#pavimento assi legno
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Living Room Loft-Style in Rome Mid-sized trendy loft-style medium tone wood floor living room library photo with white walls and a wall-mounted tv
#rete#rete sospesa#soppalco in legno#luce led#pavimento assi legno#rivestimento in legno#soppalco in vetro
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· · ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⤹ 𝐞𝐭𝐡𝐚𝐧 𝐡𝐮𝐠𝐡𝐞𝐬 ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀ ⠀ ‧‧‧‧ ʜᴇᴀᴅᴄᴀɴᴏɴ › ─── ㅤㅤ ㅤㅤ ㅤㅤ ❪ un ricordo represso. ❫ ㅤㅤ ㅤㅤ ㅤ Lacrime amare scivolavano lungo le gote di quel bambino rannicchiato nel proprio lettino. Sentiva le membra pesanti, come se uno dei suoi camion, con cui amava giocare, gli fosse passato sopra lasciandolo senza forze. Le gambe erano molli, stanche, piegate in modo da portarle al petto, con l'unico intento di proteggersi. Se avesse voluto correre da qualche parte, 𝑠𝑐𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑒, non sarebbero state di grande aiuto, lo sapeva, e di certo non sarebbero state in grado di reggere il peso, quasi irrisorio. Eppure quel lettino così piccolo era diventato il luogo in cui tutti i suoi incubi si trasformavano in realtà. Aveva imparato a riconoscere il rumore che facevano le assi di legno sul pavimento nel cuore della notte quando quei passi diventavano sempre più vicini. Aveva imparato a trattenere il respiro ogni volta udiva il cigolio della porta della propria stanza, quando mostrava uno spiraglio di luce, ed ancora, aveva imparato che le lacrime erano il giusto modo per buttare fuori ogni cosa. Sentiva tutto quanto nelle membra, nella carne, nella pelle che avvertiva ancora il respiro di quell'uomo che doveva essere parte della famiglia e non il suo incubo costante. Lo sentiva nel dolore che provava in quella parte così profonda di sé che era impossibile non avere le lacrime agli occhi, eppure nessun singhiozzo si udiva provenire da quella camera degli orrori. Cercava protezione il piccolo Ethan, la stessa protezione che avrebbe dovuto donargli quel padre che non si rendeva nemmeno conto che, ad ogni giorno che passava, il bambino diventava sempre più taciturno, sempre più schivo nei confronti di quel mondo che nascondeva ad oggi ancora mille segreti. Solamente una persona avrebbe potuto rendersi conto di quanto Ethan stesse cambiando, di quanto la spensieratezza non facesse, a poco a poco, più parte di lui, ma quella stessa persona era ormai andata. Non avrebbe mai visto i suoi progressi negli studi, i suoi occhi cerulei velarsi ogni qualvolta sentiva quella canzone ricordargli la donna che lo aveva messo al mondo, e non avrebbe mai visto gli scenari peggiori che una madre potrebbe mai assistere. Il dolore di quell'assenza faceva sì che ogni singolo giorno fosse un ostacolo da superare, un macigno da portare dentro di sé per diventare grande, ecco ciò che si diceva. Ecco ciò che gli diceva. ㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤ x « Sei un ometto, ormai Ethan… E' questo che diceva sempre la tua mamma, mh? I bambini non piangono, shh. Non vorrai mica che tuo padre scopra il nostro piccolo segreto. » ㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤ Avvertiva ogni singola carezza, le dita ruvide e callose che accarezzavano il volto del bimbo, le coperte che si scostavano per far posto ad un uomo il cui intento era solamente da condannare. Sentiva i calzoni del pigiamino abbassarsi, il fiato caldo, ed un respiro che diventava sempre più rapido, ma era quell'odore rancido a farlo rabbrividire ogni volta. Sentiva il respiro diventare più forte, ansimi di un uomo malato che facevano capolino vicino al suo orecchio, mentre i pugnetti stretti non facevano altro che stringere il lembo di lenzuolo che riusciva a recuperare. Lo recuperava ogni volta, ed ogni volta pregava che tutto passasse sempre più in fretta. ㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤ x « Passerà in un attimo, Ethan… Sei così 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜, shh. » ㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤ Era su quella promessa su cui faceva conto il bambino, su quelle quattro parole che continuava a ripetersi nel sentire il suo corpo venir violato, con forza eppure con una delicatezza totalmente innaturale. 𝑃𝑎𝑠𝑠𝑒𝑟𝑎̀ 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑚𝑜 era ciò che si ripeteva Ethan ogni volta che vedeva quel volto comparire nei suoi incubi. ㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤㅤ
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Esanime.
Perdo la mia speranza in -- ----- ----- (che è tutto ciò che desidero) e poi la ritrovo sul pavimento di vecchi assi di legno, levigate dall'uso.
Dai miei piedi di bimba che sono passati lì sopra innumerevoli volte, fino a diventare i due piedoni ingioiellati e un po' callosi della me stessa di oggi.
Tutto è in perfetta armonia fuori di me, ma è tutto in perfetta armonia dentro di me?
Chiedo solo di ottenere l'unica cosa che desidero (e quella cosa è -- ----- -----).
Come faccio a piegare le fibre del reale e accaparrarmi ciò che desidero?
Ciò che chiedo a chiare lettere.
In un universo parallelo leggermente migliore l'ho già ottenuta. Come faccio a farla scivolare verso di me e renderla reale nel qui ed ora?
Amore. Desidero una sola cosa e quella cosa è amare e poter dare amore. Desidero non essere mai sola.
10-08-24
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Case prefabbricate in legno - Case convenienti e confortevoli
Al giorno d'oggi, molte persone possiedono una casa, ma non tutti possono permettersi di acquistarne una, a volte a causa degli alti costi di costruzione. Tuttavia, acquistando una casa prefabbricata in legno, puoi ovviare a questo problema economico e godere di un ottimo standard di comfort abitativo. Le nostre case prefabbricate in legno certificate FSC permettono di ricreare un ambiente sano e pulito, grazie al sistema costruttivo "blockhouse". prefabbricati in legno abitabili
Caratteristiche delle nostre case prefabbricate in legno
Le nostre case prefabbricate in legno possono essere costruite semplicemente incastrando assi di legno o tronchi, senza bisogno di colla o ganci di ancoraggio. Su richiesta è possibile scegliere il tipo di tegole e preservanti del legno che si desidera applicare. Inoltre, offriamo servizi di isolamento per il tetto e il pavimento delle nostre case prefabbricate in legno. Le nostre moderne e confortevoli case prefabbricate in legno sono disponibili a prezzi competitivi chiavi in mano e possono essere installate dal nostro personale qualificato o da soli.
Varietà di modelli
Tutti i nostri edifici in legno sono offerti a vari prezzi e sono disponibili in diversi modelli. Puoi scegliere tra vari tipi di case moderne in legno, a seconda della loro destinazione d'uso. Le nostre case in legno sono meticolosamente lavorate e dotate di vetrate isolanti che garantiscono un ottimo isolamento durante la stagione invernale, permettendo di riscaldare l'interno senza alcuna dispersione di calore. Le nostre strutture prefabbricate in legno e vetro possono essere installate in pianura, in montagna o al mare. Le nostre case prefabbricate in legno sono anche convenienti e accessibili a tutti.
Piccole case prefabbricate in legno
Proponiamo anche casette prefabbricate in legno più piccole, perfette per creare un ripostiglio per attrezzi vari o anche come dependance esterna per i vostri ospiti.
Grandi case prefabbricate in legno
Le nostre case prefabbricate in legno possono essere realizzate in piccole metrature di circa 20 mq o in metrature più grandi fino a 100 mq, come vere e proprie case in legno. Queste costruzioni in legno vengono solitamente prefabbricate in fabbriche del Nord Europa e poi trasportate e assemblate in loco. Le nostre case prefabbricate in legno sono comunemente utilizzate per scopi residenziali, come weekend fuori porta, periodi di vacanza medio-lunghi (in chalet in legno ampi e funzionali), oppure come case residenziali da vivere tutto l'anno.
Artigianalità e Qualità
Le nostre case prefabbricate in legno sono progettate con l'innovativo sistema BLOCKHOUSE e costruite con legni certificati di abete rosso nordico, secondo i più recenti standard scandinavi. Solitamente sono realizzati con materiali durevoli e resistenti agli agenti atmosferici, come l'abete bianco nordico. Possono avere una planimetria a scelta del cliente e infissi di alta qualità, oltre che un ottimo isolamento termico e acustico.
Conclusione
Le nostre case prefabbricate in legno sono facili e veloci da installare, il che le rende una scelta popolare per le persone che hanno bisogno di case convenienti e confortevoli. Possono anche aggiungere valore alla tua proprietà e sono una scelta sostenibile per l'ambiente.
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×× ── 𝐇𝐄𝐀𝐃𝐂𝐀𝐍𝐎𝐍 📖 ᴇᴛʜᴀɴ ʀᴀʟᴇɪɢʜ ᴍ. ʜᴜɢʜᴇs ❝ ✖ — un ricordo represso. ❞ ❪ 🖋 ❫
𝕷acrime amare scivolavano lungo le gote di quel bambino rannicchiato nel proprio lettino. Sentiva le membra pesanti, come se uno sei suoi camion con cui amava giovare gli fosse passato sopra lasciandolo senza forze. Le gambe erano molli, piegate in modo da portarle al petto, ma se avesse voluto correre da qualche parte, non sarebbero state di grande aiuto, di non certo non sarebbero state in grado di reggere quel peso, quasi irrisorio. Eppure quel lettino così piccolo era diventato il luogo in cui tutti i suoi incubi si trasformavano in realtà. Aveva imparato il rumore che facevano le assi di legno sul pavimento nel cuore della notte quando i passi diventavano sempre più vicini. Aveva imparato a trattenere il respiro ogni volta il cigolio della propria porta mostrava uno spiraglio di luce, ed aveva imparato che le lacrime erano il giusto modo per buttare fuori ogni cosa. Lo sentiva nelle membra, nella pelle che avvertiva ancora il respiro di quell'uomo che doveva essere parte della famiglia e non il suo incubo costante. Lo sentiva nel dolore che provava in quella parte così profonda di sé che era impossibile non avere le lacrime agli occhi, eppure nessun singhiozzo si udiva nella sua cameretta. Cercava protezione il piccolo Ethan, la stessa protezione che avrebbe dovuto dargli quel padre che non si rendeva nemmeno conto che, ad ogni giorno che passava, il bambino diventava sempre più taciturno, sempre più schivo nei confronti di quel mondo che aveva ancora così tanto da dargli. Solamente una persona avrebbe potuto rendersi conto di quanto Ethan stesse cambiando, di quanto la spensieratezza non facesse, a poco a poco, più parte di lui, ma quella stessa persona era ormai andata. Non avrebbe mai visto i suoi progressi negli studi, i suoi occhi cerulei velarsi ogni qualvolta sentiva quella canzone ricordargli la donna che lo aveva messo al mondo, e non avrebbe mai visto gli scenari peggiori che una madre potrebbe mai assistere. Il dolore di quell'assenza faceva sì che ogni singolo giorno fosse un ostacolo da superare, un macigno da portare dentro di sé per diventare grande, ecco ciò che si diceva. Ecco ciò che gli diceva. « Sei un ometto, ormai Ethan... E' questo che diceva sempre la tua mamma, mh? I bambini non piangono, shh. Non vorrai mica che tuo padre scopra il nostro piccolo segreto. » Avvertiva ogni singola carezza, le dita ruvide e callose che accarezzavano il volto del bimbo, le coperte che si scostavano per far posto ad un uomo il cui intento era solamente da condannare. Sentiva i calzoni del pigiamino abbassarsi, il fiato caldo, ed un respiro che diventava sempre più rapido, ma era quell'odore rancido a farlo rabbrividire ogni volta. Sentiva il respiro diventare più forte, ansimi di un uomo malato che facevano capolino al vicino al suo orecchio, mentre i pugnetti stretti non facevano altro che stringere il lembo di lenzuolo che riusciva a recuperare. Lo recuperava ogni volta, ed ogni volta pregava che tutto passasse sempre più in fretta. « Passerà in un attimo, Ethan... Sei così 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜, shh. » Era su quella promessa che faceva conto il bambino, su quelle quattro parole che continuava a ripetersi nel sentire il suo corpo venir violato, con forza eppure con una delicatezza totalmente innaturale. 𝑃𝑎𝑠𝑠𝑒𝑟𝑎̀ 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑚𝑜 era ciò che si ripeteva Ethan ogni volta che vedeva quel volto comparire nei suoi incubi.
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3:45, i passi leggeri lungo il corridoio con i piedi nudi sul pavimento che non emettono nessun rumore se non lo scricchiolare delle assi di legno, tutte di un colore troppo scuro per una casa vivace. Le venature del legno che si prolungano alle vene sottili dal colore verdastro che dalle piccole dita salgono lungo le gambe, su per le braccia esili e lungo il petto. C’è silenzio e una finestra aperta nella stanza più avanti lascia entrare il freddo della notte, non è ancora arrivata l’estate per rischiare un’influenza. Eppure il freddo congela e ripara, rimettere a posto i pezzi. Le tazze sul ripiano della cucina sono troppo in alto per chi non ha il dono dell’altezza, ci vuole tutta la buona volontà possibile per evitare il tintinnio della ceramica. Tè nero, cannella e un pizzico di vaniglia. 250 ml di acqua che ruotono in un contenitore del quale non si distinguono neanche i colori. Il calore dà sollievo dal freddo, ma è piacevole solo in parte. Brucia lungo la gola e infonde tranquillità. La strada in senso inverso è una corsa tra la sensazione di gelo sotto la pianta dei piedi e l’oscurità alle proprie spalle. Un’impresa che vale la pena affrontare per il calore delle coperte e la tranquillità del contatto umano.
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02.05.76 Shrieking Shack
Il Platano Picchiatore svetta alto, solenne e maestoso nella zona del giardino che discende in modo abbastanza ripido verso la Foresta Proibita e verso le sponde sassose del Lago Nero. E’ maggiormente defilato e isolato rispetto alle parti più frequentate, forse proprio a causa del suo carattere poco incline ad ospitare gli studenti sotto l’ombra delle sue fronde. Come la stragrande maggioranza di questi weekend primaverili ormai caldi - per quanto si possa parlare di caldo in Scozia - il resto delle zone esterne è disseminato di studenti che si intrattengono nei modi più svariati, ma lungo il sentiero che costeggia questo albero secolare, poco lontano dal masso su cui l’hanno conosciuto la prima volta, c’è la figura solitaria di un ragazzino, il nostro Thomas “Tommy per gli amici” Anderson. «QUASI!» è la sua vocina acuta da neo-dodicenne a stagliarsi nell’aria, mentre lui continua a lanciare piccoli sassi contro la corteccia dell’albero. I rami, nel frattempo, continuano a muoversi e ad agitarsi, in parte risvegliati dalla sassaiola, in parte intenti a scacciare un piccolo stormo di fringuelli che lo stanno sorvolando proprio in questo momento.L’ultimo sasso lanciato colpisce correttamente il nodo, immobilizzando nell’istante successivo il dispiegarsi delle fronde nel cielo grigiastro.
T:«Oh per tutti gli ippogrifi galoppanti. Ci sei riuscito!»
M:Ehi!» sembra ingramata, mentre lo sguardo passa da lui al platano che si immobilizza «Bel tiro.Vuoi venire a vedere cosa c`è vicino al Platano Picchiatore?Magari ci puoi dare una mano a scavare» ehi-ho andiamo a lavorar. Sfodera la bacchetta con un gesto secco e preciso, facendo cenno a Will, Becks, Lance, Nell, di seguirla ed avvicinarsi alle radici, dove qualche giorno prima, hanno allagato il tunnel misterioso«Oh.KNOX. ODINSBANE!» latra come un generale «Forza a scavare!»
[...]E poi, all’improvviso, nel muro di terra, ecco che si delinea un’apertura, abbastanza grande da lasciar passare uno STUDENTE se si rannicchia e scivola oltre. [...]E no, al contrario di tutte le precauzioni e le richieste, il nostro Anderson si lascia scivolare dalla radice direttamente nel tunnel, sparendo rapidamente oltre il varco appena creato. E manco a farlo apposta, non appena Anderson abbandona il nodo, ecco che i rami riprendono a muoversi. In modo ancora pigro, certamente, ma quanto ci metterà a ridestarsi del tutto e a tornare offensivo e pericoloso come al solito?
M:«No! Fermo!» quella Puffola si farà ammazzare, ecco perchè si tuffa nel tunnel assieme a lui, passando tra AUBREY e l`entrata, cercando di acchiappare quel piccoletto mentre carpona al suo interno, catalizzatore sguainato «Ti prego non franare.» che ci manca solo questo.
T:Senza pensarci due volte scatta istintivamente in avanti e si fionda attraverso il tunnel nel tunnel (aridaje) dietro la Loghain
Per un primo tratto gli studenti dovranno avanzare carponi, ma poi la dimensione del tunnel si amplia e quindi potranno passare ad una postura eretta, seppure ingobbita e poi, molto più comodamente, ad una camminata normale.Di Anderson non c’è traccia, ma è anche vero che il tunnel avanza a curve e a gomiti, rendendo davvero difficile guardare oltre per più di qualche metro. L’aria si fa più umida e fredda lì sotto e la luce è davvero debole, soprattutto una volta che l’apertura sparisce e si allontana alla loro spalle. L’ossigeno non manca, anzi, c’è una lieve brezza a solleticare i volti degli studenti di Hogwarts. I rumori sono attutiti, nulla dall’esterno penetra fino a questa profondità, così che solo il rumore dei passi e il brusio delle loro voci riecheggia tra le pareti di terreno. Dovranno camminare a lungo, certamente più di due girate della clessidra da 15 minuti - o almeno così potrebbe sembrare ai più attenti al ritmo dello scorrere del tempo - ma poi, poco più in alto delle loro teste, potranno vedere tutti una botola di legno e una scaletta a pioli che lì vi conduce. Anche qua non c’è ancora nessuna traccia del nostro irresponsabile tassorosso, ma la botola è aperta e lascia filtrare la luce piena di una giornata primaverile scozzese.
M:«Per l`anima di Godric ma quanto profondo è sto coso? E dove porta? Non è che finiamo dentro il Lago Nero?»
T: «Non si vede una beneamata minestra!» Quindi si guarda intorno in cerca di mamma chioccia..heeeem della Loghain e allunga la mano libera per afferrare il retro del suo maglione.
AB:L`aria che accarezza il viso degli studenti deve pur arrivare da qualche parte ed è seguendo questa, che avanza fino alla botola e alla scala individuate da Merrow. A lei l`onore, prode Gridondoro! Nuovamente, come suggerisce Tasha si immolerebbe a chiudifila, lasciando che i più piccoli sfilino su per la scaletta, prima di risolversi ad arrampicarsi. Mentre tutti gli altri scelgono di spegnere la luce, lei rimane un`orgogliosa guardiana della notte, perché the night is dark and full of terrors (?)
Appena fuori dalla botola gli studenti si ritroveranno su un pavimento di legno un po’ impolverato. I muri della dimora sono scrostati, l’arredamento ormai pieno di tarli e logoro. La casa si alza da terra con due piani e una grande varietà di stanze di quella che - almeno nella sua epoca di massimo utilizzo - doveva essere una grande e nobile dimora imponente. La maggior parte delle finestre sono chiuse con delle assi, anche se dal tetto e da qualche fessura riesce comunque a penetrare all’interno il sole pallido di questa mattinata di maggio, tanto da rischiarare l’ambiente e renderlo perfettamente visibile. E’ nel cuore della Stamberga Strillante che i nostri avventurieri hanno fatto la loro comparsa. Il luogo più infestato di Scozia, anzi della Gran Bretagna intera, si apre intorno a loro in tutta la sua maestosa magnificenza un po’ creepy. «Eeeehi, quella è la High Street!» è la vocina di Tommy a riempire il silenzio nefasto del luogo.[...]E’ un rumore di tacchi provenienti dal piano di sopra a riportarlo con la testa a posto. «Non do-dovremmo.» tira piano un lembo dei vestiti di Aubrey «Farci tro-trovare qu-qui.» eh no, perchè mica è uno dei weekend in cui Hogwarts apre le porte. Senza contare che più della metà dei presenti non ha ancora nemmeno raggiunto l’età giusta e farsi espellere da Hogwarts è l’ultimo dei desideri del natobabbano. «Do-dovremmo andare.» e lui - di nuovo - non attende nessuno e si reinfila velocemente in quel tunnel per riprendere la strada di casa.
W:«...se ci trovano qui ci espellono.»E speriamo che Tommy non sia così scemo da aver dimenticato da che parte sporgere il braccio per raggiungere il nodo del Platano, o ci sarà anche un viaggetto in infermeria.
AB:« se ci beccano, siamo morti » o peggio, espulsi.
T:«Che bel posticino accogliente» commenta ironica nello studiare quella vecchia stanza che puzza di chiuso e polvere. «E` casa tua, McNamara?» chiede con finto tono curioso. Alle parole di Tommy, Tasha si avvicina alla finestra e sbircia fuori affascinata «E` questa Hogsmeade?» E mentre sta parlando sente una voce sconosciuta di donna provenire da sopra. Con gli occhi spalancati alza lo sguardo verso il soffitto e poi cerca lo sguardo di Loghain, Knight e Dent «Che si fa?»sussurra piano piano. Ma quando gli altri cominciano ad andar via Tasha si volta a guardare Allister e Alexa «Meglio filare» sussurra loro. Porge la mano libera ad Alexa e si incammina a ritroso per il tunnel.
#stambergastrillante#mondohogwarts#tasha#merrow#aubrey#allister#sebastian#will#rebecca#lance#cornelia
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×× ── 𝐇𝐄𝐀𝐃𝐂𝐀𝐍𝐎𝐍 📖 ᴇᴛʜᴀɴ ʀᴀʟᴇɪɢʜ ᴍ. ʜᴜɢʜᴇs ❝ ✖ — un ricordo represso. ❞ ❪ 🖋 ❫ ㅤㅤ ㅤㅤ ㅤㅤ 𝕷acrime amare scivolavano lungo le gote di quel bambino rannicchiato nel proprio lettino. Sentiva le membra pesanti, come se uno dei suoi camion, con cui amava giovare, gli fosse passato sopra lasciandolo senza forze. Le gambe erano molli, piegate in modo da portarle al petto, ma se avesse voluto correre da qualche parte, non sarebbero state di grande aiuto, di certo non sarebbero state in grado di reggere quel peso, quasi irrisorio. Eppure quel lettino così piccolo era diventato il luogo in cui tutti i suoi incubi si trasformavano in realtà. Aveva imparato a riconoscere il rumore che facevano le assi di legno sul pavimento nel cuore della notte, quando i passi diventavano sempre più vicini. Aveva imparato a trattenere il respiro ogni qualvolta il cigolio della propria porta mostrava uno spiraglio di luce, ed aveva imparato anche che le lacrime erano il giusto modo per buttare fuori ogni cosa. Lo sentiva nelle membra, sulla pelle d’alabastro su cui avvertiva ancora il respiro di quell'uomo, un uomo che doveva essere parte della famiglia e non il suo incubo costante. Lo sentiva nel dolore che provava in quella parte così profonda di sé che era impossibile non avere le lacrime agli occhi, eppure nessun singhiozzo si udiva nella sua cameretta. Cercava protezione il piccolo Ethan, la stessa protezione che avrebbe dovuto dargli quel padre che non si rendeva nemmeno conto che, ad ogni giorno che passava, il bambino diventava sempre più taciturno, sempre più schivo nei confronti di quel mondo che aveva ancora così tanto da dargli. Solamente una persona avrebbe potuto rendersi conto di quanto Ethan stesse cambiando, di quanto la spensieratezza non facesse, a poco a poco, più parte di lui, ma quella stessa persona era ormai andata. Non avrebbe mai visto i suoi progressi negli studi, i suoi occhi cerulei velarsi ogni qualvolta udiva quella canzone ricordargli la donna che lo aveva messo al mondo, e non avrebbe mai visto gli scenari peggiori a cui una madre non avrebbe mai voluto assistere. Il dolore di quell'assenza faceva sì che ogni singolo giorno fosse un ostacolo da superare, un macigno da portare dentro di sé per diventare grande, ecco ciò che si diceva. Ecco ciò che gli diceva. « Sei un ometto, ormai Ethan... E' questo che diceva sempre la tua mamma, mh? I bambini non piangono, shh shh. Non vorrai mica che tuo padre scopra il nostro piccolo segreto. » Avvertiva ogni singola carezza, le dita ruvide e callose che accarezzavano il volto del bimbo, le coperte che si scostavano per far posto ad un uomo il cui intento era solamente da condannare. Sentiva i calzoni del pigiamino abbassarsi, il fiato caldo, ed un respiro che diventava sempre più rapido, ma era quell'odore rancido a farlo rabbrividire ogni volta. Sentiva il respiro diventare più forte, ansimi di un uomo malato che facevano capolino vicino al suo orecchio, mentre i pugnetti stretti non facevano altro che stringere il lembo di lenzuolo a cui si aggrappava. Lo recuperava ogni volta, tra le dita sottili, ed ogni volta pregava che tutto passasse sempre più in fretta. « Passerà in un attimo, Ethan... Sei così 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜, shh. » Era su quella promessa che faceva conto il bambino, su quelle quattro parole che continuava a ripetersi, mentre avvertiva il suo corpo venir violato, con forza eppure con una delicatezza totalmente innaturale. 𝑃𝑎𝑠𝑠𝑒𝑟𝑎̀ 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑚𝑜 era ciò che si ripeteva Ethan ogni volta che vedeva quel volto comparire nei suoi incubi.
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Ho sognato un orso, in questo corridoio, io dovevo passare da una stanza all'altra, rispettivamente messe una davanti, c'erano delle scale e lui era al di sopra di esse, se ne vedeva solo una parte, ma si capiva che fosse un orso; appena lo vedo non provo paura, ma mi sento in dovere di non attirarlo da me, di non fare nulla che lo potesse far spostare e venire sin giù dalle scale, dove ero io con delle altre persone; apro la porta, da cui dovevo uscire, lo vedo e dico alle altre persone che c'è un orso, che dobbiamo sbrigarci per raggiungere l'altra porta (che era davvero molto vicina a quella da cui stavamo uscendo) così che, faccio andare prima le altre persone, l'orso ci vede, i nostri sguardi si incontrano e incomincia a scendere le scale, nel momento in cui lo vedo avvicinarsi, non provo ansia, né paura, solo fretta di far passare quelle persone da una stanza all'altra; l'orso arriva al nostro pianerottolo e non ci fa nulla, ci guarda, mi guarda, come chiedesse qualcosa; arriva una signora, che sembrava una specie di guardia forestale/addestratrice di orsi, che arriva e gli dice "*nome dell'orso* ti avevo avvisato, se ti comporti così devo farti capire che non è un giusto comportamento" prende un frustino e lo picchia, l'orso continua a guardarmi, alla fine entrai nella porta.
Nell'altra parte del sogno ero in una scuola/casa molto mal andata, aveva la forma come di un cerchio, con un entrata frontale, da cui se ci si entrava in teoria si poteva andare sempre dritti, per molto tempo, ed arrivare alla stessa entrata (superando stanze) (c'era anche una bibblioteca molto grande, era tutto molto buio e cupo, ma non avevo paura, anche se ero da sola); ricordavo, nel sogno, di aver già sognato quel posto, perché era la mia scuola, solo che la volta prima era più solida, fatta allo stesso modo, con le stesse caratteristiche, solo che una parte, nel sogno, era chiusa per via di pericolosità, era molto mal andata ( ricordavo, nel sogno, che la volta prima era praticamente uguale, se non per una o due caratteristiche differenti), non so come ci entrai, ma dovevo fare il giro della scuola, passando dall'entrata, andando verso sinistra e dovevo riuscire da destra; incominciai la camminata, ad un certo punto ero in questa bibblioteca, al terzo piano credo, c'era una ragazzina, che conoscevo, mi accompagnò per un pezzo di strada nella bibblioteca, c'erano delle sale, era tutto molto scuro, ad un certo punto le chiedo perché tra qualche scaffale erano presenti delle stanze da letto scavate nella roccia e perché fossero chiuse, lei mi risponde che erano per farle vedere (come in un museo) ma che non ci si poteva entrare; mi accompagnò sino ad un portone che oltrepassai da sola, era la parte di scuola chiusa per lavori, quella che cadeva a pezzi; mi ci addentrai; scesi delle scale e dopo vari corridoi, ragazzini seduti in corridoi di scale a fumare, vari ostacoli come il dover saltare per arrivare a fare delle scale (la volta prima ricordo che non c'era stato bisogno di saltare, in quel punto, ma coi lavori e per distogliere gli studenti dal passar di lì credo abbiano cercato di chiudere il passaggio), fatte le scale arrivai ad un corridoio molto piccolo con delle assi di legno molto pericolanti nel pavimento e per camminarci, dovetti spostare il mio peso in un supporto per non farle cedere; arrivai ad una porta in legno e dopo una specie di stanzino molto buio mi ritrovai all'uscita, soddisfatta di aver fatto il giro dell'edificio
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H «Basteranno un paio di assi ancora…»
il fatto è che quando cammina per il Porticato interno qualcosa gli scivola dalla tasca dei pantaloni. Una figurina di Merlino, di quelle che si trovano nelle cioccorane e andando avanti si può notare come semini anche Hesper Starkey, Glenda Chittock e Artemisia Lufkin. Andando avanti e iniziando la discesa per quei ripidi gradini di pietra - pure un po’ scivolosi - si può trovare a mezza altezza Joscelind Wadcock mentre lui è ormai davanti alla casupola di legno che da l’accesso a dove vengono lasciate le barche che sono servite a portarli a Hogwarts.
E quella cos`è? E si blocca di scatto: nella sua visuale appare improvvisamente quella che risulta essere ... una figurina? Si china e raccoglie dalla pietra l`oggetto semi-misterioso
C «Ma che-?»
La fronte è ancora corrugata, ma il sopracciglio sinistro alzato dona tutt`altra sfomatura all`espressione della primina. Si guarda intorno con la figurina di Merlino in mano, forse in cerca di un possibile proprietario, ed è qui che nota un`altra figurina (?) per terra, a qualche metro di distanza
C «MA CHE-?»
Si, proprio una figurina, di Hesper Starkey questa volta. Inizia a camminare scrutando il pavimento da cima a fondo e senza accorgersene si ritrova in cima alla scalinata che porta alla rimessa delle barche. Ed ecco un`altra figurina! Cos`è, uno scherzo? E chissà come non ci pensa due volte a scendere sotto la pioggia i pericolosi gradini bagnati continuando a raccogliere le figurine che Pollicino ha seminato a giro.[...] Dopo pochi minuti bussa alla porta di legno della rimessa, neanche a dirlo, la socchiude senza aspettare alcuna risposta e si affaccia
C «Ma che..?»
H «Cosa? CHI? NON HO FATTO NIENTE!NON VOLEVO PRENDERE NULLA!!»
la bugia più urlata della storia.
Le scappa un`inspirazione degna di nota a bocca spalancata, velocissima, sospiro che va a sostituire quello che doveva essere un urlo di sorpresa per l`improvvise urla dell`altro. Con la mano sul cuore
C «HERMES?!»
H «CORINE!»
C «Sei matto ad urlare in questo modo!?»
H «Mi hai fatto spaventare… Credevo già di beccarmi Lachian o il Guardiacaccia»
Che paura per Merlino, le è spuntato il pelo da gatto sulla schiena esclusivamente per rizzarsi. Ma che ci fa qui?
C «Che ci fai qui??»
H *contemporaneamente* «Allora puoi aiutarmi a prendere le assi di legno per il Fortyno»
C «Il fortyno?»
E quasi non coglie la vera domanda di lui, quella di aiutarlo (PPPFFF ma fammi il favore!)
H «Un Fortyno! Non come quello che ho costruito in dormitorio, è un Fortyno esterno e deve essere più resistente, non bastano le tende e le corde… Mi serve il legno!!»
l’ho detto che era una bugia l’essere lì senza volersi portare nulla a casa
H «Ma per caso mi seguivi?»
C «CHI IO??»
grattandosi il nasino e lasciando che lo sguardo chiaro si posi sulle figurine che stringe in mano
H «Forte!!! Anche tu le collezioni!!!! Magari possiamo scambiarci i doppioni?»
decisamente non ha capito che sono le sue
Lo guarda stranita e d`istinto segue lo sguardo di lui, ritrovandosi quindi ad osservare la propria mano. Ah, giusto. Le figurine. Quasi si era dimenticata del come si è ritrovata imprigionata nella rimessa con una mina vagante undicenne. Al posto del facepalm, che riesce a trattenere con uno sforzo non da poco, si ritrova a rispondere alla domanda di Hermes con tranquillità, costretta dalla propria educazione
C «Mi sa di no» *sorriso forzato, ma non troppo* «Credo proprio che siano tue... le hai seminate fino a qui»
Maledetto.
H «Oh bolide!!!Sei stata gentile a portarmele»
C «figurati!»
Che doveva fare? Lasciarle per terra? Però si addolcisce nei ringraziamenti di lui, semplici ma sinceri. Guarda di sfuggita la porta che si trova alla sua destra: questo sarebbe un buon momento per prendere ed andarsene. Le parole sono già pronte a metà lingua e il cervello ha già inviato l`impulso necessario al braccio destro per farlo muovere in un "indicare uscita", ma non risponde. Lo guarda e sente all`improvviso un bruciore sulle gote, quasi un pizzichio. Svampito, ma carino questo Medicine. E senza pensarci troppo su si sposta il mantello all`indietro e si tira su le maniche (con un po` di difficoltà: non potete capire quanti strati ha addosso questa bimba)
C «Quante assi ti servono?»
Ma che stai facendo Corine?
ma nel mentre non gli è sfuggito il tono della ragazza… Tanto che ne approfitta di quella vicinanza per abbassare il suo scudo empatico e far fluire i sentimenti che prova Corine dentro di lui. Una cosa che non potrà notare la Corvonero in quanto è solo un’abilità passiva che rientra tra le conoscenze di Hermes che proverà esattamente quello che sta provando la ragazza in questo momento, c’è solo da capirlo e analizzarlo.
Se avesse la barba si potrebbe notare come la alliscia, peccato che lo fa solo con il mento
H «Non ti metto in imbarazzo vero?Perché non ce n’è bisogno ecco… Sono solo io»
Con la mano destra va a recuperare dalla tasca apposita sul fianco la bacchetta e l`ha già posizionata davanti a sè quando si blocca alle parole di lui
C «Come prego?» *sgrana gli occhi*
le guance si fanno di un rosa accesso e il cuore inizia a batterle forte è solo quando viene presa in fallo che lei prende in fallo lui con quella domanda
H «No ecco… Nulla, era solo per dirti che se ti senti imbarazzata non devi esserlo… Così insomma.Però se mi dici che non lo sei va’ anche meglio, non devi esserlo…»
C «No, no... tranquillo (?)»
OK questa uscita davvero non se l`aspettava.
C «Wingàrdium Leviòsa»
e subito accompagnerebbe con l`incantesimo quel pezzo di legno verso l`uscita della rimessa, appoggiandolo quindi alla parete
C «verrò a vederlo quando lo finirete ... se vuoi»
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/10/nella-cara-ariacorte-orme-doperosita-senza-tempo/
Nella cara “Ariacorte”, orme d’operosità senza tempo
di Rocco Boccadamo
A Francesco Nullo, patriota e militare italiano d’origine bergamasca, distintosi in particolar modo durante la garibaldina Spedizione dei Mille, è intitolata la breve strada che delimita, sul lato nord, il ristretto spazio del più volte riproposto rione di Marittima in cui è venuto al mondo l’autore di queste righe, cioè a dire l’Ariacorte.
Ariacorte, è d’uopo ricordarlo ancora, denominazione di un’antica e caratteristica fetta del paesello, fra l’altro, passaggio più diretto, e, quindi, obbligato, per quanti, a piedi, in bici, oppure, oggigiorno prevalentemente, a bordo di mezzi a motore, si rechino verso l’incantevole insenatura “Acquaviva”.
Detto ultimo sito, storicamente prediletto e frequentato in esclusiva, per i bagni marini, dai marittimesi e dagli abitanti dei paesi viciniori, adesso è una meta famosa, conosciuta, amata e scelta, grazie all’eccezionale suo fascino, da moltitudini di visitatori, vacanzieri e turisti, provenienti da ogni regione d’Italia e dall’estero.
Ma, nella presente occasione, è proprio sulla via di cui all’inizio che s’intende soffermarsi, per un excursus illustrativo in sintonia con l’intestazione del racconto.
S’affacciavano sul lato sinistro, in ordine strettamente successivo – residuano anche ora, beninteso modificati o rammodernati – quattro portoni o portoncini o semplici porte d’accesso in locali, cortili coperti e minuscole case d’abitazione.
In un immobile di detta infilata, dalla composizione e consistenza un po’ particolari, aveva in passato sede un forno pubblico, dove si svolgeva un’attività lavorativa unica e preziosa (nella borgata, a onore del vero, esistevano altri tre esercizi del medesimo genere), ossia a dire la produzione, per conto e per opera dei residenti che fossero a ciò interessati, del cosiddetto “pane fatto in casa”, da distinguersi nettamente dai panini o filoncini o rosette (pane bianco) acquistabili presso il negozio di alimentari del paese.
Di fatto, più o meno in ciascun nucleo domestico locale, si ricavavano, da qualche terreno di proprietà, modici o medi quantitativi di grano e orzo, che, periodicamente, erano portati al mulino della vicina Diso, dopodiché si utilizzava la farina al fine di ottenerne, grazie alla panificazione e alla cottura nel forno pubblico, scorte di “friselle”, poi conservate, in casa, in capienti contenitori di terracotta (capasuni o pitali, assimilabili per grandi linee a orci e anfore), e, a seguire, giorno dopo giorno, consumate sulla tavola o durante i frugali spuntini in campagna, previo ammorbidimento (sponzatura) in una scodella o in una padella piene d’acqua, oppure immediatamente sotto il getto di una borraccia o ancora mediante immersione nei resti di pioggia preservatisi nelle “conche”, minuscole buche sulle rocce affioranti qua e là nei campi.
A gestire il forno e a seguire e coordinare l’opera e la collaborazione degli utenti, c’era un’apposita figura, non a caso detta “furnara”(fornaia); per quanto riguarda l’esercizio attivo nel rione Ariacorte, si trattava di una donna, fra i cinquanta e i sessanta al tempo della presente rievocazione, Matalena (Maddalena), indossante perennemente un lungo vestito di panno nero, originaria di un paese vicino, Cerfignano, sposata con Giovanni, madre di Costantino e di Maria, dimorante in una casetta a una cinquantina di metri di distanza dal posto di lavoro.
Alla vigilia della data fissata per il suo turno, ciascun capofamiglia andava a ritirare dal forno un’ampia vasca o arca lignea, avente precisamente la forma d’una zattera, in dialetto “mattra”, dentro la quale si doveva versare, impastare sommariamente e, quindi, lasciar lievitare la farina, sotto l’effetto della fermentazione, appunto, del lievito, o pasta madre, ritirato in uno con l’anzidetta mattra.
Il trasporto dell’utile ma un po’ ingombrante attrezzo, dal forno alle abitazioni private, aveva luogo con l’ausilio di un carretto, (in gergo dialettale, trainella), anch’esso in dotazione all’esercizio di pubblica utilità. Mentre, il trasferimento a ritroso, con il carico della materia prima, predisposta o semilavorata, come meglio piaccia dire, a cura delle donne di casa, si svolgeva, di solito, in tarda serata.
Giacché, l’azione del “fare il pane nel forno comune” non doveva interferire o sovrapporsi con l’attività giornaliera, soprattutto in campagna, degli uomini, i quali avrebbero, di contro, potuto sopportare il sacrificio di una notte in piedi per il compimento, ogni tanto, dell’operazione in discorso.
Perciò, dopo aver cenato e sistemato a letto i figli piccolissimi, sospingendo la trainella, convenivano al forno gli adulti e i ragazzini della famiglia interessata, accompagnati e coadiuvati da un gruppo di stretti parenti, nonni e zii compresi.
Del resto, nell’esercizio, su gran parte di un’intera parete, correva una lunga tavola da lavoro, dove potevano sedersi fino a sei/sette persone, con in testa la fornaia, le quali prelevavano con cura, ma di buona lena, dalla mattra, porzioni dell’impasto, le lavoravano (scanavano, in dialetto) a forza di mani, gomiti e braccia, riducendole in consistenti e morbidi cilindri, da cui la gerente del forno ricavava, in quattro e quattr’otto, le friselle, una sorta di ciambelle tondeggianti, ognuna consistente in due strati sovrapposti e uniti insieme, via via poggiate provvisoriamente su lunghe e larghe assi di legno che sovrastavano la tavola di lavorazione.
Mentre il gruppo si muoveva in tale processo manuale, la fornaia, a tratti, immetteva nel forno, inteso come vero e proprio vano di cottura, un certo numero di fascine di fronde e rami (in dialetto, sarcine), frutto, specialmente, della rimonda degli ulivi, lì recate dalla famiglia che panificava, in modo da riscaldarlo adeguatamente, dalla base fino alle pareti e alla volta.
Inoltre, al momento giusto, serbava accuratamente, accantonata in un angolo, la piccola montagna di brace residuata dalla combustione.
Nel contempo, seguendo scansioni temporali ritmate dalla mente e/o dalla pratica o suggerite dalla fornaia, la forza lavoro utilizzava il quantitativo finale dell’impasto contenuto nella mattra, per modellare medie pagnotte, dette in gergo “pane moddre” (molle)”, così definite, in quanto da sottoporsi a una sola fase di cottura, e, da ultimo, raschiando cioè risicati strati di pasta dal fondo e dai lati della mattra, una serie di puliteie, assimilabili alle focacce o alle piadine, farcite, in sede di preparazione, con modiche manciate di olive nere.
Finalmente, dopo la pulitura del piano o pavimento mediante una grossa ramazza bagnata, si deponevano nel forno le friselle e, da ultimo, le pagnotte e le puliteie.
A questo punto, s’innestava una pausa di riposo, i presenti, stanchi di fatica e insonnoliti, provavano ad appisolarsi, la fornaia, da parte sua, per lo meno d’inverno, andava addirittura a stendersi su un rudimentale giaciglio tenuto in un cantone del “furneddru” (forno più piccolo, situato al di sopra di quello utilizzato per la prima cottura del pane appena fatto).
Parentesi, nondimeno, breve, corrispondente al tempo necessario per il compimento, esattamente, della prima fase di cottura delle friselle e delle restanti forme di pane preparate.
Non abbisognavano né timer, né campanelli, né ulteriori congegni, era sufficiente la maestria e un’occhiata di Maddalena verso l’interno del forno, già fiocamente rischiarato dalla brace ancora rosseggiante a margine del pavimento e, all’occorrenza, meglio illuminato grazie a una lanterna, bastava che osservare il colore della “cotta” e via la frase: “Dai, bisogna sfornare!”.
Non s’impiegava molto tempo, utilizzando appositi aggeggi metallici, le friselle erano tirate fuori e immesse in capienti cesti di vimini; da questi, ritornavano sulla lunga tavola di lavorazione, dove gli operatori, servendosi di un segmento di spago, le tagliavano a metà in due separate sezioni: una, con base ovviamente più piatta e liscia, effetto dell’appoggio sul pavimento del forno, la seconda, invece, tondeggiante.
Esaurita tale importante operazione, le friselle, così spaccate, erano nuovamente inserite all’interno del forno, la cui temperatura, sebbene in progressiva attenuazione, restava nondimeno ancora alta e media per molte ore, così da ottenere l’essiccazione o biscottatura delle friselle stesse, che sarebbero poi state definitivamente ritirate e portate in casa dagli interessati, a distanza di dieci/dodici ore.
Attraverso le feritoie o la semi apertura del portone dell’esercizio, facevano capolino i primi lucori del nuovo giorno.
I convenuti, affaticati ma soddisfatti per aver affrontato e portato a compimento un importante lavoro, se ne ritornavano alle rispettive case, ciascheduno portando con sé una forma di pane moddre (molle) o una puliteia, già pronti per essere consumati freschi di cottura.
Parallelamente, il capofamiglia o la padrona di casa proprietari della cotta di pane curavano di consegnare i suddetti due esemplari di alimenti alla fornaia, in questo caso a Maddalena, la quale – altri tempi, davvero altri tempi – a fronte del suo lavoro e del ruolo di responsabile del forno, non percepiva alcun corrispettivo o compenso in denaro.
Maddalena, semplice e umile per nascita e di carattere, espletava il suo compito con passione e impegno, sempre aperta e disponibile, s’interfacciava, ovviamente, con numerose famiglie del paese, ben voluta da tutti.
La sua figura era anche un preciso punto fermo nell’ambito della comunità; ad esempio, quando si voleva far riferimento ai suoi figli, non si diceva Costantino o Maria ‘u Giuvanni (figli di Giovanni), bensì Costantino o Maria ‘a Matalena (figli di Maddalena); la medesima particolarità seguita a vigere oggigiorno, riguardo ai discendenti di grado successivo: per citare, il nipote Vitale A., figlio di Costantino, caro amico e assiduo compagno di veleggiate dello scrivente, gode dell’appellativo di Vitali (Vitale) ’a Matalena (della Maddalena).
Proseguendo oltre il portone dell’antico forno, si trova l’abitazione, con ampio cortile coperto e scoperto, già occupata da un’anziana coppia: Giovanni ‘u Pativitu (figlio di Ippazio Vito), con la moglie Addolorata. Il capo famiglia, contadino, si può dire dalle fasce, disponeva, in aggiunta, di una non comune manualità, che manteneva attiva e concreta pure in età avanzata.
Procurandosi nelle campagne e/o in vicinanza delle scogliere, quantitativi di canne, vimini e giunchi, li nettava e sezionava, dopodiché, con una sapiente operazione d’intreccio, arrivava a realizzare panieri grandi e piccoli, cesti e cestini, che, poi vendeva ai compaesani.
A qualunque ora si transitasse davanti al suo cortile, lo si scorgeva immancabilmente intento a tale lavoro.
Accanto, la casetta di Vitale N., nomignolo ‘u ciucciu (origine del nomignolo sconosciuta, forse legata al possedimento, da parte sua o dei genitori, di un quadrupede, un somaro).
Il ricordo di detto nominativo è circoscritto alla sua figura già versante nella tarda età, nessuna notizia, infatti, circa le attività lavorative da lui svolte da giovane, forse contadino, forse falegname. E’, al contrario, viva, l’immagine di Vitale ‘u ciucciu, nella funzione di cavadenti, esercitata, verosimilmente, senza il possesso del relativo titolo accademico e avvalendosi di attrezzature molto approssimative.
Tuttavia, per le occorrenze di natura odontoiatrica (così sono definite oggi), la maggior parte dei marittimesi si metteva nelle mani del compaesano in questione: qualche lamento o urlo o strillo in corso d’opera e, però, denti e molari, non più sani, erano estratti.
A seguire, in un’ampia abitazione terranea con giardino, vivevano compare Chiaro, figlio di Giovanni, il fabbricante di panieri anzi ricordato, insieme con la moglie comare Donata e la figlia Maria Rosaria (il loro primogenito, già adulto, si era trasferito nel Nord Italia).
Caratteristica peculiare di compare Chiaro, rimasta impressa, la sua abilità nel catturare, ogni tanto, esemplari di volpi che andavano a insidiare, talvolta facendone strage, i galli, le galline e le pollastre da lui allevati nel vicino giardino denominato “canale ‘i rasci” (anche questa accezione, di origine e significato misteriosi).
Gli animali che restavano in trappola erano scuoiati e, successivamente, finivano in pentola; in qualche occasione, la comare Donata portava amabilmente in dono porzioni di carne di volpe alla vicina e amica famiglia Boccadamo.
Proseguendo verso sud, si trovava la casa di Toti ‘u Pativitu (figlio o nipote di Ippazio Vito), il quale, all’occorrenza, esercitava il mestiere di ”conza limmi e ggiusta cofini” (riparatore di contenitori in terracotta, che ogni famiglia possedeva, per farvi il bucato o per differenti fabbisogni domestici).
Per completare il quadro illustrativo, in un altro vicolo dell’Ariacorte, abitava Giuseppe P., Peppe ‘e Tuie (nativo della località di Tuglie, situata nei pressi di Gallipoli), il quale non si occupava di un preciso, determinato e limitato lavoro, ma svolgeva un’attività in certo qual modo plurima: spazzino o netturbino, adesso si chiama operatore ecologico, attacchino di manifesti e operatore cimiteriale (becchino).
Farebbe torto all’intera comunità dell’Ariacorte dei tempi andati, il narratore, se, a parte le persone anzi passate in rassegna, non ponesse in evidenza che, in quell’isola del paese, non v’era proprio alcuno che stesse con le braccia conserte, che, lì, l’apatia e l’ozio non si sapeva neppure che cosa fossero.
Il sano daffare, in un modo o nell’altro, accompagnava ogni creatura, dalla stagione della prima infanzia fino alla vecchiaia avanzata.
#fare il pane in casa#frisella#Marittima#Rocco Boccadamo#Dialetti Salentini#Paesi di Terra d’Otranto#Spigolature Salentine
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Teatro amico
Sono molto meno colta di quello che vorrei: è vero che molte volte sono io stessa a sorprendermi di cose che so, ma questo dipende dalla mia tendenza ad aspettarmi sempre troppo poco da me stessa, che è carta ben nota. Più che altro credo di avere avuto poche occasioni di frequentare certe mie passioni giusto un po' intellettualeggianti, perché non ho mai sentito di avere la compagnia giusta, ed io da sola riesco a muovermi molto poco; di apprendere nel vuoto, poi, senza alcun mezzo di confronto su ciò che maneggio, non se n'è mai parlato. Quindi una cosa così umana ma profonda come il teatro mi ha affascinato da sempre, ma troppo da lontano rispetto a quanto mi sarebbe piaciuto. Recentemente, invece, mi si è aperto tutto un mondo, un po' perché oramai sono decisamente cresciuta e sono cresciute assieme a me anche le mie compagnie, un po' perché ho creato le occasioni giuste. Ho capito che non me ne piace solo l'idea, ma il sapore stesso. La catarsi non è roba da torre d'avorio, ma esperienza concreta. Guardo tutto, o almeno ci provo, un po' come una spugna, e ci vivo sempre qualcosa dentro ed attorno. Torno sempre a casa un po' più aperta al mondo rispetto al momento prima che il sipario si aprisse, ed è questa sensazione che adoro così tanto. Ho ascoltato Shakespeare ed ho quasi sentito Cesare che mi moriva e nasceva dentro, con tutta la viltà e la nobiltà umana che ciò si trascina dentro. Ho assistito a spettacoli di beneficenza rattoppati un po' alla buona, ed ho capito quello che si trova dietro una mano tesa a mezz'aria verso il pubblico, insieme a cosa manca dietro la sua assenza. Ho ascoltato attori e cantanti navigati salpare nel mare del phatos musicale. Ho osservato saggi di danza di quasi ballerine incerte, tese e brillanti sulle proprie punte traballanti o solide come rocce. Stasera per la prima volta è successo che nella catarsi si sia infiltrata una interferenza fastidiosa e preoccupante. Ho assistito alla commedia che tra i ruoli principali vedeva figurare un mio amico, o meglio un ragazzo che fa più o meno saltuariamente parte della comitiva che frequento stabilmente da poco più di un anno. Lui è sicuramente una persona difficile da inquadrare, credo perché gli piace nascondersi dietro la rottura spasmodica di certi luoghi comuni, a favore di certi altri, suppongo allo scopo di uscire dal proprio guscio, che è una cosa che capisco. Comunque non abbiamo avuto un rapporto del tutto neutro, nel senso che fin dall'inizio lui ha assunto un atteggiamento un po' ammiccante verso di me, come gli piace di suo fare, mentre non troppo tempo dopo ci siamo trovati a notificarci a vicenda di non apprezzare tanto il punto di vista dell'altro: di questo forse è stato leggermente più responsabile lui, poiché io non mi espongo molto se so che ciò che penso potrebbe risultare infelice o non desiderato, ma se mi si attacca più di due volte poi non riesco facilmente nascondere gli artigli dietro il sorriso tutto fossette very politically correct. Soprattutto se il presunto obiettivo sia venirmi a raccontare cosa non mi fa bene di me, ché il pozzo è profondo solo se ti ci vuoi lanciare. Comunque recentemente tutto questo si è consumato ed adesso parliamo molto volentieri, di tutto e senza più problemi, tanto che a questo spettacolo voleva particolarmente che io venissi, proprio perché mi sono trovata a raccontargli che mi piace andare a teatro. Questo mio amico, comunque, è un bel ragazzo. Lo dico io che ho un'attenzione all'aspetto fisico "oggettivo" e fine a se stesso notoriamente sballata. In effetti potresti non accorgertene solo se scegliessi delle lenti decisamente superficiali, perché lui si cura molto di far passare questo dettaglio estetico in secondo piano, però se riesci a non farti fregare facilmente è abbastanza evidente. Nella commedia gli hanno dato un ruolo tutto sommato profondo da amante venduto ma anche dannato, l'hanno vestito nel modo giusto trovando il punto a metà esatta tra la persona che è ed il personaggio che doveva interpretare, ed il testo stesso gli è stato cucito attorno per crearne un'immagine affascinante. Purtroppo ho dovuto constatare che è bravo a recitare: secondo me lui recita sempre, e precisamente per questo sul palco risulta molto più credibile che nella vita reale. Vabbè, in pratica è accaduto che durante tutta la rappresentazione mi sono trovata a pensare a lui senza riuscire a scrostargli via la patina accattivante creata dal personaggio. Sbagliatissimo. Allarme. Interferenza. Ci stanno attaccando. La catarsi si basa sull'irreale circoscritto. Deve rosolarsi nel brodo del fittizio. Mannaggia tutto. Fastidiosissimamente, lui mi è piaciuto. Per risolvere tempestivamente questo spiacevole inconveniente devo provare con l'acqua raggia, e se non funziona su di lui me la applico direttamente sugli occhi. Bisogna restare razionali e coi piedi sul pavimento giusto: incolliamoci ai sampietrini e rifuggiamo assolutamente le assi di legno del palco! Scricchiolano un sacco perché c'è il vuoto cosmico sotto. Non ci trovi proprio un bel niente dentro.
#l'ho fatta lunga#come tutte le volte che mi scopro ad apprezzare qualcuno#mi capita di essere un po' donna#imbarazzantissimo
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Divano angolare di bancali fai da te
Necessità di un divano angolare per piccoli spazi? Costruiscilo tu stessa! Sicuramente sarà unico ed economico! Seguite questo dettagliatissimo passo a passo a prova di dilettanti e non potrete sbagliare! Iniziamo dalla struttura di base: Cosa ti occorre Un bancale 120×80 e due 60×80 + bancali per recupero assi seghetto alternativo levigatrice trapano tasselli di legno colla per legno vernice acrilica ruote con freni (4) ganci ad anello e relative staffe Come procedere 1. Fortificare la struttura del bancale inchiodando assi aggiuntive recuperate da altri bancali. Rimuovere chiodi ed eventuali graffette che possono sporgere dal legno. Levigare i bancali per togliere qualsiasi scheggia o sporgenza. Rimuovere la polvere 2. Ora iniziate a dipingere i bancali. Almeno due mani saranno necessarie. Lasciate asciugare bene, 3.
Naturalmente le ruote non sono obbligatorie ma, ammettiamolo, apportano un vantaggio estetico e di comodità notevole. Purtroppo mettete in conto che sono piuttosto costose. In questo caso, per economia, sono state montate solo nella parte anteriore dei bancali. 4.
A seconda dell’altezza delle ruote, prendiamo le misure per i piedi e li tagliamo: in totale sono 9. Considerate 3 piedi per il bancale grande, 4 piedi per il piccolo che va nell’angolo e non ha ruote e 2 per l’altro bancale. 5.
Ora bisogna fissare i piedi al bancale. Individuare il centro del piede e crocettarlo. Forare ed inserire il perno di legno e fissarlo con un po’ di colla. Fare lo stesso sul fondo del bancale in corrispondenza dei piedi. Fissarli. Aggiungere feltrini sotto i piedi per evitare sfregamenti con il pavimento. E infine, per avere un assemblaggio veramente stabile, aggiungete i ganci ad anelli ed i relativi fermi in modo che i pallet non si muovano quando ci si siede, ma che si possono anche spostare se necessario. Voilà! la struttura è terminata! A questo punto dobbiamo pensare al rivestimento!! Procuratevi della gommapiuma in poliestere per la seduta alta 10 cm tagliata su misura e del tessuto di copertura a vostra scelta ma che sia grosso e resistente.
Per fare la copertura di una seduta con cerniera occorrono competenze di cucito che in questo post non staremo a spiegare in quanto piuttosto difficili. Per evitare che, sedendosi, i cuscini si muovano, applicate delle strisce di feltro alla base dei bancali. Terranno ben fermi i cuscini! Ed ecco il divano finito e perfettamente decorato con tanti cuscini!
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Un semplice e tranquillo angolo dove passeremo qualche ora a leggere e a rinfrescarci con un drink e rifugiarsi al riparo dallo stress della vita quotidiana. A sottolineare la voglia di vintage sono anche delle vecchie assi di legno, che possiamo utilizzare per dare vita ad pavimento. #rendering3d #renderlovers #roses #maxoncinema4d #coronarenderer #marvelousdesigner #archiviz #interiordesign #interiordecor
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Capitolo 31
Senua procedeva spedita, le vie della città ancora perfettamente impresse nella mente nonostante tutti i mesi che erano passati.
Quasi sei.
Era un sacco di tempo, calcolando tutto quello che aveva combinato. Era scappata da una sentenza di morte, aveva affrontato un viaggio terribile verso le gelide pianure del Khanduras, si era trovata senza lavoro, senza soldi e senza conoscenze in una terra estranea e ostile. Si era poi ricollegata al Karta che operava a Tristram, e dopo qualche lavoretto noioso era stata spedita alla torre dei maghi. Da lì, le sue fortune monetarie erano aumentate di parecchio, così come le sue sfortune in tutto il resto. Non si capacitava di come quel branco di pazzi attirasse così tante sventure, da orde di Risvegliati assetati di sangue a fanatici adoratori di draghi a maghi impazziti che evocavano mostri. Per non parlare di assassini da città lontane, lupi mannari e un re che li accusava di tradimento e li aveva resi ricercati in tutto il paese.
Decisamente, non erano una compagnia da frequentare alla leggera.
Tuttavia, doveva ammettere erano stati i mesi più divertenti della sua vita. Non importava quanto la Venator fosse scorbutica, o quanto Ichabod fosse un topo di biblioteca impacciato. Persino quello stupido di Julian era piacevole e a volte anche l’uomo del Kehjistan, se preso a piccole dosi, si rivelava un buon compagno di viaggio. E la cucina di Riful era la cosa più buona che avesse mangiato in tutta la sua vita, mentre le canzoni di Miria riuscivano a rallegrare anche la più faticosa delle giornate.
Ora, mentre camminava tra le vie affollate del mercato, con tutti quei bastardi a guardarla come se fosse fatta di merda di cavallo, sputando veleno e insulti al suo passaggio, sentiva di rimpiangere almeno un poco le pianure. Là, almeno, era una donna come tutti gli altri.
“Qui sotto, sono il solito straccio.”
Svoltò verso il Distretto della Polvere, passando davanti al Corno di Capra, la taverna dove, quando si sentivano ricchi, lei e Tahir prendevano la birra più economica che quel posto aveva per sentirsi, anche solo per qualche minuto, dei normali avventori.
Prima di tornare alla polvere e al fango dei bassifondi, per tagliare la gola a qualcuno o ad estorcere denaro a qualcun altro.
Tahir. Chissà come stava.
Aveva pensato di scrivergli una lettera, ma non sapeva scrivere, e non era certa Tahir sapesse leggere. E poi, mettersi in contatto con lui l'avrebbe soltanto danneggiato, facendolo finire nei guai col Karta. Di sicuro, nessuno lì si era dimenticato di come fosse stato ucciso Beraht.
Senua si chiese chi fosse ora il capo del Karta.
Per un attimo, immaginò Tahir a gestire la faccenda, ma accantonò il pensiero ridicolo con una risata sommessa. No, molto probabilmente c'era qualche ex sottoposto di Beraht, qualcuno che stava già ai tempi in alto nella catena del comando.
Firtag, o Bhesh. Oppure Durik. Magari addirittura Jarvia...
Controllò che nessuno fosse in vista, e si infilò in un vicolo, la puzza dello scarico delle case vicine che aleggiava nauseabonda. Si tolse lo zaino, infilandoci dentro dei pezzi di armatura che non riteneva indispensabili. Se fosse entrata nei bassifondi armata di tutto punto e con uno zaino pieno, non avrebbe percorso nemmeno i primi venti metri.
Si arrampicò su alcune roccie e, con qualche difficoltà, guardò giù. Non c'erano scale, né sembrava che sarebbe stato possibile raggiungere il fondo e risalire.
Soddisfatta, avvolse lo zaino nel proprio giaciglio, in modo da non far rompere niente all'interno, e lo fece cadere di sotto con un lieve tonfo attutito.
“Chiederò a Ichabod di tirarmelo su con qualche suo trucchetto, dopo.” Pensò mentre si allontanava, controllando che il mantello, gli stivali e il resto dei vestiti fossero abbastanza sporchi e rovinati per non dare nell'occhio.
Percorse le scale dissestate che portavano alla Città della Polvere. Il suo umore scese man mano che si avventurava tra i vicoli bui e maleodoranti, mentre l'ansia saliva vertiginosamente.
Se non avesse trovato Rica?
“Potrebbe essere morta.”
Le vie familiari, i mendicanti magri come scheletri che a malapena avevano la forza di alzare lo sguardo, sperando in una moneta o un tozzo di pane, nella carità di chi stava messo meno peggio di loro. Una donna praticamente nuda era affacciata all'uscio di una casa diroccata, mettendo in mostra il corpo denutrito, le forme quasi inesistenti. Due ubriachi russavano riversi nel proprio vomito. O era uno solo a dormire? Senua non volle fermarsi a controllare se respirasse ancora. Svoltò l'angolo che portava alla piazza con la fontana, un triste rigolo d'acqua, ma l'unica che fosse pulita pulita, almeno la maggior parte dei giorni. Un pazzo straparlava di demoni e mostri, venuti a prenderlo dagli abissi della terra, mentre una madre cullava un mucchio di stracci, i suoi singhiozzi appena udibili, gli occhi cerchiati di nero e le guance scavate dalla fame.
“O peggio, potrebbe essere ancora qui.”
Proseguì senza posare lo sguardo su nessuno di loro, se incrociavi gli occhi era finita, sarebbe stata circondata dalla miseria di quel posto, trascinata di nuovo nella polvere e nel fango.
La sua vecchia casa era poco lontana, superate le rovine del grande edificio che era crollato almeno cinquant'anni prima. La maggior parte delle pietre erano state portate via e riutilizzate, ma erano rimaste le fondamenta e qualcos'altro troppo friabile ormai per essere utile.
Il tugurio, dall'esterno, era esattamente come se lo ricordava. Un concentrato di tristezza, anonimo e identico a tutte le altre baracche che lo circondavano. Senua non era mai stata famosa per la sua pazienza, ma sapeva quando doveva aspettare. Quello era uno di quei momenti. Voltò le spalle alla casa, addentrandosi nel vicolo adiacente. Una serie di casse vuote di legno marcio erano impilate in modo disordinato una sull'altra. Ne spostò un paio, sedendovisi sopra, tenendo d'occhio la porta della casa dove un tempo aveva abitato.
Sicuramente, qualcuno ne sarebbe venuto fuori.
Sua madre in cerca di alcolici scadenti, o Rica, bella e profumata per fare visita a qualcuno d’importante.
Passarono le ore, ma la porta rimase chiusa. Dalle assi alle finestre, non usciva nessuna luce. Che fossero uscite entrambe? No, più probabile che Rica fosse da qualche parte, e che la loro inutile madre fosse svenuta sul pavimento, lasciando spegnere l'unica candela che avevano in casa.
Un rumore dietro di lei la fece sobbalzare, le mani che volarono all'elsa dei pugnali.
Un topo bianco e spelacchiato schizzò via dal muro della casa di fianco, perdendosi nel canale di scarico sotto di loro.
Senua riprese a respirare.
Decise di andare a dare un'occhiata più da vicino. Fece il giro largo, arrivando alle spalle della casa, e spostò un'asse che sapeva essere traballante. Riuscì quindi ad infilare il braccio nella fessura creatasi, staccando rapidamente gli altri chiodi dalle rimanenti assi, attenta a non farli cadere a terra. Non sembrava esserci nessuno in casa. Si sporse di nuovo a controllare, prima di infilarsi completamente all'interno e atterrare morbidamente sul pavimento di pietra sconnessa.
Si guardò attorno. Il raggio di luce che entrava dalla finestra illuminava le nuvole di polvere che fluttuavano quasi immobili in aria. La stanza sapeva di muffa e di chiuso, come se qualcuno non aprisse le finestre da settimane. Addosso alle pareti e per tutta la stanza erano disseminate casse di legno chiuse con pesanti lucchetti.
Senua riconobbe il simbolo del Karta in un attimo.
Avevano trasformato casa sua in un magazzino? Che ne avevano fatto quindi di Rica e sua madre?
Andò d'impulso a controllare la rientranza nel muro, quella vicino alla tinozza di pietra. Spostò le due pietre e... niente, vuoto.
Ricordava chiaramente di averci messo le trenta monete d'argento che lei e Tahir avevano ricavato dalla vendita delle pepite di lyrium. Nessuno sapeva di quel nascondiglio a parte Tahir stesso. Forse lo aveva detto a Rica, che le aveva spese. Oppure sua madre aveva sviluppato un naso in grado di annusare i soldi nelle vicinanze, oltre che l'alcol.
Si sedette per terra, improvvisamente stanca.
“Cosa sto facendo qui?” Si chiese, chiudendo gli occhi. La sua famiglia non era più lì da un pezzo, e non aveva idea di come indagare su di loro senza farsi scoprire dal Karta. Si appoggiò al muro, pulendolo in un punto con la manica della giacca. Delle rozze incisioni andavano a formare un disegno, due sorelle che si tenevano per mano indossando ricchi abiti e vistosi gioielli. O almeno, era quello che si ricordava di aver disegnato a quattro anni, il coltello in mano e un intero pomeriggio passato chiusa in casa con la madre assente, i morsi della fame che la attanagliavano mentre aspettava che Rica tornasse con del cibo.
Quando la madre aveva visto, giorni dopo, quello che aveva fatto, laveva picchiata cosi forte da romperle tre denti. Meno male che erano ancora quelli da latte, ai tempi.
Bella infanzia di merda.
Si tirò in piedi, già stufa di quel posto. Stava per uscire di nuovo dalla finestra, quando qualcuno fece scattare la serratura della porta.
Acquattandosi dietro ad una pila di casse, sbirciò nella poca luce verso il nuovo arrivato. Era solo, più giovane di lei, la barba ancora rada tipica di un ragazzino.
Aspettò che richiudesse la porta, lasciandolo avvicinare.
Quando il ragazzo oltrepassò la soglia della stanza, gli piombò alle spalle, mettendogli una mano sulla bocca e puntandogli un coltello alla gola con l'altra.
Quello lanciò un grido che venne però soffocato.
«Stai zitto o ti ammazzo.» Minacciò lei, incidendogli leggermente la pelle e stillando qualche goccia di sangue, per mettere in chiaro che facesse sul serio.
L'altro annuì, quindi gli tolse la mano dalla bocca.
«Dove sono le due donne che vivevano qui?»
«Non lo so, mi hanno solo detto di andare a recuperare delle armi!»
«Chi te l'ha chiesto?»
«Mi uccideranno se parlo!»
Senua spinse ulteriormente nella carne. «Ti uccido io qua ed ora, se non canti.»
Il ragazzo tremava come un topo. Quando sentì qualcosa picchettare contro il pavimento, Senua stentò a crederci: il pivello se l'era fatta sotto.
«Quando c'ero io, i membri del Karta erano più tosti.» Digrignò i denti, schifata, trascinando l'idiota lontano dalla pozza maleodorante durina. Sua madre si sarebbe messa ad urlare, e Rica avrebbe arricciato il naso, andando a prendere uno straccio.
Lo sbatté contro il muro, facendogli picchiare la testa contro la roccia. «Allora, muoviti.»
«Tu...»
«Sì sono io, ora rispondi.»
«... tu, chi sei?»
Quasi le caddero le braccia. «Come chi sono?!» Sibilò furiosa, tirandogli un calcio sul ginocchio e facendolo cadere a terra. «Sono la padrona di casa e quella che ha sgozzato Beraht come un fottuto maiale nel suo stesso palazzo!»
«... Senua?»
«Finalmente, pivello.»
L'altro la guardava sbattendo le palpebre, una smorfia di dolore sul volto sorpreso. «Jarvia pensava che eri morta. Quando sa che sei qui, ti uccide di sicuro!»
«Jarvia, hai detto?» Jarvia. Una degli scagnozzi migliori di Beraht. Si ricordava perfettamente di come aveva deriso lei e Tahir , quando erano stati catturati e messi in cella in attesa di essere puniti per aver rovinato le scommesse alle Prove. Era una guerriera abbastanza spietata da poter gestire il Karta, ed era stata abbastanza vicina a Beraht da aver imparato a comandare.
Inoltre, era una Sangue Sporco. Suo Padre era un Vampiro e lei uno di dei mezzo sangue Akyshar che nessuno voleva. «Chi credi che ci sia al capo del Karta, adesso?» Squittì il ragazzo, tremando come un porcellino sul punto di essere sgozzato. «C'è ancora una taglia sulla tua testa, dieci Monete!»
“Soltanto dieci?!” Si offese Senua. Avrebbe potuto pagarsi sei volte tanto. «E mia sorella? Che è successo a Rica?»
L'altro scosse la testa. «Non l'abbiamo toccata, nessuno può! Da quando è rimasta incinta vive ai piani alti, e nessuno l'ha più vista qui sotto!»
Confusa, aggrottò le sopracciglia, colpendolo tra le costole con il manico del coltello. «Di che stai parlando? È riuscita a farsi mettere incinta da qualcuno d’importante?»
Il ragazzo sgranò gli occhi. «Non lo sai? È la concubina del Principe Serkan in persona, il futuro Re! Gli ha dato un maschio la settimana scorsa!»
Senua sbatté le palpebre più volte, cercando di capire. Sua sorella. Rica. Sua sorella Rica concubina di un Principe.
Realizzò qualche attimo dopo il casino.
«Cazzo!» Urlò colpendo il muro.
«Merda!»
Urtò contro la pietra tagliente, facendosi male. Si guardò le mani, erano zuppe di sangue. Sollevò lo sguardo da terra, notando con orrore che non aveva colpito solo il muro.
Il cadavere dello scagnozzo del Karta era a terra in una pozza scura, sobbalzando in preda alle convulsioni, un profondo taglio sul collo da cui schizzavano fiotti di sangue.
«Merda!» Si chinò a cercare di fermare il sangue, premendo in qualche modo contro la ferita, inzuppandosi anche lei. «Non puoi morire, devi dirmi…»
Dopo un ultimo sussulto, il corpo rimase immobile.
«Merda!» Ringhiò ancora, dando un calcio al cadavere.
Bel casino davvero. E adesso che doveva fare? Andare a dire agli altri che sua sorella abitava al palazzo del rivale di Arsim, che aveva dato un figlio maschio all'assassino di suo padre e suo fratello? Stentava a credere che avrebbe cambiato qualcosa. Arsim non avrebbe abbandonato i suoi propositi di vendetta, e lei non poteva tradire Rica e toglierle l'unica cosa bella che le fosse capitata in una vita intera.
“Aspetta, sei mesi!”
Mentre frugava nelle tasche del malcapitato cadavere, fece rapidamente un calcolo. Com'era possibile che Rica avesse già partorito il figlio di Serkan, se quando Senua era partita sei mesi prima Beraht era ancora convinto che non avesse trovato un protettore?
Sei mesi erano decisamente troppo poco per avere un figlio.
Trovò tre monete di rame, un pezzo di stoffa con inciso un disegno e un osso molto piccolo. Avvicinò quest'ultimo alla luce, riconoscendo un dito umano, la cui ultima falange era stata intagliata in modo da sembrare una chiave. L'ultima parte era attaccata ad un piccolo anello di ferro. Notò dei segni rossastri sulle ossa.
Doveva aprire qualcosa, forse l'ingresso al Karta.
Chissà se era rimasto lo stesso, o se qualcuno si era preso la briga di chiudere i passaggi a lei noti e aprirne di nuovi, con la rinnovata gestione dell'organizzazione. Non credeva che Jarvia si fosse presa la briga di ristrutturare, non sembrava nel suo stile spendere soldi in segretezza invece che investirli in altra forza lavoro e maggiori carichi da contrabbandare.
Si grattò la testa, incerta su come nascondere il corpo. Dopo poco avrebbe cominciato a puzzare, ma non poteva trascinarlo via da lì senza allarmare l'intero quartiere nel giro di pochi attimi. Sollevarlo e farlo uscire dalla finestra era fuori discussione, e comunque sul pavimento c'era abbastanza sangue da poter essere scambiato per un macello.
Decise, a malincuore, di lasciarlo lì. Avrebbero pensato che fosse stato attaccato da un altro membro del Karta o, cosa improbabile, che un esterno si fosse introdotto per rubare dal magazzino e fosse stato colto sul fatto, uccidendo l'unico testimone.
Se il pivello aveva detto la verità, Rica e la madre non correvano alcun pericolo dal Karta, anche se Jarvia si fosse insospettita.
Si mise ad esaminare le casse, confrontando i segni con quello sul pezzo di stoffa trovato, fermandosi di fronte ad un baule dall'aria pesante. Era uno dei pochi chiusi con un lucchetto, e di buona fattura per giunta. Trafficò coi sui attrezzi da scasso, facendo scattare il meccanismo dopo qualche tentativo. Il baule si aprì, rivelando delle bombe.
Erano piccole, tenute in boccette di terracotta, i tappi di argilla a tenerle sigillate. I simboli su di esse ne rivelavano il contenuto: fiamme, veleno, semplice fumo.
Tornò dal cadavere, prendendone la sacca e scoprendo che era vuota.
“Questo pivello si sarebbe fatto saltare in aria, e con lui mezzo quartiere.” Sbuffò riempendo la sacca di bombe, posizionandole con cura avvolte in una coperta lurida trovata su uno scaffale. Una volta messe dentro le sei bombe di fuoco, le dieci boccette di veleno e i quattro fumogeni, si dedicò alle altre casse.
Scartò subito quelle marce. Là dentro non era stato messo nulla, troppo pericoloso: in caso di trasloco rapido, si sarebbero sfondate e il contenuto sarebbe rotolato via per le strade, se non esploso. Passò a controllare quelle anonime, gli occhi che riprendevano pian piano familiarità col buio. Mesi sulla superficie le avevano rovinato la vista.
Doveva fare in fretta. Se Jarvia aveva mandato il pivello a prendere qualcosa, non vedendolo tornare si sarebbe insospettita. Scovò velocemente una cassa di coltelli, nascosti dentro del vasellame, un paio di barre di metallo lucido e...
Tre armature.
Sorrise trionfante. Si tolse in fretta la propria, mettendo anch'essa nello zaino, e indossò i pezzi che le andavano bene di quelle nelle casse. Il petto le andava un po' stretto, e i guanti un po' larghi, ma almeno non erano zuppi di sangue. Richiuse velocemente le casse, ne aprì un paio a caso scoprendo altra paccottiglia inutile e si diresse verso la finestra. Prima di uscire, si voltò per un ultimo sguardo.
“Che postaccio.” Pensò con una punta di affetto, prima di sgusciare tra le travi e uscire nel vicolo.
Vagò per i bassifondi senza una meta precisa.
Con il resto del gruppo nel Distretto dei Diamanti, non c'era verso di poterli raggiungere. Sbuffò, lo stomaco che brontolava. Ormai era quasi notte.
Una zaffata di maiale allo spiedo le fece torcere le budella affamate. Ne seguì la provenienza, trovandosi di fronte ad un piccolo falò, tre persone sedute accanto ad esso, un nug al centro. «Ehi, hai del denaro?» Le chiese uno dei tre, un ragazzino senza tre denti davanti. Doveva avere non più di dieci anni. Il vecchio e la donna si voltarono a guardarla, sulla difensiva.
Senua annuì, mostrando dieci monete di rame. «Bastano per un boccone?»
La donna malconcia seduta a terra allungò una mano, prendendo le monete e mordendole. «Sì, beh, c'è cibo per tutti oggi.» Senua non riuscì a riconoscerla, aveva il visto troppo sporco e troppo in ombra per capire chi fosse, ma aveva un che di familiare.
Il maialino era tutto pelle ed ossa, ma gli altri tre rosicchiarono pure le cartilagini, succhiando il midollo e sgranocchiando persino le zampe.
«Com'è che sei qui a mangiare con noi?» Le chiese il vecchio, interrompendo il suo succhiare il poco grasso del maiale e sputacchiando saliva. Aveva un paio di incisivi e qualche altro dente sparso, neri e traballanti.
«Già, Jarvia non ha trovato qualcosa da farti fare?» Rincarò la donna, voltandosi verso il fuoco per guardarla accusatoria.
Senua realizzò finalmente chi fosse. Nadezda, uno dei membri del Karta di Beraht che di solito gestiva le consegne per la città. Era un corriere in gamba quando se n'era andata, come si era ridotta così? Decise di indagare, la donna sembrava avere informazioni sul Karta, e magari sapeva dove fosse Tahir .
«Che ti è successo alle gambe?» Chiese, modulando la voce perché fosse più roca. Per il momento l'altra non sembrava averla riconosciuta. Era cambiata davvero così tanto, o si erano già dimenticati di lei, nonostante la taglia sulla sua testa?
Nadezda sputò per terra. «Maledette guardie. Stavo facendo una consegna, quando ci hanno beccati. Il mio compagno aveva abbastanza monete da farli chiudere un occhio, quindi se la sono presa con me. Mi hanno rotto le ginocchia e costretta in ginocchio nello sterco finché non le ferite non erano così infette da non poterci fare più nulla.»
Si indicò le gambe, piegate in una posizione innaturale, delle protuberanze che spuntavano dalle giunture. «Non sono mai guarite per bene, e il Karta mi ha scaricata. Jarvia non se ne fa nulla degli storpi.»
Tipico del Karta. Uno scagnozzo non più in grado di essere utile veniva scaricato all'istante, data la grande quantità di nuove reclute che non vedevano l'ora di mettersi alla prova. «Mi dispiace.»
Nadezda si strinse nelle spalle. «Cose che capitano. Almeno mi è andata meglio di chiunque tu abbia incontrato, eh?» Commentò, facendo un cenno col capo agli stivali di Senua, sporchi di sangue rappreso, terra e chissà cos'altro. «Un lavoro come un altro, vero?»
Senua si mosse, a disagio ma non dandolo a vedere. Estrasse uno dei suoi coltelli, mettendosi a pulirsi le unghie, fingendo indifferenza. «Bisogna pur mangiare.»
«Quant'è vera la Pietra!» Concordò la donna. «Anche perché, con quella faccia non potresti accalappiare manco un cuoco, dai retta a me.»
La ragazza storse la bocca in un ghigno compiaciuto. «Non è mai stato il mio intento. Troppe botte da piccola.»
«Ah, non tutte possiamo essere fortunate come quella puttana di Rica!»
Le pizzicarono i capelli in testa, chiusi nelle treccine. «Sì, ha trovato la vena d'oro, quella...»
L'altra annuì. «Dopo quello che è successo con sua sorella, pensavo l'avrebbero fatta a pezzi, e invece il giorno dopo si è trasferita ai piani alti, pensa un po'! Non ci ha messo un attimo a riprendersi.» Tirò su col naso, pulendosi con la mano lurida e ricominciando a succhiare la mascella del nug, tutti i denti ancora attaccati. «Almeno non dobbiamo più subirci le urla di quella pazza di sua madre, adesso sarà a sbronzarsi di birra al miele e vino...»
«Beata lei.» Le diede corda Senua. Era fortunata che, a parte i capelli rossi, non avesse preso molto in comune dalla madre, e che la sorella fosse così diversa da lei, avendo un altro padre. Forse era anche merito delle numerose cicatrici e nasi rotti...
«Ah, ma qui la vita prosegue come al solito, anche meglio a dire la verità. Da quando è morto il re le guardie sono sempre impegnate da qualche parte e siamo diventati il terrore dei mercanti!» Esclamò il ragazzino, gli occhi che brillavano di orgoglio.
Senua era ammirata. Persino Beraht si imponeva dei limiti, ma la nuova gestione era quasi sfacciata. «Certo, solo alcuni di noi...» Lo rimbeccò Nadezda, tirandogli uno scappellotto. «Ti hanno già beccato due volte a rubare dalle bancarelle, non fare altre cazzate.»
«Ora devo andare.» Tagliò corto Senua. Ringraziò per il boccone e, ancora affamata, si allontanò dal gruppo. Le sembrò che gli occhi della donna la seguissero per più del necessario, sentendoli puntati sulla nuca per tutto il tragitto prima di svoltare l'angolo.
Frugò nello zaino, prendendone un poco di carne secca e sgranocchiandola cercando di non dare nell'occhio. Uscì verso i vecchi tunnel, dove lei e Tahir erano soliti passare il proprio tempo libero a bere alcol scadente e fantasticare sull'avere montagne di soldi.
«Ora che le ho, non ti trovo.» Borbottò. Si issò in cima al tunnel, uscendo da uno squarcio nella roccia. Era praticamente al buio, ma poteva vedere gran parte della città della polvere da lassù, una distesa di catapecchie e rovine di pietra risalenti a troppe centinaia di anni prima. Finì di mangiare la propria cena, bevendo poi un po' dalla fiaschetta che teneva alla cintura, osservando le luci delle case spegnersi man mano che si faceva sempre più tardi, finché non rimase soltanto la luce delle torce.
Sistemò lo zaino accanto a sé, stendendosi sulla nuda roccia, il mantello appallottolato come un cuscino. Lì era praticamente invisibile, nessuno l'avrebbe disturbata. Era uno dei loro posti preferiti per cercare un po' di solitudine e svago...
Chiuse gli occhi, sperando che le venisse sonno in fretta.
Si svegliò dopo poche ore di soprassalto, le urla che arrivavano dalla strada fin lassù a farla scattare in piedi, pronta a difendersi. Ci mise qualche secondo a realizzare di non essere in pericolo di vita.
Tornare là le aveva risvegliato tutti i suoi istinti di sopravvivenza, che aveva imparato a tenere a bada viaggiando con un folto gruppo di compagni.
Respirò profondamente, cercando di capire cosa stesse succedendo. Era mattina, sicuramente. C'era più luce, tutti i fuochi erano spenti.
Fece vagare lo sguardo in direzione della piazza con la fontana. Un folto gruppo di persone stava urlando, ma era troppo lontana. Raccattò in fretta lo zaino e si coprì col mantello, stando bene attenta a rimettersi della polvere sulla faccia e i capelli. Soddisfatta, si infilò nel tubo di areazione, scendendo nel vicolo sottostante.
«Troverò chi ha rubato la nostra roba, e la pagherà cara!»
“Karshol” lo riconobbe Senua. Era uno degli scagnozzi di Beraht e ora serviva Jarvia.
«Se qualcuno ha informazioni, si faccia avanti adesso! Venti pezzi d'argento a chi mi porta un nome, cinque se avete almeno una descrizione!»
«Quel pazzo che si è permesso di rubare al Karta, avrà vita breve...» commentò qualcuno tra la folla. Alcuni annuirono, altri stavano già pregustando il denaro.
«Con l'oro o col sangue, il Karta prende sempre la sua parte.» Recitò un altro, scuotendo la testa. «Vorrei non essere stato ubriaco perso, ieri sera, magari vedevo qualcosa e stanotte mi pagavo qualche bella ragazza. O birra migliore.»
«Non ti basterebbero trenta pezzi d'argento, con quell'alito!»
Era il momento di ritirarsi. Osservò meglio gli altri uomini del Karta che erano con Karshol, imprimendosi le loro facce nella memoria, per poi girare i tacchi e andarsene con calma.
Fece la strada più lunga verso i quartieri comuni, prendendo svolte inutili e tornando spesso indietro. Quando arrivò al mercato, era mattina inoltrata. Lanciò un'occhiata al grande orologio a pesi, collegato alla clessidra di sabbia che troneggiava al centro della piazza. Quasi mezzogiorno.
Girovagò per un poco, il peso dello zaino pieno zeppo che cominciava a farsi sentire, quando finalmente individuò qualcuno di familiare.
«Ehi!» Sibilò, avvicinandosi di soppiatto e facendo saltare Ichabod sul posto. Una scarica elettrica fece schioccare l'aria, ma lei era già scattata indietro.
«Sei impazzita?!» Sbottò lui, portandosi una mano al petto con fare drammatico. «Potevo ucciderti. Non farlo più.»
«Seeee, uccidermi, come no.» Lo sbeffeggiò lei. «Allora, mi dovresti fare un favore.»
«Sparisci nel nulla, ricompari il giorno dopo e mi chiedi pure di aiutarti?»
«Gli amici fanno così, no?»
Lo vide sogghignare. «Non mi era giunta voce fossimo addirittura amici.»
Senua schioccò la lingua. «Dato che non hai esattamente la fila, accontentati.»
«Senua? Dov'eri finita?» Trillò Miria, un ampio sorriso sul volto. «Ti stavamo cercando, eravamo preoccupati.»
Kyra, accanto a lei, accennò un sorriso, che le storse la cicatrice sul labbro. «Ciao.»
Kilik la salutò allegramente, un sasso luccicante in mano e un sorriso tutto denti.
«In giro.» Rispose evasiva lei alzando la mano. «Che ne dite di pranzare decentemente? Conosco un posto niente male.»
«Il Corno di Capra?»
Senua guardò il mago, sorpresa. «Come fai a ricordartelo?»
«Gli amici prestano attenzione, sai.»
Ridacchiò. «Allora muoviamoci a recuperare la mia roba, che poi vi faccio fare un giro alcolico di tutte le birre del Corno. Ah, spero abbiate spazio nei vostri zaini...»
«Non sono una carrucola.» Si lamentò Ichabod mentre con un incantesimo sollevava lo zaino pieno di roba. «Vedi di non abituartici.»
Lei lo ignorò, costringendoli a dividere il contenuto della refurtiva tra di loro, in modo che non dessero nell'occhio con borse troppo piene.
Quando arrivarono alla taverna, la cameriera le si parò davanti, squadrandola con disgusto.
«Non serviamo senzacasta, qui.»
«Non è certo il modo di accogliere un cliente!» La redarguì Miria, incrociando le braccia e mettendosi al suo fianco. Senua ghignò in direzione dell'altra, beandosi della sua espressione sorpresa.
«Veniamo dalla pianura, però se questi ti fanno schifo, andremo a spenderli da un'altra parte.»
Le mise in mano dieci monete d'oro.
Alla cameriera quasi venne un colpo. Sbiancò di botto, chinando il capo e affrettandosi a balbettare qualche scusa. «Prego, da questa parte.»
Li condusse ad un tavolo di pietra in fondo al locale, al riparo da occhi indiscreti. Mentre attraversavano il salone, era chiaro che tutti sapessero perfettamente chi erano. D'altronde, un gruppo simile, tra cui un mago e una Druida piena di cicatrici particolarmente appariscenti, non potevano passare inosservati.
«Sono quelli che accompagnavano i Venator ieri...»
«Ho sentito che si sono schierati con il Principe Arsim Aducan...»
«... non è mica più un principe, quello!»
«Ha ammazzato suo fratello!»
«Ma no, è stato incastrato dal fratello!»
Senua ridacchiò. «Siamo la notizia del giorno.»
«Ed è solo l'inizio...» Borbottò Ichabod, prendendo posto al tavolo.
Sotto consiglio di Senua, ordinarono un giro di tutte le migliori birre del locale.
Kyra storse il naso. «Io prendo dell'acqua.»
«E dai, almeno per questa volta! Non fare la guastafeste»
La ragazza scosse la testa. «Non mi piace l'alcol.»
«Va bene… ma detto tra noi sorella, dovresti lasciarti un po' andare, sai cercare di divertirti un almeno un po', la vita è breve e non sai che ti stai perdendo!» Esclamò Senua, annusando una delle birre e scolandosene almeno metà tutto d'un fiato. Ruttò sonoramente, sbattendo il boccale sul tavolo. «Ah, era da sempre che volevo farlo.»
«Essere assolutamente rivoltante? Lo fai più o meno tutti i giorni, tranquilla.»
Era troppo felice per ribattere, quindi scelse di ignorare il commento del mago. Se Tahir l’avesse saputo... aveva tutto il Corno di Capra al proprio servizio, bastava sventolare qualche moneta della sua borsa! “Ah, il meraviglioso odore del denaro!” Pensò soddisfatta, inspirando a pieni polmoni.
«Effettivamente, è molto buona.» Dichiarò Miria, sorseggiando graziosamente dal suo boccale. «Leggere note fruttate, un forte sentore di botte di coccio e il miele che ne addolcisce l'aroma...»
Kilik ridacchiò, sollevando il boccale. «Abbiamo un'intenditrice!»
«Oh, non mi permetterei mai di sostenerlo.» Scosse la testa la donna, le guance leggermente colorite di rosa. «Kyra, sei sicura di non voler assaggiare?»
L'altra rispose negativamente. «Scusate, non mi piace proprio.»
«Una scelta salutare.» Acconsentì la giovane Sacerdotessa.
Senua tracannò il proprio boccale, prendendone un altro di birra scura. «Ne lasci di più per noi!»
«Sei riuscita a trovare tua sorella?» Le chiese a tradimento Ichabod, facendole quasi andare di traverso la bevanda.
Tossì più volte, cercando di non farla uscire dal naso. «No, non vive più lì.» Rispose evasiva.
L'altro la fissò, assottigliando gli occhi.
«Non voglio parlarne, d'accordo?» Sbottò lei sulla difensiva. «Siamo qui per bere, non per risolvere i nostri problemi familiari. Altrimenti ti avrei chiesto perché non sei andato a parlare con Katrina prima di partire.»
Fu il turno di Ichabod di tossire, a disagio. Riportò lo sguardo nel boccale. «Già, siamo qui per bere.»
Ben presto ordinarono un altro giro, mentre gli altri la aggiornavano su quanto successo il giorno prima al Distretto dei Diamanti.
«Quel Joritz non mi convince.» Sentenziò Kilik. «Troppo impegnato a far fare agli altri tutto il lavoro e a prendersene il merito.»
«Abituatici, qui fanno tutti così.»
«Mi ricorda molto Antiva...» Ridacchiò. «Gli omicidi sembrano all'ordine del giorno.»
«Quindi, vogliono andare a recuperare la Campionessa Tarja nelle Vie Profonde?» Chiese Senua sovrappensiero. Non aveva alcuna intenzione di infilarsi là sotto. «Mi sembra un suicidio.»
Ichabod si strinse nelle spalle. «Sarà, ma sono convinti che sia l'unico modo per ottenere l'unanimità dell'Assemblea.»
«Tipico di quei maledetti, cercare di risolvere i loro problemi andando a cercare una pazza sparita chissà dove da anni.»
«Però hanno un'enorme biblioteca. Se non avessimo dovuto venire a cercarti, starei già leggendone la metà in questo stesso momento.»
«Ichabod, tu hai un gran bisogno di scopare.» Afferrò un altro boccale dal vassoio, mettendoglielo davanti. «E di bere. A fiumi. Non uscirai di qui in grado di leggere, te lo dico io.»
«Ah, questa potrebbe essere divertente!» Esclamò Kilik.
Ichabod, stranamente, non provò nemmeno a ribattere, attaccandosi al boccale.
«Whoah, piano, o non uscirai nemmeno camminando!»
Risero tutti. Persino Kyra si era rilassata, mentre sbocconcellava del manzo. Miria prese un po' di salsa dalla tazzina e la versò sopra la porzione di carne della Druida, che la guardò interrogativa.
«Assaggia, fidati di me.»
L'altra seguì il consiglio, sgranando gli occhi per la sorpresa. «Mhf, è buonissimo!» Biascicò, masticando di gusto e prendendone dell'altro.
Risero di nuovo, facendo lo stesso.
Senua li osservava di sottecchi, divertita. Proprio un bel cambiamento dall'ultima volta che era stata li dentro.
Si chiese per l'ennesima volta cosa stesse facendo Tahir .
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SCENEGGIATURA
Sceneggiatura personale
Oggetto: pistola
Esterno ed interno giorno
Visibilità alta_ la luce entra dalle finestre anguste della catapecchia
Esterno giorno_campi con strada in terra_1 scena
Narratore esterno
Questa è la Sicilia terra del sole, del mare, dei limoni ma soprattutto… della mafia… eh si ragazzi qua succede di tutto… persone che scompaiono… negozi che esplodono… di tutto, ma la storia che vi racconterò ha dei protagonisti un po più strani… Tony e salvatore… 2 sicari del boss mafioso biondo della zona di Palermo … i 2 erano stati ingaggiati per una specie di sopralluogo di una catapecchia abbandonata nella Campagna perché era da un po che da li gente andava e veniva.
Tony
Minchia ma quanto ancora devo aspettare… vuoi premere sul quel acceleratore vorrei arrivare a cena da mia madre sta sira
Toto guardò tony con un espressione scocciata
Tore
Minchia tony… quanto scassi però ti dissi che devo svoltare alla prossima addestra e arrivati siamo e poi non distrarre il guidatore che sai come vanno le cose di sti tempi con tutti quei cristiani morti in strada
Tony
Ma dove minchia li vedi i cristiani Tore siamo in campagna in un campo … e probabilmente da quel che vedo saranno almeno 100 anni che nisciuno vinne ca.
I due sicari continuarono il loro piccolo viaggio verso la casa abbandonata per un altra ora finche non arrivarono a un vecchio magazzino in mezzo alle campagne.
Tore
Tony… ma mi spieghi qui don biondo chi minchia c ha visto… è un magazzino che sta cadendo a pezzi
Tony
Non hai ancora imparato è Tore… prendi i fucili sono nel bagagliaio
Narratore
I 2 scesero dall auto, con tutta tranquillità tirarono i fucili dal bagagliaio e si incamminarono verso il magazzino
Tony imbracciando un fucile e con uno sguardo sicuro urlò
Tony
C’è QUALCUNO CA DINTRA …
Sconosciuto
No
Tore
Chissi pure scemi sono.
E aprirono il fuoco sulla catapecchia di legno che in un attimo fu piena di fori, e molte assi caddero all urto dei proiettili. Ma una cosa non tornava non c’era stato nessun urlo o schiamazzo, questo insospettì i 2 che fecero irruzione nel magazzino
Tony
Tu gli hai sentiti urlare
Tore
No
Tony
Nemmeno io
Tore
che facciamo entriamo
Tony
Acchiana va
Quando entrarono videro che un uomo chiuse una botola sul pavimento, i 2 si precipitano verso la botola la aprirono e ci si infilarono dentro agili come gatti. Subito però gli altri aprirono il fuoco contro tony e salvatore che furono costretti a ripararsi dietro un muro
Tony
tore chi minchia facciamo mo
Tore
Aspetta che finiscano i colpi non ne avranno ancora tanti
Narratore
E cosi fu… e quando fu uscirono allo scoperto e fu una carneficina… uccisero tutti … fin quando non arrivarono al suddetto capo
Tony si accese una sigaretta e guardava tony che parlava con il capo
Tore
Allora… che succede qua …. A ma aspetta a Tia ti conosco tu si quello di Catania… Peppino giusto?… sai che non dovresti essere qua vero?… che questo e territorio biondo lo sai?
Mentre gli stringeva la mano nelle parti intime
Peppino
Si … si o so
Tore
E pecche tu si ca * stringendo ancora di piu*
Peppino
Il mio boss voleva che davassimo fastidio a voi vendendo metanfetamina in questa zona
Tony
Bona torè lascialo vabbene, mo tocca ammia
Tony si avvicino con aria superiore a Peppino che lo guardava inpaurito indietreggiando.
Tony
Scolta peppì sei un bravo picciotto e so che se fosse per te non l avresti fatto questo sbaglio grossolano… vero?
Peppino
*annuisce con la testa mentre piange*
Tony
Ecco appunto ora ti do un beneficio…
I 2 lo portarono di sopra, fuori dalla catapecchia spintonandolo e maltrattandolo
Narratore
Ecco un altra brutta azione sventata grazie ai nostri 2 eroi… ma non è finita loro con i loro ostaggi amano giocare
Lo fecero inginocchiare sulla terra
Tony
Allora vediamo se hai fegato ragazzo… ora io ti do la mia pistola e puoi o spararci e poi avere la famiglia biondo alle costole oppure ti alzi corri fin quanto puoi e io da qua gioco al tiro al bersaglio eh che ne dici …
Tore
Minchia tony che offerta che ci hai fatto la migliore che abbia mai sentito
Allora Peppino si alzo velocissimo e comincio a correre con quanto più fiato avesse corse per almeno 30 metri quando tony aprì il fuoco
Passarono altri 10 metri e tony colpi il bersaglio
Tore
Ottimo tiro … ti vanno due panelle?
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