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#persis solo match
nemo69-gilabola · 8 days
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Il giorno che persi l'anima.
Non ricordo di preciso il giorno, ma era all'incirca una 15 giorni prima del primo lockdown. Era l'ennesima volta che scaricavo tinder, così per noia, non aspettandomi chi sa cosa, ma mentre stavo a lavoro (cosa che avrei perso da lì a poco) mi arriva una notifica, un match.
Ora, con il tempo ho capito che io non sono un bellissimo regazzo, ma sinceramente per quanto mi sforzi, non riesco a vedermi brutto, ma dopo quello che è successo capì ben presto che non mi sarei mai più rivisto o per meglio dire, non avrei mai più visto l'anima mia. Comunque, apri l'app e vidi le foto di questa ragazza, cavolo che ragazza, proprio il tipo che piace a me, una vera "big beautiful woman" con un viso sensuale e uno sguardo da stronza bastarda che fa perdere la testa. Inizia a parlare con lei, credendo che fosse l'ennesimo buco nell'acqua melmosa dell' app d'incontri, ma non fu così, lei fin da subito inizio a scherzare e sparare delle sane cazzate.
Insomma, il mio sesto senso si era attivato, il classico allarme che scoccava ogni volta che capivo che quella era una conoscenza vuota, l'ennesima ragazza single da poco che cercava di aumentare la propria autostima. Ora, dovete sapere, che io ho sempre rifiutato quelle poche botte via perché credevo nell'amore, quello da film di serie b americani, dove la domenica si passano nei squallidi centri commerciali mano nella mano, è quindi ogni volta che beccavo una facile (1 su 100 che matchiavo intendiamoci) era solo per la classica botta è via.
Ma quella volta dissi "al diavolo" un appuntamento può farmi solo bene, ma mi sbagliavo alla grande.
La farò breve, ci vediamo, andiamo al bar, inizio a fare il ragazzo serio che prova a far capire come sono e cosa speravo nel mondo e nella vita, per ritrovarmi neache dopo due secondi la sua lingua ficcata dritta in gola, bacio bacio, sali in macchina, dritti in albergo e bam bam bam, una classica botta e via, così senza senso e alla cazzo di cane.
Il giorno dopo, lei mi chiama, è inizia a dire che mi adora, ma che è spaventata dalla mio visione del Mondo ecc ecc, comunque non se la sente, io ascoltando in silenzio aspettavo che finisse, per poi dire una frase che mai e poi mai pensavo di dire nella mia vita "sono d'accordo G. a non rivederci, perché sinceramente, io non credo nell'amore, io volevo semplicemente scopare" è indivinate un po' che succede ? Lei piange e mi offende, una bella scenata napoletana bella e finita.
In passato, ogni volta che perdevo una persona dalla mia vita io ci soffrivo da cane, ma stavo male proprio, ma d'allora a me non me ne fregato più una beata Vergine puttana di quello che le persone provano, perché io da quel nano secondo, non ho più provato un cazzo, zero, nada, senza un briciolo di cuore, ma non solo, i miei conoscenti da quel momento hanno iniziato a farmi i complimenti, perché mi vedono più felice e sorrido sempre, che urlo cazzate, che voglio fare a botte con chiunque, a bere litri e litri di alcool, ma non per dimenticare, ma proprio per suicidarmi piano piano con gusto e risate.
Ma la verità, che a me di voi non me fotte un cazzo, si cazzo cazzo cazzo, fanculo a voi che seguite degli schemi del cazzo, che siano da santi cattolici o da santoni pagani fricchettoni, Io credo nella mia santissima trinità del cazzo, alcol sigarette e vaffanculi generali.
Cristo, da quella serata ho fatto delle sane e belle cagate giganti (non sto a dirle perché alcune sfociano in reati secondo me) ma una su tutte è stata quella diandare a una manifestazione di non so che, giusto per fare casino, ritrovando le mie foto su internet.
Ora vi chiederete, perché scrivo tutto questo ? Beh signori miei, semplicemente per dire che senza amore, ho capito che nel gioco della vita, io c'è ho più lungo di molti di voi.
P.s. Comunque, da allora il sesso è diventato molto più bello, nel senso che non me fotte un cazzo se piace a lei, basta che Godo io.
P.s.s Dio è morto, evviva noi diavoli vincitori, l'inferno terrestre è nostro.
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beavakarian · 6 years
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More than a Trickster - Atto XII (ITA)
Autore: maximeshepard (BeatrixVakarian)
Genere: Mature
Pairing: Loki/Thor
Sommario: questo è il mio personale Ragnarok. Si parte e si finirà alla stessa maniera, alcune scene saranno uguali, altre modificate, altre inedite. Parto subito col precisare che qui troverete un Loki che non ha nulla a che fare con il “rogue/mage” in cui è stato trasformato in Ragnarok, e un Thor che si rifà a ciò che abbiamo visto fino a TDW.
Loki e Thor sono stati da sempre su due vie diverse, ma quando il Ragnarok incomberà inesorabile su Asgard, le cose cambieranno. Molte cose cambieranno.
@lasimo74allmyworld @piccolaromana @miharu87 @mylittlesunshineblog @meblokison
Capitoli precedenti: Atto I - Atto II - Atto III - Atto IV - Atto V - Atto VI - Atto VII - Atto VIII - Atto IX - Atto X - Atto XI
- Atto XII -
“Oh… Sei sveglio e… Sei diverso”.
Loki aveva rilasciato le sue proiezioni un attimo prima che la porta scorrevole dell’infermeria si aprisse e che quella donna minuta, dai profondi occhi neri, facesse ingresso nella stanza.
Si fece trovare intenzionalmente ad armeggiare con quelle catene di fattura nanica, leggendo lo stupore negli occhi della donna nel rivelarsi nella sua forma Asgardiana.
Esibì un sorriso imbarazzato.
“Puoi liberarmi?”
Una domanda al quanto stupida, all’apparenza, quella di Loki. La donna si fece avanti, fermandosi accanto al letto.
“Temo di no, ma avviserò il comandante che hai ripreso i sensi. E cambiato… Aspetto. Sei uno shapeshifter?” rispose lei, aggrottando la fronte. Il paio di antenne su di essa vibrarono leggermente.
L’imbarazzo sul volto di Loki aumentò. Deglutì sonoramente, abbassando gli occhi e appoggiando di nuovo la testa sul cuscino – le mani rilassate lungo i fianchi ora.
“Una sorta… Non ne vado molto fiero di quell’aspetto. Ti domando scusa, se ti ho spaventata”.
“Oh, no, non ti preoccupare. Sono solo sorpresa, tutto qui” replicò con un sorriso e la voce dolce e gentile, facendo il giro della branda e armeggiando con qualche dispositivo sul lungo tavolo lì accanto.
Sommariamente calmo, imbarazzato, cooperante, Loki aveva deciso per un basso profilo, cercando la fiducia in primis di quello che pareva ricordare come il suo guaritore. Volse gli occhi, poi, alla sua spalla, muovendola leggermente, quanto le catene potessero permettere.
Le dita della sua mano destra si mossero impercettibilmente.
“Sono contenta che tu stia meglio. Avevi una ferita tutt’altro che facile da curare, ma sta guarendo e a breve non dovrebbe più farti così male” aggiunse lei, voltandosi con una siringa colma di liquido azzurro in mano.
Loki la fissò con occhi sgranati – forse non così intenzionalmente. Aprì la bocca un paio di volte, nel vedere l’ago della siringa bagnarsi rapidamente e il liquido zampillare un paio di volte. Intanto, nel palmo della sua mano, raccolse il suo seidr: piano o non piano, non doveva e non voleva tornare a dormire. Non di nuovo.
“Ti prego, no… Non voglio”.
L’aliena alzò le antenne assieme alle sopracciglia, in uno sguardo sorpreso. Osservò il prigioniero, poi la siringa, poi di nuovo il prigioniero e mise le mani avanti.
“Stai tranquillo, non è un sedativo. E’ per il dolore”.
Di nuovo quel sorriso dolce e quel tono gentile, rassicurante. Loki seguì l’ago con la coda dell’occhio, il braccio che andò a tendersi, il suo potere pronto a farsi strada e a colpire. Duro. E da lì sarebbe avvenuta la fuga, correndo da Thor, liberandolo e uscendo a muso duro da quella struttura che ormai stava stretta ad entrambi.
Ma un gesto della donna lo fermò dal compiere il suo intento. Sentì il palmo della sua mano appoggiarsi alla fronte: di istinto fece per schivarlo ma, immediatamente, avvertì un senso di calma e rilassatezza impossessarsi del suo corpo.
Portò gli occhi in quelle pozze d’ebano, espirando dapprima con forza a più ripetizioni, poi esalando un lungo respiro.
“Non voglio farti del male… Ti sentirai meglio dopo questo, ma ho bisogno che tu stia tranquillo per medicarti la ferita. E non voglio neanche che tu senta più dolore del necessario”.
Loki strinse le labbra e l’ago entrò nella sua pelle: le labbra di lei non si muovevano, stava comunicando direttamente nella sua mente.
Un’empata e un telepata. Questo non l’aveva considerato e poteva risultare problematica la cosa se la donna avesse posseduto anche delle capacità che andavano oltre alla sola telepatia. Cercando di mantenere una concentrazione tale da permettere il processo, schermò parte della sua mente con la sua magia e si lasciò cullare in quella sensazione di calma.
Sentì il dolore alla spalla sparire completamente.
“Lo so che non ti fidi di me…” sussurrò “Ma credimi, non ho brutte intenzioni”.
Loki non rispose. Osservò piuttosto la pelle attorno alla lesione venire lenita dalle amorevoli cure di quel medico capace di curare una ferita del genere, una ferita inferta da un dio. Da Hela. Una ferita che difficilmente sarebbe riuscito a guarire completamente e in così poco tempo da solo.
Sul serio, dove diavolo erano finiti? Chi era quella gente?
Ad un tratto, un ricordo ben preciso irruppe nella sua mentre come un lampo a ciel sereno. E Loki ricordò. Ricordò quel simbolo e dove l’avesse già visto. Ricordò chi, su Asgard, portava quel tatuaggio sull’avambraccio. Ricordò come lui e Thor sfogliassero quei libri la sera, prima di andare a dormire e fantasticassero ore e ore.
E capì. Gran parte di ciò che era accaduto ora acquistava un dannato senso.
La domanda, però, era: perché?
“Bene, qui ho finito. Ti prometto che queste” ed indicò le catene “Se ne andranno presto. Abbi pazienza ancora un poco”.
 Nelle ore successive della giornata, Loki imparò un po’ di cose: la prima era che il curatore si chiamava Rekis e che paresse avere un debole per lui. Non nel senso comune del termine, ma era chiaro che Loki avesse incuriosito molto quell’alieno ed in un certo senso il sentimento fosse reciproco.
Era reciproco perché, con sua somma soddisfazione, Rekis amava parlare. Amava raccontare cose, il che portava Loki in una posizione di vantaggio, data la sua abile dialettica e – siamo sinceri – il suo tentativo primario di manipolare quell’essere per la ragione principale: uscire di lì, possibilmente con le proprie gambe e con Thor.
Altro dettaglio da non sottovalutare era che le abilità empatiche della donna erano enormemente efficaci. E questo riequilibrava il match, così come le manette che erano andate a sostituirsi alle catene.
Il bonus consisteva nel non essere più legato come un salame e la sua reclusione in quella infermeria: poco male, aveva pensato, sempre meglio di una campana di vetro con un bocchettone di gas. Aveva una vaga idea riguardo al comportamento di Thor tenuto in quella struttura, visto il suo temperamento e che le parole detenzione e fratello, nella stessa frase, non avevano portato di sicuro a qualcosa di costruttivo. Non che si fosse aspettato qualcosa di diverso.
Ergo, Loki si sarebbe dovuto rimboccare le maniche e fare di testa sua. Come al solito. Ma quella, oh, sarebbe stata una sfida interessante.
 “Quindi siamo nel sistema di Nifelheim? Stento a crederci” disse Loki, mentre Rekis era intenta a cambiare, nuovamente, la medicazione.
“Effettivamente, ciò che i Nani hanno costruito qui millenni fa, ha dell’incredibile. Tuttavia, la nostra bolla è destinata a cessare di esistere a breve” spiegò lei, armeggiando con il solito liquido blu.
“Questo ecosistema sta morendo?” domandò Loki, alzando un sopracciglio – l’espressione perplessa.
“Non esattamente. E’ la struttura che mantiene attiva la bolla che si sta deteriorando, sfortunatamente. Anzi, ormai è parecchio danneggiata e i territori perimetrali sono andati persi via via nel corso degli ultimi due secoli” continuò, preparando la siringa e disinfettando la cute con cura.
“Hai avuto modo di vedere in lontananza cosa c’è?”
Loki annuì brevemente, riportando la mente a quella sorta di ammasso nuvoloso attorno a dei vortici di dimensioni gigantesche, visto all’orizzonte.
“Il clima – o più in generale l’atmosfera di Nifelheim, non è gentile con le forme di vita. Questo pianeta, in particolare. Quando la struttura della bolla cederà, nulla impedirà più a quelle mostruosità di cancellare tutto l’ecosistema e riappropriarsi di questo pezzo di terra. Il clima è già cambiato parecchio negli ultimi anni”.
L’aliena abbassò lo sguardo e le antenne. Anestetizzò la ferita e procedette.
“Quanto resta a questo posto?”
“La stima più ottimistica è quella di un secolo”.
“Non potete riparare il meccanismo della bolla?”
La donna soffocò una risata amara.
“Per mettere le mani su di una tecnologia nanica, ci vogliono i nani. E i nani hanno lasciato questo posto millenni fa. Oltretutto, questo posto è raggiungibile solamente attraverso una serie di wormhole… Insomma, o ci finisci per caso – come quasi tutti noi – oppure ti devi impegnare a trovarlo” fu l’ovvia risposta, seguita da un gesto sommesso del capo. Loki la osservò con attenzione appoggiare entrambe le mani sulla sua spalla e una luce dorata scaturire dai suoi palmi.
“Ma sono sicura che presto riusciremo a lasciare questo posto” aggiunse, in un sussurro.
Loki schiuse le labbra.
“Questa è arte magica” constatò vagamente, aggrottando le sopracciglia. Un’arte magica che io conosco bene.
La donna sorrise, gli occhi chiusi.
“Me l’ha insegnata Hildi tanto tempo fa” rispose poco dopo, ritirando gentilmente le mani.
“Hildi?”
“Oh, sì, scusa. Il nostro comandante”.
Loki annuì, portando lo sguardo verso la parete opposta. Non aveva bisogno di sapere altro sul conto del loro comandante.
 Per tutto il resto della giornata, Thor non aveva ricevuto visite. Tutto ciò che lo circondava era composto da pietra, vetro e suoni ovattati e per quanto la visita di Loki gli avesse sollevato il morale e fosse servito a tranquillizzarlo per un breve periodo, quella detenzione lo stava facendo impazzire. E di starsene buono non se ne parlava, per quanto Loki l’avesse pregato di non fare stupidaggini.
Era una questione di principio.
Le persone di quella struttura facevano pieno affidamento sulle contromisure prese. Le guardie erano unicamente state messe fuori dalla prigione, per quanto avesse potuto vedere dalla sua cella. Ma non avevano fatto i conti con la sua tenacia.
Arrendersi non era nella sua natura.
E mentre Loki pensava a superare le barriere aggirandole, Thor aveva deciso di far leva sulla sua testardaggine e di sfondarle a testate. Per quanto stimasse infinitamente la razza Nanica e i loro manufatti, in quel momento si erano guadagnati ogni imprecazione tra un colpo e l’altro, tra ogni minima crepa che si allargava e la lunga pausa data dal gas sprigionato successivamente ad ogni minimo danno alla struttura.
Quello che era troppo anche per lui, però, non era il dolore alle mani, non era il sangue che sgorgava dalle sue nocche ad ogni pugno, nella battaglia contro quella maledetta gabbia. No.
Era il doversi arrendere ogni volta al sonno, quando avrebbe dato pure l’altro occhio per sapere cosa stesse succedendo su Asgard. Tuttavia, si era convinto che, prima o dopo, quella parete avrebbe ceduto e non ci sarebbe stato nessun narcotico a fermare la sua marcia furiosa.
La sesta volta che si arrese al gas, si era accorto di aver creato una crepa sostanziale nella struttura. Ed era cosa ottima. Si sarebbe dovuto sforzare probabilmente una, due volte al massimo per uscire finalmente da lì, ma ce l’avrebbe fatta in tempo, prima che la donna col vizio della bottiglia tornasse?
Il dolore alle tempie era atroce, i polmoni bruciavano ad ogni respiro, mentre la sua coscienza si inabissò nuovamente nel buio. Si sentì precipitare, come ogni volta, incapace di muoversi, incapace di fermarsi: solo, questa volta, successe qualcosa di diverso.
Thor la vide come una sorta di fune, in quel buio. Si immaginò allungare una mano, avvertì la rugosità del tessuto nel suo palmo e la afferrò, stringendo più forte che potesse. Si sentì risalire, come se fosse stato sott’acqua per troppo tempo, sentì come se due possenti mani lo tirassero su per le spalle.
Aprì l’occhio di scatto, esalando un respiro che assomigliava ad un rantolo.
E con suo sommo stupore si trovò appoggiato ad una delle colonne del palazzo reale, in Asgard, innanzi ad Heimdall e ai suoi occhi ambrati.
“Abbiamo bisogno di te”.
 Quando le porte dell’infermeria si aprirono, Loki era intento ad esaminare la propria ferita nello specchio poco lontano dal piano medicale. La donna dai capelli neri, raccolti in uno chignon sfatto, era entrata come un treno, coperta di fango e resti non meglio identificati su quasi tutto il corpo e, bottiglia stappata lungo il tragitto, si era gettata sulla branda al centro della stanza, alzando lo schienale e stravaccandosi come fosse più comoda.
Insozzando praticamente ogni angolo dell’unico posto ove Loki aveva modo di riposare come se fosse un umano, non un animale.
E infatti, lo sguardo che il Principe di Asgard le regalò fu così duro da poter tagliare il diamante.
“Wow” commentò sottovoce, inalando aspramente – le labbra contratte in una smorfia di disgusto e sdegno “Fa pure con comodo” aggiunse, alzando le mani legate di fronte a lui e aprendole in un gesto ironico.
La donna sogghignò divertita, ingollando più volte il liquido ambrato della bottiglia, per poi appoggiarla in mezzo alle gambe e pulirsi le labbra con il dorso della mano.
“Allora, la sistemazione è di tuo gusto?”
“Avrei gradito una finestra, un po’ meno umidità. Un po’ meno... folla” esordì Loki, camminando qua e là, gesticolando quanto le manette permettessero.
“Individui più civili. Ma non posso lamentarmi. Ah, il servizio medico è eccellente” puntualizzò con un ghigno, voltandosi verso di lei.
La donna portò le mani in avanti, stirandosi rumorosamente, per poi incrociarle e portarle dietro alla testa, appoggiando la nuca e fissando il soffitto con estrema curiosità.
Il ghigno di Loki si distese molto più di prima. Era una sfida, quella, ma oh – non degnarlo di attenzione era un gesto più presuntuoso che impavido.
“Ci sono prigionieri che darebbero un braccio per avere questa sistemazione”.
Loki sorrise in silenzio, passandosi una mano per sistemarsi i capelli lungo le spalle: appoggiò il suo peso al banco, le mani lungo le cosce, strisciando i palmi sulle ginocchia.
“E dovrei, chessò, ringraziare la tua infinita” e calcò quella parola in maniera teatrale “Bontà, Hildi?”
La donna guadagnò una posizione più eretta, portando per la prima volta gli occhi nel suo interlocutore.
“Sì, dovresti ringraziare proprio quella” fu il suo commento aspro.
“Un nome particolare, il tuo”.
“Un aspetto particolare, il tuo”.
Questa volta, Loki si lasciò andare in una risata sommessa. Tutta quella situazione la trovava ridicola, ai limiti dell’assurdo: erano stati catturati senza un valido motivo, stavano scontando una detenzione in un posto dimenticato dalla grazia divina, in un sistema che ospitava unicamente ghiaccio e nebbia – non fosse per i Nani e l’interesse in quel posto.
“Per quanto adori chiacchierare, sono un po’ a corto di tempo. Che cosa vuoi da noi, esattamente?” rispose, serrando la mascella e scoccandole l’occhiata di chi non era più intenzionato a giocare.
La donna sghignazzò tra sé, tirando fuori dal taschino della giacca un pacchetto. Giocherellò un po’ con l’apertura, per poi agguantare lo snack tra i denti.
“Ho fatto qualche ricerca sul conto di quello che chiami fratello…” esordì quella, masticando con nonchalance “Colui che con disperazione continuavi a chiamare quando eri tra le braccia dell’incoscienza. Una scena dolcissima, se dai retta a me” aggiunse, ingollando il tutto con una sorsata di liquore.
“E non hai idea – fidati, non ce l’hai! – di quanto valgano quei riccioli d’oro”. Allargò le braccia per mimare quanto fosse grande la taglia pendente sulla testa di Thor.
Loki drizzò la schiena, mordendosi il labbro inferiore.
“Mi stai chiedendo di vendere mio fratello in cambio della mia libertà?” domandò, con una punta di incredulità.
“No” asserì lei, con un gesto del capo. Esibì un sorriso disteso “Non subito, almeno. Se è vero che si tratta del Figlio di Odino, prima lo convincerai ad aiutarci a catturare la Bestia. Poi ce lo consegnerai. Pensi che la tua vita valga meno della loro?”
“L’alternativa?”
La donna inspirò con il naso, in un gesto quasi di stizza.
“Cadere a pezzi con questo posto. Rekis ti avrà di certo raccontato di questa rovina nanica – ah, mi ci gioco cosa vuoi che te l’abbia raccontato”.
Loki si alzò da dov’era appoggiato e compì un paio di passi in avanti. L’espressione ora era seria, le labbra strette in una linea sottile. Hildi lo guardò quasi meravigliata.
Si sporse un poco avanti, chinando leggermente la schiena.
“E tu pensi davvero che una gabbia del genere possa contenere Thor? Che tu riesca a consegnare la tua taglia con questa facilità?” incalzò, compiendo un ulteriore passo in avanti. Soffocò una breve risata “Tu non sai chi hai davanti, donna”.
“Ho davanti un piccolo Jutun che si diverte ad andare in giro con ornamenti Asgardiani” constatò lei, alzando le spalle “E per quanto pensi che la cosa sia curiosa e a tratti divertente, la questione si ferma qui. Sei un po’ piccolino per uno della tua razza… Tu dovresti odiarli quelli come Thor” aggiunse, scuotendo la testa e trovando la cosa parecchio esilarante.
Loki sbatté le palpebre per un istante, inclinando il capo da un lato.
“Chi ti dice che non lo odi?” fu la sua serafica risposta, risposta che per un istante spiazzò la donna. Rimase con la bottiglia a mezz’aria, gli occhi fissi su di lui e una smorfia ironica sul viso.
“Ne sai di cose su Asgard, per essere un cacciatore di taglie…”
“Ho le mie fonti”.
A quelle parole, Loki le diede le spalle, prendendosi il tempo necessario e girovagando per la stanza. Ad ogni passo entrambi potevano udire il clangore della catena che collegava le manette, scandire il tempo scorrere.
Nel momento in cui Hildi fu in procinto di riprendere parola, si voltò verso di lei, prendendo un lungo respiro.
“Per prima cosa, voglio che mi porti più lontano possibile da questo posto. Secondo, voglio una parte della taglia di Thor e di quel dannato mostro. Queste due cose non sono negoziabili” sentenziò Loki, ergendosi in tutta la sua altezza.
“Terzo…” e alzò le mani ammanettate di fronte a sé “Queste. Per trattare con Thor ti servirà il mio aiuto e, credimi sulla parola, non è saggio provocarlo”.
La donna appoggiò il mento sulle nocche della mano, tamburellando il ginocchio con le dita. Per quanto quei soldi le servissero come il pane, ciò che Loki aveva buttato sul piatto non era assolutamente da scartare – se fosse riuscito a rendere l’operazione meno spinosa di quanto lo sarebbe stato senza il suo aiuto.
Si alzò lentamente, muovendosi verso di lui. Si fermò poi con una mano sul fianco, nell’altra la bottiglia. L’aveva osservato a lungo, durante il suo periodo di incoscienza, aveva parlato a lungo con Rekis, nel mentre che sondava la sua emotività. Si poteva fidare del giudizio del curatore sullo sconosciuto che aveva di fronte?
Loki colmò lo spazio che lo separava da lei, portando le braccia in avanti.
“Abbiamo un accordo?”
Credo che si capisca, ma per il personaggio di Rekis ho preso spunto da quello di Mantis, che è l’unica cosa che salvo dei guardiani assieme a Groot e Rocket xD Un versione un po’ diversa, con poteri telepatici di base. Puro scopo di trama. u.u
Loki venderà la pellaccia di Thor?
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konimjk · 2 years
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Exactly Can't Play in Manahan in the First Week of Liga 1 2022-2023
Exactly Can’t Play in Manahan in the First Week of Liga 1 2022-2023
KONIMojokerto-Persis Solo is scheduled to host fellow promoted team Dewa United in the first week of League 1. However, when the two teams competed on July 25 at 16.00, Laskar Sambernyawa – Persis’s nickname – certainly could not hold the match at the Manahan Stadium, Solo, Central Java. This happened because Solo will host the 2022 ASEAN Para Games. The event will be held on 30 July–6 August…
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Blog di chiusura per D3 Femminile e D3 squadra B
Delle tre squadre impegnate nei campionati di D3, la squadra A maschile, quella di fatto che si gioca il passaggio del turno proprio all’ultima giornata, quella degli Stefanos per intenderci, ha dovuto rimandare a Domenica 3 Luglio l’appuntamento decisivo.
Il motivo è facilmente intuibile, con tutti i campi impegnati per B2 Femminile, D4 Maschile e D3 Femminile il 26 Giugno. Il Girone 23 si chiuderà quindi tra qualche giorno, per poter mantenere il vantaggio del fattore campo contro il TC Abbiategrasso.
Chi invece è scesa in campo è la squadra B, opposta anche qui in un match decisivo ai fortissimi atleti del TC Milago che non nascondono di puntare dritti alla D1.
Davvero nulla da rimproverare a Soria Nicolò, opposto al 3.2 Christian Moretti, ottimo mancino che si è imposto per 60 61 anche se il risultato è molto bugiardo nel primo set, con games tutti combattuti e persi dal nostro per via dei maledetti (o benedetti a seconda di dove la si guarda …) punti importanti, giocati meglio del tennista locale. L’andamento del primo parziale ha tolto fiducia a Nick che ha visto scivolare via il match.
Come numero due si è schierato capitan Mellace a cui riserviamo un ringraziamento speciale per essere stato il riferimento organizzativo della squadra per l’intera stagione … grazie Thomas.
Tornando all’aspetto tecnico anche qui registriamo un primo set equilibrato con il nostro che si aggiudicava addirittura 17 punti sul proprio servizio vincendo però un solo game ! Punteggio anche qui molto bugiardo quindi … con equilibrio anche nel secondo set poi perso 64.
Come terzo singolarista l’altro grande Thomas della squadra, l’infinito Morosi, opposto ad un 4.1 (Massimo Lorenzo) che vale tranquillamente un discreto terza categoria. Come al solito, grande grinta e cuore sino all’ultimo punto di un primo set perso solo 6 giochi a 3, con la fiducia che anche qui è venuta meno e, insieme ad una comprensibile stanchezza, ha lasciato via libera ancora per 63 a Milago.
Sul risultato acquisito, ottimo primo set del doppio Soria/Terrenghi opposti a Moretti/Pozzoni, con i nostri molto vicini ad aggiudicarsi il parziale … 75 62 alla fine e ancora nulla da rimproverare.
Ci sembra giusto chiudere il blog della stagione 2022 con le belle e riassuntive parole di capitan Mellace che racchiude il giusto messaggio finale: “Abbiamo dato davvero tutto sapendo che sarebbe stata durissima.
Negli ultimi anni siamo sempre arrivati all'ultima giornata (déjà-vu) a pari punti lasciando qualche punto durante il percorso, quest'anno non abbiamo lasciato davvero niente per strada, ma obiettivamente erano davvero forti (fino ad ora avevano concesso solo una volta 3 game in un set nei singoli,)”
BRAVI RAGAZZI !!! SO PROUD OF YOU !
Ai titoli di coda anche la bella avventura della Serie D3 femminile che si congeda dal Girone 16 con una bella vittoria per 2 a 1 contro Officine Tennis Bresso, nonostante il caldo davvero soffocante.
Perentoria la vittoria della nostra numero 1 Giorgia Orsini, impostasi 63 60 confermando che a questi livelli, se riesce a mantenere calma e profondità di colpi, ha davvero poche rivali.
Come numero due, e non poteva essere diversamente, capitan Lucia Fatone che, dopo aver stravinto 61 il primo set, vedeva scappare sul 4 a 1 l’avversaria nel secondo parziale. Il suo proverbiale orgoglio ma anche oggettivamente la volontà di scongiurare un terzo set che per via del clima tropicale non sarebbe stato agevole … hanno dato a Lucia la giusta spinta per vincere 75 assicurando al CTP la vittoria.
A risultato acquisito, scendeva in campo il doppio Nadia Legnani/Laura Cozzi, ancora una volta protagoniste di una buona prova che le vedeva in vantaggio 64 nel primo set per poi cedere 61 il secondo per via di qualche punto importante volato via per sfortuna. La nemica principe dei tennisti, la sfiducia, ha purtroppo fatto il resto con le nostre sconfitte 10 punti a 3 nel super tie-break.
Va in archivio un’ottima stagione, con le ragazze protagoniste di ottimi risultati e capaci di salire sul podio del girone, con un terzo posto che le proietta con buone sensazioni al resto della stagione individuale, in attesa di ripresentarsi il prossimo anno ai nastri di partenza della D3.
Vi aspettiamo ragazze e grazie ancora di tutto !!! A presto !
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sciatu · 7 years
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FOTO DI UN BARCONE DI EMIGRANTI DI MASSIMO SESTINI
Vendimi il tuo dolore, ormai tutto ha un prezzo e niente ha un valore e tu approfittane, vendimi il tuo dolore! Si vende l’amore, la giustizia, l’innocenza, la vita, perché non dovresti vendermi il tuo dolore? Lo pagherò un tanto a lacrima, un tanto a disgrazia: ci si mette d’accordo sempre tra disperati e poeti. Lo so. Niente potrà ridarti quello che hai perso. Quel lontano ottobre è ancora nelle tue lacrime, forse ti svegli ancora di notte sognando la vostra barca piena di persone e bambini che lentamente affonda senza che nessuno ascolti le vostre grida d’aiuto. Tuo figlio andrebbe già a scuola, tua figlia avrebbe adesso nastri ai capelli e un vestito a fiori. Chissà dove saranno ora tutti gli altri bambini morti con loro. Chissà dove sono quelli scomparsi un mese dopo. E un mese dopo. E ancora un mese dopo. Ormai il nostro mare è salato per le troppe lacrime che ha raccolto, solo lui sa conservarle amare per come sono nate. Io non posso ridarti i tuoi figli, nei i figli o i genitori a chi li ha persi, ma compro il tuo dolore con due versi e una poesia e se lo compro allora tutti gli daranno importanza, tutti penseranno che se ha un prezzo, se vale dei soldi allora deve essere veramente qualcosa di importante, perché ormai è il danaro il metro di ogni cosa. Poi, se parlo di loro, le mie parole li faranno tornare qui con noi, saranno ancora qui, in braccio a te nel viaggio verso quel mondo diverso di cui gli parlavi. Hanno imparato soltanto che la guerra non finisce mai, che cambia solo il modo di morire o di essere ucciso, ma la guerra tra l’amore e l’odio, non finisce mai. Per questo ora tocca a noi tornare in prima linea, armati d’amore e di disperazione, quello che avevi tu quando hai lasciato la Siria. Tocca a noi presentarci davanti a tutti, con il sudario dei tuoi ricordi, le piaghe nella tua anima che non saprò mai guarirti. Vendimi quindi il tuo dolore, rivenderò tutto a telegiornali e giornalisti, a partiti e opinionisti, loro ricameranno parole intorno alle tue lacrime, grideranno sdegno, odio o orrore prima che le elezioni finiscano o prima della prossima partita di calcio, o della prossima canzone. Ma qualcosa del tuo dolore resterà negli occhi di conosce l’orrore della morte, il suo profumo dolciastro rinchiuso nelle tue lacrime, il senso di vuoto e di marcio che veste l’indifferenza. Qualche giusto c’è sempre, qualche testardo che non ha paura a chiamarsi uomo, qualcuno che non vende e compra, ma che ascolta e giudica. C’è sempre nella foresta un albero che non si piega quando soffia il vento della paura, c’è sempre uno scoglio che non teme di essere sommerso quando sale la marea dell’odio. Vendimi l’ultima cosa che ti rimane, il tuo dolore e il suo contorno di abbandono e solitudine, il senso di sporco che lasciano le vite violate, il veleno che ci resta nel sangue per l’innocenza sacrificata dall’egoismo. Ormai l’avrai capito anche tu arrivando in questo mondo: è il dolore il suo business più grande, prova a vendermelo cosi com’ è e ci arricchiremo entrambi, ma per fortuna, mai di soldi
Sell me your pain, now everything has a price and nothing has a value and you can take advantage of it, sell me your pain! Everyone sell love, justice, innocence, life, why should not you sell me your pain? I’ll pay it some dollars for every tear for your despair, we will find an agreement , there is always an agreement between desperate and poets. I know. Nothing can give you back what you lost.That distant October is still in your tears, probably you wake up again at night dreaming of your boat full of people and children who slowly sink without anyone coming to save you. Your boy would already go to school, your daughter would now have ribbons in her hair and a flowered dress. Who knows where all the other children who died with them will be now. Who know whereare those who disappeared a month later. And a month later. And a month later. By now our sea is salty because of the many tears it has collected, only he knows how to keep them loving as they were born. I can not give you back your children, children or parents to those who have lost them, but I buy your pain with two verses and a poem and if I buy it then all will give importance, everyone will think that if it has a price, if it is worth of money then it must really be something important, because now the money is the yardstick of everything. 
Then, if I speak of them, of whom your arms have not held back in the waves, my words will bring them back here with us, they will still be here, on your arms on the journey to that different world of which you spoke to him. They have learned only that the war never ends, that only changes the way of dying or being killed, but the war between love and hate, never ends. That’s why it’s now up to us to return to the front line, armed with love and despair, what you had when you left Syria. It is up to us to present ourselves before everyone, with the shroud of your memories, the sores in your soul that I will never know how to heal you.
Then sell me your pain, I will sell everything to newscasts and journalists, to parties and commentators, they will embroider words around your tears, cry outrage, hate or horror before the elections end or before the next football match, or the next song. But something of your pain will remain in the eyes of who knows the horror of death, its sweetish perfume locked up in your tears, the sense of emptiness and rotten dressing the indifference.
Some righteous is always there, some stubborn who is not afraid to call himself a man, someone who does not sell and buy, but who listens and judges. There is always a tree in the forest that does not bend when the wind of fear blows, there is always a rock that is not afraid of being submerged when the tide of hatred rises. Sell me the last thing left to you, your pain and its outline of abandonment and loneliness, the sense of dirt that leave the lives violated, the poison that remains in the blood for the innocence sacrificed by selfishness. By now you will have understood it too, arriving in this world: it is the pain its biggest business, try to sell it to me as it is and we will enrich both of us, but fortunately, never of money
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110daysofwriting · 7 years
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Day 2, 1350 words
L'aria condizionata sparata addosso a Luglio sa di modernità e amarezza. Non è una vera soluzione al problema della calura, ma solo una specie di sollievo temporaneo (e dispendioso) a un qualcosa di incontrollabile. Ma la si accende lo stesso, perché il sudore dà fastidio, e quella sensazione di calore diffusa su tutto il corpo è insopportabile. È come stare dentro a un forno. Ecco come si sentono le pizze.
Una cosa bella di Luglio, però, è che nessuno ha voglia di prendere nulla sul serio: la gente è così impegnata a tentare di godersi ogni momento di estate che non fa caso ai problemi, agli imprevisti, ai disturbi... sempre che non si parli del vicino di ombrellone che tiene la musica alta. Quello se lo merita un vaffanculo, eccome se se lo merita. Esistono gli auricolari.
Però per quanto riguarda il bus in ritardo, le chiavi della macchina dimenticate a casa o l'aver decisamente esagerato a ordinare mozzarella stick al ristorante, finendo per buttare settanta euro in una sola sera, per quello non c'è da preoccuparsi. È come se tutti si trattenessero con forza dall'innervosirsi, come se fosse il mese zen, il mese in cui non fa niente se si ha speso una fortuna al biliardino perché gli altri non avevano spicci appresso, tanto domani è un'altra giornata di sole! Ci si abbronza anche solo andando a comprare il latte, per la miseria, di cosa ci si dovrebbe preoccupare?
C'è una sola, grande, immensa preoccupazione che divide a metà l'estate, e capita proprio a metà Luglio, il secondo sabato del mese, sul lungomare: la caccia ai gechi.
I gechi sono creature curiose ma timide, piccoli rettili muniti di ventose e vispi occhietti neri capaci di scrutare il buio, golosi di moschini e zanzare. Come mai si sia andata creando questa peculiare tradizione nel corso degli anni, e perché mai proprio sul lungomare, non ne ho idea, so solo che è uno spasso. C'è da specificare che nessuno, nessuno, di coloro che partecipa alla caccia lo fa per fare del male alle creaturine in questione, anzi! Alla fine della serata, quando il sole inizia a fare capolino dall'orizzonte sfumato, si seminano gustosi insettini nei pressi degli interstizi dove si suppone i gechi abbiano la loro tana e si evita la zona per dar loro modo di riabituarsi all'ambiente, divenuto drasticamente ostile tutto in una volta. E chi dovesse per qualche malaugurata coincidenza fare del male ad un geco, non solo verrebbe subito squalificato dalla caccia, ma dovrebbe anche rimediare all'errore, portando il piccolo rettile alla Clinica per Gechi, aperta solo ed esclusivamente quella notte. Edificio fatiscente per il resto dell'anno.
Ricordo un Luglio in particolare in cui i partecipanti alla caccia erano piu presi del solito dall'evento: c'era chi si era preparato tutto l'anno delle strategie minuziose e di dubbia praticità, chi aveva ideato una melodia per flauto "cattura gechi" ispirandosi al pifferaio magico, addirittura era sbucato un tizio che, convintissimo, continuava ad affermare che travestito da geco avrebbe attirato l'attenzione delle femmine dei suddetti rettili e che non avrebbe nemmeno avuto bisogno di catturarle, poiché gli sarebbero salite di loro spontanea volontà addosso. Io, dal canto mio, avrei avuto parecchio da dire a riguardo, ma piuttosto avevo optato per la soluzione migliore: farmi i cazzi miei. Forse così camperò cent'anni.
Insomma, il tipo si era effettivamente presentato con un enorme costume da geco, invidia dei cosplayer, fatto proprio bene e pieno di particolari, e per tutta la notte se n'era andato a zonzo per il lungomare camminando di soppiatto e spiando nelle fessure dei muri. Non so quanto poi sia riuscito a conquistare le signore gechesse.
Le case di fronte al lungomare, per quella notte, sono lasciate vuote e prive di oggetti pericolosi e/o preziosi, così da consentire una caccia approfondita in ogni angolo della zona. Anche perché i proprietari di quelle case non si sognerebbero mai di perdere l'occasione di mettersi in mostra, essendo tipi alquanto benestanti, e di spiare i propri vicini.
La caccia dura un totale di nove ore, esclusa l'ora in cui la giuria di esperti in rettili, di cui per qualche strano motivo fa parte anche il sindaco, che dubito si intenda di gechi, si riunisce per decretare i vincitori. Le categorie sono divise in: maggioranza di gechi catturati, strategia di cattura più efficace, strategia più creativa, cattura più eclatante ed il premio bonus per chi riesce a prendere il Re Geco. Il Re Geco, lungi dall'essere una leggenda, è un grande, anziano gecone che abita una delle case più grandi. Ha una specie di cornino sulla sommità del capo e tante piccole macchie scure sparse sul dorso beige e, ogni anno, qualcuno riesce a catturarlo. La mia teoria è che si lasci catturare di proposito perché in qualche modo giova alla sua fama di re, anche se ancora non ho capito come.
Si può decidere di dividersi in squadre o di stare da soli, si possono usare trappole (purché innocue) ma la regola più importante e perentoria è il silenzio. Non si deve emettere un solo fiato che non siano sospiri esasperati dall'assenza di gechi fino a dopo un paio d'ore circa dall'inizio della caccia, nulla, nemmeno se si riesce a catturare un geco. In quel caso, semplicemente, lo si inserisce nel barattolo apposito munito di coperchio bucherellato e si continua.
Se ci si incrocia fra cacciatori, cosa inevitabile visto il numero di partecipanti, la cosa da fare è continuare a cercare ognuno per conto proprio. Non si possono creare alleanze a caccia iniziata, le eventuali coppie o gruppi devono essere preventivamente comunicati alla giuria al momento dell'iscrizione. Ma veniamo a noi.
Quel Luglio lo rammento non solo per il tizio vestito da geco o per quello che a un certo punto ha dato di matto, si è spogliato correndo a perdifiato verso il mare urlando "sono un mollusco mamma, sto arrivando" ed è sparito nel nulla. Il motivo principale per cui mi è rimasto tanto impresso è stato che a caccia inoltrata, quando i concorrenti già erano persi nei loro piani, è successo qualcosa di mai visto prima nella storia della caccia ai gechi: è apparso un altro Re Geco. O un Re Geco di un altro regno che forse aveva tendenze espansionistiche. Fatto sta che i due rettili si sono messi a litigare furiosi su di un muro, il tutto al chiaro di luna, il che ha aumentato la drammaticità della situazione, e che i giudici sono stati costretti ad interrompere la competizione per assistere collettivamente alla vicenda. Dopo circa una mezz'ora di scannamenti vari, il Re Geco ufficiale si è confermato vincitore, rispedendo l'altro geco che, devo ammettere, era persino più massiccio di lui, da dovunque fosse uscito fuori. Per quanto poi, più tardi, in parecchi abbiano setacciato la zona della sua sparizione, nessuno riuscì a trovarlo.
Avendo trascorso una mezz'ora a guardare il wrestling fra gechi, e persosi ormai il ritmo della gara, non era rimasto altro da fare se non aspettare insieme l'alba in spiaggia, annullando quindi l'esito della caccia e dividendo i vari premi fra i partecipanti. Tutti vincitori per una volta.
I premi in palio erano di vario genere, fatta eccezione per delle somme di denaro: c'erano un paio di smartphone, un aspirapolvere (che nel tempo ho rivalutato come premio), un materassino gonfiabile a forma di banana e, fra le altre cose, un condizionatore. Che quella sera spettò a me. Da quel momento ho potuto fare a meno dello scheletro di ventilatore polveroso e più rumoroso di un treno merci che sferraglia all'una di notte svegliandoti di soprassalto che mi aveva accompagnato nelle innumerevoli notti-forno precedenti a quella. Grazie, caccia ai gechi. E grazie match fra gechi. Non mi stava andando poi così bene.
E a pensarci, se devo dire la mia, a me manco piace l'estate. Direi che mi ci voleva almeno un condizionatore per sopravvivere meglio. Magari una parte della mia anima esasperata dalla calura si è incarnata nel Re Geco nemico ed è andato a battersi per guadagnarmi l'elettrodomestico! Ma questa è un'altra potenziale storia.
Buona calura a tutti.
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elbafishingblog · 4 years
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Trattenuta all’inglese
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Pesca all’inglese ai margini in trattenuta bloccata con ovetto piombato. Attrezzatura, montatura e azione di pesca.
Primo articolo post-quarantena. Primo articolo dopo cinque mesi in cui la pesca è stata solo teorica. Si riparte da qui, dal tratto di foce e dalle sue prede più ricercate, anche se un po’ fuori stagione. «Il meglio ce lo siamo perso». La frase esce priva di labiale da dietro una mascherina chirurgica. È il primo pescatore che incontro e quasi verrebbe da abbracciarlo anche se non lo conosco. Invece ci concediamo solo due chiacchiere a distanza di sicurezza. Ci siamo persi il meglio della stagione, è vero, ma già sembra un miracolo essere sulla sponda del fiume. Come fosse la fine di una guerra. Si riparte da qui dicevo, ma con un approccio nuovo o meglio adattato. Voglio poter pescare ai margini come a distanza, in passata come in trattenuta bloccata. Non voglio perder tempo o aver problemi di vento e di corrente. C’è solo una strada da percorrere ed è quella dell’inglese.
La canna
Per queste sessioni ho scelto un classico, la Shimano Aernos Match da 15 piedi, inglese affidabile dal costo non esagerato (ad oggi l'ultima versione si trova intorno ai 100 euro o poco più) in grado di gestire anche prede di grossa taglia con terminali relativamente sottili.
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Per la pesca in trattenuta ai margini i 15 piedi servono tutti quindi sconsiglio misure minori. In queste acque channel di qualche chilo e carpe rientrano nello spettro delle prede possibili quindi la canna deve essere performante e capace di sostenere combattimenti anche impegnativi. Non adiamo, insomma, troppo sul delicato.
Il mulinello
Che se ne dica, ritengo lo Zartan un buon prodotto di casa Colmic. Ne abbiamo già parlato in passato e non passa anno che dimostri le sue qualità. Non l’ho scelto per un motivo particolare se non per il fatto che era tra quelli che non avevo ancora pulito e riposto durante la quarantena.
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Bobina sovradimensionata — come richiesto da chi pesca a waggler o a feeder — una frizione impeccabile (con guarnizione in gomma), dieci cuscinetti e antiritorno. Non gli si può chiedere di più a fronte di un prezzo veramente onesto. In bobina uno 0.18 affondante e a bassa elasticità è la scelta migliore, coprendo praticamente l’intera gamma di utilizzi, dalla pesca con bodied a lunga distanza fino a quella con straight in corrente.
La postazione
Come abbiamo avuto modo di dire, nello streetfishing peso ed ingombro sono da evitare. In questa stagione ho eliminato uno dei due tripodi e realizzato un comodissimo feeder arm con un picchetto in allumino ed un doppio morsetto che lo fissa alla gamba dell’unico tripode che porto con me.
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Come potete vedere la soluzione offre una stabilità accettabile ed un ulteriore risparmio di spazio, peso e tempo. La postazione è dunque fatta del classico sgabello pieghevole e il sistema di appoggio per la canna. Immancabile il materassino in EVA per la slamatura e il guadino con manico in carbonio e testa pieghevole.
Perché la tre pezzi?
La pesca in trattenuta è solitamente praticata con canne bolognesi talvolta, a seconda degli spot, anche molto lunghe. L’inglese potrebbe sembrare la scelta meno opportuna tuttavia, vuoi per le caratteristiche dello spot che per il fatto che una disciplina ha sempre un campo di applicazione più vasto di quel che si è portati a pensare, la resa è sovrapponibile.
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In rivista ne parleremo più nel dettaglio, qui basti dire che la tre pezzi consente sia di pescare sulla distanza — sul posto o in passata a seconda della corrente — sia in trattenuta ai margini. Quel che cambia, tra i due approcci, è il galleggiante e questo è sostituibile semplicemente sganciando una girella con moschettone. Immaginate dunque il gran numero di opportunità che abbiamo potendo pescare fino ed oltre mezzo fiume come a pochi metri dalla sponda. Se l’approccio classico, con gli wagglers, non permette una trattenuta costante o molto pronunciata, ai margini questa si può effettuare utilizzando un classico ovetto piombato. L’ovetto infatti, pur essendo un “bottom-only”, non affonda sotto trazione.
Ovetto in trattenuta
L’attacco del galleggiante è lo stesso del waggler. Si notino i tre stopper in gomma (due a valle ed uno a monte) e la girella con moschettone. A differenza del waggler l’ovetto, pur rimanendo derivato, è molto compatto e l’astina vicina alla lenza madre.
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Ciò ne determina la minor tendenza ad affondare quando trattenuto. Particolarità, rispetto ai classici galleggianti da bolognese, è che l’ovetto tende ad inclinarsi con l’antenna di segnalazione che piega nel verso della corrente. La segnalazione dunque lavora al rovescio e le mangiate tendono, oltre che a far affondare il galleggiante, a far ruotare l’antenna verso monte.
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Lo schizzo sopra semplifica un po’ quanto appena detto. La corretta inclinazione della lenza si legge dall'angolo che il filo (lenza madre) forma con la superficie dell’acqua che, di solito, si aggira intorno ai 45°. L’antenna di segnalazione con la superficie forma un angolo opposto. Se la mangiata toglie peso (tende a starare) l’antenna ruota controcorrente e l’ovetto viene a disporsi in verticale. Altrimenti affonda e la vetta della canna si piega, come pescassimo a legering.
La lenza
Dunque la lenza viene realizzata su uno 0.16 connesso alla lenza madre (0.18-0.20) con nodo di sangue o asola-asola. La piombatura consiste di quattro pallini del n.6 (0.1 gr), un pallino del n.4 (0.2 gr) ed un pallino BB (0.4 gr) equidistanti o a scalare in distanza (se c’è meno corrente e si desidera un po’ più di morbidezza nella parte bassa). Per i BB utilizzo del piombo molto morbido (quello che si stringe con le sole dita) così da poterli spostare, aggiungere e rimuovere a seconda delle necessità. Ricordo che in trattenuta è quasi sempre necessaria una certa sovrataratura e che la corrente cambia di intensità continuamente.
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Per il terminale occorre non andare troppo per il sottile, quindi la misura minima è lo 0.13 (0.128 o 0.125 sono comunque misure valide). Scendere non ha senso per vari motivi: torbidità, corrente, channel e carpe di grossa taglia, anguille e via dicendo. La lunghezza varia da 40 a 60 cm. Amo Colmic N500 nel numero 18 con uno o due bigattini.
Pasturazione
La prima operazione da fare è sondare la profondità a livello dell’amo e ragionare in piedi (1 piede equivale a circa 30 cm). Mettiamo che la profondità sia 7 piedi. Essendo la lenza in trattenuta inclinata più o meno a 45°, la distanza tra galleggiante ed amo dovrà essere maggiore, diciamo approssimativamente una volta e mezzo (circa una decina di piedi, comunque da aggiustare in corso d’opera).
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In corrente i bigattini affondano in diagonale. Non possiamo dunque pasturare sul galleggiante altrimenti l’esca si troverebbe fuori pastura. Il punto di ingresso dei bigattini va spostato quindi a monte del galleggiante. Ma quanto a monte? Questa è la domanda più assillante e la risposta richiede un po’ d’occhio e la classica serie di tentativi e relative correzioni.
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Un’idea, giusto per iniziare, possiamo farcela osservando la distanza percorsa in una decina di secondi dai bigattini lanciati in acqua. Considerando una velocità di affondamento media di un piede (circa 30 cm) ogni 10 secondi e ammettendo che la corrente sia costante (cosa che non è, ma ne parleremo meglio in rivista) le larve dovrebbero raggiungere il fondo in un punto, rispetto a quello di ingresso, pari a circa la distanza trasversale percorsa in 10 secondi moltiplicata per il numero di piedi corrispondenti alla profondità misurata a sonda. Attenzione però al fatto che la nostra lenza lavora, sempre teoricamente, a 45 gradi e ammettendo che l’angolazione rimanga costante (anche questo non è vero ma avremo modo di riparlarne) in linea d’aria l’esca si troverà più lontana rispetto al galleggiante di una distanza pari alla profondità misurata a sonda (si noti che la diagonale a 45 gradi è quella di un quadrato). Dunque se i bigattini in dieci secondi percorrono ad es. 1 metro e la profondità è di 7 piedi (circa 2 metri) le larve andrebbero lanciate 5 metri più a monte del galleggiante (7 metri meno due di profondità) Da qui si parte, certi di non averla azzeccata al primo colpo, valutando la risposta dei pesci in base alla posizione del galleggiante. Se le mangiate si registrano più in lontananza (basta fare una serie di passate interrotte da trattenute) abbiamo pasturato troppo a valle. Se invece le mangiate si registrano più vicino abbiamo pasturato troppo a monte.
La prima fase
In genere le prime ad entrare in pastura sono le ragnole più piccole. Peccano di troppa voracità ed eccessiva ingenuità, un mix poco raccomandabile. Fortuna vuole che il bravo pescatore le tratti con la massima attenzione, non dopo avergli rubato lo scatto di rito, la cui doppia finalità è immortalarne la bellezza e prendere nota dell’orario. Occorre capire sia il tempo di entrata in attività — quanto dopo l’inizio della pasturazione — nonché la relazione con vari parametri su cui non vi annoio e che ben conoscete.
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Anche il numero di mangiate e la frequenza di cattura sono importanti e, in corrente, vanno messi in relazione con la pasturazione, sia da un punto di vista spaziale che quantitativo. Lo spazio si riferisce alla distanza tra punto di ingresso della pastura in acqua (un tot a monte) e ingresso della lenza (più a valle); lo scopo è quello di trovare il giusto equilibrio, spaziale appunto, che garantisca la presentazione dell’esca laddove pastura e pesci si concentrano maggiormente. Dal punto di vista quantitativo si cercherà di regolare la pasturazione in modo tale da non eccedere (finendo in overfeeding) e, anzi, ridurla quando le mangiate si susseguono a ritmo costante con lo scopo di creare una certa competizione.
Gli esemplari di taglia maggiore
Più astuti e meno precipitosi se ne stanno un po’ in disparte lasciando il grosso della pastura alle giovanissime ragnole. Se la quantità di pastura non si riduce sono meno inclini a farsi avanti perché qualcosa certamente non gli torna e comunque i bigattini continuano ad arrivare rendendo inutile il rischio.
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Parliamo comunque di esemplari ancora giovani ma di peso superiore al mezzo chilo. Uno step successivo insomma. Voglio ricordare che di spigole molto grosse ve ne sono in queste acque ma difficilmente si lasciano ingannare con il bigattino, preferendo quantomeno un bel coreano se non (meglio) un’esca viva quale la classica alborellina, che rappresenta la principale fonte di nutrimento insieme alle piccole anguille (il cui prelievo è severamente vietato). La taglia media, pescando a bigattini, oscilla intorno ai settecento grammi con possibilità di arrivare sul chilo e qualcosa ma non oltre. 
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La cattura di questi esemplari un po’ sopra la media (pur sempre piccoli rispetto al peso massimo che una spigola può raggiungere) è funzione di tanti fattori. Non tutti sono sotto il nostro controllo e quindi dipende da noi solo in parte. Certo è che un’attenzione particolare alla pasturazione aiuta non poco in quanto, al di là degli accorgimenti su lenze e profondità di pesca, molto gira intorno alla competizione cui prima abbiamo accennato.
Alternative
Abbiamo parlato della pesca ai margini in trattenuta costante con la tre pezzi ma modificare approccio, qualora i margini non rendessero, è un gioco da ragazzi. Può capitare infatti che i pesci, per le loro ragioni, preferiscano stare un po’ più a distanza, su una linea che non consenta di agire in trattenuta. I cambiamenti da fare al setup sono sostanzialmente due: sostituire l’ovetto con un waggler e alleggerire/adeguare la piombatura. In genere basta rimuovere un po’ di peso (ricordate che i BB sono in piombo morbido) e ridistribuire i pochi pallini rimasti per poter operare una passata soddisfacente.
Testo e foto: Franco Checchi. Con il contributo di Filippo Carli.
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merisaseana-blog · 7 years
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blogdispaggiari · 3 years
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MILAN, PIOLI: "DOVRA' ESSERE L'ANNO DELLA RICONFERMA"
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Stefano Pioli, tecnico rossonero, ha rilasciato un'intervista in esclusiva ai microfoni di Repubblica oggi in edicola. Queste le sue dichiarazioni integrali. Sul suo rinnovo di contratto: «Non è la priorità. Con Paolo Maldini e Frederic Massara si parlerà soprattutto di come migliorare la squadra». Sul ritorno del Milan in Champions League: «La bella addormentata si risveglierà nella sua casa. In mezzo ai più grandi club. Prima dell’Atalanta ho chiesto ai ragazzi: volete ancora giocare col Rio Ave o è ora di Manchester City, PSG, Bayern?».  Milan che sarà inserito in quarta fascia: «Un po’ strano che i vicecampioni d’Italia siano messi in quarta fascia. Ma vogliamo crescere. Affrontare le più forti aiuta, dovrà essere l’anno della nostra conferma». Il finale di stagione che ha visto il Milan arrivare secondo: «Fortunato a lavorare in questo club e con questo gruppo. Mi sarebbe piaciuto ripercorrere il Giro del mio idolo Gianni Bugno, in rosa dalla prima all’ultima tappa. Ma il calo era normale. Non abbiamo mai avuto dubbi sui principi di gioco, lavorando sui particolari». Un Milan che sembrava sbilanciato: «Il sistema è molto più fluido di quanto dicano le formule. Cambiamo spesso nella costruzione per ottenere la superiorità numerica. Preparare la partita, coi giocatori sempre partecipi, è la cosa più bella per me. Gli accorgimenti sono studiati». Pioli su Atalanta-Milan: «Quando andavamo a mille, potevamo aggredire gli avversari fino alla loro area. Con l’Atalanta abbiamo evitato di difenderci in parità numerica, con umiltà». Sull'addio di Gianluigi 'Gigio' Donnarumma: «Professionista esemplare, concentrato sul campo. Poi una trattativa può funzionare oppure no. Ci siamo sentiti e ringraziati a vicenda, è un rapporto sincero. Gli ho fatto gli auguri per l’Europeo». Il calciomercato che attenderà il Milan: «La creatività i miei dirigenti l’hanno già dimostrata. A parte Zlatan Ibrahimovic, sul quale avevo ovviamente espresso parere positivo, penso a Simon Kjaer e Alexis Saelemaekers, a Fikayo Tomori che non conoscevo, se non per uno spezzone. Qualunque sarà il budget, il nome Milan continua a essere un richiamo. L’importante è avere costruito una base di 10-12 giocatori da squadra di vertice, come Theo Hernández, Tomori, Kjaer, Franck Kessié, Davide Calabria, Hakan Çalhanoglu, Ibra. Ora dobbiamo migliorare il gruppo: la conferma è la cosa più difficile». Le analogie con il suo secondo anno alla Lazio: «Qui il secondo l’ho già scavallato, allora non affrontai di petto alcune dinamiche di gruppo. Da lì ho smesso di mediare, a costo di decisioni impopolari». Pioli su Atalanta-Milan 0-2 che ha chiuso il cerchio dopo Atalanta-Milan 5-0 del 2019: «Le grandi delusioni ti aiutano a crescere. Quel Natale difficile ci ha dato lo spunto per cambiare sistema di gioco, prendere Ibra, fare un mercato in uscita mirato». Ibrahimovic spesso infortunato: «Mi dispiace per gli infortuni di Mario Mandzukic, scelto per alternarsi con lui senza che calasse il livello. Zlatan non potrà giocarle tutte. Sa quando forzare: il rapporto è sincero. La Champions è meno pesante dell’Europa League il giovedì. Ma ci vuole il quarto attaccante». L'identikit del prossimo vice Ibra: «Se nei 5 campionati principali siamo la squadra più giovane tra le prime, è perché abbiamo dimostrato maturità. Che non è questione di età, ma di atteggiamento. Nel calcio moderno servono giocatori con due doti: intelligenza e capacità di accelerare. Prima il Milan era monopasso, oggi bisogna reggere l’uno contro uno a campo aperto». Pioli sull'atteggiamento che dovrà avere il suo Milan: «È finito il “meglio non prenderle”. All’estero si prepara la partita per esaltare le proprie qualità». La leadership di Kessié: «Abbiamo più di un leader, lo è anche Kjaer. Franck nelle difficoltà è il riferimento dei compagni. Fino a un minuto prima dell’allenamento è lì che balla e sembra che non gli interessi, poi è un esempio per tutti». Il tempo che ci metterà il Milan per tornare sul tetto d'Europa: «Il Milan deve tornarci. L’unico rimpianto è l’eliminazione contro il Manchester United. Il gol annullato a Kessié a Manchester e il ritorno senza Ibra, Ante Rebic e Rafael Leao. Si dice che le italiane non abbiano ritmo e intensità, ma noi in Europa non siamo mai andati in difficoltà. Però da qui a pensare di potersela giocare con Chelsea, Bayern, Manchester City, c’è un percorso di crescita, fatto di anni in Champions». Il tempo che ci metterà il Milan per tornare a vincere in Italia: «Un passo per volta. L’Inter ci ha messo anni e investimenti, la Juventus sarà di nuovo tra le favorite. Noi non dobbiamo perdere determinazione ed entusiasmo». Pioli sul podio di Serie A tutto lombardo: «Milano è al centro di tutto, traina l’economia. È giusto che sia tornata in cima. La nostra proprietà ci sostiene e ci tutela. L’Atalanta è una società fortissima e asseconda Gian Piero Gasperini, grandissimo allenatore». La SuperLega: «La meritocrazia è alla base dello sport, però UEFA e FIFA devono chiedersi perché club così importanti hanno pensato alla scissione. Significa che il sistema ha fallito». Pioli su Barcellona, Real Madrid e Juventus che rischiano l'esclusione dalla Champions League: «A me sembra inevitabile un tavolo tra le componenti del calcio europeo, per sviluppare il prodotto: servono confronti e cambiamenti». Il pubblico che sta tornando allo stadio: «Fine di un incubo. Penso a cosa ci siamo persi negli stadi di Celtic, Stella Rossa e United vuoti, e al calore dei tifosi a Milanello, prima di Bergamo. Con loro a 'San Siro', non avremmo dovuto aspettare l’ultima giornata per qualificarci». La differenza di rendimento del Milan tra casa e trasferta: «Non siamo mai mancati nel controllo del gioco, ma in casa abbiamo dati molto negativi nell’uno contro uno offensivo: non abbiamo tanti giocatori che saltano l’avversario». Pioli sull'opportunità di mantenere le cinque sostituzioni durante un match: «Sì, con 23 giocatori in lista non è positivo che 8-9 si sentano estranei alla partita». Il tecnico sulla proposta di Andriy Shevchenko di valutare per il fuorigioco solo petto e ginocchia: «In effetti il fuorigioco millimetrico mi mette in difficoltà, fatico anche col replay». Pioli sulle accuse al Milan per i 20 rigori a favore nell'ultima stagione: «Non mi toccano: ne avremmo meritati di più. Il V.A.R. torni alle origini: intervento in caso di errore evidente dell’arbitro. E poi basta fidarsi del fermo immagine. Sullo slancio, un contatto in foto lo vedi sempre, ma il calcio non è mica statico. Mi permetto anche un consiglio al designatore Nicola Rizzoli, che stimo: coppie fisse arbitro-V.A.R., che si alternino nei due ruoli per affinare uno stesso modo di arbitrare. Oggi cambiano di continuo: spesso si nota scarsa simbiosi». La Champions conquistata con il Milan: «Sarà la mia prima Champions. È una crescita continua. La passione mi permette di essere curioso, voglioso di migliorare. Mi sento completo. Ma ho voglia di cimentarmi contro i più grandi allenatori». Fonte: pianetamilan.it Read the full article
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spazioliberoblog · 4 years
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di NICOLA R. PORRO ♦
Per consolarsi di non poter vedere ciò che il futuro riserva ai più giovani, un anziano saggio può solo tornare con la mente a quello che lui ha vissuto e che i più giovani si sono persi.
A me una delle prime cose che balza alla memoria è una partita di calcio, giocata a Città del Messico nella notte fra il 17 e il 18 giugno 1970, esattamente mezzo secolo fa. Sì, sto parlando di Italia-Germania 4-3: la partita del secolo. Definizione enfatica ma mica tanto, se persino un intellettuale di temperamento ironico e allergico alla retorica definì la notte dell’Azteca – dal nome dello stadio teatro del match – quella in cui all’Italia “si attaccò la pelle”. Il tifoso si chiamava Umberto Eco. L’Italia era un Paese inquieto, dalla pelle scorticata: aveva alle spalle gli entusiasmi e le illusioni del ’68, l’autunno caldo, la bomba nera di Piazza Fontana che inaugurava la stagione delle stragi.
Per via del fuso orario la partita, che si giocava in un assolato pomeriggio messicano, iniziò per noi a mezzanotte. L’effetto era surreale, la tiepida umidità della notte annunciava l’estate incipiente. Stravaccati sulle poltrone del salotto Ettore e io – amici d’infanzia e colleghi di tutto (di liceo, di università, di militanza, di viaggi) – ce la godemmo nella mia casa deserta. I miei “passavano le acque” in qualche località termale. Addentammo un po’ di pizza al taglio, tracannammo un paio di birrette e ingannammo l’attesa divagando (mi pare) sull’imminente appello di Fllosofia morale che ci attendeva. Dico divagando perché a quell’ora la testa era già a cose ben più serie del tipo “funzionerà o meno schierare contro i crucchi due punte in attacco come Boninsegna e Riva?’”. Attesa interminabile, reciproca simulazione di scaramantico scetticismo e di un politicamente corretto distacco dalle sorti della patria calcistica. Pura finzione: di lì a poche ore saremmo stati travolti come tutti dal gorgo emotivo della partita. Quella del secolo, ça va sans dire.
L’incontro, in realtà, fu di una noia mortale per 92 minuti. L’Italia, andata in vantaggio con Boninsegna, pregustava il colpaccio arroccata in difesa con qualche occasionale sortita in avanti: catenaccio e contropiede, come da copione. Alla fine dei tempi regolamentari l’arbitro, un peruviano dalle fattezze orientali di nome Kamasaki, concesse due minuti di recupero. E proprio allo scadere del tempo il difensore tedesco Karl-Heinz Schnellinger, giocatore del Milan, avrebbe incocciato quasi casualmente la traiettoria di un tiro dalle retrovie. Gli impresse un effetto disorientante per il nostro portiere Albertosi: sarebbe rimasto l’unico gol segnato in carriera con la maglia della sua nazionale. 
Con l’Italia tramortita dalla delusione e la Germania ringalluzzita dall’insperato pareggio si va ai supplementari. È in quella mezz’ora che la semifinale di Messico ’70 diventa davvero la partita del secolo: cinque goal in trenta minuti, continui e vertiginosi ribaltamenti di fronte, un finale vincente che “attaccò la pelle” all’Italia. Dando vita a una narrazione epica e a una dinamica identitaria di inimmaginabile potenza. 
La Germania carica a testa bassa, decisa ad agguantare la finale cui si sente destinata. Puntualmente, Müller porta in vantaggio i suoi strappando al telecronista Rai una desolata riflessione sulla grande occasione definitivamente perduta. Ma l’Italia non si arrende e in capo a quattro minuti accade quello che non ti aspetti: Burgnich, anche lui un difensore puro, guadagna il pareggio. Ancora sei minuti ed è Riva Rombodituono a portarci in vantaggio con un tiro che avrebbe sfondato una portaerei. Ma non è finita. Ancora sei maledetti minuti e ancora l’inesauribile Müller a riaprire la partita con l’involontaria complicità di un Rivera smarrito alle spalle del nostro portiere. Di nuovo in alto mare… ma è questione di secondi. In un nuovo rovesciamento di fronte Boninsegna, lanciato sulla sinistra, si libera di Schultz e crossa basso all’indietro. Il nostro bomber Riva è ingabbiato in una selva di maglie bianche. Ma si è disimpegnato Rivera, ansioso di riscattare l’errore di poco prima. Una palla spiovente sulla destra gli carambola fra i piedi. Accarezzata dal suo piede di velluto la manderà a posarsi beffardamente nell’angolo della porta tedesca opposto a quello dove barcolla stralunato il portiere Maier: lui da una parte, dall’altra la palla. È il sesto minuto del secondo tempo supplementare: 4-3 per noi. Da milioni di finestre aperte si leva l’urlo più poderoso della storia nazionale. Forse non l’avranno sentito oltre Oceano, ma almeno in Corsica e in Albania di sicuro… Ci aspettano i nove minuti più lunghi del XX secolo.
A celebrare questo singolare cinquantenario escono in questi giorni due stimolanti contributi. 
Maurizio Crosetti, con 4 a 3. Italia-Germania 1970, la partita del secolo (Harper Collins, disponibile su Kindle) ricostruisce la vicenda in chiave biografica, incrociando le storie di vita dei giocatori azzurri che fecero l’impresa e gli itinerari esistenziali di giovani tifosi che dell’impresa furono spettatori. La ricostruzione ha un ritmo incalzante ed è narrativamente gradevole, capace di rendere efficacemente l’atmosfera, le emozioni e la costruzione del significato dell’evento.
Altrettanto gradevole, ma di più esplicito taglio sociologico, è il lavoro di Nando dalla Chiesa: La partita del secolo. Italia-Germania: 4-3. Storia di una generazione che andò all’attacco e vinse (Solferino). Ho avuto il privilegio di leggerne un’anteprima[1]. Lo studioso prende le mosse da un interrogativo: cosa rese tanto straordinario quell’evento sportivo? Perché lo abbiamo eletto “partita del secolo”, rimuovendo il malinconico epilogo che si consumò pochi giorni dopo con la disfatta subita in finale a opera del Brasile e i pomodori che accolsero Valcareggi al rientro a Fiumicino? Perché abbiamo riservato nell’immaginario pubblico un posto speciale a quella sofferta vittoria, persino più che al trionfo della nazionale di Bearzot, dodici anni dopo allo stadio Bernabeu di Madrid? 
Forse una prima risposta è implicita nella domanda. La potenza evocativa della notte dell’Azteca è direttamente proporzionale al pathos e all’incertezza che si concentrarono in una miscela esplosiva. Sotto questo profilo, la notte dell’Azteca sovrasta quella del Bernabeu, pur senza offuscarne il repertorio iconico: l’urlo di Tardelli, il magico tocco di Pablito, l’apoteosi di Bearzot, la pipa di Pertini, la selva di tricolori a Puerta del Sol, le strade d’Italia gremite e pazze di felicità. Insomma, per paradosso, nella notte della partita perfetta fu proprio la schiacciante superiorità tecnica degli azzurri a togliere pathos all’evento, trasformato nell’epilogo di una marcia trionfale celebrata in pochi giorni ai danni di Brasile, Argentina e Polonia. Mancò a Madrid 1982 la tempesta emozionale che aveva accompagnato i supplementari di Città del Messico 1970. Trenta minuti di thriller che nessun maestro del genere avrebbe saputo immaginare, se persino gli organizzatori si sentiranno in dovere di dedicare al “partido del siglo” una lapide commemorativa nel luogo dove si consumò. La nazionale di Valcareggi, a differenza di quella irresistibile di Bearzot, incarnò senza saperlo la figura dell’eroe irregolare, del perdente predestinato che si ribella al destino e lo rovescia guadagnandosi il “risarcimento simbolico” dovuto a un gesto generoso e irripetibile di ribellione. A ben vedere, osserva dalla Chiesa, è la stessa molla psicologica che ci fa preferire Leopardi a Manzoni, Garibaldi a Cavour, il Che a Fidel, così come Baggio a Platini e Maradona a Pelè. La notte dell’Azteca, tuttavia, scrive dalla Chiesa, “fu anche la notte delle prime volte: fu la prima volta che un popolo si diede spontaneamente convegno nelle piazze di ogni città; e fu anche la prima volta del tricolore; e fu la prima vittoria di un Paese fatto, con fatica e dedizione, da quella generazione degli ottantenni contro la quale si sarebbe accanito mezzo secolo il virus”.
E fu la la prima volta che un intero popolo sentì il bisogno di celebrare nelle strade una sorta di rito di comunione al di là delle diversità sociali, delle differenze politiche, delle identificazioni localistiche. Al di là di quanto era oggetto di divisione e conflitto in quegli anni tormentati.  Era la pelle che si attaccava all’Italia, nello scenario di mille piazze illuminate: le nostre città non ci erano mai sembrato così belle. Resistettero a letto in pochissimi, forse solo i sordi profondi impossibilitati a captare il più fragoroso concerto di clacson cui l’umanità avesse mai dato vita. E fu la notte del tricolore, a cancellare d’impeto l’appropriazione indebita della destra e le timidezze snobistiche della sinistra. Pochissimi avevano però bandiere a portata di mano. Ci si arrangiò alla meglio mentre le bombolette spray, sottratte al monopolio degli “opposti estremismi”, furono convertite alle ragioni del patriottismo calcistico. “Anche se si ha un po’ di pudore a dirlo – commenta dalla Chiesa -, davvero la bandiera nazionale si liberò quella notte della crosta ideologica che la soffocava grazie a una vittoria in uno stadio lontano. Lì, precisamente lì, si aprì la strada su cui sarebbe arrivato, quasi trent’anni dopo, Carlo Azeglio Ciampi”.
E per la prima volta lo stesso calcio giocato, le sue tecniche e le sue geometrie davano forma a una straordinaria allegoria. Mai una nostra nazionale aveva giocato costantemente all’attacco e con tanta rabbiosa determinazione i tempi supplementari. Una necessità dettata dalla logica di quella singolar tenzone, ovviamente. La quale conteneva però in sé il germe dell’eresia per un sistema calcio dominato dalla teologia difensivistica di cui si erano fatti profeti l’allenatore interista Helenio Herrera e il milanista Nereo Rocco. Perciò, osserva dalla Chiesa, a Karl-Heinz Schnellinger, autore del pareggio tedesco allo scadere dei minuti regolamentari “… gli italiani avrebbero dovuto erigere un monumento. Perché fu lui a regalarci quell’incredibile mezz’ora di vita davanti al video. Dove ogni tattica saltò. E una virtù fra tutte si levò: la generosità nell’assalto alla baionetta, reso intrepido dall’aria rarefatta dei duemila metri dell’Azteca.” Insinuando il sospetto che forse dovevamo proprio alla pavida filosofia del “primo non prenderle” il mortificante rango internazionale degli azzurri fra i Cinquanta e i Sessanta. Gli “orfani di Superga” erano stati esclusi dai Mondiali di Svezia del ’58, liquidati al primo turno quattro anni dopo in Cile, umiliati dalla Corea in Inghilterra ’66[2]. 
Invece quella notte che sapeva di estate eravamo lì quasi increduli a vederli impartire una lezione di grinta all’avversario di sempre. Sfidavano i portacolori del Paese dove ancora emigravano i braccianti del Sud in fuga da un’atavica miseria. Offrivano lavoro ma non ne conquistavano i cuori, generando quella miscela di ammirazione e risentimento ispiratrice in noi di un inconfessato complesso di inferiorità. A un quarto di secolo dalla fine di quella guerra catastrofica, che ci aveva visto alleati nella vergogna e nella disfatta, la sfida fra due grandi Paesi restituiti alla democrazia e alla prosperità si era caricata al di là delle intenzioni di poderosi significati, molto oltre il fatto sportivo. 
Così, in quei fatidici supplementari, l’Italia di Valcareggi avrebbe operato una sorta di metamorfosi antropologica. Alla tetragona e ordinata Germania occorreva opporre il coraggio dell’incoscienza, gettare il cuore oltre l’ostacolo, occupare la scena per preparare un trascinante finale verdiano. Dopo centodieci minuti di battaglia era saltato ogni schema tattico. Emblematicamente, a decidere l’incontro sarà un rovesciamento di ruoli fra Il goleador Boninsegna e il rifinitore Rivera: il primo a disorientare la stremata difesa avversaria, il secondo a concludere in rete. Al fischio finale l’abbraccio tra i due GR, Gianni Rivera e Gigi Riva inginocchiati sul prato, avrebbe fornito alla partita del secolo la sua icona simbolica.
A ragione dalla Chiesa mette in guardia dalla tentazione di dare interpretazioni ideologiche all’evento. Non c’è dubbio però che quella vittoria sportiva regalava senza volerlo una poderosa metafora soprattutto a quella porzione d’Italia più sospettosa verso le infatuazioni patriottarde e più ostile al campionismo capitalistico. La vittoria di Davide su Golia, agli occhi delle avanguardie intellettuali e studentesche protagoniste del ciclo di protesta a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, si inscriveva infatti a pennello nella categoria delle utopie realizzabili. Una partita di calcio ridondante di retoriche nazionalistico-competitive si trasformava in un rivoluzionario rito di conferma. “Siamo realisti, chiediamo l’Impossibile” non era forse stato lo slogan principe del Maggio francese? Quella maglie azzurre lanciate alla garibaldina in un assalto vittorioso ci dicevano che un disordine creativo e un pizzico di follia possono battere la Germania su un campo di calcio, ma anche aiutarci a cambiare il mondo, promuovere diritti, perseguire la giustizia sociale, riappropriarci di una corporeità liberata. Nell’universo disordinato della globalizzazione incipiente solo pochi commentatori avrebbero però ricordato come quell’allegoria stridesse atrocemente con la vicinanza fisica al centro di Città del Messico, a quella Piazza delle Tre Culture teatro dell’eccidio che due anni prima aveva stroncato nel sangue il Sessantotto messicano. 
Lo spirito del tempo entrò in quei Mondiali grazie, scrive conclusivamente dalla Chiesa, alla squadra italiana più pazza della storia. “L’Italia del ’70, che pure aveva alle spalle il 12 dicembre di Piazza Fontana, era il Paese della speranza, del protagonismo fiducioso della generazione del baby boom postbellico, era il Paese in cui i genitori con i calli sulle mani sognavano il figlio dottore”. Giovani di poco più anziani di noi avevano ricostruito il Paese con fatica e dedizione. Appartenevano a quella generazione contro cui cinquanta anni dopo, proprio nelle aree dove era rinata l’Italia industriale, si sarebbe accanito vigliaccamente il coronavirus.
”Quegli ottantenni – scrive dalla Chiesa – inizialmente visti con sconcertante sollievo come le vittime sole e predilette del virus assassino, colsero  allora nel 4-3 la conferma che con la loro fatica e i loro risparmi stavano costruendo una Italia orgogliosa e nuova, capace di trionfare nello sport più amato contro la nazione più forte”.
Viene malinconicamente spontaneo accostare a contrasto la festa popolare di cinquant’anni fa e “il silenzio livido e solitario dei camion militari che portano via le bare delle vittime da Bergamo, sottraendole a ogni affetto possibile. E tuttavia – conclude l’autore -, proprio di fronte alla tragedia nazionale improvvisa, quella partita resta, cinquant’anni dopo, una bandiera piantata nella storia del nostro Novecento. Simboleggia, con altri indimenticabili momenti delle istituzioni, della politica, della cultura, le vittorie raggiunte con le unghie e con i denti dal popolo italiano. Che sembrava schiavo senza speranza della ferocia nazista e se ne è liberato grazie a minoranze coraggiose; che sembrava destinato solo a emigrare e ha costruito una delle maggiori potenze economiche mondiali; che sembrava obbligato, come pure si scrisse, a convivere per sempre con il terrorismo, e di nuovo con minoranze coraggiose lo ha battuto; che sembrò in ginocchio contro Cosa Nostra e ancora grazie a importanti e coraggiose minoranze l’ha decapitata e indebolita”
Non si potrebbe dir meglio: davvero quel 4-3 non fu solo una partita di calcio, vinta da una squadra di eroi per caso.
NICOLA R. PORRO
[1]Si veda anche, a firma dell’autore, sul Corriere della Sera(7 giugno 2020), La Lettura, n. 445, pag. 34, “L’Italia del 4-3: una nazionale che diventò nazione”.
[2]Solo un fortunato concorso di circostanze ci aveva regalato una vittoria senza gloria agli Europei giocati in casa due anni dopo.
La notte dell’Azteca. Quando all’Italia si attaccò la pelle. di NICOLA R. PORRO ♦ Per consolarsi di non poter vedere ciò che il futuro riserva ai più giovani, un anziano saggio può solo tornare con la mente a quello che lui ha vissuto e che i più giovani si sono persi.
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konimjk · 2 years
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The Match Against Exactly, Seems To Be Peach's Last Trial
The Match Against Exactly, Seems To Be Peach’s Last Trial
KONIMojokerto-Persik Kediri scheduled a trial against Persis Solo on Sunday (17/7) at Wilis Stadium, Madiun. The match against Persis seems to be the last test match for Persik. White Tiger coach Javier Roca wants to see how far the final readiness of the players ahead of the 2022–2023 Liga 1 competition which starts on 23 July. The Chilean coach wants to see the best performance of his…
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E ora onore alle Serie D
Chi ci legge sicuramente ha capito che nel blog di ieri abbiamo voluto celebrare in primis lo straordinario traguardo ottenuto dalla nostra squadra di Serie B maschile, promossa in B1 dopo solo un anno di provenienza dalla C.
Chi ci conosce sa benissimo che il nostro cuore e la nostra attenzione si rivolge anche e soprattutto ai nostri frequentatori amatoriali e mai come in questi giorni il termine assume un significato attuale. AMORE per il CTP viene dimostrato ogni domenica, sudando sui campi in giro per la nostra Regione a 38 gradi o anche oltre, dalle numerose Serie D iscritte ai campionati di categoria.
Domenica 13 Giugno anche i nostri atleti meno quotati ma non meno importanti hanno onorato i colori a noi tanto cari.
Diamo ovviamente precedenza alla elegante e raffinata squadra delle nostre Ladies di D3, alla ricerca dei primi punti nel Girone 11 in quel di Buscate. Dopo un pomeriggio caldissimo e non solo per il clima ma soprattutto per le emozioni vissute, non solo sono arrivati i primi punti, ma Lucia e compagne non hanno concesso nemmeno un set alle malcapitate avversarie.
A detta della stessa capitana, smaltita la tensione da Derby contro il TC Lainate, le palle scorrevano alla grande e finalmente andavano dove previsto, prova ne sia il 61 iniziale. Se poi pensate che nel secondo set Lucia era sotto 41 e che da quel punto Lucia ha ripetuto a se stessa il mantra che dovrebbe accompagnare tutti noi sui campi da tennis, vale a dire DIVERTITI ! ecco servito il 64 finale.
Andamento esattamente opposto nel secondo match, sicuramente per via del fatto che Michelle Barca era al suo esordio nei campionati a squadre e possiamo capire come iniziare a difendere i nostri colori possa creare tensione. Da qui il tirato set iniziale, vinto comunque dalla brava Michelle per 6 giochi a 4, cui ha fatto seguito un altisonante 60 che parla da solo. Grandissima e ora tranquilla, smaltita la sbornia del tuo esordio, la strada inizia a scendere !
Tenendo conto che la coppia di doppio schierata dal CTP era ancora una volta composta dalle due sorelle Brian di Parabiago, rispettivamente Laura Cozzi e Nadia Legnani, secondo Voi come sono andate le cose ? 62 75 in carrozza e primo risultato pieno a favore nostro team per abbandonare lo scomodo cucchiaio di legno del Girone 11. Abbiamo rotto il ghiaccio ragazze e possiamo servire gli aperitivi !
Continua a gonfie vele il percorso della D1 Maschile nel Girone 4. Capitan Volante e i suoi boys hanno espugnato il prestigioso TC Gallarate, grazie a vittorie che definire perentorie risulta riduttivo.
61 60 dal nostro numero 1 Turconi Emanuele sul 3.2 Piraino, 62 60 dal ristabilito (dopo alcuni problemi alla schiena) Bogni Andrea sul 3.3 Carrozzo ed infine 63 62 da Favetti Marco in grande spolvero contro il 3.4 Luzi.
Giornata complicata per via del caldo per il quarto nostro singolarista Paolo Panaro che ha ceduto al buon 3.3 Salmini solo dopo una battaglia epica e di cuore conclusasi 75 36 76 a testimonianza che come al solito ha dato tutto sul campo, senza risparmiarsi.
Anche qui come per le ladies, sono scesi in campo doppi che stanno diventando riferimenti di assoluta certezza per il nostro sodalizio. In particolare il DNA di casa Volante (per via del fratello con best ranking ATP di 199) e di casa Legnani (per via del padre Fabio dalle indiscusse doti del volleatore) trova nella coppia Ivan/Andrea una espressione di grande specialisti: 62 61 ai malcapitati Tritto/Martignoni. Anche Bogni e Turconi hanno trovato una buonissima intesa per sconfiggere Piraino/Carrozzo per 62 64.
Un 5 a 1 che ci conferma capolisti e non aggiungiamo altro.
Passiamo alle D3 sempre al maschile, con le due squadre A e C ad affollare i campi 3 e 4 mentre la B conquistava la promozione, rispettivamente contro Atlha Sport Factory A e GTennis B.
Premettiamo per entrambi le squadre che giocare sotto i tensostatici nella caldissima giornata di Domenica 13 era davvero improponibile, soprattutto nelle ore centrali.
Nonostante tutto, la classe di Luca Rossetti ha permesso di avere la meglio sul buon 3.3 Voci Giangiacomo, sconfitto per 36 62 63 dopo un primo set perso per alcuni episodi sfortunati per poi raddrizzare un match giocato davvero a ottimi livelli per un giocatore che ancora una volta ha espresso tutto il suo talento.
Al nostro secondo singolarista Luca Casanova sono purtroppo per lui toccate le ore maggiormente complicate dal punto di vista ambientale e dopo un primo set tirato contro il buon 3.4 Stranci, il nostro ha dovuto lasciare il passo al giovane Gabriele con un 62 finale che lascia comunque ottimi spunti ad un Casanova che conferma di essere in una stagione di buon livello.
Il 2 a 1 per il CTP viene garantito dalla ennesima prova di forza di Stefano Mazzetto, che in barba alle condizioni vicine a quelle di una sauna, ho portato a casa un match non banale contro il 4.2 Manara. Sono le classiche partite che sembrano scontate, che si possono solo vincere ma che proprio per questo soprattutto nei campionati intersociali nascondono parecchie insidie. 62 63 alla fine e pronti per il doppio.
La nostra giovane coppia Mazzetto/Pettenon Stefano affrontava Voci/Stranci, collaudato duo che sino a Domenica aveva dimostrato ottime intese. Il primo set perso 63 non lasciava ben sperare ma proprio in questi momenti viene fuori il carattere, e i nostri giovani atleti hanno dimostrato di averne parecchio, trionfando 61 nel secondo parziale. Si andava quindi al super tie-break e in queste occasioni gli equilibri si spostano in un amen. Dopo i primi scambi punto a punto gli ospiti avevano la meglio per 10 punti a 7, lasciando ai nostri giovani atleti parecchi rimpianti ma comunque ottimi spunti di crescita. Inutile dirvelo boys … continuate su questa strada ! Alla fine 2 a 2 e avanti col Girone !
Sul campo 4 era di scena la squadra seniores che schiera tutti atleti under e che per questo motivo viene schierata soprattutto per mettere in cascina fieno di esperienze. Il perfetto capitano Paolo Palmieri ha colto nel segno e nei cambi di campo ha cercato di far capire il vero motivo per cui i suoi ragazzi erano in campo: DIVERTIRSI. Paolo ha ragione da vendere, ragazzi, vi esibite per questo e per uscire dal campo convinti di aver dato tutto, non certo per scaricare la vostra frustrazione se le cose non vanno come vorreste su palle e racchette lanciate.
Capendo questo il nostro Andrea Cattaneo ha cercato di raddrizzare il match contro il maggiormente esperto 3.5 Albizzati, dovendo tuttavia lasciare il passo per 61 63. Sei giovane, di talento e bello da veder giocare per cui siamo sicuri che ti rifarai presto.
A sistemare le cose la perentoria prova di Giorato Giosue che ha lasciato solo tre giochi al povero Fontanesca che onestamente non ha capito molto. Bravo Gio, ottima prova.
Sfortunata invece la prova di Stefano Biondi, bravo a stare in partita sino alla fine contro il buon Griseta e dovendo cedere solo con un tiratissimo 64 76. Anche per te Stefano lo stesso discorso di Andrea, con il tuo bel tennis che chiede solo di diventare agonisticamente cattivo per poter emergere in tutte le sue ottime prospettive.
Toccava al duo Terrenghi Marco/Giorato cercare di equilibrare la sorti ma ancora una volta la maggiore esperienza e attitudine a giocare punti importanti degli avversari Farina/Meroni hanno portato i punti della vittoria al GTennis, con il 64 63 finale che lascia qualche rimpianto per alcuni NO AD persi.
Ci ripetiamo, ma per Paolo e tutti noi tutte queste vogliono essere esperienze costruttive e i punti positivi da cui partire sono davvero tanti.
Rimanendo in D3 andiamo con i nostri alfieri della squadra B in quel di Milano contro la ASD CT Pavesi. Sottolineiamo la perentoria prova di un Thomas Mellace neo vaccinato e capace di sbaragliare 62 62 il 4.2 Cattaneo, scoprendo magari che nella formula del vaccino ci sono alchimie nascoste che esaltano il suo indiscusso talento.
Sfortunata la prova di Nick Soria, sconfitto al terzo (63 57 62) da un ottimo 3.3 Casarini ma anche da un caldo a volte insopportabile. Aver dato tutto in singolo ma poi come vedremo accettare di schierarti in doppio merita tutto il nostro GRAZIE !
Capitolo Enrico Chicco Cassani, in campo a onorare la maglia nonostante i 50 gradi e alcuni problemi oculari di non poco conto. Che dire di un giocatore che in campo mette davvero sempre tutto, andando anche oltre i propri limiti e mettendoci anima e corpo. Nulla, non possiamo dirti nulla se non sottolineare ancora una volta come da esempi come il tuo i nostri giovani devono trarre insegnamenti e tanta voglia di sudare. Hai perso al terzo in modo netto ma non devi rimproverarti niente Feru !
Dicevamo del doppio, con i nostri Soria/Mellace opposti a Casarini/Cattaneo e udite udite sotto 62 3 a 0 e capaci di ribaltare il risultato vincendo per 63 e trionfando 11 a 9 nel super tie-break.
Ci piace per chiudere riportare testualmente la dichiarazione post partita di Mellace: Come ogni domenica abbiamo dato davvero tutto quello che avevamo per i colori del nostro tennis!
Grazie a tutti e al mio omonimo che pur non avendo mai giocato risulta sempre presente a soffrire con noi
Cosa vogliamo oltre dai nostri ?
Arriviamo, solo per ordine di campionato, alla squadra di D4 Maschile capace di sconfiggere quella dello Sporting Club Milano 3 grazie ad un Luca Raisi in grande spolvero e che finalmente sfata il tabu del numero 1 riuscendo finalmente a vincere per 62 64 il suo match contro il 4.4 Morpurgo. Anche qui da sconfiggere non solo avversario ma anche tradizione sfavorevole e caldo soffocante quindi tre volte bravo Luca !
Ci diventa difficile trovare aggettivi per Capitan Carmagnola, sempre esemplare e impeccabile nel portare a casa il suo punto (64 62 al 4.4 Di Fede) e a guidare la squadra dalla panchina.
Generosa come sempre ma sfortunata questa volta la prova di Romeo Francesco, sconfitto 64 75 in un tiratissimo e caldissimo match contro il 4.4 Frasca.
Toccava quindi alla coppia Giglio/Cramagnola che proprio non riescono a perdere un doppio, portare a casa il terzo e decisivo punto per una vittoria fondamentale per la classifica del girone 9 che guidiamo con orgoglio ! GRANDI !
Grandi soddisfazioni ancora e grazie a tutti.
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seaprwire · 3 years
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Live Streaming Liga 2 di Vidio: Big Match PSPS Riau vs Semen Padang dan PSG Pati vs Persis Solo
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Live Streaming PSPS Riau vs Semen Padang dan PSG Pati vs Persis Solo source https://www.bola.net/indonesia/link-live-streaming-liga-2-di-vidio-big-match-psps-riau-vs-semen-padang-dan-psg-pati-vs-persi-6029d8.html
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pangeanews · 4 years
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“Dobbiamo sentirci liberi di chiudere gli occhi e di immaginare qualcosa al di fuori dal comune”. Francesco Consiglio dialoga con Dario Savino Doronzo, filocornista (Umberto Eco impazzirebbe per lui!)
“Non è vero che i bambini sono buoni”, scrisse Roberto Gervaso. “È vero che gli adulti vogliono crederlo”. Se non siete d’accordo, sentite cosa mi è accaduto. Durante un incontro nelle scuole, dove ogni tanto vado a sproloquiare di letteratura, un piccoletto con la faccia da topo si è alzato e ha domandato: “Perché scrivi di musica? La musica si suona, non si scrive”.
Io ho risposto: “Si scrive anche di cinema, di teatro, di pittura. Perché lo trovi così strano?”. Replicargli con una domanda, che tragico errore! Come un pugile che sente di avere il match in mano, il moccioso ha affondato il colpo: “Secondo me, tu sei come quel mio amico Luca che non sa giocare a pallone e sogna di fare il giornalista sportivo”. Non è vero che i bambini siano buoni, ha ragione Gervaso. È vero invece che sono pieni di malvagità involontaria, in misura impietosa perché sinceri.
Nel silenzio generale, ho raccolto i miei pensieri e ho detto: “Se pensi che scrivere sia la salvezza di chi ritiene la musica sullo spartito troppo ardua per le proprie capacità, forse hai ragione. Ogni tanto, lo confesso, mi piacerebbe scambiare la tastiera del pc con quella di un pianoforte o con le corde di un violino. Ma voglio darti un consiglio: quando sarai grande e avrai speranze e passioni, coltivale con umiltà. Cerca di fare ciò che puoi, come puoi, con ciò che hai. Non tutti possiamo fare grandi cose, ma ciascuno di noi può fare piccole cose con grande amore”.
Oggi, cari esploratori della Pangea, voglio farvi conoscere l’eccellente flicorno di Dario Savino Doronzo.
Come mai hai scelto di suonare il flicorno? È uno strumento che nell’immaginario popolare viene suonato nelle bande e nelle fanfare. Tra i vari tipi di flicorno, il contralto, detto anche genis, si è meritato una citazione dello scrittore Umberto Eco. Nel romanzo Il pendolo di Foucault: uno dei protagonisti, un ragazzo, desidera suonarlo nella banda per fare colpo su una coetanea: “Il genis è l’ossatura della banda, ne è la coscienza ritmica, l’anima. La banda è come un gregge, gli strumenti sono le pecore, il maestro è il pastore, ma il genis è il cane fedele e ringhioso che tiene al passo le pecorelle. Il maestro guarda anzitutto al genis, e se il genis lo segue, le pecorelle lo seguiranno”.
Il suono del flicorno mi ha sempre affascinato per la sua timbrica scura e avvolgente. Ho iniziato presto, all’età di dieci anni. Fu il Maestro Luciano Palmitessa a guidarmi verso le porte della Musica. Gli devo molto! Fu il primo a scommettere nelle mie potenzialità e nel mio talento. Successivamente, ho proseguito i miei studi presso il Conservatorio di Bari dove ho avuto modo di migliorare, ampliare e affinare le mie qualità musicali. Suonare è la realizzazione del sogno di una vita. Sacrificio, spirito di abnegazione e grande senso di responsabilità mi hanno ricompensato con un florido presente che mi riempie ogni giorno di immensa gioia e bellezza.
In Reimagining Opera, insieme al pianista Pietro Gallo ti sei cimentato in un’impresa coraggiosa e per certi versi spiazzante, rileggendo in chiave jazzistica il melodramma italiano. Nell’album, edito da DiG-Digressione Music, sono presenti pagine celeberrime quali il pucciniano Nessun dorma o l’Intermezzo della Cavalleria rusticana di Mascagni e altre arie di Alessandro Parisotti, Claudio Monteverdi, Tommaso Giordani e Giovanni Paisiello. Sono curioso di sapere se durante l’incisione pensavate a un pubblico particolare e se avete temuto che i melomani, solitamente conservatori, lo bollassero come una profanazione, mentre i cultori del jazz, poco avvezzi a quelle antiche melodie, faticassero a comprenderlo.
Io e il mio amico Pietro siamo stati educati a un suono asciutto e curato di stampo classico e successivamente abbiamo intrapreso studi di musica jazz. Questo comune background ci ha permesso di lavorare insieme con un’unica mente e come un solo strumento. Fine ultimo del progetto è la rilettura delle arie più significative di autori luminari della musica operistica ‘made in Italy’. In altri termini, abbiamo smontato celebri lavori di stampo classico per poi rimontarli con modificazioni e variazioni jazzistiche sul piano melodico, armonico, timbrico, ritmico. Il calore del pubblico è tutto per un artista. Non abbiamo mai pensato ad un pubblico diviso in due fazioni contrapposte, al contrario volevamo condividere – da sempre – un prodotto che unisse due generi così diversi ma al contempo complementari.
Studiare filosofia ignorando i filosofi. Emozionarsi al cospetto di un dipinto di straordinaria bellezza e non provare il desiderio di conoscere il nome del pittore. Ascoltare un brano musicale a occhi chiusi, totalmente persi nel suono, nella relazione reciproca delle note, convinti che la musica potrebbe esserci anche se il mondo non ci fosse, e che il resto non conta: la presenza dell’interprete, la storia del compositore, il periodo storico in cui quel brano è stato composto. È plausibile pensare che la ragion d’essere della musica vada ricercata nella musica stessa, e il miglior ascolto è quello ‘ignorante’?
Ricondurre la Musica verso schemi rigidi risulta – a mio giudizio – un sacrilegio. Bisogna studiare la storia per rendere il presente e il nostro futuro più ricco. Non dobbiamo studiare per catalogare il tutto secondo dei lineamenti rigidi e imprescindibili. Ecco perché è necessario distinguere l’erudizione dalla cultura: se la prima, probabilmente, si riferisce ad un sapere limitato a conoscenze e a informazioni inerti, la cultura ci veicola nell’imparare a pensare con giudizio e responsabilità. Dobbiamo sentirci liberi di ‘chiudere gli occhi’ e di immaginare qualcosa al di fuori dal comune e al di fuori da ciò che studiamo. Il grande Charlie Parker diceva: “impara tutto sulla musica e sul tuo strumento, poi dimentica tutto sia sulla musica che sullo strumento e suona ciò che la tua anima detta”. Il giudizio puro, ‘libero’, è il giudizio più vero a cui dobbiamo tener sempre fede.
Parliamo di improvvisazione. Mentre un interprete rivive emozioni pre-scritte, e la sua bravura consiste nel saperle rivivere a comando, un improvvisatore ha spazi di libertà assoluti, potendo estrarre dallo strumento successioni di note che si accendono come lampadine, una dopo l’altra, e dalla mente scivolano alle mani e poi sulla tastiera manifestandosi vorticosamente, in frammenti di tempo infinitesimale. In quei momenti, credo che un musicista possa sentirsi una divinità.
Hai perfettamente ragione! Sono dell’idea che le ‘regole’ dell’improvvisazione jazzistica non si possono considerare come leggi inviolabili ma come indicazioni al servizio della musica. Il musicista jazz deve ritenersi ‘libero’ di esprime ciò che sente al di fuori di qualsiasi rigido schema. Sostanzialmente l’improvvisazione permette al musicista jazz di ‘creare’ e di plasmare i suoni per dargli forma e vita.
Chiudiamo prosaicamente, precipitando dalla purezza della creazione artistica alla vita quotidiana del musicista. Immaginiamo due giovani jazzisti che discutono animatamente. Uno dice: “Quello del musicista è uno dei pochi mestieri in cui le raccomandazioni servono a poco. Chi ha talento alla fine si trova davanti alla porta giusta”. L’altro risponde: “Ma che dici? Il mondo musicale italiano è peggio di una setta: o stai dentro o stai fuori. C’è una mentalità di sistema: relazioni, politica, gli amici degli amici… tutte quelle cose lì”. Tu con chi stai?
Penso che il mondo musicale italiano sia tutto sommato ‘chiuso’ in quattro solide mura, ma son certo che si possono creare varchi e spazi per dar alito alla voce di chi vuol ‘urlare’ al mondo il suo essere, la sua energia, la sua Musica. Basta volerlo!
Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?
Bella domanda, ma non saprei veramente. Prossimamente ho in programma concerti e seminari presso il Conservatorio di Lecce (sez. Ceglie Messapica), l’Università delle Arti di Niš (Serbia), il celebre Auditorium ‘Yeldeğirmeni Sanatla’ di Istanbul (Turchia), la prestigiosa mdw – University of Music and Performing Arts di Vienna (Austria), la storica Town Hall di Tallinn (Estonia) e tanto altro ancora. Inoltre, con il mio amico e collega Pietro Gallo stiamo lavorando per il prossimo disco che seguirà la scia del nostro CD Reimagining Opera.
Francesco Consiglio
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Dario Savino Doronzo (www.dariodoronzo.it) si è diplomato in Tromba, Musica Jazz, Direzione di Coro e Composizione Corale, Scienza e Tecnologia del Suono. Selezionato a livello europeo tra i 10 candidati meritevoli, consegue il programma formativo Tuning In! presso la mdw – University of Music and Performing Arts di Vienna. Come solista e bandleader ha al suo attivo numerosi concerti per le più importanti organizzazioni musicali e culturali italiane ed estere (Carnegie Hall di New York, Thelonious Jazz Club di Buenos Aires, SKG Bridges Festival di Salonicco, Università di Coimbra, Auditorium Juan Victoria di San Juan, Jazzit Fest, Piacenza Jazz Fest, etc.). Incide per l’etichetta DiG – Digressione Music, con la quale ha pubblicato il CD “Reimagining Opera” con la collaborazione di Pietro Gallo al Pianoforte e Michel Godard al Serpentone. Laureato in Ingegneria Edile presso il Politecnico di Bari, si perfeziona in Ingegneria del Suono presso il Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria dell’UNIMORE. È autore del volume di Marketing Territoriale “Gli eventi musicali come elemento di valorizzazione del patrimonio urbano” realizzato con il supporto della Regione Puglia e del ministero dello Sviluppo Economico (Florestano Ed., Bari 2019). Già docente di Tromba Jazz presso il Conservatorio ‘Santa Cecilia’ di Roma, vincitore di Concorso è docente a tempo indeterminato di Tromba presso il Liceo Musicale di Foggia e docente a contratto presso il Conservatorio ‘Alfredo Casella’ dell’Aquila.
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italianaradio · 5 years
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Atp finals, infinito Federer: battuto Djokovic, è semifinale
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Atp finals, infinito Federer: battuto Djokovic, è semifinale
Atp finals, infinito Federer: battuto Djokovic, è semifinale
Un incredibile Roger Federer batte Novak Djokovic, si vendica della sconfitta di Wimbledon e si qualifica per la semifinale delle ATP Finals di Londra, come secondo del girone Borg. A quattro mesi esatti da quella leggendaria finale, vinta dal serbo dopo 5 ore e dopo 2 match point sprecati dallo svizzero, ora Federer ha impartito una dura lezione al rivale, che con il ko subito viene anche eliminato dalla corsa al titolo di Maestro.
I parziali del match sono 6-4, 6-3 per un Federer praticamente perfetto in risposta e chirurgico al servizio, con 12 ace e 11 punti persi, di cui solo 3 nel primo set, in cui ha dominato anche al di là delle statistiche. Lo svizzero accede per la 16^ volta su 17 alle semifinali delle Finals, riscrivendo ancora una volta il libro dei record. Djokovic dice così addio anche al sogno di chiudere l’anno al n° 1 del ranking, posizione occupata da Rafa Nadal.
Proprio lo spagnolo, vincendo oggi con Tsitsipas e ricevendo un aiuto da Medvedev, potrebbe vincere il proprio girone e qualificarsi come primo: se così fosse, domani, sarà servita sul piatto un’epica semifinale in versione Fedal.
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Eleonora Marini
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