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"A che i poeti nei tempi bui?": Poesia contro la guerra presentata a Palermo
Un’antologia per la pace e la consapevolezza. Lunedì 6 gennaio 2025, alle ore 17:00, presso il Laboratorio Andrea Ballarò di Palermo (Largo Rodrigo Pantaleone, 9), si terrà la presentazione dell'antologia "A che i poeti nei tempi bui? - Versi di oggi cont
Un’antologia per la pace e la consapevolezza. Lunedì 6 gennaio 2025, alle ore 17:00, presso il Laboratorio Andrea Ballarò di Palermo (Largo Rodrigo Pantaleone, 9), si terrà la presentazione dell’antologia “A che i poeti nei tempi bui? – Versi di oggi contro la guerra”, edita da Navarra Editore. L’evento vedrà la partecipazione delle curatrici Antonella Chinnici, Alessandra Colonna Romano e…
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Quando Allen Ginsberg disse a Gianni Milano: “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il Beat è morto”. Storia degli “angeli fo**uti” della beat generation de’ noantri
Anche il disordine è arte, la dissipazione un delirio estetico, precipitare nell’iride crudele di un verso, infiammarsi nell’effimero. Dei Beat sappiamo tutto o quasi: il fenomeno letterario – che poi divenne ‘sociale’ e stabilmente ‘pubblicitario’ – che ha per paladini – nella difformità degli esiti estetici – Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, esplose con la pubblicazione di On the Road. In Italia, fu ‘Nanda’ Pivano a divulgare il verbo Beat; eppure, c’è stato un fenomeno del tutto nostrano, quasi alieno agli Usa, di alienati dalla società, di poeti alieni, di “randagi agnelli angeli fottuti” – così un ‘manifesto’ del 1967 firmato da Gianni Ohm alias Gianni De Martino – le cui “coordinate letterarie… erano state Pavese, Fenoglio, Sartre, Céline, Joyce” (Francesco Tabarelli), prima di subire l’ipnotico, lisergico fascino dei beatnik. Gianni Milano fu uno dei cavalieri della beat generation de’ noantri, ed è emblematico il suo aneddoto: quando incrociò Allen Ginsberg, il guru di Howl gli urlò in faccia, “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il beat è morto”. Alessandro Manca – studioso che si è formato su Pier Vittorio Tondelli – ha curato un repertorio molto interessante sulla “beat generation italiana”, I figli dello stupore (Edizioni Sirio, 2018; con film di Francesco Tabarelli in allegato), che finalmente mette in ordine un movimento disordinato di cui molto s’è detto, poco si sa e che fu storicamente annientato dal magma del Sessantotto. Alfonso Gatto li guardava con simpatia (“I beats hanno, quasi tutti, occhi chiari e fieri, cercano l’essere dal parere… Io li rispetto: è un fenomeno che ha dato e darà vita a nuovi erranti, a nuovi necessari errori”), e con inattuale simpatia vanno letti i proclami politici espressi attraverso la rivista ‘dis-organica’ Mondo Beat, pregni di una radicalità e ingenuità spesso salutare (“Votare significa scegliere le etichette intercambiabili… tutto è sempre uguale, perché tutti in fondo rappresentano un padrone”, scrive Agor nel 1966, e dire che ha visto giusto è tautologia). A chi s’interessa di fatti letterari più che ‘storici’ – eppure, che bello il mito ricorrente di una vita sotto le stimmate della poesia, nei sotterranei, di un mondo stigmatizzato dal bello, dalla rapinosa, a volte tragica, rinuncia a tutto – sorprende vedere – ad esempio, nel poema Guru di Gianni Milano – certi stilemi che furono di Piero Jahier e di Giovanni Boine, oppure quella trasandatezza lirica, da ‘anti-’ costanti, che fu degli Scapigliati. Di certi testi che sono puro ‘gesto’ – ad esempio, Is di Vincenzo Parrella, una sfilza di parole sincopate – non resta che la testimonianza di un tempo perduto, altri, invece, risuonano ancora oggi, e andrebbero ripescati (più che l’istintuale Eros Alesi, benvoluto da Antonio Porta, alfiere di “un contatto che si fonda sulla verità”, come scrisse Giuseppe Pontiggia, che si uccide neppure ventenne nel 1971, sigillando per sempre l’esperienza beat nostrana, va letto il romanzo psichedelico di Andrea d’Anna, Il Paradiso delle Uri, che passò per Feltrinelli nel 1967). Gli ‘angeli della desolazione’ di casa nostra, straccioni Rimbaud, metropolitani Siddharta, furono stritolati dai vezzi intellettuali del Gruppo 63 e dalla retorica preconfezionata della letteratura ‘d’impegno’, politicizzata. Anche in questo fallimento sta la differenza con gli Usa: qui da noi i ‘ribelli’ radicali non hanno via. D’altronde, in Italia, siamo abituati al triclino mica all’autostop. (d.b.)
Intanto: quanto dura il fenomeno del ‘beat’ italiano, intorno a quali riviste e autori, sotto quale magistero o ispirazione?
Il ‘beat’ nostrano si materializza negli anni dal 1965 alla fine del 1967. Come ricorda in un’intervista con Luigi Bairo uno dei ‘papà’ di quel fenomeno, il poeta e pedagogista Gianni Milano (classe1938), a partire dal 1965, gruppi di giovani della marginalità metropolitana, si ritrovarono nei parchi, nei giardini pubblici, nelle metropolitane delle principali città italiane. Li univa non la conoscenza della scena americana o una qualche ideologia specifica, quanto l’asfissìa per il sistema di vita nostrano, il desiderio di verità, di espressione, di pace, l’antimilitarismo, il rifiuto del consumismo e delle mode, l’anarchismo. La parola d’ordine di quegli anni fu ‘Non contate su di noi’. E la stessa cosa avveniva a Milano, a Torino a Genova, a Lucca, a Firenze, a Roma. E anche in provincia, come a Monza e a Cinisello Balsamo, per fare due esempi lombardi. Furono tempi di capelli lunghi e minigonne, di letture poetiche in pubblico fischiate e minacciate da lancio di ortaggi, di fame viscerale, di fughe da casa di minorenni innamorati, di comunità povere ed estasiate. Anni in cui lo scrivere e il fondare riviste e fanzine fu visceralmente legato alla possibilità e alla speranza di ambire a nuove fratellanze, al conoscersi nel magma delle profondità e da condizioni iniziali di grande solitudine ed emarginazione sociale.
In quell’Italia – ricorda Milano – si viveva in un bolla illusoria ed illudente: la chiamavano ‘boom economico’ che riguardava, come sempre, i soliti e non coloro che più ne avrebbero avuto bisogno. Vero è che le merci giravano e il loro acquisto diveniva uno status symbol ma altrettanto vero è che questo non ampliava l’area di auto-liberazione ed emancipazione. I “più” divenivano “clienti” e consolidavano un sistema repressivo-paternalistico con la benedizione del Vaticano, a volte sornione, a volte corrucciato. Insomma: si era, in Italia, come ranocchie in uno stagno, senza grandi visioni, senza ampi respiri culturali e politici. Mancava, insomma, la percezione della vita come esistenza irripetibile e si preferiva recitare, male, il paludoso dramma d’una rivoluzione abortita nel “tutti a casa”. Anche le contestazioni, in Italia, scivolavano lungo canovacci già praticati: quasi si temeva di volare. Il moralismo, poi, che annichiliva in una burletta il senso dell’etica, ungeva i giorni. Si pativa la mancanza di “vere” prospettive e di vere domande. Alcuni – inizialmente non molti – non si trovavano a casa in questo orizzonte e l’unica possibilità, faticosa e pericolosa, era nuotare controcorrente, tagliandosi fuori dallo stagno dei ranocchi.
In questi ragazzi si mescolava a un’insoddisfazione politica e sociale una passione per la letteratura, organizzavano reading pubblici, fondavano club e si dedicavano a pubblicazioni che andavano dai semplici ciclostilati a riviste più strutturate. Per quanto riguarda le pubblicazioni si possono ricordare le poesie di Poppi Ranchetti, curatore del periodico ‘I lunghi piedi dell’uomo’, il romanzo di Silla Ferradini ‘I fiori chiari’ che racconta la Milano beat, il poeta Aldo Piromalli, poi migrato verso la scena alternativa di Amsterdam e il poeta con iniziale base a Roma Carlo Silvestro. Forse tra le numerose pubblicazioni periodiche di quegli anni, la più nota è ‘Mondo Beat’, pubblicata tra il 1966 e il 1967, rivista che non fu esclusivamente dedicata alla letteratura, bensì anche alla politica e alle questioni sociali. A causa di un articolo «sull’adulterio maschile e femminile», la rivista fu ostracizzata dal Vaticano e sequestrata dalla polizia. In un manifesto redatto insieme a un’altra organizzazione controculturale, ‘Onda Verde’, la redazione invocava libertà sessuale, obiezione di coscienza contro la leva militare e «la libertà di divorziare». Non c’è da stupirsi se le istituzioni furono immediatamente allertate e, dopo l’ennesimo sequestro, la rivista chiuse i battenti (cf. De Martino, Grispigni 1997). Pur non occupandosi solo di poesia, altre riviste dichiaravano nel titolo la filiazione diretta con il poema di Ginsberg, ovvero ‘Urlo Beat’ e ‘Grido Beat’. Anche l’esperienza lucchese fu significativa, con due riviste come ‘Esperienza 2’ (numero unico, 1967) e ‘Noi la pensiamo così… e via’ (numero unico, 1967). In quegli anni fu attiva anche la casa editrice Pitecantropus di Torino, da considerarsi come il primo esperimento editoriale di poesia dal basso e di matrice ‘beat’, tra gli altri libri di poesia portò alla luce ‘Guru’ (1967) e ‘Prana’ (1969) di Gianni Milano, ‘Comprami’ (1967) di Antonio Russo, ‘Illuminazione’ di Paolo Cerrato e ‘Qzearas’ (1969) di Piergianni Curti. La stessa Pivano lavorò a un periodico in collaborazione con Ginsberg. Intitolato ‘Pianeta Fresco’. Ebbe vita breve (chiuse dopo due numeri), ma segnò un alto livello di originalità artistica ed è un significativo prodotto delle fertilizzazioni transculturali dell’epoca. ‘Pianeta Fresco’ segnò un apice delle attività di stampa alternativa in Italia direttamente collegate alla Beat Generation. Ma fu una rivista elitaria e non a buon mercato.
Allen Ginsberg con Gianni Milano
Poi: che rapporti ci sono con i beat americani, da cui tu segnali comunque, una distanza?
In Italia, la traduzione e la diffusione della letteratura Beat si deve principalmente a Fernanda Pivano, alla quale la Mondadori chiese, nel 1957, un parere sull’opportunità di pubblicare in traduzione ‘On the Road’ di Kerouac. La sua risposta affermativa fu il primo passo verso un impegno a contrastare l’ostilità che, come lei stessa ribadì, percepiva negli operatori culturali italiani dell’epoca. Mentre quotidiani e rotocalchi presentavano i Beat in un misto di sensazionalismo e curiosità pruriginosa condita di droga e sesso, la Pivano tentava di rivolgersi direttamente a un pubblico intellettuale. Detto ciò non andrebbe dimenticato che la Beat Generation fu a lungo percepita in Italia come fenomeno sociale e in quanto tale si prestò da una parte alle forze dell’ordine e all’establishment in generale come facile etichetta nei confronti dei giovani ribelli degli anni ’60. A dire il vero alcuni ragazzi non li avevano nemmeno letti inizialmente, i beat americani, e ciò rende tutta la vicenda probabilmente ancora più interessante e non smaccatamente derivativa. Altri invece furono spinti dalla lettura del primo Kerouac, dal primo Ginsberg e dal volume ‘Poesia degli Ultimi Americani’ curato sempre da Fernanda Pivano (Feltrinelli, 1964). Gianni Milano ha ricordato spesso come il ruolo di ‘Nanda’ Pivano fu decisivo. Lei, con la sua cocciutaggine, senso della bellezza e amabilità, riuscì a introdurre nell’orto letterario italiano queste esotiche ed esuberanti, irriverenti ed oscene piante d’oltreoceano. Ma l’effetto non fu immediato. Gianni Milano mi raccontò di quando Ginsberg venne in Italia nell’autunno del ’67 in occasione dell’uscita del primo numero di ‘Pianeta Fresco’ (dicembre ‘67) e lui ebbe modo di incontrarlo il poeta americano gli disse: “Mi fate tenerezza, siete i nostri nipotini, ma il beat è morto”.
Inoltre: come mai sfinisce, finisce il ‘beat’ italiano, travolto, scrivi, dal Sessantotto. Che idea estetica propugnava quel movimento in relazione, per dire, al Gruppo 63, o alla pamphlettistica ‘politica’.
Nel documentario curato dal regista Francesco Tabarelli e prodotto dalla Sirio Films, che è allegato al volume di ricerca di cui mi sono occupato, l’editore Marcello Baraghini (Stampa Alternativa, Strade Bianche) e Gianni Milano ricostruiscono con brevi ma acutissimi pensieri proprio il rapporto tra i beat e i sessantottini: il movimento studentesco si muoveva su linee prevedibili, rigide e confessionali, era figlio di una società che stabiliva rapporti con i suoi membri a muso duro. Repressione, illusione, mistificazione, conformismo. I giovani di cui ho approfondito la parabola poetica fecero scelte, a volte ingenue e pericolose, di totale rifiuto dell’allora nascente Villaggio globale, miravano a divenire santi. Parevano alieni, erano visti come matti, derisi, perseguitati, rinchiusi nelle patrie galere, processati, giovani che avevano come soprannome Scheletrino, Saigon, Ombra e non possedevano che la loro vita. Gianni Milano ricorda anche come, non essendo missionario, il cosiddetto “movimento beat” visse della sua vita, per tutto il tempo possibile tra un respiro e l’altro, tra un digiuno e l’altro, tra un foglio di via e l’altro, straccione, e povero. Se non è del tutto morto è perché era ricerca. Quei ragazzi ruppero il guscio d’una realtà ch’era sempre stata presente, ma non la si era voluta vedere, indagare. Nel momento in cui si superò la separazione e si rigenerò l’unità di pensiero, di visione e di azione, ebbe inizio la diaspora. Quel movimento – se di movimento vero e proprio si può parlare – fu, di fatto una terza via alla poesia, ponendosi al di là della linea tradizionale (vedi i vari Montale) e della via iper-intellettuale dei neoavanguardisti. Non vi furono contatti significativi tra questi percorsi. Furono anni di relazione con la politica, intesa però non come partitica, ma come Vita, bensì di aperture e lacerazioni esistenziali. Una grande parte di quei ragazzi scrittori erano scappati di casa, avevano abbandonato Chiesa, partiti e istituzioni che consideravano morte o insensate, anche la famiglia fu tra queste.
Infine: quali sono le personalità artistiche di maggior spicco secondo te, e che senso ha riesumarle oggi. Intendo, oltre a un senso immediatamente storico (e forse nostalgico) c’è anche un significato estetico, di fatti letterari da recuperare e far risorgere?
Ti faccio tre nomi: Gianni Milano, Andrea d’Anna ed Eros Alesi. Gianni Milano con il suo poemetto psichedelico ‘Uomo Nudo’, scritto nel ’66, con dedica ‘alla storia del movimento’ e pubblicato per la prima volta nel ’74. La scrittura di Milano è erede delle migliori intuizioni visionarie e stilistiche di Allen Ginsberg: “uomo nudo / esclamazione del cielo che in principio era il Verbo / tu disceso dall’albero con la banana in culo ed un gettone / ansioso da infilare nel vuoto tu scala di caverne pulsanti / d’infiniti anfiteatri di sangue terapie sotterranee / di veicoli impazziti grande ululato caos di sangue (…)”. Andrea d’Anna ha scritto il capolavoro della nostra ‘beat generation’: il romanzo ‘Il Paradiso delle Urì’ (Feltrinelli, 1967). Libro praticamente introvabile e probabilmente l’unico romanzo genuinamente psichedelico della nostra tradizione letteraria. D’Anna, fu poeta e traduttore che prese parte alla scena beat milanese e collaborò alla rivista ‘Pianeta Fresco’. Tradusse ‘Tarantula’ di Bob Dylan e ‘Arte Psichedelica’ di Robert E. L. Masters e Jean Houston; e poi vari libri di canzoni di Peter Tosh; ha tradotto ‘Vita ed arte di veggente’ di Francoise Robin; e soprattutto ‘LSD: la droga che dilata la coscienza’ di David Solomon. Il romanzo ‘Il Paradiso delle Urì’ fu scritto da febbraio a luglio del 1966 tra Verona, Formentera e il Marocco, D’Anna scrisse: “Non saprei proprio come definirlo. È un romanzo autobiografico, psichedelico, di fantareligione? So solo che l’ho scritto perché dovevo scriverlo”. Gianmaria Rizzardi afferma: “Il Paradiso delle Urì, scritto sotto l’effetto delle sostanze allucinogene, è un atto d’amore per l’Africa e il suo crogiolo di razze, culture e religioni”. Il romanzo ebbe l’introduzione di Fernanda Pivano. Eros Alesi: di lui il critico Manacorda scrisse: “Le sue poesie sono preghiere. Forse le uniche preghiere laiche della letteratura italiana degli ultimi decenni”. Alesi, è uno di quei ragazzi che rimase ragazzo, infatti morì a soli 19 anni, ‘volando’ come Icaro verso l’Assoluto, ci ha lasciato un testamento di poche pagine ma di tale forza e intensità da provocare in chi lo legge un turbamento profondo, quasi un’esperienza di “viaggio mistico”. Per i tipi di Stampa Alternativa si può rintracciare il libretto ‘Che Puff’, che però ebbe un percorso difficile. Il nome di Alesi vide per la prima volta la luce in una pubblicazione nel 1973, quando fu inserito all’interno di “Almanacco dello specchio”, rivista di letteratura allora pubblicata da Mondadori. Stroncato da Pier Paolo Pasolini (“Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli”), fece di nuovo capolino sei anni più tardi tra le pagine dell’antologia ‘Poesia degli Anni Settanta’, curata da Antonio Porta con prefazione di Enzo Siciliano (Feltrinelli, 1979). Marcello Baraghini di Stampa Alternativa, come accennavo, ha diffuso recentemente questo scritto – nella collana Millelire – intitolandolo ‘Che Puff – Il profumo del mondo’ (2015). È il racconto poetico on the road di un giovane ribelle dei primi anni ‘70, quando una generazione invase le strade in corteo, in coppia, da soli, conquistando, senza chiedere il permesso al potere degli adulti padri e padroni, il diritto di parola e di canto. Marco Lodoli, recensendo il volumetto ricordò come “Il 31 gennaio del 1971, Eros Alesi si lascia cadere dal muraglione del Muro Torto: era tossicodipendente, sbandato, confuso, viveva nelle grotte di Villa Borghese insieme ad altre anime perse, ed era un vero poeta”. Eros, attraverso una sorta di diario lirico, “racconta e canta la sua vita estrema. Racconta i suoi viaggi in Oriente sulla rotta dell’eroina, i suoi ricoveri negli ospedali psichiatrici, le amicizie, il percorso sempre più trafelato verso il nulla”. Possiamo dunque ora rileggere quella sua lunga lettera-poema al padre, ex fantino alcolista, odiato e amato, “che è un grido indimenticabile, una pagina che deve trovare posto nella letteratura italiana. Alesi è stato veramente un angelo caduto sul selciato della vita, un’anima pura distrutta dalla smania di trovare un senso alla propria disperata esistenza. Costa solo un euro questo libretto curato con affetto da Enzo Lavagnini: contiene una storia che fa male, ma che dobbiamo conoscere”. Giuseppe Catani sottolinea le “tracce di Allen Ginsberg, di Arthur Rimbaud, di scrittura automatica, tracce di una vita intensa, vissuta con la foga di un ragazzo anticonformista e visionario”. Eros Alesi conobbe bene la forza di impatti, i richiami alla droga e all’autodistruzione, le urla liberatorie, l’invito a cogliere (e bruciare) ogni attimo di vita, la realtà che non esiste. Tutti questi sono gli elementi di una poetica presa a schiaffi da un ritmo incalzante, percorso da invettive feroci come da improvvisi momenti di tenerezza.
Oggi a tuo avviso esistono dei ‘beat’, e cosa significa essere ‘beat’, forse cugini eccitati degli scapigliati di metà Ottocento?
No, filologicamente disquisendo oggi non ci sono beat. Facendo mie le parole introduttive di un’intervista fatta al poeta Gianni Milano (da Luigi Bairo), come ho ricordato, uno dei ‘papà’ di quel ‘movimento’, credo che si parli spesso, “troppo spesso di Beat. Se ne parla e straparla da molte parti, soprattutto di questi tempi babbei in cui rivive superficialmente il modo di vestire e di suonare degli anni sessanta. Si sa. Così procede la macchina del business, che nulla sa inventare, ma solo riesumare e riciclare le culture passate, riproponendole nella loro più fatua esteriorità, dopo che queste sono state opportunamente sterilizzate, come in un vaccino, di ogni contenuto eversivo, destabilizzante”. Il termine beat risale all’incirca al 1955, ed era un modo di dire musicale, jazzistico. Indicava la battuta, il ritmo. Fu Kerouac che con un istrionismo intenzionale volle tradurre la parola come una sincope di beatus. Essenzialmente fu un movimento furtivo, metropolitano e notturno, che coltivava la depressione, ma anche l’entusiasmo esibiva con orgoglio il proprio anticonformismo e la propria agitazione, aveva abolito il sonno, era terrorizzato dalla possibilità di un olocausto nucleare. Con questa mia ricerca che si è concretizzata nel volume ‘I figli dello stupore. La beat generation italiana’ ho scoperto che anche nel nostro paese, e stiamo parlando di un periodo precedente al ’68, vi furono dei ragazzi che provarono a superare con un sol balzo la frontiera che separa il desiderio dall’azione. Un ultimo aneddoto: Gianni Milano ricorda che, nell’inverno del 1966, quando fu invitato da Fernanda Pivano a Milano, lesse, sui muri della Metropolitana di Cordusio, ‘W i veri beat’. Era la fine. Anche tra i ‘capelloni’ era arrivato il virus del confronto, della competizione, del modello. Era ora di morire per rinascere. Alcuni di quei ragazzi non arrivarono all’età adulta. Nel Giardino dei Randagi ci sono le loro tombe.
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Farsi da parte Una difesa del pensiero solitario. Giorgio Fontana è scrittore, sceneggiatore, giornalista nato a Saronno nel 1981, cresciuto a Caronno Pertusella, vive a Milano. Con Morte di un uomo felice (Sellerio) ha vinto il Premio Campiello 2014. Il suo ultimo romanzo è Un solo paradiso (Sellerio). Share 1622 Share H ai firmato l’appello? Hai condiviso la petizione? Hai letto il tal libro e l’hai commentato? Perché non fai parte di quel gruppo? Perché non sei venuto a questa presentazione? Hai saputo di questo e quello? Credi forse di essere migliore di noi? Pensi ti faccia bene? Non sai che si cresce solo con il reciproco confronto?” Tutto questo genere di domande — a volte peregrine, a volte in buona fede — tradisce un equivoco che credo sia bene dissipare; non fosse che ne sono stato protagonista più di una volta. È l’equivoco seguente: lo scrittore deve, forzatamente, far parte di una comunità qualsiasi; e soprattutto deve intervenire, essere presente, dar battaglia quotidiana. Esserci, su carta e sul web. Altrimenti è sospetto, o tacciabile di snobismo e menefreghismo. Ho qualche obiezione da muovere — con la premessa che in nessun caso vorrei passare per menefreghista, o peggio ancora elitario. Io la penso così. Lo scrittore non deve coltivare solo un orrore assoluto per il potere, ma anche un minimo distacco nei confronti delle formazioni fraterne. Deve militare di sghembo, per non farsi irretire nell’impulso maggioritario che anima anche la migliore minoranza. Deve costringersi a una certa solitudine, sempre e comunque, al fine di evitare qualunque ricatto esteriore o interiore, qualsiasi cedimento di coscienza di fronte a rapporti che inevitabilmente si sedimentano: stima, rispetto e amicizia che possono essere dovute anche a chi discorda con noi. Ora tutto questo viene scambiato, in genere, come un rifiuto dell’impegno. L’antico elogio della turris eburnea è un esempio perfetto dell’individualismo che i padri ci rimproverano. Ecco, io invece rivendico il diritto dell’artista, del filosofo, del poeta, del pensatore, dell’intellettuale, a tacere se crede e a salvaguardare il proprio isolamento. Non per disimpegno, semmai l’opposto: per pensare in modo isolato e offrire ai compagni di percorso delle riflessioni esterne, che possano aiutare a capire meglio come e dove muoversi, o dove fermarsi. Pensare in modo incondizionato, più integro, meno affetto dalla continua verifica — che poi è solo desiderio di continua conferma — offerta dal mondo in cui viviamo: un altro pollice alzato, un’altra stellina sulla mia frase icastica. Intendiamoci: non voglio proporre alcun vangelo disconnessionista, né sollecitare a uscire in massa dai social network. È un’idiozia. Ciò che importa invece è ricordare un’etica di base del lavoro individuale — perché questo è scrivere: imparare a stare da soli in una stanza vuota — e insieme difendersi da tutte le sirene, anche e soprattutto quelle che non promettono soldi o potere, bensì la più diffusa merce della soddisfazione dell’ego: un coro di amici sempre pronti a dare ragione, una comunità d’intenti, persino un contropotere (che pur potere rimane). Certo è faticoso riconoscere questo genere di impunità, quando si presenta, e stanarla. Se scrivo questo pezzo è proprio perché, come tutti, indulgo in errori e mancanze. Inoltre anche lo scrittore più indipendente, autonomo e disinteressato fa comunque parte di un gruppo sociale, di una classe, di un cerchio di affetti comuni. Sarebbe disumano il contrario: il solitario a oltranza è tendenzialmente un individuo che pensa di avere sempre ragione e rifiuta il dialogo così come qualsiasi mediazione o compromesso. Al riguardo ebbe parole definitive Camus, nell’Uomo in rivolta: Platone ha ragione contro Mosè e Nietzsche. Il dialogo ad altezza d’uomo costa meno caro del vangelo delle religioni totalitarie, monologato e dettato dall’alto di una montagna solitaria. Sulla scena come nella realtà, il monologo precede la morte. Sì, il monologo precede la morte: ma non è affatto una figura del genere che ho in mente. Niente santoni, niente profeti — soltanto il riconoscimento di un limite esplicito, per quanto rinegoziabile: arriva un punto in cui occorre disertare e tornare allo spazio solitario della scrivania. Rifiutare gli incarichi, rifiutarsi di rappresentare altri, rifiutarsi di giocare il gioco che porta l’intellettuale a diventare il capo o l’interprete di qualcun altro (soprattutto se questo “qualcun altro” sembra desiderarlo). Conviene forse rileggere quanto scrisse Erwin Panofksy nella sua Difesa della torre d’avorio (ripubblicata da il Mulino nel dicembre 2016). Il grande storico dell’arte osserva che il termine “combina in sé il marchio dell’isolamento egocentrico (a causa della torre) con quelli dello snobismo (a causa dell’avorio) e di una trasognata inefficienza (a causa di entrambe)”. Ma aggiunge che “la torre dell’isolamento, la torre della ‘beatitudine egoistica’, la torre della meditazione — questa torre è anche una torre di guardia. Ogni qualvolta l’occupante avverta un pericolo per la vita o la libertà, ha l’opportunità, o anche il dovere, non solo di segnalare ‘lungo la linea da cima a cima’, ma anche di gridare, nella flebile speranza di essere ascoltato, a quelli che stanno a terra”. Dove la parola chiave, naturalmente, è dovere: un dovere facile da disattendere, e che può essere ancor più facilmente preso in giro e scambiato per inutile retorica. Ma proprio per questo tanto attuale. Di nuovo, ciò non significa sdegnare la realtà; né pensare che la ricerca del vero e del giusto passi soltanto per una via eremitica. Significa anzi gettarsi nella realtà con coraggio e abnegazione, ma il più possibile seguendo un principio di autonomia. Appartarsi, appunto: stare da parte, mettersi di lato, anche e soprattutto quando si è scelto un gruppo di appartenenza; per consentire di vederne e denunciarne, nel caso, gli abusi e le disparità. L’intellettuale perfettamente integrato rischia invece di peccare di presbiopia, quasi per contratto: che sia integrato in un partito (ormai non ce n’è più), o in un movimento, o in questo o quel contesto. E non importa che certi contesti siano mille volte preferibili di altri: anche in essi, anche quando si è in due, bisogna stare attenti a non cedere alle lusinghe del “gruppo”. Attenti a non sentirsi impuniti, difesi in automatico, ben recensiti ogni volta, costretti a ben recensire chiunque faccia parte del gruppo. Per non dire peggio. Lo stesso vale per il silenzio. Seguendo un equivoco comune a quello dell’isolamento, anche il silenzio passa come volontà di disimpegno: “Non dico nulla perché potrebbe compromettermi”. Chi tace è considerato l’alleato più subdolo dello status quo — o alla meglio, un rinunciatario e un pavido. Ma è davvero così? È sempre così, mi chiedo? A me appare invece il contrario. Se io non intervengo nell’ultima polemica letteraria o editoriale o sociale o civile che sia, è sempre perché ho paura a esprimere la mia opinione, o perché ritengo di non averne una sensata, che contribuisca davvero al discorso? O perché non penso di aver studiato a sufficienza la questione? O anche, e legittimamente, perché di quella tal cosa non me ne importa nulla? Non è un tic che rischia di farci smarrire la meraviglia della specificità e la passione del ragionamento? E di converso: perché nelle polemiche dove costa pochissimo dire la propria ognuno si affanna a dirla, e quando si tratta di difendere un collega — o chiunque altro — da un attacco che potrebbe metterlo in reale difficoltà, si tace? Se è questo “l’impegno” che l’interventismo a tutti i costi suppone, è davvero ben poca cosa. Se la capacità di costruire qualcosa insieme — una comunità orizzontale di beni e valori, senza capi né profeti — è la maggiore realizzazione umana, mi sento a maggior ragione di consigliare una misura di isolamento. Come cura, come medicina sociale. C’è bisogno di qualcuno che ogni tanto — a turno, direi — si metta ai margini, osservi in modo il più indipendente possibile la situazione, e provi a esporla con razionalità. Non fosse altro che per offrire un punto meno conforme all’ambito cui è di solito destinato: questo o quel gruppo, questi o quei lettori, questo o quel giornale. In un brano del suo intervento Lo scrittore e la coscienza (pubblicato da Iperborea ne La politica dell’impossibile), il mio amatissimo Stig Dagerman mette la questione nei termini più chiari e coraggiosi: È trascorso infatti tanto di quel tempo che si è dimenticato che la letteratura va difesa giorno per giorno, momento per momento. Non c’è una difesa definitiva, così come gli attaccanti, i sostenitori dell’ordine più o meno stabilito, non ritengono mai che il loro attacco sia l’ultimo. Se lo scrittore se ne dimentica e si accontenta di scrivere una volta all’anno sugli almanacchi letterari fiacchi resoconti delle più recenti polemiche, si è mandato in pensione da solo. Se va avanti a lavorare come se niente fosse, come se non ci fosse alcuna frizione tra la poesia e la realtà, è perduto anche a una vita da pensionato. Lo scrittore deve sempre partire dal presupposto che la sua è una posizione incerta, che l’esistenza della letteratura è minacciata. Per questo è costretto ad andare sempre in cerca dei punti deboli della sua difesa e, con assoluta spietatezza, dare la caccia alle quinte colonne che si nascondono dentro di lui e fucilarle senza alcuna pietà, anche se sa che gli sarà difficile vivere senza di loro. Suonerà enfatico, ma la penso esattamente come lui. E ho come l’impressione che pensieri di questo tipo siano moneta fuori corso, anche perché propongono una linea di attività diversa dal megafono auto-assolutorio, dalle parole battute e ribattute minuto dopo minuto, dall’interventismo spicciolo. Una linea appartata ma niente affatto rinunciataria, che intervenga poco e bene, con coraggio e cura, e non alimenti quel torrente senza fine di chiacchiere dentro cui distinguere la ragione o il torto, le sfumature e le distinzioni, e persino i fatti — i fatti, che dell’opinione dovrebbero essere il fondamento — diventa sempre più difficile e oneroso.
http://www.iltascabile.com/letterature/farsi-da-parte/
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