#per partire ma poi laggiù è estate
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deathshallbenomore · 2 years ago
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donna del posto deve venire a patti col fatto che il fido valigino delle dimensioni di un bagaglio a mano potrebbe non essere sufficiente per un viaggio di 11 giorni, e che pertanto potrebbe essere utile ricorrere a una valigia un po’ più capiente. donna del posto è triste. sono io io sono donna del posto
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yomersapiens · 8 years ago
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Aggiornamenti da una tollerabile esistenza.
È una scena in stile Sergio Leone, sul bus sale un gruppo ben nutrito di anziani, mi alzo per lasciare il posto, si guardano tra di loro, si studiano, si osservano, soppesano le diverse età. Chi sarà il più vecchio? Chi avrà maggior ragione di ereditare il posto a sedere? La videocamera stringe su i loro occhi. Poi sulle loro bocche serrate. Uno sputa qualche parola: “Io scendo subito, andate pure voi”. Un’affermazione forte, forse un retaggio dell’epoca in cui credeva di appartenere ad una razza superiore. Resta in piedi stoico al mio fianco, nonostante le scosse del viaggio, tutti gli altri si siedono parlando del più e del meno. Lui prova a parlare con me, un suo simile, un giovane all’erta. Alzo il volume delle cuffiette, faccio capire che sto ascoltando musica. In realtà non ho voglia di tedesco appena alzato. Al supermercato, ero ancora in Italia, una signora dietro di me aveva voglia di parlare. Credo sia una cosa che puoi fare solo in Italia, rompere il cazzo alle cassiere, perché qua in Austria se ci provi ti mettono la mancia in conto con una voce che dice “rapporti umani con sconosciuti +20%”. La signora mette 4 scatolette di cibo per felini sul nastro trasportatore, quelle dorate, quelle lusso. Dice “È tutto il giorno che sono in giro per uffici, non vedo l’ora di tornare a casa dai miei gatti”. Erano le 11:45. “Sicuro saranno arrabbiatissimi con me! Per questo gli prendo le pappe buone. Così mi perdonano”. Ogni tanto capita casualmente di provare del bene per persone che esisteranno solo una quindicina di secondi nella tua vita. La nonna ha iniziato a novembre, non appena ha saputo che sarei sceso a Napoli per la festa dei 70 anni della zia, a chiedermi cosa volessi mangiare in quei giorni. Ci siamo sentiti spesso nelle settimane a venire, ogni volta iniziava la conversazione con “Allora quando arrivi?” “Il 3 gennaio nonna” “Vabbuono. E che vuoi mangiare?“ Poi partiva ad elencarmi tutti i prodotti tipici della Campania. Non mi andava di dirle che ho ricordo di cosa si mangi laggiù, quindi ascoltavo e ogni tanto le ripetevo di essere vegetariano. Lei un po’ delusa ritornava in sè, dicendo vabbuono, allora questo non te lo faccio. Sono stato dai nonni qualche giorno, ho mangiato tutto quello che mi veniva messo nel piatto, ho risposto a tutte le domande che mi sono state poste più volte. Sempre le stesse. Ho completato la settimana enigmistica del nonno con le parole giovani che lui non conosce. Tipo smartphone o Lou Reed. La tv era sempre accesa ma sembrava guasta, bloccata. Striscia la notizia è ferma alla stessa puntata di quando sono partito dall’Italia. Anzi ancora da prima, da quando ho smesso di guardare la televisione perché hanno chiuso l’Ottavo Nano. Ho visto la serie The Young Pope, l’ho apprezzata. Ho visto un programma che era pura idolatria chiamato Un Selfie col Papa e ho pensato che se Dio lo avesse visto avrebbe indicato quella persona vestita di bianco dicendo “Ah adesso ha assunto questa forma il vitello d’oro?”. Tutto è rimasto fermo come le risate registrate negli sketch di Greggio e Iacchetti. Non penso neanche le rimandino in onda. Penso siano un’eco delle risate fatte partire durante gli anni 90. Ho parlato con la nonna nuovamente da quando sono andato via. Tutte e tre le volte ha concluso la telefonata con la stessa domanda “Quando arrivi?”. “Sono appena stato giù nonna.” “Ah.” “Eh...” “Non torni?” “Certo nonna! Torno appena posso!” “Allora che vuoi mangiare?” Non mi è mai piaciuto mentire ma tanto si dimenticherà del menù non appena poseremo il telefono e tornerà a guardare Un posto al Sole. Pure lì succede sempre la stessa cosa ma che differenza fa oramai. In ufficio a Vienna ero felice dell’arrivo della nuova collega. Persona tranquilla, riservata, che mangia quieta durante la pausa pranzo. Per puro spirito conviviale questa estate mi permisi di fare una domanda su un articolo di giornale che non avevo capito. È stato come aprire il vaso di Pandora. Da quel momento ha ricevuto il via per parlare ed è straordinario quanto una persona riesca a riempire il silenzio con parole inutili. Come una parete di casa bianca sulla quale inizi a gettare ortaggi andati a male e lanci e lanci e lanci poi passi alle uova e lanci poi prendi il terreno e lanci poi ancora materiale plastico, materiale radiottivo, colla, piume, catrame, bitume, sciroppo d’acero, lanci su lanci finché la parete è completamente piena ma tu vai avanti lo stesso perché chi se ne frega di tenere la bocca chiusa. Il capo, poco prima di firmare il contratto definitivo, mi ha chiesto quali sono le mie intenzioni, cosa voglio portare di mio nel nostro ambiente lavorativo. “Il silenzio” ho risposto. Continuo a pensare che la colazione sia il pasto più importante della giornata. Unica nuova annotazione che aggiungerei: se la sto facendo dopo aver dormito con te e la prospettiva, una volta finita, è di tornare a letto insieme. Durante la festa per la zia ho ascoltato furtivamente un discorso che mia madre stava tenendo alla sua tavolata di parenti. Si è lasciata scappare un “le mie bimbe col pelo”. Ho guardato incredulo mio fratello, i primi secondi ho pensato di avere sorelle che non hanno mai visto un’estetista una volta raggiunta la pubertà la cui esistenza mi è sempre stata tenuta nascosta. Sarebbe stato meglio. In realtà si riferiva alle sue due gatte. Surrogato dei due figli residenti all’estero. Mi piace mettere in difficoltà i parenti. Ad una cugina che vedo molto raramente ho chiesto “Ma a te darebbe più fastidio se io fossi un terrorista o un omosessuale?”. Lei ci ha pensato. Ho contato ogni attimo in cui l’ho vista riflettere sul senso della domanda. Vedevo che ci ragionava, vedevo che non sapeva come rispondermi. Dopo un po’ ha detto “Forse un terrorista”. Ha detto davvero forse. Ho riso ma contemporaneamente ho sentito un forte dolore genetico. Mia madre ha appeso in cucina uno di quei calendari che fanno i gattili, quelli dove mettono foto di gatti salvati e di fianco una frase accattivante sul senso della vita. In basso ho trovato uno spazio per le annotazioni, lasciato vuoto. L’ho compilato. Cose da fare: - La cacca - Comprare il pane - Sterminare le altre razze - Accarezzare cuccioli
È da un po’ che cerco di diffondere questa falsa notizia che mia madre sia una nota antisemita. Ci provo nei discorsi con le sue amiche, quando le incontro casualmente. “Ehi ciao sono Matteo! Sì, ci ha presentati mia madre, ti ricordi di me? Tutto bene, lei sta bene, è sempre vegetariana, ama sempre le sue gatte e prova sempre un nutrito risentimento verso gli ebrei. Tutto al solito!” Devi fare un poco di terra bruciata quando parti, così le persone care evitano di sentire la tua mancanza.
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pangeanews · 5 years ago
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“Italia non ti posso lasciare”: su una poesia autografa di Dino Campana, il turibolo più inebriante della letteratura italiana. Potete comprarla a 32mila euro
Nella consultazione settimanale di maremagnum.com, alla ricerca di testi campaniani, ho provato il parametro di ricerca “prezzo decrescente”, e mi è apparsa questa meraviglia autografa di Dino Campana, una versione di “Domodossola” su un foglietto 17×21 a trentaduemila euro (il mio sogno sarebbe solo guardarla dal vivo e magari averla tra le mani indossando guanti di cotone bianco).
Nelle note bibliografiche dell’autografo è raccontata la storia del foglietto, che conoscevo, poiché Paolo Pianigiani, uno dei massimi esperti di Dino Campana in Italia, me lo aveva accennato.
Dino aveva scritto quella versione di “Domodossola” per corteggiare Bianca Lusena, un’amica della pittrice Bianca Fabroni, presso la quale era ospite Campana ad Antignano. Sulla base delle immagini a corredo dell’inserzione di vendita, ho riscritto con le spaziature più o meno simili alla scrittura vulcanico-ormonale di Campana, “Domodossola 1915”.
Come delle torri d’acciaio Nel cuore bruno della sera Il mio spirito ricrea Per un bacio taciturno
Se là c’è un rosso giardino Che cosa è bianco con il turchino?
Sull’Alpe c’è una scaglia di lavoro Del povero italiano, e non si sa Tra i pioppi Al margine degli occhi bruni della sera Se c’è una pastorella non si sa Che pare far vane le torri Al taglio di un pioppo che brilla: Italia Ma come torri d’acciaio Nel cuore bruno della sera Il mio spirito ricrea Per un bacio taciturno
Hai domati i picchi irsuti Hai fatto strada per le montagne Con poco canto con molto vino Sei arrivata vicino Là dove si poteva arrivar Senza interrogare la giubba rossa delle stelle Hai sfondato fin che si poteva arrivare finché sei andata a riposare Laggiù nello straniero suol Italia non ti posso lasciare, La scaglia dell’italiano senza cuore Brilla: stai fida l’onore Te lo venderemo con una nuova verginità. L’edera gira le torri, È la vigna della tua passione Italia che fai processione Con il badile prendi il fucile ti tocca andar Fora la giubba rossa delle stelle Questa volta con il cannone, Italia che fai processione Prendi il fucile guarda il nemico ti tocca andar Guarda il nemico che poi non t’importa Ti sei fatta a forzare la pietra, Prendi coraggio se batti la porta Questa volta ti si aprirà. Cara Italia che t’importa Ti sei fatta a forzare la pietra Prendi coraggio questa volta Che la porta ti si aprirà.
Nel paesaggio lente si spostano le rondinelle Il paesaggio è costituito dal ponte cui rema al secondo fiume L’oro e l’azzurro dei tramonti decrepiti si è cambiato in verde … Ma come torri d’acciaio . ecc.
Dino Campana
*
Questa poesia era molto amata da Campana, in quel periodo di elettrico patriottismo, l’Italia era in guerra, anche Dino voleva parteciparvi, ma fu sempre scartato… scartato dalle armi, scartato dalla vita per l’altrui imbecillità “vagava sparso per il mondo”, e come lo ricordava Bianca Lusena a Gabriel Cacho Millet: «Scontroso, silenzioso pensoso e triste. Tutto il suo bagaglio era in una valigia di vimini ovale, che sembrava più una cesta che una valigia. In essa teneva qualche vestito, libri, in particolare parecchie copie dei ‘Canti Orfici’ […] una sciarpa nera, anche se era estate» (Lettere di un povero diavolo, p. 389).
n poeta che grida il Suo “Italia non ti posso lasciare” andrebbe studiato nelle scuole, ne andrebbe riconosciuto il valore, a partire dalla sua immagine (quante foto di Filippo Tramonti passano sul web sotto Dino Campana?!) , ma soprattutto andava ascoltato, in fondo, lui aveva bisogno di un palcoscenico, lui che in manicomio “si sentiva elettrico, era Edison”, lui che per dirla tutta era il più grande acquedotto dell’Italia del primo Novecento, dove bastava aprire il rubinetto e sgorgavano sillabe, metafore, aforismi e musica… la vita di un tipo curioso come Dino è musica allo stato puro, note che vibrano nel cervello e nell’anima (per chi ce l’ha) e devono liberarsi. Lo hanno sempre preso per il culo, prima quegli zotici a Marradi, poi quei due mascalzoni di Soffici e Papini a cui aveva dato il manoscritto de “Il più lungo giorno”, per farglielo riscrivere “tanto era matto”… matto un ca… con quei due occhi furbilli analizzava tutti i Fenomeni dell’epoca e strappava le pagine dei Canti Orfici a chi, secondo lui, non le avrebbe potute capire. Ho ancora negli occhi la scena del film di Roberto Riviello “Il più lungo giorno”, quando Dino viene lasciato in manicomio la prima volta e grida al padre: “…babbo, non mi lasciare”, mentre due inservienti lo portano via. “Maledetti toscani”, direbbe Malaparte… avete spento il turibolo più inebriante della letteratura italiana.
Silvano Tognacci
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pangeanews · 6 years ago
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“Chi riesce a non disperdere tutto ciò che riceve?”: Kurt Diemberger, il re degli Ottomila, racconta la gloria e la morte, la maledizione del K2
I monti sono maestri muti e fanno allievi silenziosi, scriveva Goethe. Chissà se la pensa così anche Kurt Diemberger, classe 1932, Piolet d’Or alla carriera, l’unico alpinista vivente ad aver scalato due ottomila in prima assoluta: il Broad Peak nel 1957 e il Dhaulagiri, nel 1960, senza ossigeno e senza nemmeno portatori d’alta quota. Negli anni ’50 Diemberger aveva già affrontato le più ardue vie di roccia e ghiaccio delle Alpi, ha proseguito poi in Himalaya e nel Karakorum, e ha conquistato ben quattro ottomila: Makalu, Everest, Gasherbrum II e K2. “Un ottomila è tuo solo quando ne sei sceso, prima sei tu che gli appartieni” afferma, le sue parole andrebbero incise nella roccia. E la voce del grande alpinista non si è spezzata di fronte alle tragedie che hanno percorso gravemente la sua verticale carriera alpinistica. E che avrebbero annientato molti fra noi. Diemberger è stato l’ultimo a vedere vivo l’amico alpinista Hermann Buhl, prima della sua sciagurata caduta sul Chogolisa e, durante la discesa del K2, dopo aver toccato la gioia, l’abisso dell’angoscia. La sciagurata scomparsa della compagna di scalate Julie Tullis.
*
Il fascino della montagna non fa di lui un allievo silenzioso, ma uno scrittore e un regista. Dopo la prima volta sul K2 nel 1957, Kurt tenta la salita numerose volte, ma riesce a conquistarlo (solo) ventinove anni dopo. Al suo fianco la bella, bionda Julie, con lei forma “The Highest Film Team in the World”, il film team più alto del mondo. Gettarsi tra le sue pagine non è un’avventura priva di rischi, tra centinaia di pagine, anche chi non ama le altezze vertiginose inizierà a sentirne il fascino, bruciando dal desiderio di sfidare il destino, voltando una pagina dopo l’altra. Il mistero della vita, tra le montagne, sembra schiudersi. Dentro Il settimo senso vivere e sopravvivere tra zero e ottomila (edito da Alpine Studio, il primo libro che ho letto di Diemberger senza conoscerlo), l’alpinista austriaco ricorda che, in tempi recenti, qualcuno gli ha domandato: “come fai ad essere ancora vivo?”. Appunto. Come ha fatto a sopravvivere? Se lo chiede lui, per tutto il libro, e non possiamo fare a meno di chiederlo pure noi, a noi stessi, indipendentemente dal quel non so che di avventuroso che caratterizza le nostre vite. “Era destino? Non lo so. Se però penso ad alcune situazioni in cui mi sono trovato nel corso della mia esistenza, se le analizzo, penso di potermi avvicinare al vero. Che un “sesto senso” esista in noi è fuori dubbio, anche se, a volte, intervengono la fortuna o l’esperienza. Molte volte la fortuna ti assiste anche in relazione a ciò che “intuisci” nel momento in cui scegli un compagno o una meta. Si tratta anche in questo caso di “sesto senso”? Oppure c’è qualche cosa che va oltre?  Un incontro può dare senso e completezza a molti anni della tua vita, se non all’esistenza intera. Questo tuttavia avviene di rado. Chi riesce a non disperdere tutto ciò che riceve?”. La domanda non riguarda soltanto gli alpinisti, tira in ballo tutti, richiama alla mente i piccoli capitoli segreti delle nostre vite, gli slarghi, gli abissi, le nostre scalate impossibili. I nostri aneliti. E la metafora della montagna è così semplice, da essere totalizzante. Gli esempi non mancano. Sono sotto gli occhi, basta guardarsi le mani. Cosa dicono di noi le nostre mani? Ci parlano, come fanno a Kurt Diemberger, alla “Pagina zero” del libro K2 il nodo infinito (stampa Corbaccio). Gli sussurrano, ogni momento della sua vita, la tragica storia di ciò che ha perso e che ha vinto, gli fanno memoria di ciò che è stato, prima di quel momento. Anche provare a scrivere la propria storia richiede una certa dose di fatica fisica. “Devo scrivere con il pollice, le dita della mano destra mi fanno troppo male. Le dita… quello che me ne resta dopo il congelamento. Ecco, forse riesco a usare il “nuovo” indice, se ci arriva. Magari Susi ha un ditale… scrivere con il solo pollice mi impedisce di concentrarmi. Potrei dettare al registratore e poi trascrivere. Allora il battere a macchina diventa un’azione puramente meccanica e non importa più se è comoda o scomoda. Per lavorare al registratore, però, devi essere in clausura totale, non tanto per sbobinare, quanto per regis ssszzzz zzzz”. La esse si inceppa, siamo a pagina 11, come ci è arrivato poi a pagina trecentosettantaquattro? Il richiamo al racconto del K2, la tragedia, il nodo infinito paiono più forti di ogni impedimento, di ogni ostacolo. L’impossibile si muta in possibile.
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Ci sono alcune strane cose che compaiono nelle nostre vite. Durante la convalescenza, dopo la tragedia, sul piede destro – quello meno colpito dai congelamenti – sull’unghia dell’alluce, Diemberger si ritrova un disegno, un “11”. Era forse lui l’undicesima vittima del K2? Era l’11 agosto e il tempo per riflettere non gli mancava. Il pensiero della tragica fine dei suoi compagni di spedizione gli faceva pensare di essere sfuggito al proprio destino. Ma che cosa è successo davvero quella maledetta estate del 1986? “Ciò che non hai colto da un istante non c’è eternità che te lo restituisca”, Diemberger fa appello a Friedrich Schiller. Ma è tutto racchiuso nel significato del K2, “la montagna delle montagne” e nell’istante che lui è riuscito a cogliere, lassù. Sacrificando tutto il resto. Beatitudine e dannazione sono ad un passo, coincidono in quel punto così elevato, hanno la stessa voce. “Su nessun’altra montagna la probabilità di raggiungere la cima è così bassa, e quella di non tornare più così alta”. In un solo momento, ad alcuni è schiuso il significato di una vita intera. Trionfo e tragedia, vita e morte. L’uomo e la donna, il maschile e il femminile. Julie e Kurt. La morte e la sopravvivenza. Il sogno di due vite diventa realtà, ma raggiungono la cima “la neve più alta del K2”, poco dopo le cinque e mezzo. È già tardi. Pochi istanti per assaporare quel senso d’appagamento che invade, inondandolo, il cuore. La bufera, il dramma a 8000 metri, senza più viveri né gas, prigionieri, per eterni cinque giorni, nelle piccole tende. Julie che si “addormenta” per sempre, poi uno dopo l’altro, anche i compagni muoiono. “No, Kurt, non c’è nulla da sperare, è la fine. Sotto di noi ci sono 3000 metri, il K2. Lo strappo… Per una frazione di secondo riesco a tenere e poi una forza violenta, immensa, mostruosa mi trascina, mi sbatte da ogni parte, impotente come un fuscello durante l’esplosione di un vulcano. Un nulla che precipita a velocità crescente. Annichilito attendo l’impatto. Il tempo sembra infinito… Secondi lunghissimi, eterni… il pendio, ecco, il pendio… mi aggrappo, mi avvinghio alla neve con la forza della disperazione. Una mano gigante mi strappa via. Sono di nuovo in aria, la testa in giù, in su, di lato… in un vortice senza fine”. Ma Kurt e Julie riescono, nonostante la caduta, a sopravvivere, al di sopra della balconata di ghiaccio, ma quello che accade sembra l’avvertimento della montagna. Bivaccano a 8400 metri. Ma la trappola mortale sta per chiudersi sulle loro esistenze. Il naso di Julie è brunastro, dello stesso colore di due dita della mano destra: ha un principio di congelamento.
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“Se potessi scegliere il posto dove morire, vorrei essere in montagna. Quando al Broad Peak la valanga ci trascinò via, mi resi conto che non mi sarebbe dispiaciuto finire così. Più volte, ho vissuto momenti nei quali sarebbe stato facile e bello mettermi in silenzio e scivolare nel sonno eterno. Spero solo che il ciclo naturale per me non si chiuda troppo presto. Avrei ancora tante cose per cui vivere”, rifletteva Julie, prima della salita del destino. La morte la coglie nel sonno, durante l’accidentato bivacco. Il risveglio di Kurt è amaro e la notizia della morte di Julie si imprime indelebile nella sua vita. “Vorrei vedere il suo volto” scrive “Non riesco. Sposto il sacco-piumino dall’ingresso e appoggio il duvet sopra i suoi piedi. Vedo i pantaloni rossi e le calze nere. Julie… la tocco ancora una volta. Poi la lascio sola. Ecco, con lei resteranno i due orsetti, i nostri portafortuna che aveva voluto portare su con noi. Vengono da due paesi lontani, dall’Inghilterra e dall’Italia, e si sono riuniti stranamente quassù… per un attimo rivedo il sorriso divertito e fiero di Julie quando, al campo base, poco prima di partire per la montagna, era riuscita ad aggiustarne uno riscostruendogli con il filo un occhio che era andato perduto”. Lei che poco prima di morire, non ci vedeva quasi più. La discesa di Kurt è una discesa agli Inferi. Scendendo, con il cuore stretto dalla morsa della morte della compagna, scorge in lontananza altri uomini. “La vita è laggiù, ha detto Mrowka. Quassù c’è solo morte. E noi le sfuggiremo? Raggiungo Hannes. È seduto nella neve, di spalle. Un paio di metri più avanti c’è Alfred, immobile, il volto nella neve. Morto. Hannes muove ancora le braccia, sembra che nuoti nell’aria, al rallentatore. Fra le raffiche di nevischio mi reggo a fatica. Guardo il suo volto. Gli occhi sono bianchi, persi nel vuoto. No, non mi vede. Lo chiamo più volte. Non reagisce. Solo le braccia continuano a ruotare assurdamente nell’aria. Non mi sente. Forse è già in un altro mondo, lontano… Non sarebbe meglio, penso, non sarebbe stato meglio essere al campo, addormentarsi nella tenda… anche se, probabilmente, il freddo non lo avverte ormai più”. Nessuna risposta, nel cuore di Kurt si fa strada un sentimento fra l’impotenza e la rassegnazione, ma la volontà è chiaramente quella di sopravvivere.
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Il nodo infinito rappresenta uno degli otto simboli della fortuna nel Buddhismo tibetano, la catena infinita delle reincarnazioni e il carattere illusorio del tempo. Viene anche considerato simbolo della vita e dell’amore. Il K2 rappresenta per Diemberger questo nodo infinito, “un legame magico che ci avrebbe indissolubilmente accinti a questa possente cima per non lasciarci mai più”. Il desiderio, quella “tensione inspiegabile che ci pervadeva, che attanagliava Julie e me, incantati davanti al grande, affascinante cristallo slanciato verso il cielo, fino a raggiungerlo, a toccarlo”. Questo anelito di infinito trascina verso la parte sconosciuta e viscerale della vita, salendo, togliamo la zavorra del possesso, fino a raggiungere la nudità della morte, la privazione assoluta. Ma la tragedia dell’Estate nera del 1986 non era ancora finita. La montagna, come un mostro mitologico o un sublime incantesimo, richiedeva altre vittime. Molti dei sopravvissuti “negli anni seguenti morirono in montagna: Jerzy Kukuczka, Wanda Rutkiewicz, Gianni Calcagno e Tullio Vidoni, Michel Parmentier… come se l’incantesimo volesse continuare”. “La piramide sommitale e la spalla del K2 stanno nella zona della morte”. Osare l’ascensione significa inginocchiarsi al cospetto di Dio.
Linda Terziroli
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