#prova non retribuita
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Cerco lavoro e si fa avanti una imprenditrice, che conosco tramite il mio amato corso di teatro.
Lei cerca una segretaria/assistente personale, in sede di colloquio mi dice con esattezza quali saranno i miei compiti:
- fare e ricevere telefonate per suo conto
- inviare mail e preventivi per suo conto
- imparare a caricare i preventivi su sistema operativo aziendale zucchetti
- essere le sue orecchie e i suoi occhi quando non è presente in ufficio, e riferirle tutto
- avendo lei 3 case, altre in affitto, e avendo un b&b, pagare le sue bollette, le sue spese condominiali, verificare se i suoi affittuari hanno pagato regolarmente l'affitto
- essendo lei un architetto, colorare con pastelli i disegni degli arredi, dopo che lei li ha realizzati
- scattare foto alla sua impresa e promuovere la sua azienda sui social
- una delle cose che mi ha chiesto è stata, sgomberare un tavolo pieno di roba e smistarla, alcune cose andranno in discarica, altre riposte da altre parti
- accompagnarla alle cene di lavoro e appuntarmi i nomi dei commensali, poiché potrebbero essere nuovi potenziali clienti
... E poi, che altro?
Comunque, dico che è bello impegnativo ma ha anche aspetti molto interessanti
Parla di 15 giorni di prova, non so se siano effettivi di lavoro, o se si tratti di 2 settimane, con 10 giorni di lavoro effettivo.
Dico che posso iniziare a lavorare anche domani, ma chiedo la mia prova come sarà inquadrata?
Visualizza, ma non risponde più
Tra le altre cose, mi aveva detto di aver fatto tanti colloqui ma che la gente non ha voglia di lavorare, forse perché è lei a non aver voglia di pagare?
#lavoro#prova#prova di lavoro#sfruttamento#sfruttamento sul lavoro#prova non retribuita#lavoro in nero#lavoro non retribuito
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Il virus, la scuola e il concorso per i precari: storia emblematica di sciatteria italica Una storia nella storia nei giorni in cui butta di nuovo male, con mille nuovi casi in più al giorno, il virus che dilaga al Sud e ritorna a colpire duro in Lombardia e Veneto. Una storia delle cose fatte alla boia di un giuda, come spesso ancora accade in questo nostro Paese. E' la storia del concorso per l'assunzione dei precari nella scuola, più o meno trentamila da stabilizzare su sessantamila domande, uno su due forse ce la farà. Un concorso atteso e rimandato da anni. E che quando finalmente arriva, invece di farlo in estate, a scuole chiuse, si organizza in ottobre, con la scuola alle prese con i mille problemi della riapertura al tempo del Covid oltre a quelli di sempre: organici dimezzati, strutture e tecnologie inadeguate, classi pollaio. Con la didattica e gli studenti più penalizzati che mai. Nel bel mezzo della nuova emergenza pandemica. Ebbene, sapete come l'hanno organizzato? Il concorso si farà nelle scuole, non nelle fiere o in altre sedi esterne, creando così ulteriori problemi (i presidi dovranno gestire anche quella rogna non da poco col Covid). Ma non nelle scuole delle zone dove insegnano i precari che parteciperanno alla prova. No, le sedi per i concorrenti sono scelte per ordine alfabetico. Per esempio: in Emilia-Romagna quelli che hanno un cognome che comincia con A, B o C faranno l'esame a Modena, o a Parma, o in qualche sede sperduta dell'Appennino anche se insegnano a Rimini. E quelli che cominciano con la S, la T o la V lo faranno a Rimini, anche se insegnano a Piacenza o a Ferrara o sui monti sopra Bologna. Così decine di migliaia di insegnanti si dovranno spostare da un capo all'altro della regione, viaggiare semmai sui mezzi pubblici, dormire in un albergo, mangiare in un ristorante. Con i rischi che ci sono in questo periodo a spostarsi. Non solo. Se per un qualsiasi motivo qualcuno dei precari che rincorrono da anni il sogno della stabilizzazione si ammalerà, contrarrà il virus, o dovrà mettersi in quarantena perchè nella classe o nella scuola dove insegna c'è stato un caso positivo, e quindi non potrà partecipare al concorso, non è previsto che possa sostenere la prova in un altro momento. No, perderà l'occasione della vita. Senza possibilità d'appello. Sembra incredibile ma è così. Tanto che si annuncia già la corsa a mettersi in aspettativa (non retribuita) per essere al riparo da rischi standosene a casa fino alla data del consorso, mettendo così ancor più nei casini la scuola e soprattutto i ragazzi. No, non ce la possiamo fare Claudio Visani
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L'otto...
Tempo fa mi capitò durante una sera di marzo che una ragazza mi facesse un complimento un po' pesante e subito dopo mi desse il suo numero. Declinai l'offerta perché, le spiegai, se mi fossi comportato io con lei in quel modo certo non avrei fatto una bella figura (e ci mancherebbe) e sicuramente lei si sarebbe risentita molto, al posto mio.
Era una serata di marzo, dicevo, precisamente l'8 marzo. Quel giorno era diventato per quella ragazza (e non solo per lei, c'è da giurarci) "l'otto della vendetta" . Un giorno in cui comportarsi esattamente come i peggiori maschi.
Cosa spingesse lei ed altre donne a comportarsi in quel modo non saprei dirlo con esattezza. Immagino fosse solo un modo di prendersi una rivincita, in un certo senso, la vendetta, appunto.
Certo fu una lezione per me che così seppi davvero cosa prova una donna quando subisce avances non volute, non cercate e di sicuro volgari. Essere trattati come oggetti non piace, è innegabile.
Se dunque questo fanno le donne la sera dell'8 marzo, viene da chiedersi che senso abbia questo giorno, se non abbia più senso abolirlo. Dopotutto non serve a molto se tutto quello che vogliono fare le donne in questo giorno è andare a vedere uno spogliarello maschile o fare avances volgari tipo quella che ricevetti io.
Invece c'è bisogno della "Festa della Donna" oggi più che mai. C'è bisogno perché a parità di curriculum si tende ad assumere un uomo. C'è bisogno perché mediamente una donna è retribuita con un compenso inferiore rispetto a quello di un uomo. C'è bisogno perché si giudica una donna per il suo genere e non per le competenze. C'è bisogno perché una donna che è brava, precisa ed efficiente nel suo lavoro è una maestrina antipatica mentre un uomo è bravo, preparato e simpatico. C'è bisogno perché una donna che vuole fare sesso con un uomo conosciuto una sera è una troia, mentre un uomo che fa sesso la prima sera che esce con una donna è un maschio virile, uno stallone e un seduttore. C'è bisogno perché ancora la società odierna pretende che la donna scelga il ruolo che le impone il maschio. C'è bisogno perché oggi, per la Festa della Donna, gira un meme che dice: "In un mondo di Kardashian, sii una Marie Curie" che è pretendere di imporre le scelte a qualcuno in base al suo genere solo perché un certo pensiero presuppone che per una donna sia meglio un modello invece di un altro. C'è bisogno perché perfino nello sport vi è differenza tra uomini e donne. C'è bisogno perché per anni alle donne sono stati imposti certi modelli di fisico con danni a volte irreparabili. C'è bisogno perché per tanti uomini una donna è loro proprietà e dunque si sentono in diritto di abusare di loro, di brutalizzarle e di ucciderle. C'è bisogno perché il femminicidio purtroppo è una piaga dolorosa. C'è bisogno perché a quanti dicono "Sì, ma perché parliamo di donne? È più giusto parlare di umanità, non solo di donne" si deve rispondere che la parità di genere è una questione di umanità.
C'è bisogno perché la strada della parità, della lotta alle discriminazioni di genere è solo all'inizio.
C'è bisogno perché il femminismo spesso viene ridicolizzato.
C'è bisogno perché la strada è lunga.
C'è bisogno perché come esseri umani siamo tanto uomo quanto donna.
Cerchiamo di non dimenticarlo.
#donne#meravigliose creature#8 marzo#festa della donna#mimose per le donne#memento#oh se poi volete andare a vedere uno spogliarello maschile#fatelo ma pure altri giorni#l'otto della vendetta
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#leroedelgiorno per @Fanpage.it È morto Steven Babbi. Steven aveva 11 anni quando si è ammalato, sarcoma di Ewing. La sua storia è una lezione di civiltà e di gentilezza, al di là delle leggi: quando aveva consumato tutti i 180 giorni a disposizione per lottare contro la sua malattia i titolari dell'azienda in cui lavorava, Barbara Burioli e Rocco De Lucia, hanno deciso di farsi carico di una legge sbagliata che vorrebbe limitare il diritto di ammalarsi e hanno continuato a pagargli lo stipendio. Sì, lo so, viene naturale pensare che sia giusto pagare una persona in difficoltà ma le leggi italiane non la pensano così. E superare i diritti stabiliti per legge in Italia ti rende quasi eroico, pensa te, tanto che i due titolari dell'azienda sono stati nominati Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella "per la straordinaria prova di umana generosità e sensibilità a sostegno di un loro dipendente gravemente malato e privo della copertura previdenziale". Sulla pagina Facebook dell'azienda in cui lavorava Steven la sua morte si evolve subito in un impegno: "Lotteremo – scrivono dalla Siropack srl – anzi con ancor maggiore determinazione per tenere viva la Sua testimonianza e dare voce alla richiesta di escludere dal limite di 180 giorni di malattia retribuita annuale tutti i malati oncologici, per restituire a ciascun lavoratore quella dignità che Steven ha dimostrato fino alla fine, e per far sì che il nostro Paese destini più fondi alla ricerca, affinché i nostri malati possano avere una maggiore speranza di vita". Forse dovremmo avere il coraggio di dirci che in un mondo che funziona, in un mondo solidale e gentile, oltre al diritto alla cura dovrebbe esistere il diritto di essere compresi, ognuno con i suoi tempi e con le lunghezze delle sue fragilità. Come ci si prende cura di un malato misura la sanità sociale, oltre a quella ambulatoriale e ospedaliera. E chissà che la morte di Steven possa servire davvero a qualcosa. Si è davvero accoglienti quando si riesce ad abbracciare i fragili, tutti. Per tutto il tempo che serve. (l'articolo completo lo trovate come sempre tra i link in bio) https://www.instagram.com/p/B8oBX3pCzeg/?igshid=2rarnzqwcriy
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Petizione su Change.org sui contagi parentali in Italia
Bimbo Una situazione che è stata evidenziata in una petizione che è stata pubblòicata su Change.org: una donna e mammacrede che l’Italia stia facendo poco su maternità e congedo parentale. In Nord Europa il congedo parentale viene sostenuto attivamente per garantire stipendi dignitosi alle lavoratrici che necessitano di stare accanto ai loro figli nei primi anni di vita. In Italia questo non accade: si può scegliere di prolungare la maternità di 6 mesi percependo il 30% del proprio stipendio. Una soluzione che molte donne non possono sostenere perchè si tratta di cifre bassissime che non permettono di sostenersi. Per cui si chiede che l’Italia si adegui al resto d’Europa: le donne vogliono avere più tempo per stare accanto ai figli e un sostegno economico dignitoso che consente di vivere. Ecco il testo della petizione: "L’obiettivo di questa petizione è portare l’attenzione alla normativa sulla maternità e congedi parentali, migliorandola in termini di durata di mesi di astensione dal lavoro, quindi tempo maggiore da dedicare ai figli, e dignitosa retribuzione al fine di tutelare le famiglie e soprattutto i bisogni, il benessere e la salute dei bambini e dei loro genitori, intesi come investimento per la salute della collettività a breve, medio e lungo termine. Questa petizione nasce dalla riflessione di una madre mentre guardava, in una mattina qualunque, sua figlia di appena 3 mesi dormirle beatamente addosso, dopo una notte difficile trascorsa ad allattare ed accudire. Riflessione nata perché quella madre sarebbe dovuta rientrare al lavoro anziché rispondere ai bisogni della figlia. Secondo la normativa dello Stato Italiano una madre ha diritto a 5 mesi di astensione dal lavoro per la maternità obbligatoria retribuita all’80%. Se si è astenuta dal lavoro all’ottavo mese di gravidanza o al nono, dopo 3-4 mesi dal parto è previsto il rientro a lavoro da parte della madre, se vuole percepire uno stipendio dignitoso. Dignitoso perché se la lavoratrice madre lo desidera, ma soprattutto se può permetterselo economicamente, può usufruire del congedo parentale (Dlgs. n. 151/2001) in gergo la “maternità facoltativa”, retribuita al 30% per un totale di 6 mesi da sfruttare entro i primi 6 anni di vita del bambino (Considerato che nel 2020 lo stipendio medio in Italia è stato pari €1.605,30 netti al mese (su 13 mensilità), il 30% corrisponde a 481,59€, cifra che non consente, nella maggior parte dei casi, neanche di pagare in autonomia un mutuo o un affitto). Dopodiché, una lavoratrice madre è costretta a rientrare a lavoro avvalendosi fino all’anno di vita del diritto alla “riduzione” di orario per l’allattamento: 1 ora se le ore di lavoro sono inferiori a 6 al giorno, o di 2 ore se uguali o superiori alle 6 ore al giorno (come se i bambini avessero bisogno delle madri ad orario). Dal sito dell’INPS “Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativo dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali”. Pertanto, secondo lo Stato Italiano, i genitori lavoratori possono “prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfarne i bisogni affettivi e relazionali” entrando a lavoro entro i suoi 9/10 mesi di vita (sfruttando la maternità obbligatoria e tutti i mesi del congedo parentale) o prima se desiderano fruire di qualche settimana o mese del congedo entro i 6 anni del bambino, con una retribuzione pari al 30% dello stipendio, come si evince dalla normativa. Ciò che è stato sopra descritto riguarda la “realtà” delle lavoratrici dipendenti. Realtà tra virgolette, perché in troppi casi la madre lavoratrice si sente costretta a rinunciare al congedo parentale o alla riduzione di orario per paura del licenziamento, paure fondate su casi di mobbing all’interno dell’ambiente di lavoro da parte sia del datore che dei colleghi, dove la madre viene giudicata opportunista ed improduttiva.La realtà delle lavoratrici autonome è ben diversa; la disparità tra una lavoratrice dipendente e una autonoma è abissale in termini di tutela della maternità e del post partum. Per una lavoratrice autonoma la retribuzione della maternità, dove prevista, (versata profumatamente negli anni) viene incassata dopo molti mesi dalla data del parto, se in pari con i contributi da versare dell’anno in cui è stata fatta richiesta di maternità. Non sono previsti sconti, agevolazioni ne riduzioni ma solo un nome, un posto e dei clienti da mantenere. Quindi se una lavoratrice dipendente non può permettersi di vivere dignitosamente con il 30% del suo stipendio, deve tornare a lavoro a tre o quattro mesi di vita del figlio, barattando quasi lo stipendio per nido o babysitter mentre i più fortunati potranno lasciarlo a nonni, zii etc Ma soprattutto deve tornare a lavoro con la sensazione che le manchi un organo o un arto, con il cuore lacerato in due parti per aver lasciato il suo cucciolo d’uomo prematuramente: il legame simbiotico col bambino continua dopo il parto per altri nove mesi fuori dalla pancia (esogestazione) e in questo periodo la madre è messa a dura prova dai ritmi dell’accudimento (dolori estesi a tutto il corpo e stanchezza cronica). Come possiamo aspettarci che sia lucida e con la mente fresca per poter lavorare senza fare errori o danni? Chi ha fatto questa legge ha idea di come dorme una mamma (sia fisicamente che mentalmente) che accudisce un bambino? Ha idea del numero di risvegli che ha un bambino (per vari motivi - dentizione, scatto di crescita, regressione del sonno, malattie o fastidi, incubi, reazione vaccinale etc..)? Ha idea dell’innato bisogno di un bambino di stare con la sua mamma e viceversa? Ha presente il volto di un lattante di tre o quattro mesi di vita? È dimostrato scientificamente che i risvegli notturni sono fisiologici fino ai 3 anni, che l’allattamento al seno a richiesta è la norma biologica, raccomandato esclusivo fino ai 6 mesi, complementare fino a 12 mesi e fortemente consigliato fino ai due anni ed oltre (come suggerisce l’OMS), che l’accudimento ad alto contatto di giorno e di notte è salutare per l’autostima e la futura indipendenza del bambino, che i primi 1000 giorni di vita del bambino sono le fondamenta per il futuro adulto che sarà. Viviamo in un’era in cui, non sono solo idee, o buone intenzioni o istinto materno ma, sono le numerose ricerche scientifiche sviluppate da un’intera branca della psicologia dimostrano l’importanza dell’accudimento e della presenza del caregiver (madre, padre, o figura di riferimento primaria) sullo sviluppo dei processi cognitivi, psicologici, emotivi e relazionali del bambino. Per citarne solo alcuni dei piú importanti: il pioniere Bowlby con la teoria dell’attaccamento secondo la quale il bambino ha una predisposizione innata a instaurare un legame di attaccamento nei confronti della persona che piú si occupa di lui, legame che vede il caregiver come base sicura sulla quale costruire i modelli operativi interni relazionali che saranno la base di tutte le relazioni future; Ainsworth con la ricerca Strange Situation va a sottolineare come un attaccamento sicuro dato dalle cure amorevoli del caregiver predispone allo sviluppo del senso di fiducia del sé e nei confronti degli altri, della capacità di esplorazione e del consolidamento dell’ autonomia; Harlow con l’esperimento della mamma "dura" e quella "morbida" va ad indagare l’importanza del contatto fisico, del calore corpo a corpo, della presenza intesa in termini fisici della madre per soddisfare il bisogno di protezione e sicurezza; e ancora Lorenz; Spitz, Winnicot, Main, Fonagy. In generale quindi si parla di supporto allo sviluppo cognitivo, all’autonomia e all’indipendenza, alla formazione del Sé, alle capacità relazionali ed emotive ovvero tutto quello che rappresenterà il futuro Essere dei bambini. Inoltre vari aspetti sociali fanno si che il nucleo familiare ristretto si ritrovi a doversi occupare della crescita dei bambini quasi in completa autonomia senza alcun aiuto esterno: la comunità non ha più il ruolo di accogliere, contenere e sostenere le famiglie nella cura dei bambini e le famiglie appena formate ormai si allontanano dalla famiglia d’origine; in più con l’avanzare dell’età pensionabile i nonni ancora giovani sono impegnati con il lavoro e quelli in pensione spesso troppo anziani per riuscire ad occuparsi di bambini piccoli. Ma come può tutto questo conciliarsi con una mamma lavoratrice a tempo pieno? Poi ci chiediamo perché il numero dei nuovi nati nel Nostro Paese è in continua diminuzione. Ci chiediamo perché il numero medio di figli per ogni donna Italiana è 1.18 (dato del 2019), in continua diminuzione rispetto agli anni precedenti. Ci chiediamo perché l’età media in cui si fa un primo figlio aumenta sempre di più con conseguenze dannose sulla gravidanza, sul parto e sulla salute perinatale. Ci chiediamo perché il tasso di allattamento al seno esclusivo crolla drammaticamente dopo il quarto mese di vita (dato istat 2015). Ci chiediamo perché succede che vengono dimenticati i figli in macchina. Molte mamme vedono come unica soluzione il licenziamento, considerato che se avviene entro l’anno di vita del bambino si ha diritto alla disoccupazione, infatti il tasso di occupazione lavorativa femminile in Italia si aggira intorno al 50% (30% circa nelle isole e nell’Italia meridionale), dato nettamente inferiore alla media Europea. Dovremmo cercare la soluzione a queste realtà andando a monte del problema e non mettendo toppe. Ci dimentichiamo i figli in macchina? Ecco la legge sull’obbligo del sensore anti abbandono. Devo lavorare la mattina e quindi devo riposare bene? Sospendiamo l’allattamento al seno notturno a favore di un super biberon con latte adattato e biscotti e sicuramente il bambino dormirà tutta la notte. Devo lasciare mio figlio a quattro mesi? Inizio lo svezzamento precoce con prodotti baby food fortemente pubblicizzati ed ecco che può essere nutrito da chiunque. Mi sento stanca? Prendo delle vitamine. Mi sento frustrata e in colpa? Prendo uno stabilizzatore dell’umore. Le donne in Italia non fanno figli? Istituiamo il bonus bebè (800€ una tantum, un premio che dovrebbe incentivare a fare un un figlio). Il datore di lavoro non mette la lavoratrice madre nelle condizioni di conciliare maternità e lavoro? Ecco il diritto al licenziamento entro l’anno di Vita per avere diritto alla disoccupazione (come se una donna non avesse a cuore il suo specifico lavoro, tanto aspirato e sudato). Ci rivolgiamo a Lei Dottoressa Elena Bonetti, Ministro delle pari opportunità e dei diritti delle famiglie. Davvero queste sono le soluzioni che lo Stato propone? Noi, donne e uomini, madri, padri e non, non siamo più disposti ad accettare queste soluzioni. Vorremmo soluzioni che possano consentire alle madri e ai padri di scegliere quando rientrare a lavoro. Soluzioni che consentano di accompagnare i bambini durante i loro primi anni di vita nella formazione delle competenze sopra descritte, nel loro percorso di crescita e nella scoperta del loro Sé, delle loro potenzialità e delle loro attitudini. Soluzioni che appunto mirino a tutelare il benessere e i bisogni delle famiglie, intese come azioni di prevenzione, un’investimento per la salute della collettività a medio lungo termine; un bambino felice oggi sarà un adulto migliore domani (Convenzione ONU 1989). Chiediamo quindi che venga rivista la legge sulla maternità e sui congedi parentali, migliorandola in termini di durata dell’astensione dal lavoro e dignitosa retribuzione come accade in molti paesi del Nord Europa. Chiediamo che tutte le donne lavoratici, dipendenti e autonome, abbiano pari diritti e che vengano azzerate le disparità. Chiediamo che tutti i padri, dipendenti e autonomi, abbiano agevolazioni e maggior tempo per dedicarsi ai primi mesi di vita del figlio e alla collaborazione familiare. Le donne, madri lavoratrici, non devono più sentirsi costrette a licenziarsi per avere la possibilità di crescere il figlio. Non devono sentirsi giudicate come opportuniste, furbe, inaffidabili ed improduttive per astenersi temporaneamente dal lavoro. Non devono controllare la propria fertilità sulla base delle necessità aziendali, presunte o reali. Non devono rimandare o addirittura rinunciare al desiderio di diventare madre per paura di perdere il lavoro, lavoro che si sono faticosamente guadagnate negli anni. Non devono rinunciare al desiderio di maternità per paura di perdere clienti o per paura di non avere la possibilità economica di crescere un figlio. Pertanto, considerato quanto sopra detto e prendendo spunto da altri Paesi Europei, come gli apripista Paesi scandinavi (Norvegia, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca) e dal modello Spagnolo e Tedesco, proponiamo le seguenti soluzioni: - In merito alla tutela della maternità, chiediamo che ogni donna possa scegliere di astenersi dal lavoro, anche per i lavori non a rischio, durante il primo trimestre di gravidanza, oltre che negli ultimi 1/2 mesi come prevede la legge. Il primo trimestre di gravidanza non è spesso rosa e fiori; nausea, emesi e stanchezza sono nella maggior parte dei casi, i sintomi protagonisti in questi primi mesi portando la gravida a non avere abbastanza forze neanche per alzarsi dal letto. Inoltre l’embriogenesi, che avviene appunto nei primi tre mesi, è un fenomeno delicato e ogni donna dovrebbe avere il diritto di poter riposare, se lo desidera.- Chiediamo che il congedo parentale (facoltativo) venga esteso a 21 mesi così ripartiti: - I primi 9 mesi con retribuzione pari all’80% dello stipendio - I successivi 6 mesi , continuativi o frazionati, con retribuzione pari al 50% dello stipendio, fruibili entro i 36 mesi di vita del bambino, per chi lo desidera. - Altri 6 mesi , continuativi o frazionati, retribuiti al 50%, fruibili fino ai 12 anni del bambino - Chiediamo la possibilità del caregiver di richiedere la riduzione di orario fino ai 3 anni di vita del bambino, così da tutelare il benessere dei bambini nei loro primi anni ed agevolare i genitori nella gestione familiare. Inoltre chiediamo la possibilità di avere altri 6 mesi continuativi o frazionati, retribuiti al 50%, fruibili entro i 12 anni del bambino. - Chiediamo che il congedo parentale sia fruibile dalla madre o dal padre, alternativamente, in modo non trasferibile, così da smuovere le basi culturali sull’accudimento dei figli, e da abbattere le discriminazioni fra uomini e donne nell’ambiente di lavoro. Sostenere l’uguaglianza di genere in termini di diritti e doveri della genitorialità significa anche ridurre quel gap ancora troppo ampio che nel mondo del lavoro vede donne e uomini in due lati opposti della barricata. - Chiediamo l’estensione della paternità obbligatoria fino a 40 giorni post nascita, anziché 10 giorni come previsto dalla normativa vigente cosicché entrambi i genitori siano coinvolti nella cura del figlio sin dai primi giorni di vita. - Chiediamo che ciascun genitore, alternativamente, in modo non trasferibile e non cumulabile, possa chiedere l’astensione dal lavoro per malattia figlio senza limiti temporali fino ai 12 anni di vita del figlio con retribuzione piena. - Chiediamo che i diritti sopra citati siano indistintamente usufruibili sia per i lavoratori dipendenti che autonomi che versano regolarmente i contributi previdenziali nelle casse di appartenenza. Tutti i diritti citati si intendono anche in caso di adozione o affidamento a partire dall’entrata in famiglia del bambino. C’è un tempo per tutto. C’è tempo tutta un’intera vita per lavorare. I primi mesi e anni di vita di un bambino non tornano più. Dedicare un maggiore tempo alla crescita dei figli dovrebbe essere un diritto e una scelta possibile e attuabile dai genitori che lo desiderino. La ringraziamo per aver letto la nostra comune necessità e ci auspichiamo che possa accoglierla. Read the full article
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Denuncio tutti- Lea
Per quasi una settimana al Teatro Duse, nella città di Bari, è stato rappresentato lo spettacolo “Denuncio tutti -Lea” , scritto da Giovanni Gentile e interpretato da Barbara Grilli.
Il teatro Duse è piccolo , incurante del tempo che passa e delle mode che si aggiornano, si dedica piuttosto a un dolce decadimento , offrendo il suo palco scricchiolante ad attori coraggiosi. Non è casuale la scelta di questo aggettivo, anzi : il coraggio è la marca che definisce la protagonista della storia raccontata da Giovanni Gentile; chi lo segue, in poco tempo intuisce la sua dedizione nel rintracciare figure femminili scartate dalle narrazioni ufficiali. Al pari di un antiquario , armato di meticolosa curiosità, si mette sulle tracce di queste donne, raccoglie tutti i pezzi delle loro storie , soffia nei loro cuori la linfa vitale delle parole e le lascia parlare, perché lui sa che hanno molto da dire , proprio per questo qualcuno ha voluto farle tacere con la morte prematura.
La donna al centro di questo spettacolo è Lea Garofalo , più o meno nota, più o meno dimenticata. Prima di lei, la penna di Gentile si era posata su Palmina Martinelli , molto meno nota, decisamente più dimenticata. Eppure hanno tanto in comune: due donne con il coraggio di sognare, nate al Sud , in famiglie che non conoscono la mollezza degli affetti e che subiscono come condanne le secolari cattive abitudini delle generazioni precedenti , l’ancestrale duro dolore di un Mezzogiorno isolato e che al pari del teatro nel quale ci trovavamo, sembra indifferente al progresso , si lascia scalfire dal tempo e con fermezza non cambia, resta uguale. Entrambe si sono mostrate recalcitranti rispetto a quella staticità, per entrambe è stato fatale il tentativo di sfuggire alle sabbie mobili ; eppure profumano di vita i loro “No” , le loro battaglie , sono maleodoranti e atone quelle mani che hanno fatto di tutte pur di metterle a tacere. Fortunatamente si sono rivelati vani quegli ignobili gesti e Giovanni e Barbara ce lo sanno dimostrare.
LO SPETTACOLO
Sul palco sale una giovane donna , bella e ardente di passione, una cittadina cosciente che osserva curiosa la città che abita , ci apostrofa bonariamente , scuotendoci, e ci spinge ad accompagnarla, anche se forse sarebbe più corretto dire “ seguirla affannosamente”, mentre percorre a ritroso un labirinto che sbuca nel punto esatto dal quale siamo entrati. Non è importante l’identità di questa donna, non spende parole per parlare di sé, va controtendenza in un mondo di egomaniaci e si moltiplica, cambiando voce ed espressione, per far emergere ciò che per lei è importante e che è decisa a raccontarci. Dopo un accenno alla dichiarazione di colpevolezza rilasciata da Carlo Cosco, ex compagno e assassino di Lea Garofalo, le parole imboccano una strada all’apparenza secondaria o per nulla attinente: che genere di legame potrebbe esserci tra una donna uccisa dal proprio compagno, affiliato all’associazione mafiosa calabrese ‘ndrangheta, e gli innumerevoli supermercati che costellano le nostre città, con i loro scaffali pieni e le casse semivuote ? Dobbiamo considerare fisiologico per una società ricca l’eccedere dell’offerta di cibo rispetto alla domanda, o è piuttosto un elemento “cancerogeno”, sintomo di un male silente ma diffuso ?
L’uomo saggio , secondo l’ideale definito da Seneca e poi confermatosi in età umanistica, non prova meraviglia quando si imbatte negli eventi della vita, nulla coglie di sorpresa il suo animo imperscrutabile. Probabilmente si ricrederebbero quei saggi impassibili se si trovassero a passeggiare tra le strade delle nostre città , al fianco di automi che con sguardi spenti si dimenano in un vortice di blocchi di cemento e scansie proliferanti. Il monologo recitato da Barbara Grilli dipana i fili intricati del mondo criminale, intessuti ad arte con il benestare di chi non si faceva domande , non si meravigliava: allora, forse, andrebbe riabilitata la capacità di stupirsi , se capace di annientare il nocivo “mito della lontananza”; ho scelto questo nome per indicare il contemporaneo propagarsi dell’informazione e la percezione che ne deriva. In un mondo globalizzato che accorcia distanze e riduce differenze, si genera la contraddittoria convinzione che chi vive lontano dall'epicentro di un fenomeno , che sia criminale oppure no , è immune dalle conseguenze e soprattutto legittimato a sentirsi innocente. A confermare queste calde rassicurazioni ci sono gli schermi che fanno rimbalzare immagini cruente e tragiche, ma appunto, lontane. Attraverso l’etere si propaga l’ennesima fiction tutta tesa a fare grondare gli occhi di lacrime; una di queste ha avuto come protagonista Lea Garofalo, la cui storia è stata piegata purché entrasse nel classico quadretto melodrammatico che fa rimpiangere le vittime della mafia ma senza una riflessione , elemento necessario per comprendere: privato della comprensione il dolore resta superfluo , se non arido.
La risposta di Giovanni Gentile a questo stato di cose è una sceneggiatura, sapientemente scritta affinché nonostante il grande accumulo di dati possa scorrere dal palco a noi. Il suo interesse non consiste nell'esaltare ulteriormente una tragedia di per sé evidente, quanto spingere il suo pubblico a una comprensione dell’organicità del Mondo che ci circonda e in virtù della quale nonè possibile considerare il caso Garofalo , senza una previa analisi dell’’ndrangheta , le sue evoluzioni e relazioni, infine, il ruolo che avuto lo Stato italiano. Per un ‘ora e mezza non siamo stati comodamente seduti , ma in uno stato di tensione crescente , totalmente concentrati nell'apprendere che genere di chimera era quella affrontata da Lea Garofalo.
L’’ndrangheta a differenza dei tradizionali partiti che oggi stentano a rappresentare il nostro paese, è stata capace di intercettare i cambiamenti e mutare pelle. Memore della Storia, si è istituzionalizzata , prendendo a prestito la nomenclatura di un ‘altra istituzione , che le è stata prima diretta concorrente e poi subalterna: la Chiesa. Senza troppo scandalizzarci, infatti, abbiamo ascoltato dei rapporti tra chiesa e mafia, del ruolo di quest’ultima come punto di riferimento grazie al fatto che risulta vincente nel “dialogare” con l’unico Dio apparentemente esistente : il denaro. Gli introiti prodigiosi dei clan provengono dal traffico di droga e i calabresi ,che sanno apprezzare la globalizzazione, creano reti che dal Sud Italia raggiungono l’America e poi ritornano in Europa, dove in città civili come Milano , i salotti più lussuosi si imbiancano con polvere sporca del sangue di persone innocenti, costrette ad abbandonare i propri villaggi affinché la produzione di cocaina si estenda. E i famosi supermercati che la donna sul palco ci ha insistentemente menzionato ? La loro vera ragione d’essere, ci spiega, non è imboccare un quartiere sazio, ma far risalire dall'oltretomba il denaro sporco, dargli nuova vita: ecco che la narrazione religiosa e mafiosa si intrecciano ancora una volta, ecco il perché del diffondersi senza criterio di ipermercati.
L’edilità curule nella Roma repubblicana fungeva da trampolino di lancio per chiunque fosse deciso a conseguire la carriera politica e raggiungerne l’apice: essa infatti garantiva visibilità, sebbene ad un caro prezzo poiché nessuna magistratura era retribuita, quindi l’edile come ogni altro magistrato era costretto ad investire i propri soldi per adempiere ai suoi doveri. Tutto ciò comportava che fosse precluso a pochi possidenti il compito di edificare e organizzare feste pubbliche. Oggi l’edilizia, che se usata saggiamente funge da moltiplicatore con ottime ricadute sull’economia di un paese, risente ancora molto delle infiltrazioni mafiose: la costruzione di un edificio pubblico ha smesso di essere un atto evergetico e si è convertita in occasione di arricchimento. Una conversione non innocua al momento che ci porta a vivere in infrastrutture costruite molto spesso male o con materiali non a norma, ma soprattutto fa colare indiscriminatamente cemento sulla nostra terra, mutando stili di vita o più semplicemente paesaggi.
Solo quando abbiamo davvero coscienza di cosa sia l’”abbraccio” mafioso , che gioca a fare Dio definendo i confini entro i quali dobbiamo muoverci , quando possiamo non sentirci al sicuro se viviamo a Bari piuttosto che a Crotone, a Milano piuttosto che a Bari , perché il sistema mafioso non conosce miti delle lontananze, anzi accorcia distanze e annulla le differenze, esporta i suoi modelli e fa sì che attecchiscano ovunque: solo in quel momento possiamo conoscere la donna che ha denunciato tutti e che ha visto con i suoi stessi occhi come i fiori del male crescano in qualsiasi terra, rendendo vane le fughe.
Lea e l’idea di sé stessa
Fra le tante esperienze significative dell’esistenza di Lea c’è quella di madre. Sebbene cresciuta senza un modello degno di questo nome, giovanissima colse anche la sfida della maternità, dedicando la sua vita sbagliata a quella di Denise, affinché non si potessero mai assomigliare. L’essere madre come modo di definirsi ed esistere mi ha portato alla memoria un film struggente di Almodóvar, “Tutto su mia madre”. Una delle protagoniste del film , Agrado, costretta a improvvisare un monologo per un pubblico in attesa, decide di intrattenerlo con la narrazione sincera e smaliziata della sua esperienza di transessuale , o più precisamente di donna che realizza l’idea che ha di se stessa : il consiglio che rivolge all’uditorio femminile,quindi anche alle spettatrici del film, è di non essere pavide ma anzi spregiudicate nel rincorrere e realizzare chi pensiamo di essere.
Dalla storia della donna che ha ispirato “Denuncio tutti” , ho visto emergere lo stesso modo di intendere la femminilità, non come determinazione biologica o surrogato culturale, ma ricerca e costruzione di un modo di esserlo, pensato in totale libertà rispetto alle deformanti aspettative del mondo circostante. Lea Garofalo, incurante dei modelli femminili che si addicevano all’ambiente di Petilia Policastro, offriva agli occhi meravigliati di tutti lo spettacolo delle sue corse in motorino , si nutriva di innumerevoli libri e di musica : le sole cose capaci di dare l’illusione di una vita altrove e non in quella che tutti chiamavano realtà.
Fu la fedeltà a ideali così coraggiosi a spingerla nel rapporto coniugale con Carlo Cosco. Vani i tentativi del fratello nel dissuaderla , Floriano Garofalo a differenza della sorella era capace di subodorare il marcio , perché equivaleva a ritrovare una parte di sé negli altri; ma Lea era diversa, mai corrotta da quel mondo grazie a un fede cieca in quell’idea di sé, così pura e radiosa. Tra le pagine dei libri e i versi delle canzoni non erano seminati indizi che potessero metterla in guardia su come i fiori del male attecchiscano su qualsiasi suolo ,a prescindere dalla latitudine : le temperature esterne cambiano , ma anche al Nord quei fiori crescono creando celle simili a quelle di Petilia Policastro , con serrande costantemente abbassate e atmosfere tese all’inverosimile. In via Montello 6, l’indirizzo nel quale era collocata la succursale calabrese, Lea ritrovò gli stessi divieti alla spontaneità ; ciò che cambiava era che ad imporli fosse l’uomo che doveva garantire la rinascita piuttosto che percosse quotidiane.
Anche le idee sono fiori duri a morire, così fu quell’idea di donna che non si spegneva, anzi , maggiori erano le violenze, più calda si faceva la luce che illuminava un orizzonte , fatto di promesse da mantenere nei confronti della figlia Denise. A questo crocevia subentrò un’altra istituzione , lo Stato italiano , che con la sua ufficialità avrebbe dovuto assicurarle un posto al sole. Diventata testimone di giustizia , Lea con sommo rammarico scoprì di essere precipitata in un secondo cono d’ombra : privo di un vero pensiero programmatico , il programma di protezione oltre a un nome fittizio non le garantisce un tenore di vita migliore ; la rosa anche con un altro nome continua ad avere il medesimo odore, lo stesso stantio quella vita da reietta tra muri alti che ingombrano l’orizzonte. Sfinita dall'ennesimo sogno infranto , abbandonò i “privilegi” di collaboratrice di giustizia e fece ritorno a Petilia, un posto nel quale ,nonostante tutto, le cose coincidevano con il loro nome.
Tra metafore e allegoria
Sono due gli elementi metaforici sui quali vorrei soffermarmi , ritenendoli di vitale importanza.
Il primo parte dall’intelligente locandina che pubblicizza lo spettacolo : le sue forme e colori richiamano alla memoria di tutti le ore di noia salvate grazie a un tavolo e qualche amico. Il gioco del monopoli ideato da Giovanni Gentile ha però un aspetto un po' diverso, al posto delle classiche icone compaiono i protagonisti di storie di mafia: vittime e carnefici, uomini di giustizia e giornalisti. Al pari della nostra realtà, convivente del mondo criminale, questo gioco di società ha assi cartesiani precise: denaro ed edilizia, liquidità e cemento. D’altronde anche un’altra storia sulla criminalità organizzata, “Il Padrino”, ha per logo un gioco, quello delle marionette. In entrambi i casi viene sagacemente suggerito che siamo alla prese con una vita nella quale si deve scegliere tra il ruolo di burattino o tiratore di fili, pedina o giocatore.
Proprio come nel Monopoli lo spettacolo ritorna al “Via” del suo principio , nella sceneggiatura sono seminate incognite ma anche “probabilità “ di salti da una parte a un’altra del tabellone o meglio della storia. Ho considerato un salto nascosto la citazione dei “Promessi sposi” nel punto dello spettacolo in cui si racconta del fatale incontro tra Lea e Cosco: sono usate le stesse parole con le quali il Manzoni faceva intuire lo sciagurato destino che sarebbe spettato alla Monaca di Monza per quella simpatia maliziosa che mostrò ad Egidio. Gertrude come Lea è un personaggio forte, la cui insofferenza trapela dagli occhi inquieti e i riccioli scomposti. C’è anche un filo geografico che le lega: a Monza è stato fatto a pezzi e poi seppellito il cadavere di Lea Garofalo.
Il secondo momento metaforico è ,a mio giudizio, la descrizione del tragitto che si deve affrontare per raggiungere Petilia Policastro, un paesino arroccato tra le asperità montuose calabresi. La natura selvaggia ,che cresce rigogliosa lungo il percorso, assorbe i riferimenti spaziali e rende ogni punto identico al precedente, dando la sconfortevole sensazione di essere su una strada senza via di uscita. Altre emozioni che assalgono il guidatore, mentre si accorge del depotenziamento del motore che a stento ingrana le salite, sono il senso di spaesamento e solitudine : quasi si dimentica le ragioni che lo hanno spinto a raggiungere un paese che si direbbe non esistere. Probabilmente chi è venuto a stretto contatto con il Mondo Mafioso, per conoscerlo e studiarlo, ha dovuto affrontare i medesimi stati d’animo , una sensazione di perdita di identità nel muovere i primi passi su terreno alienante.
Infine un’allegoria che mi porterà a contraddire il saggio Seneca ancora una volta. La filosofia da lui predicata reputava fonte di infelicità due elementi ben precisi: la paura e la speranza. Credo che anche quest’ultima, al pari dello stupore, meriti un ritorno in auge , specie in quei luoghi dove fa da padrone il nemico del progresso. La speranza ha tenuto a lungo in vita Lea , l’ha fatta sopravvivere a quelle notti passate in giardino , a rullare sigarette , soppesando ogni rumore sospetto. È un’ allegoria della speranza il suo profilo sicuro, la figura snella seduta in giardino e che mentre fuma l’ennesima sigaretta forse pensa “a mano a mano , a poco a poco , può nascere un fiore nel nostro giardino”.
Grazie ad Atres Factory e al suo amore per la cultura.
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Di silenzio, ricerca di se stesso e superamento dei propri limiti vive un viaggiatore solitario, colui che affronta esperienze di viaggio forti e intense, anche dall’altra parte del mondo, per mettersi alla prova, per scoprire la vera essenza di un’avventura. Che poi, durante i mesi di quarantena, siamo tutti stati solitari, un po’ meno viaggiatori certo, nonostante la voglia di partire e di esplorare sia stata, in qualche modo, soddisfatta grazie ai tour virtuali e dalle esperienze online. Fatto sta che se avete retto bene la quarantena, e la solitudine “in vacanza” non vi spaventa, forse siete i candidati idonei per il nuovo progetto della Nasa. Siamo nella baia di Galveston, a pochi chilometri da Houston, dove ha sede il Lyndon B. Johnson Space Center, l’edificio del controllo delle missioni della Nasa, nonché centro di ricerca e preparazione per i voli spaziali con equipaggio umano. Ed è sempre qui che il nuovo programma spaziale americano sta prendendo vita, quello che prevede dei volontari disposti all’isolamento per mesi. Nello specifico, la Nasa è alla ricerca di persone che siano in grado di restare per 8 mesi, da soli, all’interno di una navicella spaziale laboratorio che però, resterà sempre sulla Terra, anche se, l’esperienza vissuta al suo interno, sarà da astronauta, dal cibo alla gravità. L’obiettivo del programma è presto detto, e ha a che fare con la psicologia e la solitudine. La Nasa infatti vuole studiare gli effetti del confinamento sulla mente umana a lungo termine. I dati raccolti da questa missione verranno analizzati dagli esperti per organizzare al meglio la preparazione futura degli astronauti che si cimenteranno in grandi e lunghe esplorazioni sulla Luna e su Marte. Il precedente equipaggio della missione terrestre Sirius è rimasto isolato nel modulo per quattro mesi, l’intenzione oggi è di raddoppiare il tempo per poi confrontare i dati emersi. Dallo Space Center assicurano che non ci sarà mai tempo per annoiarsi, ve la sentite di provare? L’esperienza sarà retribuita, con tanto di stipendio e indennità di vario livello, per candidarvi vi basterà andare sul sito della Nasa e vedere se avete i requisiti necessari per partecipare al programma. https://ift.tt/2Uvs8Ov Viaggiatore in solitaria? La Nasa cerca proprio te Di silenzio, ricerca di se stesso e superamento dei propri limiti vive un viaggiatore solitario, colui che affronta esperienze di viaggio forti e intense, anche dall’altra parte del mondo, per mettersi alla prova, per scoprire la vera essenza di un’avventura. Che poi, durante i mesi di quarantena, siamo tutti stati solitari, un po’ meno viaggiatori certo, nonostante la voglia di partire e di esplorare sia stata, in qualche modo, soddisfatta grazie ai tour virtuali e dalle esperienze online. Fatto sta che se avete retto bene la quarantena, e la solitudine “in vacanza” non vi spaventa, forse siete i candidati idonei per il nuovo progetto della Nasa. Siamo nella baia di Galveston, a pochi chilometri da Houston, dove ha sede il Lyndon B. Johnson Space Center, l’edificio del controllo delle missioni della Nasa, nonché centro di ricerca e preparazione per i voli spaziali con equipaggio umano. Ed è sempre qui che il nuovo programma spaziale americano sta prendendo vita, quello che prevede dei volontari disposti all’isolamento per mesi. Nello specifico, la Nasa è alla ricerca di persone che siano in grado di restare per 8 mesi, da soli, all’interno di una navicella spaziale laboratorio che però, resterà sempre sulla Terra, anche se, l’esperienza vissuta al suo interno, sarà da astronauta, dal cibo alla gravità. L’obiettivo del programma è presto detto, e ha a che fare con la psicologia e la solitudine. La Nasa infatti vuole studiare gli effetti del confinamento sulla mente umana a lungo termine. I dati raccolti da questa missione verranno analizzati dagli esperti per organizzare al meglio la preparazione futura degli astronauti che si cimenteranno in grandi e lunghe esplorazioni sulla Luna e su Marte. Il precedente equipaggio della missione terrestre Sirius è rimasto isolato nel modulo per quattro mesi, l’intenzione oggi è di raddoppiare il tempo per poi confrontare i dati emersi. Dallo Space Center assicurano che non ci sarà mai tempo per annoiarsi, ve la sentite di provare? L’esperienza sarà retribuita, con tanto di stipendio e indennità di vario livello, per candidarvi vi basterà andare sul sito della Nasa e vedere se avete i requisiti necessari per partecipare al programma. Se ti piace viaggiare da solo, e l’isolamento non ti spaventa, puoi candidarti per la prossima missione spaziale della Nasa.
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