#ondata di odio sui social
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L'odio per i 'diversi' su Twitter corre veloce e incontrastato.
Navigo e scrivo su Twitter da circa due anni e trovo che sia davvero irragionevole e deleterio il modo in cui si esplichi: pur segnalando, anche in massa, contenuti di odio verso donne e omossessuali da parte di politici, religiosi e utenti apparentemente comuni, non si riesce a farli sparire e a frenare, pertanto, tale ondata.
Twitter è un social orribile, dove vengono diffusi disvalori misogini e omofobi e si compiono atti persecutori verso 'diversi': NON doveva essere aperto a personalità politiche e religiose misogine, omofobe, razziste, perché si piazzano lì solo per diffondere odio.
#Twitter#irragionevole#deleterio#odio#donne#omosessuali#politici#religiosi#utenti#ondata di odio sui social#social#disvalori#misoginia#omofobia#politica#razzismo#apologia dell'odio
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Ferragni si commuove in tv:"C'è vita fuori dai social,va vissuta. Io al centro di una ondata d'odio"
“Sono stati due mesi un po’ tosti” aveva dichiarato l’influencer nei giorni scorsi tornando sui social e lo ha ripetuto ieri sera, ospite di Fabio Fazio in tv: “Sono stata al centro di un’ondata d’odio” ha dichiarato. “Tu penseresti che una come me è preparata a un’ondata di odio del genere, perché sono Chiara Ferragni. Sei preparata, però niente ti prepara alla violenza di certi attacchi.…
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https://notizieoggi2023.blogspot.com/2024/03/ferragni-fa-la-martire-odio-contro-di-me.html Ferragni fa la martire. "Odio contro di me" Di veramente memorabile nella mezzoretta di intervista con Fabio Fazio c'è la nuova massima di Chiara Ferragni: «Bisogna rendersi conto che i social non sono tutto». Detto da lei, è come se Sinner dicesse che il tennis non è poi così importante. Insomma, l'attesissima apparizione della più famosa influencer del mondo a Che tempo che fa non ha aggiunto molto alla «narrazione» (oggi si dice così) delle ultime settimane. In sostanza, riguardo al «Pandoro Gate» lei ribadisce quanto detto nel famoso video con la tua griga e cioè che «se qualcuno ha frainteso, allora alcune cose avrebbero potute essere fatte meglio». E che «non rifarei queste operazioni, da ora in avanti credo che le attività benefiche debbano essere separate da quelle commerciali». E in merito alla separazione dal marito Fedez «non è una strategia, è un periodo di crisi, ne abbiamo già avuti in passato, di certo questo è un po' più forte» (e si commuove mentre lo dice). Stop. Come sempre accade, le interviste attesissime non si rivelano mai decisive. Fabio Fazio è stato persino più incalzante del solito, arrivando a sottolineare che, in merito alla beneficenza, «non è soltanto un errore di comunicazione». E lei, Chiara Ferragni, è stata molto più disinvolta dell'unica altra volta nella quale si è mostrata in pubblico, cioè al Festival dell'anno scorso. A proposito, dallo slogan «Pensati libera» lanciato proprio dall'Ariston è passata al «Non pensarti perfetta», che è in qualche modo un riassunto critico e un pelo tardivo della sua carriera. «C'è tutta una vita che va vissuta» ha detto tra i video celebrativo e l'altro, e forse non ha neppure pensato a quanti, in questi anni di esplosione del «Fenomeno Ferragni», glielo abbiano consigliato. Invece che da Fazio, Chiara Ferragni, in rispettoso tailleur nero con tacco a spillo («Ho pensato molto a quale vestito scegliere, non volevo creare gli stessi equivoci del mio video con la tuta»), è idealmente andata a Canossa, ammettendo di avere sostanzialmente fatto un decisivo errore di valutazione. La vita non è social. Come sempre, la vita vera è soprattutto fuori dai social, cosa che poi sarebbe una minaccia di fallimento delle sue due imprese «che danno lavoro a una cinquantina di persone». Non a caso, lei prende le distanze dalla presenza continua, massiccia, estenuante sui social. E lo fa perché ha capito che, finché tutto va bene, i social sono un paradiso di osanna. Ma quando c'è qualche problema «sei preparata ma niente di prepara a certi attacchi». Il riferimento è all'«ondata d'odio» nella quale si è ritrovata dopo lo scandalo del pandoro. Obiettivamente tanti toni sono stati (e sono tuttora) intollerabili ai limiti della denuncia. Ma in questi anni lo sono stati quelli dei suoi quasi trenta milioni di followers anche nei confronti di chiunque avesse il coraggio o la follia di criticare l'icona Ferragni. Purtroppo è la regola crudele e insensata di un sistema del quale lei è stata un motore decisivo. Come diceva Pietro Nenni (politico del quale i social non hanno memoria) «gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura». Per capirci, non puoi sperare di chiudere Instagram o X quando ti fa comodo. Prendere tutto o lasciare tutto. Quindi l'intervista di Chiara Ferragni a Che Tempo Che Fa non ha portato grandi notizie ma offre grandi considerazioni. «Dopo che è iniziata l'inchiesta, avevo paura di uscire di casa. Ma quando sono uscita nel mondo reale, ho trovato persone bellissime che mi hanno chiesto foto e dato consigli». E oggi «vivo giorno dopo giorno». In sostanza alla corte di Fabio Fazio è nata una nuova Chiara Ferragni, che però è molto diversa, forse troppo, da quella chela gente ha adorato finora (oppure odiato, che è lo stesso).
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La diaspora venezuelana viaggia su Facebook: tra foto di gattini e preparativi per un colpo di Stato guidato da Trump (o da Bolsonaro). Un reportage nelle trame del digitale
Io odio Facebook. Sono allergica a questo strumento narcisistico che serve a mettersi in mostra, a imbellirsi e quindi a bluffare – e per giunta serve pure a farsi sorvegliare e usare dalle forze oscure che tirano i fili delle reti sociali. Però lo uso, spesso. Salto a piedi giunti sui post di gatti e di torte di compleanno per cercare l’unica cosa che mi interessa e che scruto con curiosità morbosa, quasi sadomaso: le informazioni che circolano nella diaspora venezuelana, e il secondo grado di queste informazioni, cioè le opinioni e il comportamento della diaspora.
Leggiamo tutti i giorni notizie sui temibili hackers russi e cinesi che manipolano le reti delle sante e pulcre democrazie occidentali, su come Cambridge Analytica è intervenuta nel referendum sul Brexit e come ha aiutato Trump a vincere l’elezione, sui gruppi terroristici che da Al Qaida a ISIS non avrebbero tanto successo nei loro reclutamenti senza internet, ma ancora non ho visto una ricerca sul comportamento nel mondo virtuale della diaspora venezuelana, sempre più numerosa e attiva su Facebook. Circa 3 milioni sparpagliati nel mondo intero, cioè il 10% della popolazione, e suppongo che almeno 2 milioni e mezzo di loro usano regolarmente Facebook (sottraggo generosamente, a occhio e croce, i 500.000 emigranti che hanno lasciato il paese dal 2016, a un ritmo di 5000 al giorno, generalmente a piedi, i più fortunati in autobus o autostop, direzione Colombia, Brasile, Perú dopo una decina di giorni di marcia, se sono fortunati).
Facebook funge da finestra spalancata per respirare, grazie alle foto spensierate di gatti e torte di compleanno, un po’ d’aria fresca dopo aver letto le notizie nazionali che puzzano di corruzione, violenza, miseria, e menzogne del regime di Maduro. Ma anche un compleanno può diventare un modo di usare Facebook con altri scopi oltre a fare gli auguri: uno dei miei contatti manda sempre gli auguri dicendo “ti auguro di festeggiare il tuo prossimo compleanno in una Venezuela libera !”… un po’ come le preghiere degli ebrei che invocano il ritorno nella terra promessa.
Facebook funge da divano psicoanalitico: serve ad esprimere, con profonda tristezza, la nostalgia delle spiagge tropicali (le più belle del mondo, ovviamente! vedi foto di sabbia-bianca-acqua-turchese-palme-bikini), della musica (inimitabile! sia il talento del direttore d’orchestra Gustavo Dudamel che il merengue indiavolato, ascolta audio corrispondente), o della cucina (insuperabile! specialmente quella della mamma, prendi nota della ricetta), la mancanza degli amici che ancora non sono riusciti a emigrare, il senso di colpa per aver lasciato indietro i parenti piú anziani, troppo vecchi o ammalati per affrontare il viaggio o per ottenere un visto. I “muri” di Facebook sono muri del pianto. Convincono e si autoconvincono che prima di Chávez, c’era il regno della felicità. Emigrare è una decisione dolorosa, dicono i post, e la speranza di tornare si indebolisce ogni giorno ma ancora non si è spenta.
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Mancano i medicinali, i supermercati sono sbarrati, i soldi sono pochissimi: dal Venezuela si fugge
Facebook funge anche da tam-tam per risolvere le ricerche disperate di medicinali (nelle farmacie manca l’80% delle medicine che dovrebbero avere, e negli ospedali la situazione è simile a quella di una zona in guerra). Ormai si contano a decine, nel mondo intero, le associazioni di medici venezuelani emigrati che ricevono per posta ricette firmate dai loro colleghi rimasti in Venezuela, le trasformano in ricette del paese dove ora esercitano la loro professione, e le trasmettono a una farmacia della zona dove un parente compra il medicinale e lo spedisce via DHL in Venezuela. A volte questo tam-tam non è abbastanza veloce, come è successo pochi mesi fa a un mio cognato, morto nel giro di pochi giorni di un’infezione renale curabile con un semplice antibiotico.
Ma sopratutto, per la diaspora venezuelana, Facebook è un luogo di discussione, anzi un comizio politico, affollato di opinioni, articoli, libri, studi, dichiarazioni, barzellette e insulti contro Maduro e affini, tutti con un denominatore comune: il paese è distrutto, l’opposizione ormai non è piu’ moribonda ma completamente defunta, il regime è sempre più dittatoriale, come facciamo per liberarcene al più presto.
Fino a due o tre anni fa, Facebook era un modo di pianificare il futuro post-Maduro progettando tutte le fasi di una lunga transizione e ricostruzione economica, politica, sociale. Oggi si parla sempre meno del futuro di lunga scadenza, impossibile da decifrare, e sempre di più dell’urgenza immediata di domani: sbarazziamoci subito di questa banda di delinquenti cleptocrati, e poi pensiamo a cosa viene dopo. La disperazione accelera i tempi, e Facebook, che è il regno della superficialità, semplifica, trova scorciatoie, riduce a bozze scarabocchiate anche le situazioni più complesse.
Più la situazione del Venezuela precipita in un abisso di cui non si vede mai il fondo, più Facebook diventa un covo di cospirazione sovversiva. L’ultima cospirazione virtuale è nata l’anno scorso, e si è sviluppata in due onde, prima una breve e limitata alla rete della diaspora venezuelana, poi un’onda piu’ grande che durante il mese scorso ha traboccato fuori dal recipiente venezuelano e si è infiltrata in reti straniere. Si tratta dell’idea di un intervento militare degli Stati Uniti per eliminare con un colpo di stato Maduro e il suo regime.
Dopo le violente manifestazioni di aprile-giugno 2017, e dopo l’ennesima elezione sfacciatamente manipolata dal governo in maggio di quest’anno, l’idea è partita su Facebook dai ranghi degli emigrati e rifugiati piu’ radicali, ma è stata subito messa a tacere da alcuni pezzi grossi dell’opposizione in esilio, preoccupati di preservare la loro reputazione di democratici fiduciosi nelle elezioni e mai violenti. C’è stato un susseguirsi di post scandalizzati in cui i “lider” ricordavano che la democrazia venezuelana, nata nel 1958 sulle rovine della dittatura militare di Pérez Jiménez, è stata un faro di luce nella buia notte delle dittature peruviane, brasiliane, argentine, uruguaie, cilene, degli anni 60 a 80. Intellettuali, giornalisti, accademici della diaspora hanno usato Facebook per tirare fuori dagli archivi storici esempi di posizioni anti-militari della politica estera della democrazia venezuelana: durante la guerra delle Falklands (Malvine) del 1982 tra Argentina e Gran Bretagna, e soprattutto contro gli interventi militari USA a Cuba (1961), Granada (1983), Panama (1989) destinati a rovesciare governi troppo di sinistra per il gusto di Washington e che si identificavano con lo scenario della guerra fredda.
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Il 4 agosto scorso, due droni modello Ikea-costruiscilo-a-casa-tua, carichi di esplosivo, hanno seminato il panico sulla tribuna dove Maduro stava pronunciando un discorso, circondato da vari pezzi da quaranta del suo governo e dai suoi bodyguards cubani. Né Facebook, né nessun’altra fonte, hanno chiarito chi ha lanciato questi droni artigianali, il cui risultato principale è stato di ripristinare la discussione sull’idea di un intervento armato esterno come unica via di uscita, creando la seconda ondata di polemiche. Sono bastati alcuni ambigui tweets e dichiarazioni di Trump, della sua ambasciatrice all’ONU e di esponenti del Congresso degli Stati Uniti, oltre alle parole del Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani (“non scartiamo nessuno scenario”), per riaccendere, su Facebook, sia la speranza della diaspora più conservatrice in un appoggio militare alla disarmata e caotica opposizione, sia le urla della diaspora moderata contro qualsiasi progetto di soluzione violenta.
Il 17 settembre scorso, 11 dei 14 stati membri del Gruppo di Lima (meccanismo informale dei paesi americani creato in agosto 2017 per trovare soluzioni alla crisi venezuelana) hanno chiaramente scartato e condannato qualsiasi progetto di colpo di stato o intervento militare, ma con ciò hanno agitato di più le acque di Facebook invece di calmarle. Infatti ora si moltiplicano i commenti esasperati tipo “va bene, i governi della regione dicono nisba a un intervento militare, ma allora che si fa ? le elezioni sono sempre una farsa, le manifestazioni servono solo a far morire studenti e a moltiplicare i prigionieri politici, i negoziati governo-opposizione sono falliti uno dopo l’altro, e intanto la gente muore di fame, di malaria, di tuberculosi, di parto, di morbillo…”. Su Facebook aumentano anche i commenti pro-Trump da parte di venezuelani che credevo democratici fino alla morte, al di sopra di ogni sospetto: “lui solo ci può salvare! sta facendo molto per noi, aiutiamolo e appoggiamolo, troverà il modo di intervenire e di far precipitare il governo di Maduro, teniamoci pronti perché a Washington stanno preparando l’operazione”. Rabbrividisco. Non sono sicura che dopo Maduro ci possa solo essere un regime democratico. Ci potrebbe perfettamente essere una bella giunta militare di sinistra, ovviamente manovrata da Cuba, con ufficiali pieni di medaglie stile albero di Natale con sfondo di bandiera rossa. Di militari di destra non se ne parla proprio: sono tutti in galera o in esilio. Ma è difficile saperlo con certezza perché i militari non usano Facebook, o almeno non in forma visibile e non nelle reti che conosco. E ad ogni modo, le medaglie natalizie, per me, sarebbero uguali.
Ed è così che giorni fa, malgrado la mia rete Facebook di contatti sia limitata e selettiva, ho trovato le ripercussioni di questa seconda onda di discussione pro e contro un intervento USA su un gruppo internazionale formato da utenti variopinti, la maggior parte estranei e ignari del Venezuela. Qui la discussione girava intorno a Trump e alla sua politica aggressiva. Nel vortice di post contro Trump, i riferimenti al Venezuela erano distanti, casuali e indiretti: se a Trump venisse in mente di intervenire militarmente, sarebbe un’ulteriore dimostrazione della sua pericolosità e un ritorno alla guerra fredda, quando i marines “aggiustavano” i risultati a loro scomodi di elezioni latinoamericane. Alcuni hanno osato ribattere: “ma i venezuelani muoiono di fame, emigrano in massa, solo un intervento armato puo’ salvarli!”. E giù una pioggia di commenti del tipo: “la crisi umanitaria, la mancanza di medicinali e di cibo, sono tutte fake news, è un’invenzione della destra appoggiata dal partito repubblicano e dall’amministrazione Trump per rovesciare un regime democraticamente eletto!”, “l’inflazione, il mercato nero, la caduta della produzione petrolifera, agricola, industriale, è tutta roba provocata dalla guerra economica scatenata dagli USA contro il chavismo-madurismo che attacca i suoi interessi!”, “bisogna rispettare l’autodeterminazione di un popolo che ha votato molte volte a favore di Chávez e di Maduro e che ha avuto il coraggio di dire basta alla dominazione capitalista”, e via dicendo…
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“La vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile ha aggiunto un nuovo strato di confusione nei post della diaspora. C’è chi grida ‘Alleluja, se Trump non interviene, Bolsonaro lo farà di sicuro perché è profondamente anti-chavista’”
La vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile ha aggiunto un nuovo strato di confusione nei post della diaspora. C’è chi grida “Alleluja, se Trump non interviene, Bolsonaro lo farà di sicuro perché è profondamente anti-chavista”, e c’è chi risponde “Bolsonaro è una vergogna per tutta la regione, è un fascista impresentabile”. Il colmo della confusione è il post che mostra un’intervista del 1999 nella quale il Bolsonaro che oggi accusano di “fascista” diceva che Chávez “è uma esperança para a América Latina”. Forse è la stessa confusione che descrive Vasilij Grossman in Vita e destino: la confusione che cancella le differenze tra i regimi basati sulla forza, tra i nazisti e i sovietici che si scontrano a Stalingrado ma che in fondo sono uguali.
Io sono molto timida su Facebook. Non solo non oso pubblicare foto di gatti (tanto non ne ho) nè di torte di compleanni (da tempo non li festeggio più). Come ho detto prima, osservo con curiosità ma in silenzio (forse con un pizzico di arroganza ?), e molto raramente mi faccio “vedere”. Ho rabbrividito e reagito con rabbia e indignazione ai commenti pro-Trump di cui sopra. E con la stessa rabbia e indignazione, di fronte a corbellerie per me inaccettabili perché provenienti da chi non ha mai messo piede in Venezuela, frutto di un’ignoranza grassa, viscida e appiccicosa, di quelle che accecano chi ce l’ha e danno nausea a chi non ce l’ha, non ho saputo stare zitta di fronte ai commenti pro-Maduro. Ho preso il microfono dei post e ho lanciato alcune delle statistiche internazionali piu’ affidabili su povertà, fame, inflazione, repressione, censura, tragedia economica, emigrazione –senza dimenticare di chiarire che non ci sono elezioni libere e pulite dal 2004, e che Cuba è, da 20 anni, la potenza dominante in Venezuela, seguita, in quest’ordine, da Cina, Russia e Iran.
Mia suocera (88 anni) soffre di ipertensione e altri problemucci tipici della sua età. È scappata da Caracas, stufa dell’insicurezza e dei supermercati vuoti, per andare ad abitare in campagna dove possiede un orticello che ora coltiva, insieme a una figlia ammalata e due cugini, e le assicura ortaggi e frutta per poter mangiare tutti i giorni. Ma il medicinale per l’ipertensione che non si trova in nessuna farmacia del Venezuela non cresce nell’orto: le arriva con il pacco di sapone, dentifricio, cibo in scatola, che le manda ogni tre mesi, via DHL, il resto della sua famiglia sparsa tra Canadà, Colombia, Perú e Stati Uniti. La sua pensione è l’equivalente di 10 euro al mese (quando la riceve), così come quella di sua figlia, che è stata dimezzata da Chávez perchè osó firmare contro di lui nel referendum del 2004.
Chiedo ai miei “amici” di Facebook che non hanno mai messo piede in Venezuela e difendono Maduro&C.: se spiego a mia suocera che l’autodeterminazione del popolo venezuelano è una lotta rivoluzionaria, un esempio di resistenza contro le forze capitaliste, credete che mi capirà senza che le salga troppo la tensione? E se spiego a quelli della diaspora pronti a cadere nella tentazione di appoggiare un’invasione militare che la soluzione intervenzionista equivale a sostituire una dittatura con un’altra, credete che capiranno ?
Sul thread della discussione anti-Trump e pro-Maduro leggo la risposta di un venezuelano che non vuole emigrare per non lasciare soli i suoi anziani genitori: “Tu che lanci slogan contro l’imperialismo, hai mangiato oggi? Io no”.
Manuela Tortora
* Manuela Tortora, venezuelana, ex-funzionaria di carriera dei governi democratici tra il 1980 e il 1994, ha scritto per Pangea un ampio reportage sul Venezuela, pubblicato qui.
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Islamofobia, il nuovo razzismo occidentale
di Enzo Traverso
Una nuova ondata di islamofobia si sta diffondendo in Occidente. Se eletto presidente, Donald Trump ha promesso di espellere tutti i musulmani dagli Stati Uniti e in tutta l’Unione europea le correnti conservatrici reclamano leggi contro l’Islam. L’Islam è percepito come una barbarie e una minaccia alla civiltà “giudeo-cristiana” occidentale, una tendenza che guadagna forza in Francia a seguito di una serie di attacchi terroristici. In questa cultura di estrema xenofobia e pregiudizio, l’idea che i cittadini musulmani siano costretti a indossare una stella gialla e mezzaluna sui loro vestiti, come gli ebrei durante la seconda guerra mondiale, non sembra più oltre i regni del possibile. Nella prima metà del XX secolo, l’antisemitismo era diffuso un po’ ovunque, dagli strati aristocratici e borghesi – dove stabilì i confini simbolici – all’intellighenzia: molti dei più importanti scrittori degli anni ’30 non nascondevano il loro odio per gli ebrei. Oggi, il razzismo ha cambiato le sue forme ed i suoi obiettivi: l’immigrato musulmano ha sostituito l’Ebreo. Il razzialismo – un discorso scientifico sulla base di teorie biologiche – ha ceduto il passo a un pregiudizio culturale che enfatizza una discrepanza antropologica radicale tra Europa ‘ebraico-cristiana’ e Islam. Il tradizionale antisemitismo, che per un secolo dette forma a tutti i nazionalismi europei, è diventato un fenomeno residuale. Con una sorta di inversione, le commemorazioni dell’Olocausto hanno costruito una sorta di ‘religione civile’ nell’Unione europea. Come in un sistema di vasi comunicanti, l’antisemitismo pre-bellico è diminuito e l’islamofobia è aumentata. La rappresentazione post-fascista del nemico riproduce il vecchio paradigma razziale e, come il precedente Bolscevico ebrao, il terrorista islamico è spesso raffigurato con tratti fisici sottolineando la sua alterità. Le ambizioni intellettuali del post-fascismo, tuttavia, sono notevolmente diminuite. Non vediamo alcun equivalente di Francia ebraica di Edouard Drumont o di Le fondamenta del XIX secolo di Houston Stewart Chamberlain nel nostro momento attuale, né i saggi di antropologia razziale di Hans Günther o André Siegfried. La nuova xenofobia non ha prodotto scrittori come Léon Bloy, Louis Ferdinand Céline e Pierre Drieu La Rochelle, per non parlare di filosofi come Martin Heidegger e Carl Schmitt. L’humus culturale del post-fascismo non si alimenta con creazione letteraria degna di nota – la sua espressione più significativa è un recente romanzo di Michel Houellebecq, Submission, che raffigura la Francia nel 2022 trasformata in una repubblica islamica – piuttosto con una massiccia campagna per conquistare l’attenzione dei media. Molte personalità politiche e intellettuali, i canali televisivi e le riviste popolari che certamente non potevano essere definite come fasciste, hanno contribuito immensamente alla costruzione di questo humus culturale. Potremmo ricordare la famosa dichiarazione di Jacques Chirac – pronunciata nel 1991 – sul ”rumore e l’odore’ degli edifici abitati da immigrati del Maghreb; la prosa infuocata di Oriana Fallaci dei musulmani che ‘si riproducono come topi’ e urinano contro i muri delle nostre cattedrali; la comparazione di ministri neri a scimmie sia in Francia che in Italia; e innumerevoli riferimenti spregiativi all’islam come ‘la religione più stupida’(la religion la plus con). George L. Mosse aveva rilevato che, nel fascismo classico, le parole dette erano più importanti dei testi scritti. In un’epoca in cui la ‘videosfera’ ha sostituito la ‘grafosfera’, non è sorprendente che il discorso post-fascista si diffonda prima di tutto attraverso i media , assegnando un posto secondario alle produzioni intellettuali (che diventano utili – come Submissionnella misura in cui si trasformano in eventi mediatici). Mi sembra che le somiglianze più significative tra l’islamofobia di oggi e il più vecchio antisemitismo evocano il Reich tedesco della fine del XIX secolo, piuttosto che la Terza Repubblica francese. Sin dall’epoca dell’Affare Dreyfus, l’antisemitismo francese stigmatizzava immigrati ebrei provenienti dalla Polonia e dalla Russia, ma il suo obiettivo principale erano gli alti funzionari (Juifs d’Etat) che, sotto la Terza Repubblica, occupavano posizioni molto importanti nella burocrazia, nell’esercito, nelle istituzioni accademiche e nel governo. Il capitano Dreyfus stesso era un simbolo di tale ascesa sociale. All’epoca del Fronte Popolare, il bersaglio dell’ antisemitismo fu Léon Blum, un dandy ebreo e omosessuale che incarnava l’immagine di una repubblica conquistata dall ‘Anti-Francia’. Gli ebrei erano indicati come ‘uno stato nello stato’, una posizione che certamente non corrisponde alla situazione attuale degli africani e delle minoranze musulmane arabe che rimangono ancora enormemente sottorappresentate all’interno delle istituzioni statali dei paesi europei. Così, sarebbe più pertinente il confronto con la Germania guglielmina, in cui gli ebrei furono accuratamente esclusi dalla macchina dello Stato, mentre i giornali mettevano in guardia contro un ‘invasione ebraica’ (Verjudung), che metteva in discussione la matrice etnica e religiosa del Reich. In questo caso, l’antisemitismo giocò il ruolo di un ‘codice culturale’ che ha permesso ai tedeschi di definire negativamente una coscienza nazionale, in un paese turbato dalla rapida modernizzazione e dalla concentrazione ebraica nelle grandi città, dove apparivano come il loro gruppo più dinamico . In altre parole, un tedesco era prima di tutto un nonebreo. In modo simile, oggi l’Islam sta diventando un codice culturale che permette di trovare, con una demarcazione negativa, una perduta ‘identità francese’, minacciata o inghiottita nel processo di globalizzazione. La paura del multiculturalismo e dell’ibridazione (métissage) aggiorna semplicemente la vecchia ansia per la ‘miscela di sangue’ (Blutvermischung). Oggi, il linguaggio è cambiato, ma la prosa di Alain Finkielkraut, che esprime la sua ‘identità infelice’ (identité malheureuse) di fronte a due calamità come il multiculturalismo e un ibridismo erroneamente idealizzato (il métissage di una Francia “BlackBlancBeur “), non si discosta molto da quello di Heinrich von Treitschke. Nel 1880, questo grande storico deplorò l’ ‘intrusione’ (Einbruch) degli ebrei nella società tedesca scrivendo che avevano sconvolto i costumi della Kultur e agito come una forza corruttrice. La conclusione disperata di Von Treitschke è diventata una sorta di slogan: ‘gli ebrei sono la nostra infelicità’ (die Juden sind unser Unglück). Anche se gran parte della transizione dal vecchio anti-semitismo alla presente islamofobia si gioca nei media francesi, essa trova espressione in una figura letteraria: Renaud Camus, uno scrittore che non nasconde i suoi legami con il Fronte Nazionale. Quindici anni fa, Camus si lamentava nel suo diario sulla presenza ebraica schiacciante nei mezzi di comunicazione culturale francese; negli anni successivi, tuttavia, ha spostato la sua attenzione sui musulmani, la cui immigrazione di massa ha prodotto un “ottimo rimpiazzo,” in altre parole, l’ “islamizzazione” della Francia. Appartenendo a una generazione più giovane, anche Michel Houellebecq, che vuole diventare il Céline degli inizi del XXI secolo, ha assunto l’ ‘ottimo rimpiazzo’ come punto di partenza di Sottomissione. E la stessa idea è il cuore di un saggio di successo – 500.000 copie vendute in sei mesi – di Eric Zemmour, Le suicide français, dedicato al declino francese dal 1970 al 2008. Più di recente, l’idea dell’ ‘ottimo rimpiazzo’ era difesa in alcuni degli editoriali di le Figaro. Questa è la modalità in cui post-fascismo sta costruendo la sua egemonia culturale, ben oltre i suoi exploit elettorali. Tuttavia, l’islamofobia non è un semplice surrogato del vecchio antisemitismo, le sue radici sono antiche e possiede una sua tradizione: il colonialismo. Le radici della islamofobia si trovano nella memoria del lungo passato coloniale dell’Europa e, in Francia, della guerra d’Algeria. Il colonialismo ha formato una antropologia politica basata sulla dicotomia tra cittadini e soggetti coloniali – citoyens e Indigènes – che fissava i confini sociali, spaziali, razziali e politici. Anche se questa scissione giuridica codificata sotto la Terza Repubblica era stata rotta, gli immigrati musulmani che sono diventati cittadini francesi continuano ad affrontare una reazione xenofoba, formata da questa antropologia politica, che li percepisce come un agente infettivo, come un ‘popolo all’interno del popolo’. La matrice coloniale dell’islamofobia spiega la sua virulenza e persistenza. Un modo per esaminare la realtà materiale di questi barriere spaziali, razziali e politiche è attraverso la dissoluzione naturale dei nomi di migranti italiani, polacchi e spagnoli in patronimici francesi, un processo che spesso si verifica dopo tre generazioni. Questa dissoluzione contrasta con la persistenza di nomi e cognomi africani e arabi , che rivelano immediatamente i loro titolari come appartenenti a una speciale categoria di secondo ordine; ‘Provenienti dall’immigrazione’ o figli di immigrati. La matrice coloniale dell’ islamofobia ci dà una chiave per comprendere le metamorfosi ideologiche del post-fascismo (molti movimenti di estrema destra, come il Fronte Nazionale in Francia, Lega Nord in Italia, Pegida in Germania e in altre correnti simili in altri paesi dell’UE) , che ha abbandonato le ambizioni imperiali e di conquista del fascismo classico al fine di adottare una posizione molto più conservatrice e difensiva. Esso non vuole conquistare, piuttosto espellere (anche criticando le guerre neo-imperiali svolte dall’inizio degli anni ’90 dagli Stati Uniti ed i loro alleati occidentali). Mentre il colonialismo ottocentesco desiderava compiere la sua ‘missione civilizzatrice’ attraverso le sue conquiste al di fuori dell’Europa, l’islamofobia postcoloniale combatte contro un nemico interno, in nome degli stessi valori. Il rifiuto ha sostituito la conquista, ma le motivazioni non cambiano: in passato, la conquista mirava a sottomettere e civilizzare i barbari; oggi, il rifiuto e l’espulsione hanno lo scopo di proteggere la nazione dalla loro influenza deleteria. Questo spiega i dibattiti ricorrenti sulla laicità e il velo islamico che porta alla legge islamofobica, promulgata in Francia dieci anni fa, che lo vieta in luoghi pubblici. Questo accordo consensuale su una concezione neocoloniale e discriminatoria del secolarismo ha contribuito in modo significativo a legittimare il post-fascismo. Questa ondata di islamofobia, che con la sua bellicosa retorica-‘Siamo in guerra contro il terrorismo’ – posiziona Islam come l’unico nemico legittimato dell’ordine occidentale, che in ultima analisi, alimenta il terrorismo .. I combattenti contro il “fascismo islamico” e i difensori dei ‘valori umani’ hanno anche raggiunto un risultato importante: rendere le vittime delle guerre occidentali in Iraq, Libia e Siria-largamente superiori in numero alle vittime del terrorismo islamico in Europa-in gran parte dimenticate ‘.
traduzione di Maurizio Acerbo
fonte: www.maurizioacerbo.it
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