro, fiorito anche lui come un bouquet”. Lo invitiamo a Santarcangelo?
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Non so se s’è capito. Per me esporre Cagnacci al ristorante è una candida minchiata. (d.b.)
*In copertina: Guido Cagnacci, “Noè ebbro”, 1663
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