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Ci meritiamo questo brodo
Chiellini arrivò l’anno prima di Germania 2006, e si ritrovò titolare alla Juventus con un Fabio Cannavaro volato al Real Madrid dopo essere diventato Campione del Mondo. Rimase a Torino, quindi, e si ritrovò le redini della difesa in mano di colpo. Dalla serie B. Noi invece andiamo al mare, noncuranti dell’assenza di partite di pallone, scendiamo in spiaggia sul tardi, perché fa caldo ed è il primo sole che prendiamo, quello di luglio. Il suo gol contro la Spagna, ferendo una difesa troppo azzimata, che credeva di avere ancora il vantaggio sull'Italia accumulato negli ultimi otto anni, come la sua maglia strappata dopo il morso di Suárez, hanno contribuito, come un salvagente, a guarirci dalle ansie che i mesi estivi come luglio ci vogliono aizzare contro. Ci ritroviamo, nel suo andamento dirozzato tra i divi schierati in attacco dagli avversari. Ci ritroviamo in quanto sappiamo di essere carenti, comunque vadano le cose nella nostra vita, sotto certi aspetti, e in quanto esistano persone che hanno il compito di farcelo notare: sappiamo di essere fallaci e persino di poter risultare odiosi. Ammettiamolo, più a livello attitudinale che stilistico, le sue giocate non sempre possono essere considerate rivelatrici. L'autorità che Giorgio Chiellini esercita è la nemesi della visione del calcio libertaria che tutti noi vorremmo vivere giocando e seguendo questo sport. Noi, nel frattempo, non abbiamo fretta di cenare, “non ci corre dietro nessuno”, non c’è nemmeno la partita. Scendiamo invogliati dal goderci questo ultimo giorno pieno di libertà, pronti ad essere azzannati dal lunedì estivo, un lunedì estivo che ci porterà un’altra volta al lavoro. Arriviamo in riva al mare, la spiaggia è ancora affollata, non troviamo posto, ci lamentiamo con chi è con noi oppure tra noi stessi, ma aspettiamo che le cose migliorino. Che qualcuno si sposti, vada via. Rivolgiamo lo sguardo verso il mare, quasi non lo vediamo perché le persone affollano la battigia, i bambini ci giocano lanciandosi il pallone, loro domani non devono andare a lavorare, non devono tornare recuperando le vie accaldate e le autostrade. Le cose non migliorano, non accennano nemmeno a farlo. E allora non facciamo il bagno, perché siamo stanchi dal sonno sudato del mare e l’acqua è troppo sporca. Ci meritiamo questo brodo, ci siamo andati noi. L’Italia fisica, così fisicamente decadente e votata a procrastinare, l’abbiamo creata noi. Ma non demordiamo, pensiamo ad una soluzione. Così ci precipitiamo in spiaggia la mattina dopo, presto, e speriamo la situazione sia migliorata. Va meglio, ma aspettiamo sempre al varco una causa che ci rovinerà questi pochi attimi di distacco. La sabbia sull’asciugamano, i soldi dimenticati a casa, i mozziconi di sigarette, gli sputi in acqua, le docce fetide. Ci comportiamo in questo modo, però, unicamente per arrivare incolumi ad agosto, quando andremo in vacanza in modo duraturo e definitivo, abbiamo organizzato luglio cercando di trovare dei weekend liberi lontani. Passo dopo passo, il mese delle ferie arriverà. Nel frattempo, attuiamo taumaturgici spostamenti. In settimana, poi, penseremo ai luoghi che abbiamo visitato durante i due giorni di libertà, a come siano mentre noi siamo in macchina, al casello, alla scrivania, mentre stiamo girando le chiavi nella toppa del portone di casa, mentre cerchiamo posto sul treno che ci porta in città. Penseremo alle balconate e ai muri bianchi ricoperti dal sole mentre noi siamo alle prese con la coda per un panino. Cercheremo di mangiare ogni giorno qualcosa di diverso in pausa pranzo, per provare a far passare il tempo più velocemente distraendo così il nostro cervello.
Mes Bottes, personaggio de “L’Assommoir” di Zola, può trovare un suo romantico corrispondente in Giorgio Chiellini. Si erige tra le risse, si fa riconoscere sin dal primo minuto, la sua imponenza non è immediatamente fisica ma si insinua, libertina, tra le usanze del popolo. Occupa intere pagine, nella prima parte del romanzo del verista francese, le occupa a suon di schiamazzi e consigli. Il protagonista viene messo in disparte dalla sua imponente importanza storica. Rimpiangeremo, le nostre tattiche per arrivare incolumi ad agosto, come rimpiangeremo una zuffa o un ricevimento senza Mes Bottes o una partita senza Giorgio Chiellini. Rimpiangeremo il sole di luglio quando, in agosto, già verso sera, la luce arancione dell’autunno inizierà a tagliarci la strada. Avremo rimpianti non tanto per l’attaccamento alla squadra in cui giochiamo ogni giorno, ma per una paura di rischiare che non abbiamo mai saputo sconfiggere. Il modo con cui Chiellini ha affrontato la sua carriera, forse, dovrebbe farci riflettere sulle nostre insofferenze. Non tutti possiamo comportarci come Mes Bottes nell’abbeveratoio di Rue de la Goutte d’Or, non saremmo capaci di districarci come lui tra una rissa e una discussione: viviamo infatti attimi durante i quali, spinti da un’improvvisa idiosincrasia verso chi e cosa ci circonda, ci sentiamo al centro dell’attenzione cosmica. Quando invece, non è altro che brodaglia.
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Amarcord #castelliromani #ariccia #totocalcio #odioeternoalcalciomoderno (presso Ariccia - Castelli Romani) https://www.instagram.com/p/CDZevJnKpUL/?igshid=1vb95gq7tewbw
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Tupperware
Ci sono cose che capitano solo a chi passa tanto tempo da solo, come a chi cerca sempre di giocare per i propri tifosi. Nel bene e nel male. Chi passa la maggior parte della giornata senza venire a contatto con alte persone, sa che deve eseguire gli ordini. Perché non ha scelto lui quella vita, perché fa parte della storia in cui vive e le contingenze vanno affrontate, ognuno a modo suo. Una giornata di vita al lavoro è come una miniatura della vita che si sta percorrendo. Arriverà la sera, arriverà il momento in cui appoggiare la borsa e guardarsi intorno, pensare ai luoghi in cui si è stati nonostante siano inesorabilmente sempre gli stessi. Stessi ma necessari. Segnare gol, per Baldieri, era necessario. Di sinistro, la maggior parte, ma anche di testa o di destro, come se fosse stato un attaccante di razza, invece che un esterno o un fantasista come veniva descritto all'epoca. Era necessario in quanto erano anni, quelli, in Serie A, in cui si iniziavano a definire ruoli e talenti e nessuno ne voleva restare fuori. Poi è ovvio, si possono commettere errori, chi non si impegna non commetterà mai errori, non avendo materiale su cui sbagliare. Dando sempre tutto, in ogni causa. Della propria indole e dai propri muscoli cresciuti negli anni ‘80, dando tutto. Come Baldieri, che segnò alla Svezia, nell’anno dell’Europeo Under 21 1986, uno dei più bei gol segnati da un giocatore che abbia indossato la maglia azzurra della Nazionale. Un pallonetto nato a conclusione di un cross leggermente largo di Vialli. Era la Nazionale Under 21 di Matteoli, Donadoni, Carobbi e lui riuscì ad eguagliare il record di Pablito Rossi per numero di reti segnate in partite consecutive vestendo quella maglia. Era la generazione che avrebbe affrontato senza qualificazioni i Campionati del Mondo. La scorsa settimana mi dimenticai di condire il mio pranzo. Ogni giorno mi preparo, in un contenitore, un’insalata, o della pasta o del riso freddi, per risparmiare sulla pausa pranzo al lavoro.
Dovrei altrimenti andare in qualche pizzeria o bar, ma alla lunga l’abitudine stanca e le risorse finanziarie si esauriscono. Mangio quindi alla scrivania, guardando video su Youtube o leggendo articoli di giornale. La scorsa settimana, era un lunedì, mi dimenticai i condimenti. Mangiai un'insalata che mi si incastrava tra i denti ad ogni morso, ogni volta che mettevo in bocca la forchetta era una sofferenza. La mozzarella sapeva di cartone, scondita. Le carote sfregavano tra di loro. Finii comunque il desinare, seppur con fatica, e riposi il tutto, contenitore di plastica e posate, nello shopper della casa editrice Iperborea che utilizzo per trasportare il tutto più agevolmente all'interno del mio zaino da lavoro. Al ritorno a casa, di sera, aprii lo zaino e vidi che il contenitore di plastica, il tupperware, si era aperto durante, probabilmente, il tragitto tra il garage dove ritiro l'automobile e casa mia. Il fatto che il pranzo non fosse stato condito risultò così una fortuna, per ciò che era accaduto. Se avessi infatti condito come al solito la mia insalata, con una vagonata di aceto e olio, il condimento avrebbe inesorabilmente rovinato i preziosi documenti che trasportavo, colando in tutto lo zaino e raggirando persino il resistente sacchetto di tela. La sua indole verace e tutt’altro che romantica lo portò ad essere il protagonista, nella stagione 1985-1986, di una movimentata terzultima partita di campionato. Il 13 aprile all'Arena Garibaldi di Pisa i nerazzurri sfidano la Roma di Pruzzo, che era vicinissima all'acquisto del giocatore, allora appena ventunenne, nonostante due anni prima lo avesse già ceduto ai toscani. La partita finì quattro a due per la Lupa, che rimontò uno svantaggio di due reti a uno, destinando così i padroni di casa ad una pressoché matematica retrocessione. Baldieri fu accusato di scarso impegno dallo stadio intero e, paradossalmente, divenne il giocatore più vituperato dalla tifoseria pisana nel decennio. La vita a Pisa procedeva però diversamente da quella che aspettava Baldieri nella capitale. Un mio amico mi raccontò che venisse spesso invitato a pranzo o a cena dai tifosi, proprio grazie alla sua curiosità. Andò quindi a pranzo anche dallo zio di questo mio amico, che però all'epoca aveva solo cinque anni e non era ancora entrato nel tourbillon calcistico della sua città. Baldieri non è nientemeno che il frutto del talento dell'Italia calcistica di quegli anni pre-Notti Magiche. Sopraffino nelle giocate indolori e mordace in area di rigore come solo i trequartisti dell'epoca sapevano essere, ma al contempo al limite dell'indolenza e della poca concretezza in alcuni altri frangenti, soprattutto sotto l’aspetto della continuità. I nostri campionati avevano bisogno di giocatori come lui, capaci di trovare serenità nelle città di provincia, come per esempio Lecce, dove agli albori dei ’90, esaurita l’euforia per i Mondiali casalinghi, trovò i suoi attimi e le sue soddisfazioni più profondi. Era sempre una casacca giallorossa, no, quella che stava indossando quando portò, di destro da fuori area, la sua squadra in vantaggio al Delle Alpi contro la Juventus? Lontano dai riflettori e dalle stelle mediatiche che si spintonavano in cerca di gloria, anche una corbelleria, come il dimenticarsi di condire il pasto lavorativo portato da casa, si può trasformare in una piccola vittoria. Chissà Liedholm, che lo allenò e gli fece vincere uno scudetto appena uscito dalle giovanili della Roma, cosa penserebbe, degli shopper.
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Per cosa si combatte
Un centro abitato in campagna diventa automaticamente un "paesino", sfruttando così la possibilità concessa dal luogo comune al proprio registro letterario di utilizzare inutilmente un antipatico diminutivo. Io preferisco chiamarli "paesi" e basta perché ognuno di essi, sperduti per l'Europa o il Sudamerica, per esempio, consiste in una realtà ben marcata, istituzionalmente e socialmente forte.
Un paese, per esempio, era quello in cui andavamo ogni sabato io, mia madre e mia sorella, a comprare il miele. Si trovava ( e si trova tuttora, ci sono passato sì e no due settimane fa) a pochi chilometri dalle ultime case della città, le ultime cascine. Era composto da un totale di sedici o diciassette case, infilzate dalla strada provinciale come gli ingredienti di uno spiedino. Ci fermavamo in un cortile che dava sulla direttrice principale, e parcheggiata la macchina entravamo in una casa che una volta era sicuramente una cascina. Il piano terra era umido e buio e ci accoglieva sempre una signora anziana che ci dava due caramelle al miele, una per me e una per mia sorella. Poi mia madre iniziava a parlare con la signora anziana, della settimana che avevano passato per esempio, e parlavano dei rispettivi mariti. Poi mia madre comprava qualche pesante barattolo di miele giallo e marrone e riuscivamo ancora nel cortiletto, che nel frattempo si era riempito di sole e polvere. Eravamo lontani dagli aeroporti, dagli imbarazzi, dagli imbarchi, dagli imbarazzi e dalle femmine attratte da uomini dannati.
Olanda. Da Zwolle in su, guidando verso Nord, il paesaggio è arido e ventoso, o per lo meno me lo ricordo così. Sto parlando di almeno quindici anni dopo. La strada che arriva a Leeuwarden è tutta dritta ma non è un'autostrada: è stretta, ostile e perennemente contornata da fossati senza acqua, ricoperti di erba verde e grigia. Sembra non poter mai raggiungere il sole, ma passa attraverso innumerevoli paesi, o borghi, e cambia ogni volta. Quando ci entra, quando iniziano a crescere i cartelli con le indicazioni per altri paesi o indicanti luoghi di interesse e necessità, è diversa rispetto a quando inizia ad uscirne: il centro abitato la cambia. Con le sue usanze, con i suoi modi di trascorrere il tempo, attraverso le sue feste e le sue ricorrenze, con i suoi accenti e i suoi modi di dire. È come se dopo aver attraversato un paese cambiasse mentalità e maniere. Non conosco bene l'Olanda,ci sono stato una volta sola in vita mia e non sono mai stato ad Amsterdam, per esempio, ma credo che anche in questo caso valga la disequazione secondo la quale la capitale di una nazione non sia la nazione stessa. Ho visitato la parte più a Nord del Paese, per un paio di giorni e solamente viaggiando, ma questa sensazione di cambiamento è stato il tratto che ha pervaso la mia visita durante la sua intera durata.
L'Olanda ha dato natali ai pirati più famosi, erano tutti uomini dediti all'essenza di girovaghi al servizio di momentanea ed irruente gloria, di soldi immediati e perennemente assetati di violenza: sembra quasi impossibile che Arjen Robben provenga proprio da questi luoghi, dalla parte olandese opposta rispetto al porto di Amsterdam e le dighe che lo proteggono dal mare ghiacciato. Lontano dalla confusione che invade ogni giorno le strade delle capitale e del suo porto,il suo primo club di livello fu infatti il Groningen, squadra del capoluogo della sua provincia situato più a sud rispetto al suo paese natale, Bedum. Uno di quei paesi attraversati da una direttrice stradale che appare diversa, prima e dopo l'incontro con le prime case e le ultime abitazioni, a seconda della direzione del viaggio.
Ma Robben è anche un pirata, non dimentichiamocelo, nato in una nazione di pirati. Inizia giovanissimo a correre indisturbato, praticamente, sulla fascia sinistra, e dopo il Groningen va al PSV Eindhoven, all'epoca la seconda squadra olandese. Ci rimane poco: il Chelsea è lì che bussa da mesi alle porte, ma come ogni pirata ha i suoi momenti in cui non può godere a pieno della propria libertà, infortunandosi quasi subito e dovendo rimandare il suo esordio coi blues, ma non appena ritorna pronto all'azione risulta incontenibilmente devastante: non riescono a tenerlo, su quella fascia diventata destra. Agrodolce invece fu l'esperienza in Spagna, nella squadra del Re, ma è giunto il momento di una doverosa digressione.
I pirati olandesi odiavano visceralmente la Spagna. Odiavano le sue usanze sino a deriderle e detestavano il suo potere, esercitato tra i profumi in una terra lontana dall'Europa. Non si tratta di odio verso i potenti o di una spinta verso un romantico e sociale sentimento di giustizia, tutt'altro. I racconti che ci sono arrivati degli assalti e dei combattimenti, delle conquiste delle città e delle tratta dei prigionieri sono tutti truci e sanguinolenti, giusto per riportarci ad una corretta visione critica verso quel mondo, che idealizzato non lo è mai stato. Francia e Inghilterra iniziarono a finanziare, sul finire del '600, le azioni piratesche ai danni delle flotte spagnole, ma ben presto i corsari, assaporata la libertà, iniziarono a far di testa loro. Erano lontani dalla loro terra, lontani dagli idealizzati paesi della campagna olandese come dalle bettole e dalle banche di Amsterdam, e probabilmente sapevano che non vi sarebbero più ritornati.
Nel calcio, però, le cose vanno diversamente, e al Real Madrid arriva come uno tra gli acquisti più onerosi del club capitolino. Si fa male, sì, ma gioca svogliato e sempre sotto pressione. Perché farsi prendere dall'ansia e la voglia di scoprire mondi nuovi se si ha sempre nostalgia e con la testa si rimane fermi? Con la Spagna, il suo campionato, le sue squadre, i suoi ritmi e i suoi compagni di squadra è quasi un patto di non belligeranza, è quasi una tregua forzata, la sua.
Robben sembrava vestire la casacca blanca per fare un favore a qualcuno, per accontentare un continente proprio come successe una volta che la pace, sancita tra Francia, Inghilterra e Spagna a suon di trattati e favori, che screditò definitivamente la Tortuga e i suoi ospiti, rendendoli un'altra volta banditi e ricercati, reietti al confine del mondo. Ai pirati fu tolto ogni diritto di agire e si videro quindi, in una situazione di completo abbandono, legittimati a combattere la loro guerra personale contro le istituzioni europee predominanti nelle Indie Occidentali, annullando così ogni trattato ed accordo stipulato nel Vecchio Continente. Arjen Robben preferì allora il Bayern Monaco, che aveva intenzione di farlo giocare a tempo pieno e in prima linea, dove incrociò Ribéry, altro pirata ma francese e destro. Era l'anno prima dei Mondiali in Sudafrica, l'anno di preparazione, e lui era il numero undici dei Paesi Bassi. I due incursori, appena raggiunta la sintonia, diventarono ben presto devastanti, sebbene con le proprie manie e le continue incertezze. D'altronde l'olandese Laurens de Graaf, detto "Lorencillo", e il francese De Grammont, durante l'assalto di Campeche, in Messico, sbagliando per troppa ingordigia i conti su quanta ricchezza avrebbero potuto trovare e portarsi via, passarono troppo tempo a scontrarsi contro la gendarmeria spagnola, permettendo così ai coloni che risiedevano nella città di fuggire con tutti i loro averi: non trovando oro si sfogarono sui prigionieri, indistintamente e con un'inusitata ferocia.
Era l'anno dei Mondiali in Sudafrica, dicevamo, quando arrivò in Baviera. La nazione dei pirati si trovò in un girone facile, con Danimarca, Camerun e Giappone. Vinte tutte e tre, ecco la Slovacchia agli ottavi, ed ecco che Robben inizia a tirare in porta. "Chissà cosa succederà contro il Brasile che gioca senza centravanti ai quarti", la gente si chiedeva. un altro due a uno, doppietta di Wesley Snejder fresco di Champions vinta contro la coppia di pirati a Madrid, ironia della sorte, che rimonta il gol in apertura di Robinho, il compagno di squadra al Real Madrid che sostituì per poter così fare il suo debutto in Spagna. Che mondo strano, il pallone. Rocambolesco tre a due in semifinale contro l'Uruguay e poi, in finale, l'odiata Spagna. Un'occasione di rivincita, una partita che vale la storia di una nazione. i latini, però, resistono. Sono attrezzati, come sempre, respingono gli arrembaggi. Le prendono senza darne più di tanto, sono furbi come sempre, tutti adorni e fieri, pomposi. Colpiscono sul finale e riescono a vincerla un'altra volta, proprio quando il mondo intero stava iniziando a sognare una Campeche calcistica. Ma il gioco del pallone non riserva mai sorprese, così come la storia delle conquiste di un mondo nuovo, di come le sue usanze possono venire assimilate, di come i suoi uomini si possano sentire, un giorno, realizzati nel loro vivere.
"<< Vi sto proponendo una speranza concreta, capitano De Graaf. Rendite, schiavi, entrate sicure. Non vi state battendo per questo?>>. << Niente affatto. Mi batto per il contrario. Soldi da spendere subito, morte dietro l'angolo, gustare tutti i piaceri della vita. Non so come cadrò, però avrò di sicuro la sciabola in mano>>" V. Evangelisti, "Tortuga".
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Arazzi e Mohicani
Andai a vedere al cinema “L’Ultimo dei Mohicani” con mio padre, il 1993 era appena iniziato. Da casa nostra, prendemmo le biciclette e raggiungemmo la sala, in centro città. “Qui una volta ci giocavano a Hockey su Pista”, mi disse, mentre eravamo in coda per fare i biglietti nella sala umida, dalla quale si scorgeva ancora la strada attraverso dei vetri sporchi. La gente camminava veloce portando ombrelli e sacchetti di plastica bianchi: era domenica, forse la prima domenica dell’anno. Un gennaio gelido, da quel che ricordo. “Almeno sino agli anni ’50.” Rafforzò. Il 3 luglio del 1998, Emmanuel Petit era appena passato all’Arsenal dal Monaco, tornando più vicino a casa di quanto non lo fosse nel Principato, lui che è un puro normanno di Dieppe, dai capelli lunghi e biondi. Nel 1066 i Normanni arrivarono sino in Inghilterra su veloci navi legnose, sconfiggendo gli Inglesi ad Hastings. Lui, invece, giunse a Londra semplicemente dopo aver vinto la Ligue 1. Se nel Medioevo, però, decine di artigiani e decoratori ricamarono un intero arazzo, dedicandolo alla descrizione dell’impresa francese oltremanica, nell’età moderna del calcio che stiamo vivendo, il trasferimento di Petit dal Monaco all’Arsenal non fu acclamato come un evento epocale, sebbene con i monegaschi di Tigana fece la differenza in ogni situazione, mettendo in luce un ruolo che nel campionato francese, soprattutto a sinistra, non aveva mai avuto dei rappresentanti degni di nota.
In Francia si era sempre giocato al centro e le azioni erano sempre arrivate dai numeri dieci. Il 3 luglio del 1998, alla fine del secondo tempo regolamentare, Di Biagio è a terra nell’area dell’Italia di Cesare Maldini, che aveva appena sfiorato l’impresa con un tiro al volo “fuori di tanto così” di Robertino. La Francia è in avanti, le tremano ancora le gambe nonostante sia passato quasi tutto il lasso dei supplementari. Petit si trova sulla traiettoria del pallone e Gigi terrebbe in gioco chiunque, dei Bleus, così ridotto. Basterebbe allargare un attimo il gioco, ancora un po’ di più, perché gli Azzurri non hanno nemmeno il mediano a far da diga davanti alla lunetta della loro area di rigore. Ma Emmanuel la calcia fuori. A pochi istanti dall’ultima, probabile, azione d’attacco della sua nazionale, la nazionale che si era così faticosamente guadagnato vincendo un campionato con il Monaco. La rivisitazione cinematografica de “L’Ultimo dei Mohicani” venne curata, per la prima volta, nel 1992 da Michael Mann. Non avevo ancora letto il romanzo di Cooper, dal quale il film prendeva ovviamente trasposizione e al quale mio padre era stato sempre molto attaccato, soprattutto per le descrizioni dei boschi e dei laghi nordamericani fornite dallo scrittore statunitense. Tornando a casa, nella dell’inverno cittadino, ripensai acutamente al personaggio di Duncan Heyward, un maggiore dell’esercito inglese che, infatuato senza essere contraccambiato della figlia maggiore di un colonnello britannico, preferisce sacrificare la sua vita, lasciando vivere la donna e il suo innamorato, Nathan, un cacciatore bianco adottato ancora in fasce da una famiglia di Mohicani. Madeline Stowe e Daniel Day- Lewis. Durante tutto il film, Duncan viene descritto come un aziendalista, un soldato al seguito di un sovrano che sta perdendo la guerra la cui ripicca nei confronti di Cora e Nathan è data per scontata. Ripensavo alle sue espressioni e provavo una forte antipatia per Cora, l’oggetto del suo amore non contraccambiato. Appena arrivato a casa, iniziai a leggere il romanzo, che finii in un paio di giorni. Ma l’immagine di Duncan Heyward, in me, rimaneva sempre quella, di un semi-eroe oggetto di una critica toppo violenta, dettata dall’attaccamento che ognuno di noi ha, innato, verso le storie d’amore difficili da vivere, tormentate. Vicende che fanno scemare l’attenzione verso i tratti più crudi e pragmatici della vita reale. O di una guerra tra francesi e inglesi combattuta tra le foreste del Nordamerica, che coinvolse secolari tribù indiane, coloni, animali. La Guerra dei Sette Anni non si svolse nè in mare nè in Europa. La mattina del 4 luglio del 1998 mi alzai con il cinguettare degli uccelli fuori dalla finestra. Dovevo trovarmi lavoro per l’estate, mentre il giorno prima l’Italia era stata eliminata dalla Francia ai rigori. L’ultimo errore per gli Azzurri, dal dischetto, fu quello di Gigi di Biagio. Il giocatore che spinse Emmanuel Petit a calciare la palla fuori dal campo per poter agevolare i soccorsi. È strano, il calcio: alle volte le partite sembrano seguire una trama ben precisa, scritta e definita in momenti antecedenti il loro ferale fischio d’inizio. L’attore che ne “L’Ultimo dei Mohicani” interpreta Magua, l’indiano Urone antagonista, lo Iago dell’intera vicenda, venne scelto da Michael Mann per svolgere il ruolo di uno zelante poliziotto, aiutante di Al Pacino, nel film che succedette, come uscita, proprio “L’Ultimo dei Mohicani”. Vidi al cinema con mio padre anche quel lungometraggio, intitolato “Heat – La Sfida”. In un cinema diverso, però. Prima della sala, mio padre non mi spiegò a cosa fosse adibita la struttura nella quale ci trovammo. La mattina del 4 luglio del 1998, rimuginai però soprattutto sugli insulti che i miei amici, coi quali avevo guardato in televisione il Quarto di Finale della Francia contro l’Italia, rivolsero in particolare a lui, a Petit, che nessuno aveva mai sentito nominare e che si apprestava a vincere persino anche un Mondiale. E fu un po’ come pensare a Duncan Heyward e al suo sacrificio, per un amore mai corrisposto.
La Bayeux Tapestry è più lunga di un lato corto di un campo da calcio.
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Supermercati, coniatori e adesivi
Nelle rosticcerie nei supermercati, la gente mangia aggrappata a tavolini rotondi, a due ripiani non si capisce perchè due, pieni di briciole di altri. La gente fa la pausa pranzo, nelle rosticcerie dei supermercati. Vorrebbe tirar su le briciole che sporcano i tavolini e mangiarle, per due semplici ragioni: la prima perchè ha una gran fame, la seconda perchè odia il disordine. Arriva da un turno del lavoro e detesta lo sporco. La gente passa così la pausa pranzo, la gente lavora. Operai, impiegati di banca, gli stessi cassieri dello stesso supermercato dove sono ubicati le rosticcerie. Nell’inverno del 1989 andai con mia madre in ufficio. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze di Capodanno, era il 30 dicembre. Quelle di Natale, di vacanze, erano già passate, ed io ero a casa da scuola. In giro non c'era nessuno, lavoravano in pochi, tra cui lei e mio padre. Era la fine degli anni '80 e la gente usciva sempre, anche per vedere in quanti uscissero dalle altri parti della città e nelle altre parti d'Italia. Mi chiese una mano per far la spesa per la sera dopo, la sera del Veglione.Avevano organizzato tutto da noi, e avrebbero cucinato lei e mio padre, aiutati de qualche loro amico che abitava vicino. Abitavano tutti vicino, gli amici dei miei. Mio padre li conosceva sin dai tempi della scuola elementare, quando giocavano insieme nella squadra di calcio dell'oratorio del quartiere. Uscendo alle cinque e mezza dal suo ufficio, praticamente vuoto, posto al sesto piano di un palazzo a vetri fuori Milano, andammo al Fiordaliso di Milanofiori. Entrai così, quel giorno di fine dicembre, nel supermercato più grande nel quale fossi mai stato nella mia infanzia. Gli orari dei lavoratori erano spezzati, in quel periodo, ma forse non tutti facevano in tempo a rientrare a casa per godersi la pausa: c’era infatti chi fumava sigarette indossando i grembiuli da lavoro coprendosi dal freddo di Milano con una sciarpa o un giubbino scuro. Al suo interno, caldo come le interiora di un elefante, c’erano code al reparto surgelati, c’erano file per uscire, c’era confusione per prendere il biglietto alla rosticceria e per arrivare a prendere dagli scaffali due bottiglie di spumante buono dovemmo fare quasi a botte con due signore. Lei mi sorrise.
Era pratica di luoghi enormi, e di luoghi affollati, come per esempio gli aeroporti. Viaggiava per lavoro e raccontava, a me, mio padre e mia sorella, di quanto fosse grande l’O’Hare di Chicago, che aveva le piste che passavano su ponti gli dell’autostrada, o di quante piste di atterraggio avesse Heathrow a Londra. Io avevo preso solo un aereo, in vita mia, all’epoca: viaggiai da Milano a Palermo, era destate e non notai poi quella gran confusione. Notai invece gli adesivi degli ultras appiccicati ovunque, persino ai vetri degli ascensori all’imbarco: da quel momento in poi, per ogni aereo che abbia preso, ci ho sempre fatto caso. Ho sempre curato gli adesivi appiccicati per i terminali degli aeroporti da cui abbia transitato. Anderlecht a Roma, Real Zaragoza a Bruxelles, Juventus a Ushuaia, Pistoiese a Linate, Ajax a Luton. Chissà se Londra Luton esisteva già, quando Jesper Olsen giocava a Manchester, nello United, vincendo la Coppa d’Inghilterra assieme a Paul McGrath, Bryan Robson e Kevin Moran. Jesper Olsen è danese, nacque nella cittadina che diede il nome, essendone il luogo di nascita, alla birra Faxe. Quella da mille litri, che trovi negli Autogrill e che è bevibile solo calda. Ma la particolarità principale della sua carriera, suo malgrado, è stata quella di aver dato il nome agli errori e alle situazioni irrimediabilmente compromesse. Un nome proprio, che definisse nella sua totalità il fatto. Nel 1986, proprio nel punto più alto della sua carriera calcistica allo United, si svolgono i Mondiali in Messico. La sua Danimarca, quella che nemmeno dieci anni dopo riuscì a vincere l’Europeo, affronta la Spagna. Si porta in vantaggio e Jesper sigla un rigore tirato malino. I nordici sono snelli, viaggiano a mille, sbagliano poco. Hanno Laudrup, hanno il campione veronese Larsen Elkjær, sembrano meravigliosamente a loro agio in quella monocromatica canicola messicana. Ma lo stesso Olsen, per passarla al suo portiere, la tocca malino. Meglio del rigore di pochi minuti prima, sia ben chiaro, ma sempre malino. Il rigore andò dentro, rimbalzando scarruffato verso oltre la linea bianca. La palla passata indietro, invece, a Lars Høgh Pedersen, non fa in tempo ad arrivare a destinazione: è stata calciata più che malino, senza convinzione. Non fu nemmeno un errore. L’Avvoltoio arriva, la raccoglie belluino, ghermendola, e pareggia i conti. Emilio Butragueño ne segnerà altri tre, dei cinque che le Furie Rosse rifilarono alla Danimarca quel giorno di giugno. La critica non lo perdonò e tra stampa e tifosi ci si misero tutti, a concionare. Venne coniata così la perifrasi “A real Jesper Olsen”, per indicare un fattaccio compromettente. Il mancino di Fakse divenne senza saperlo una definizione vivente. Mia madre ne creava a bizzeffe, di tali espressioni. Per esempio, indicava dentisti non tanto professionali con l’espressione “di quelli che hanno Paperino disegnato sui muri”. Io ne avevo bisogno, di un dentista serio. La mia bocca era un campo di battaglia, da bambino. “Ti devono mettere a posto la bocca, non far giocare o essere simpatici” Ne girammo una decina, di studi odontoiatrici in città, prima di trovare quello giusto. Non mi accorsi una sola volta, però, dei disegni sulle piastrelle bianche dei loro ambulatori, ma non glielo dissi mai.
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Fame, che cosa ti può sopravvivere?
Ci sono stato, a Ingré, durante gli anni del Liceo. Era per uno scambio alla pari, ero ospitato dalla famiglia di una mia coetanea francese che però non venne a Novara l’anno seguente. Ingré si trova nella periferia Ovest di Orléans, ma non sembrava di stare in periferia. Non c’erano i casermoni, non c’erano i parchetti con le giostre, le volanti della polizia non sostavano ininterrottamente ai bordi degli stradoni, non c’erano le tabaccherie sempre ribollenti di persone che schiamazzano. Non c’erano i coprifuoco e non c’erano i cosiddetti “problemi sociali” che caratterizzano da sempre le cerchie cittadine e di cui sentiamo parlare ogni giorno, come se fossero situazioni di altri pianeti. Sembrava piuttosto di vivere in un paese, più che in un sobborgo. Forse perché il centro più vicino, fulcro dell’intero agglomerato, non supera i duecentomila abitanti. O forse perché si tratta di una regione bagnata dalla Loira e una periferia non può essere lambita dal più lungo fiume di Francia, che scorre tra castelli e vigne. Le pensiline dei pullman erano in legno, i condomini - pochi, in verità - sembravano case multifamiliari, gli abitanti si salutavano. La famiglia che mi ospitava era una famiglia di sinistra, come lo ero io. C’era il padre, impiegato comunale. La madre era maestra in una scuola elementare, la stessa scuola elementare di Ingré frequentata dal figlio minore, e poi c’era la mia coetanea, una metallara abbastanza antipatica che girava in una compagnia di metallari simpatici che mi fece conoscere la seconda sera che passavo in Francia. I due figli erano molto educati e i genitori mi ricordavano i miei: lavoravano molto e cercavano di crescere i loro figli al meglio, parlando loro di cultura, di uguaglianza, di stato sociale. Una sera andammo tutti insieme al cinema ad Orléans, in centro, a vedere “Dante’s Peak” con Pierce Brosnan. Un film terrificante, la cui trama mi risulta ad oggi ancora del tutto ignota. Cenammo poi in un bistrot nella piazza principale della città, era marzo e non faceva ancora caldo. Presi una bistecca con delle salse e dell’acqua minerale che sapeva di ferro. Indossavo un giubbotto di jeans e la figlia maggiore, la metallara, un chiodo con le borchie e gli stivali, scelta che non piacque al barbuto padre, che continuò a manifestare il suo disappunto durante tutta la serata.
Al centro della piazza, che sino a quel momento avevo visto insieme ai miei compagni di classe italiani nel sole freddo del giorno francese, spiccava la statua di Giovanna d’Arco, che sino a quel momento pensavo fosse nata oppure morta ad Orléans. << Non >> mi disse la madre della metallara. E mi raccontò la sua storia, di come difese la città nella quale ci trovavamo dagli inglesi, di come fosse cattolica e di come morì bruciata. Non che non sapessi che fosse Giovanna d’Arco prima di quel momento, sia ben chiaro. Solo che sentirsi raccontare i fatti su una persona famosa da parte di un abitante del luogo in cui abbia vissuto quella persona è letteralmente un’altra cosa. L’impiegato comunale e la maestra elementare mi spiegarono per filo e per segno cosa fece Giovanna d’Arco e soprattutto come fosse vista dagli abitanti di Orléans. La sua santificazione passò in secondo piano, come passa in secondo piano in “Santa Giovanna dei Macelli” Berthold Brecht, dramma teatrale nel quale la figura della “Pulzella di Orléans” viene incarnata in una ragazza di Chicago che si schiera al fianco degli operai di diversi macelli durante il 1929, l’anno della grande crisi economica americana, cercando di contrastare con la fede cristiana i ricchi padroni che sfruttano il proletariato. Ingré confina a Sud con altri due sobborghi cittadini: La Chapelle St-Mesmin e Saint-Jean-de-la-Ruelle. Entrambi con le sue stesse caratteristiche da piccolo paese di vacanza piuttosto che di borgo di periferia. Con gli abitanti abbacinati, che si godevano la vita come una permanenza vacanziera nonostante le incombenze quotidiane. Florian Thauvin mosse i primi passi a calcio proprio nelle squadre di Ingré e di Saint-Jean-de-la-Ruelle, prima di rappresentare approdare in quella della sua città, del suo centro. Lui sì che nacque ad Orléans città, per iniziare a giocare a calcio in quella periferia che sembra un luogo di vacanza più che un dormitorio. Campi da calcio se ne vedevano, in quei luoghi, ma non giocai mai a calcio in quella settimana di scambio culturale. Thauvin aveva pochissimi anni, quando passai quei giorni nella sua città. Non credo avesse già in mente di diventare il giocatore che è diventato, di andare a giocare in Corsica, in Inghilterra e di coprire il ruolo, dopo aver vinto un Mondiale, del più importante giocatore dell’Olympique Marsiglia degli ultimi quindici anni. Un’eredità che arriva da Papin e Cantona, anche se Florian ha qualcosa di diverso rispetto agli altri due. Se il primo era un centravanti puro e “King Eric” inventò egli stesso il ruolo che più gli andava a pennello, Thauvin gioca da esterno, iniziando sulla fascia destra, per poi vedere come vanno le cose. Vagando, come vagò per quattro anni nei dintorni della sua Orléans. Non giocai mai a calcio, in quella settimana francese. Un pomeriggio, di ritorno dal lavoro, il padre della mia coetanea mi disse che voleva portarmi a fare dell’attività all’aria aperta assieme al suo figliolo. Pensai subito al calcio ovviamente. Arrivammo in un prato, sembrava di essere in Irlanda. Aprì il baule della sua macchina francese e ne estrasse un aquilone. << Cerf volant!>>, mi disse sorridendo. Si alzò il vento.
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La confraternita
Storytelling uscito il 9-12-18 per www.soccernews24.it
Il padre di Daley Blind, Dirk Franciscus detto Danny, dopo aver giocato nello Sparta Rotterdam, non si mosse più da Amsterdam. E Daley, suo figlio, infatti, nasce nella capitale. Arriva in nazionale nel 2014, a 24 anni, al debutto nel Mondiale in Brasile contro i sempiterni nemici spagnoli. Cinque a uno fu il risultato finale, con quel gol di testa di Robin Van Persie a chiudere sin da subito i conti per la classifica delle segnature più belle della competizione, e Daley Blind disputa un match favoloso contro i campioni in carica della competizione, che avevano battuto in finale proprio la nazionale orange quattro anni prima, in Sudafrica, ai tempi supplementari. Una nazionale che aveva come centrali Heitinga e Mathijsen, poi svaniti nel nulla già dall’autunno seguente. Anche Dirk giocava centrale, e anche Daley lo è tuttora, un centrale. Uno dei più intelligenti e poetici centrali difensivi che il mondo del calcio abbia mai visto. Non vincente o per lo meno non ancora, ma sicuramente fondamentale per ogni partita che abbia disputato, nelle vittorie come nelle sconfitte.
Era un giorno feriale, la gente andava già a lavorare, era fine estate. Mio padre aveva iniziato da oltre un anno a ristrutturare una vecchia stalla, in montagna. Era da poco andato finalmente in pensione e mi aveva chiesto una mano per una giornata, sarebbero arrivati gli elettrodomestici e andavano scaricati e posizionati, su e giù dalle scale di legno, fatti funzionare. Perché la stalla, nel frattempo, era diventata una casa. Accettai, avrei ricominciato a lavorare il lunedì dopo e avrei passato tranquillamente l’ultimo weekend vacanziero di agosto. In città, quando partii la mattina presto, c'era già una nebbiolina calda che avvolgeva i piedi dei palazzi e le strutture grigie dei lampioni. Non appena iniziarono le colline la nebbia si diradò di colpo, come se ci fosse stato un muro, e allora pigiai sull'acceleratore. Non avevo percorso molte volte il tragitto casa di città - montagna da solo, e avvertii un senso di solitudine e nostalgia che fece sembrare il viaggio infinito. Le gallerie, le entrate dell'autostrada, i centri commerciali vuoti ai bordi della statale, le guglie già imbiancate dalla precoce neve in quota che iniziavano a vedersi dal lago, le nuvole che correvano a gruppi nel cielo azzurro e ventoso, i capannoni prefabbricati in attesa di acquirenti abbandonati a loro stessi.
Arrivai alla nostra casa di montagna e mio padre era in strada, stava spostando delle tettoie in lamiera da solo. Mi scocciai a vederlo così indaffarato, dopo anni di fabbrica mi sentivo ancora in colpa, avrebbe potuto aspettarmi. Il corriere era già arrivato e gli elettrodomestici erano posizionati sul ciglio della strada, la stradina di paese alla quale si affaccia la nostra casa di montagna che prima era una stalla.
"Riusciamo a portar dentro tutto prima di pranzo?"
Mi chiese, dopo avermi salutato con un cenno. Non portai nemmeno dentro casa, per appoggiarlo su qualche asse, il mio zainetto e, tenendomelo in spalla, iniziai a pensare ad un modo per spostare e sbancalare la lavatrice, la lavastoviglie e il forno che mia madre aveva ordinato su internet e che, per miracolo, erano arrivati sin lassù, durante l’ultima settimana di vacanza per chi stesse ancora lavorando.
Ci riuscimmo, a portar dentro tutto prima di pranzo. Era ovvio che ce l’avremmo fatta. Ci avanzò anche del tempo, durante il quale mio padre mi illustrò fiero i lavori che erano andati avanti velocissimi durante quell’ultimo mese di agosto: per le vacanze di Natale sarebbe stato tutto pronto. Così arrivò l’ora di pranzo.
Andammo nell’unica trattoria del centro abitato, ci conoscevano già bene. Ci sedemmo, commentando il telegiornale sparato ad altissimo volume sulle teste dei commensali. Al tavolo vicino al nostro erano seduti quattro uomini. Avevano divise grigie, sporche e intirizzite, due di loro indossavano ancora i cappellini verdi da lavoro, calzavano degli scarponi da montagna pesanti, che facevano scricchiolare il parquet della trattoria ad ogni loro minimo movimento. Parlavano tra di loro sommessamente, come se volessero santificare al massimo quelle ore di pausa dal lavoro, e osservavano gli altri astanti e le cameriere con timore. Era come se provenissero da un altro emisfero.
Mio padre si accorse della mia curiosità nei loro confronti e mi anticipò.
"Devono essere degli esterni, magari operai che fanno manutenzione alle dighe più in alto, non hanno l'aria di essere dell'Enel.", disse, quasi sogghignando. "Magari sono degli esterni, capita." Ribadì. Non gli avevo espressamente chiesto di spiegarmi il sistema di appalti che regolassero gli impianti idroelettrici che costellavano quella valle, ma andava bene così, il fatto che mio padre mi parlasse e gradisse il mio aiuto era bellissimo. Era da tanto tempo che non mangiavamo qualcosa assieme, io e lui da soli. Così provai a pensare, tra due birre, degli gnocchi di castagna e una pentola di verdure bollite, alla vita da lavoratori di quelle persone.
I loro figli cresceranno in queste valli, pensai, tra queste autostrade che terminano non appena iniziano le montagne vere, tra queste trattorie, prendendo un accento di qui, un accento che hanno i muratori, i falegnami, i postini di qui. Avranno assicurazioni e conti in banca e per ottenere informazioni su quanto abbiano accumulato i loro genitori negli anni, risparmiando, faranno la fila come tutti. E a novembre, quando arriverà la neve, saranno i loro genitori emigrati a raccontar loro la prima volta che toccò a loro stessi vederla, dopo aver lasciato le loro terre.
Fare il difensore centrale nell’Ajax è un po’ come lavorare e crescere una famiglia lontano dalle proprie radici. Sai che diventerai fondamentale in una squadra che è sempre stata sbilanciata all’attacco, ma al tempo stesso sai che come te, ce ne saranno tanti altri.
Henry Molise incontra dopo anni suo padre, muratore abruzzese emigrato in California. I rapporti tra i due non sono cambiati, sebbene il primo sia uno scrittore affermato ed il secondo porti ancora avanti la sua vita rurale, fatta di muretti a secco, alcol e giornate infinite al sole. Il rapporto tra Daley e suo padre, un po' lo immagino così. Appartenenti entrambi ad una regione sconosciuta al loro sangue, ma allo stesso, identico modo, combattenti per le proprie vite, agiate o meno che siano. Vite da trapiantati. Sto parlando di John Fante, sto parlando della Confraternita dell'Uva.
Le carriere di questi due difensori si sono intrecciate più volte e allora sì, la situazione avrebbe potuto essere analoga. Il dirigente allenatore e il figlio mancino, chiamato a dirigere la retroguardia dell'Ajax migrata sotto l'egida del colore arancione, il colore di chi è arrivato secondo nella maggiora parte delle volte.
Prima di essere padre e figlio, sono due difensori e sono due difensori dell’Ajax e dell’Olanda. Daley Blind ha un modo di giocare, per sé e per le sue squadre, che non ammette sconti. Gli sconti si fanno quando si deve vendere qualcosa ad ogni costo e nell’Ajax, una delle prime cose che ti insegnano, è che se qualcosa ti viene regalato, è perché la merce da vendere sei diventato tu.
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Appartamenti come cubetti di ghiaccio
Quando avviciniamo le grandi città in automobile, percorrendo tangenziali, autostrade e svincoli, spesso ci fermiamo negli Autogrill per far rifornimento, o solamente per poter tirare il fiato prima di addentrarci nelle mangrovie di cemento del centro abitato, che funge da destinazione. Notiamo subito che queste stazioni di servizio siano decisamente più piccole e meglio organizzate rispetto a quelle che abbiamo potuto incontrare lungo la strada percorsa per arrivare sino a lì. Il motivo è semplice: devono contendere più spazio e più confini al dilagare imperterrito della città alle loro spalle. Già, alle loro spalle. Raramente infatti alziamo lo sguardo in direzione di cosa ci sia dietro a questi capolinea intermedi, intesi come costruzioni materialmente disposte. Dietro al recinto sgangherato, accanto al quale sostano di solito due o tre camion in attesa di ripartire dopo una frugale pausa, di sicuro riusciremmo ad intravedere delle erbacce, o della vegetazione comunque disordinata e a prima vista ostile. Le robinie hanno una velocità di crescita impressionante, in qualsiasi stagione, sono vegetali infestanti. Spingendoci a guardare ancora più in là, arriviamo ad alcuni tralicci, elettrici o ferroviari: è facile incontrarne ai limiti delle periferie, i binari sono gli unici coltelli che una volta entrati nella carne di una struttura cittadina, non ne vengono più estratti; figuriamoci allora quelli che percorrono le fasce urbane più esterne. Sono delle cicatrici fluorescenti, delle cuciture inestirpabili, più delle robinie infestanti.
Più in alto, finalmente, si vedono gli appartamenti. Specialmente alla mattina, sono dei veri e propri appartamenti che hanno superato la notte, gli uni sopra gli altri, nell'immensa camerata del palazzo nel quale sono dislocati come i cubetti di ghiaccio in un formaghiaccio rettangolare e duramente domestico. Sin dalle prime luci dell’alba, dagli Autogrill cittadini ne si può ammirare la vorace voglia di affrontare la giornata, opposta all'accidia e alla paranoia che assalgono i viaggiatori di quelle ore, che non vedono l'ora che quella precisa giornata volga al termine. Dietro ai caseggiati, rossi, inizia la città vera e propria, la conurbazione di letti posti gli uni sopra gli altri, di caffè che salgono sotto gli occhi inteneriti degli operai e dei professori, dei primi dolori della giornata. Josip Iličič si comporta, sulla sua fascia destra, all'incrocio delle rette che creano il versante alto dell'area avversaria, come un attento osservatore mattutino in sosta, fuori dalla propria acciaccata vettura appena rifornita, in una stazione di servizio autostradale, in periferia. La sua fascia destra invertita, in quanto è un attaccante centrale che gioca lateralmente, caratteristica che lo rende unico. Riesce a far sua una fascia opposta al piede che utilizza come naturale, il sinistro, pur arrivando da forestiero, da viaggiatore. Alto, al limite della coordinazione e muovendosi come un palombaro, con quei tocchi di piatto che sembrano sempre avere più forza di quanta in realtà se ne abbia la necessità. Anche nei passaggi l'impressione è quella, soprattutto nei passaggi, effettuati a valanga durante le partite in cerca della prima punta, centrale di solito. Non sono "suggerimenti" o "assist", sono dei passaggi veri e propri, nel vero significato della parola. Sono unioni, certezze relazionali che superano le difficoltà dell'amore per questo sport così controverso e difficile. Questo viaggiatore ha l'innata capacità di eliminare qualsiasi indecisione geografica e di posizione, una volta preso il possesso del suo nuovo territorio. Sai che lì c'è lui, e che per caso dovesse agguantare la palla con quei suoi stop di piatto che non lasciano scampo, qualcosa dovrà succedere per forza, come una formula matematica. Questo viaggiatore è fluorescente nelle immediate ore prima che inizi la quotidiana schermaglia. Questo viaggiatore pone domande divertenti e a freddo, come succede in quella scena di "War Games" in cui il padre del protagonista domanda all'amica del figlio, appena entrata in casa, se sappia il significato della parola "topica". La ragazza si gira verso l'uomo mentre sale le solite scale da villa americana per raggiungere la camera del suo amico David e non sa dare una risposta, sebbene il significato sia abbastanza facile da conoscere per una ragazza della sua età, che frequenta il college. Il padre comunque non si rammarica del fatto di non esser riuscito a conoscere il significato, anzi.
Quante differenze, quindi, tra una minuta stazione di servizio posta alla periferia urbana e un Autogrill di pianura, dal quale magari non si vede nemmeno una casa. Quanti scorci differenti, quante storie da raccontare ma anche da celare in questi luoghi di passaggio appartenenti ai viaggiatori, di tutti ma anche di nessuno. Per questo motivo credo che Iličič sia un giocatore fondamentale per il nostro sport, il calcio: riesce sempre a far ricadere su di sé l'attenzione, evitando di negarsi e spingendosi anche dove sa che sia impossibile arrivare, concretizzando la teoria della mancanza dello spazio vitale per un trequartista centrale che gioca su una fascia opposta al suo piede. Josip Iličič, nato in Bosnia ma di origini croate e cresciuto in Slovenia, riuscirebbe ad osservare morbidamente ma senza giudicare, dalla sua posizione privilegiata, persino chi passeggia alla domenica pomeriggio in famiglia, giungendo sotto casa appena prima di iniziare a preparare l'ultima cena tranquilla della settimana. Osservando il cancello elettrico del garage che si chiude lentamente, la luce gialla lampeggiante che gira su se stessa, mentre la foschia d'autunno inizia a rendere preponderante la lentezza delle azioni degli essere umani.
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Impegni irrinunciabili
"Como e Milan". Così rispose quando gli chiesi che squadre tifasse. Era l'estate del 1988 e il Como era ormai un'affermata realtà tra le cosiddette "provinciali" del nostro calcio, ma cosa potevo saperne io, in quell'estate in cui avevo solo sette anni e avevo da poco compiuto il mio primo volo in aeroplano. Già, Malpensa – Punta Raisi insieme ai miei nonni, per passare due settimane di vacanza al mare vicino a Messina, Gioiosa Marea, in un resort turistico terrazzato sulle montagne dal quale però si potevano scorgere il mare, le navi, l'autostrada Palermo – Messina e nelle giornate particolarmente terse e ventose l'Isola di Vulcano. Ex dipendenti De Agostini, una della maggiori case editrici italiane del dopoguerra: noi da Novara eravamo lì coi nostri nonni che ne avevano passato tanti anni tra presse e catene. Il mio primo viaggio in aereo, ma anche il primo per i miei nonni.
Mia madre quello stesso anno andò a Chicago per lavoro. Milano – Zurigo, Zurigo – New York e poi New York – Chicago O'Hare, l'aeroporto con le piste di atterraggio che passano sopra agli svincoli autostradali. Io, mio padre e la mia sorellina non la sentimmo per un giorno e mezzo praticamente, sino a che non arrivò in albergo a Chicago e ci chiamò dalla sua camera, in un grattacielo: all'epoca non c'erano ancora i telefoni cellulari. Mi portò come regalo una felpa dei Chicago Bears, squadra di Football Americano, e ci raccontò che andò a vedere una mostra al Museo di Arte Moderna, di cui gelosamente conserva ancora il manifesto, che fece persino plastificare ed incorniciare.
Era più grande di me, l'anno scolastico che sarebbe iniziato due mesi dopo avrebbe dovuto iniziare la terza media. Anche fisicamente, era altissimo, aveva le spalle larghe, mentre ero ancora obbligato a frequentare noiosissime e faticossissime lezioni di nuoto per mettermi in riga, per allargare le spalle e il torace, come aveva prescritto il dottore. Lui, intanto, parlava e si comportava come un adulto, parlava di tifare sì il Milan, che sappiamo tutti come si stesse comportando in quegli anni, ma anche il Como, la squadra della città dalla quale veniva, nella quale aveva gli amici, la famiglia, la scuola che stava frequentando. Alle volte mi aspettavo che tirasse fuori una sigaretta e iniziasse a fumarsela lì, davanti a noi più piccoli. Era davvero di un altro pianeta. Mi fece capire che il calcio che si vede in televisione poteva anche quello che sentivi giocare, nell'aria frizzante e diversa da quella degli altri giorni, a poche centinaia di metri da casa tua, e al quale potevi persino assistere andando allo stadio nella tua città. Il suo giocatore preferito era MarcoVan Basten, gli chiesi se fosse andato a vedere giocare Como – Milan e fui curioso di sapere per chi avesse tifato, ma mmi rispose che quel giorno aveva era fuori città con suo padre, per un impegno irrinunciabile. Pensai che io di impegni irrinunciabili non ne avessi avuti ancora, in tutta la mia vita.
Il villaggio turistico nel quale ci trovavamo er aun fiore all'occhiello del turismo siciliano: era nuovissimo, i bungalow avevano la televisione e c'era la piscina. E poi l'anfiteatro, il cinema. Era tutto bianco, come le strade che ci portavano giù al mare. Era bianco anche come la sabbia rovente di quel luglio del 1988 e mi rendeva irruento e svogliato soprattutto quando, per noi più piccoli di quel turno al villaggio, venivano organizzate attività di gruppo come piccole recite teatrali, laboratori di disegno o gare sportive. Tutte cose che a me non interessavano minimamente: avevo i miei libri, le mie giornate di sole per andare a pesca, la mia estate spensierata.
Il Como, quindi, aveva sempre o quasi navigato in acque sicure, nelle ultime stagioni. Aveva giocatori capaci e intelligenti come Maccoppi, Borgonovo, Annoni, Corneliusson, grazie ai quali riusciva a determinare prestazioni invidiabili. In quel Como, che vedevo giocare in televisione nello stadio dietro al quale faceva capolino il blu intenso del lago, aveva iniziato a tirare i suoi primi calci Diego De Ascentis. Sino al 1996, anno in cui fu comprato dal Bari, deciso a riassaporare i profumi della serie A dopo un quinquennio di agonie e capitomboli. Il Bari, l'anno del ritorno in massima serie, sembrava tornato ai fasti dei trenini, e De Ascentis e Ventola ne erano i principali artefici, suportati da una dose immane di esperienza sul campo garantita da giocatori come Doll, Garzya e Manighetti. Ovviamente Diego giocava davanti alla difesa, un ruolo che in Italia latitava da anni. Non si trovava più, si era dato alla fuga come un rapinatore lasciato solo dal resto della banda dopo aver fallito il colpo. Un ruolo difficile, meccanico, relegato a secondario dai lunghi decenni di stampo sacchiano ai quali la maggior parte degli allenatori faceva riferimento. A Fascetti, invece, serviva un giocatore come De Ascentis, ben piantato e capace di dare il "La", con una precisione più unica che rara, alle iniziative degli altri centrocampisti. La stagione successiva, quella del primo campionato in A della "resurrezione", si disputarono i Giochi del Mediterraneo in Puglia, la regione che ormai lo aveva adottato e lo stava coccolando come solo lei sa fare. L'Italia Under 21 vinse la medaglia d'oro e Ventola fu il protagonista indiscusso dell'evento. Segnò alla Spagna e fu autore di una doppietta in finale acontro la Turchia, e assieme al suo compagno di squadra De Ascentis, titolare di centrocampo, diventò un vero e proprio eroe per quelle terre, che videro disputarsi partite di caratura internazionale in stadi che normalmente ospitavano incontri di Serie C, come il "Degli Ulivi" di Andria, la squadra biancoblu di Cappellacci, Ripa e Renato Olive. Ai Giochi del Mediterraneo partecipavano esclusivamente rappresentative sportive ( in tutto le discipline erano una trentina) di nazioni che si affacciavano sul Mare Nostrum, dall'Asia al Marocco, da Malta alla Francia: che si disputassero in Puglia e che Bari ne fosse la capitale, quell'estate, era un'occasione da non lasciarsi sfuggire per mettersi in mostra. Detto fatto, l'anno successivo Ventola passa all'Inter. De Ascentis invece rimane in Puglia ancora un paio di stagioni, durante le quali gioca ad altissimi livelli. Era una perla, un fiore all'occhiello del nostro calcio, sembrava finalmente arrivata l'era dei fenomeni anche per noi. Lo ripeto, le squadre italiane post era Sacchi erano sempre più alla ricerca di giocatori che intendessero il gioco del pallone come faceva De Ascentis. E infatti arrivò presto il Milan, che iniziava a sentire il bisogno di far tirare il fiato a Demetrio Albertini, geometra. Ordinato ed elegante, Albertini. Fu difficilissimo, quasi impossibile, trovare spazio in quella formazione, però, per il mediano che aveva iniziato ad amare il pallone a Como, che passò quindi da eroe mediterraneo a perenne talento mancato in meno di due anni.
Giocò al Torino e all'Atalanta, dove trovò il suo ultimo gol in serie A e in carriera a Udine, calciando via con rabbia un assist di tacco di Cristiano Doni, nell'ottobre del 2009. In panchina il leccese Antonio Conte ammirò quel destro ed esultò come se stesse per vincere una finale.
Il Milan non aveva voluto arrendersi alla necessità di dovere, prima o poi, trovare la forza e gli stimoli di fare a meno di Albertini, così come il ragazzo che conobbi quell'estate in Sicilia non aveva avuto il coraggio, forse, di dirmi che tifasse solamente per il Milan, pensando che fossi a conoscenza della caparbietà con la quale il Como era rimasto in Serie A per tutte quelle stagioni di fila. Ma io non avevo la sua età e non ne sapevo nulla: ero lì in vacanza grazie al lavoro che mio nonno aveva svolto per decenni, non seguivo nemmeno il calcio da tifoso. Ero ancora gracile, svogliato e non sapevo nemmeno nuotare.
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Campanilismi
Avete mai fatto caso a quanto sia strano ascoltare i rintocchi dei campanili in città? Di solito viene più naturale pensare a un campanile in pietra sulle cui insenature più appartate cresce il muschio, immerso nella quiete di un paesino di montagna, il tetto ramato che sferraglia al sole d’inverno come a voler sciogliere la neve, oppure a una torre a picco sul mare, con le ombre allungate del tramonto come contorno. In città il ritmo frenetico e grigio fa apparire tutto più estraneo, più fatuo, e lo scandire il tempo di una giornata da parte di una costruzione così marcatamente rurale ci sembra un avvenimento fuori luogo. Nel traffico, nella pioggia, nella gente in coda, nelle sale slot, identifichiamo un modo di vivere urbano e spigoloso. Identificarci nel tempo grazie al suono delle campane,senza consultare il cellulare, il tablet o semplicemente il nostro orologio, non ci può più apparire un gesto naturale e scontato.Così come scontato non poteva apparire il modo di giocare di Daniel Fonseca, uruguagio poco considerato dal Nacional Montevideo ed approdato a Cagliari assieme ai compagni di nazionale Francescoli ed Herrera nell'estate del 1990, dopo aver fatto parte della selezione eliminata agli ottavi di finale dall'Italia ( gol di Schillaci e Aldo Serena) ed aver siglato il gol che permise alla Celeste di passare la fase a gironi, contro la Corea del Sud.Eppure, tutto inizia da quella rete. A Cagliari non discute le scelte di Claudio Ranieri, che inizia il campionato in modo rocambolesco, perdendo in casa contro l'Inter ma vincendo a Napoli. Non segna molto, Fonseca, in quegli anni sardi, ma viene lo stesso comprato dal Napoli, proprio la squadra contro cui conquistò la prima vittoria in serie A, che forse vede in lui la dose giusta di velocità e intelligenza per dare una svolta agli anni post-Diego Armando,mischiando in rosa capisaldi dei formidabili anni quali Careca a nuove e promettenti leve come Zola e Fabio Cannavaro.
Prima stagione e sedici gol, non male per Daniel, che non evita però una poco accogliente posizione di metà classifica alla squadra. Quella stagione, però, agli inizi, successe che Fonseca segnò sei gol al Valencia, di cui cinque nella gara di andata, al Mestalla. Roba che nemmeno Diego. In due anni segna un gol ogni due partite, quasi, e finalmente gli Azzurri sembrano aver trovato una quadra, sino a che non arriva la Roma, che lo compra ma non lo fa rendere a dovere. Per non parlare della Juventus, la squadra che lo tiene per più tempo in Italia ma che lo fa giocare quasi niente, portandolo ad infortuni e carestie. E intristendolo. E forse è per questo che lo vediamo triste e sconsolato, ce lo ricordiamo così e non può essere diversamente. Teo Teocoli inizia ad imitarlo a "Mai Dire Gol" non appena arriva nella Capitale, in modo malinconico e disilluso seppur grettamente comico, anticipando in qualche modo le considerazioni sul suo stato d'animo che sarebbero arrivate di lì a poco.Negli anni a Roma vince solamente la Coppa America, infatti.Quando pensiamo a Daniel Fonseca, pensiamo al sentimento di estraneità derivante dall'ascoltare un campanile nel centro di una città di pianura: ci distacchiamo da ciò che ci sembra strano ma non lo facciamo con indifferenza. Ci sentiamo infatti incaricati all'ascolto, seppur in un ambiente ostile, delle critiche angosce del prossimo. Come in un film di Ferreri, come in un ragionamento brechtiano sull'essenza dello sviluppo della coscienza dell'essere umano. Perchè Fonseca, con quel suo andamento cadenzato e attento, il suo sguardo perentorio e critico, calcolatore come quello di un ragazzino più intelligente rispetto ai suoi compagni di classe, i suoi gol che sembravano meramente di potenza ma che in realtà erano frutto di una calcolatissima azione mentale, fu un centravanti asimmetrico, anche nei gestacci alle vecchie tifoserie isolane. Campanilismo e altre vendette.
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Cheick Keita e il non parlarne di sabato
Federica, la mia ragazza, era via. Andava una volta al mese a Bologna, frequentava un seminario e studiava durante la settimana, sempre. Non le mancava molto per la laurea, anzi. I sabati che passavo senza di lei iniziavano con una sua chiamata la mattina presto, quando il Freccia Bianca era a Modena. Le spiegavo cosa avrei fatto durante la giornata, programmando al secondo le chiamate che ci saremmo scambiati. Quel sabato di metà settembre le dissi "Guarda che c'è Novara- Entella, ci vado."
Dormii ancora un paio di ore, poi spesa per la settimana. Il mezzogiorno arrivò in un batter d'occhio ma avevo già fame da ore. Da quando, praticamente, chiusi la chiamata con Federica. Un altro caffè e mi misi a cucinare, spaghetti aglio e olio, i Descendents e i Sick of it All mentre cercavo qualcosa in TV che parlasse di calcio. Perché è così, anche se abiti a pochissimi chilometri dallo stadio e manca quasi niente al fischio d'inizio vorresti essere lì da sempre. E quindi cazzo, volevo sentir parlare di calcio, quel sabato mezzogiorno. La pasta è quasi pronta e inizio ad assiepare lì, sul divano proprio accanto alla posta d'ingresso, felpa, maglietta e sciarpa. Non farà ancora così tanto freddo, penso. Niente giubbotto allora, nemmeno quello leggero. Arrivano le immagini dell'anticipo di serie B giocato la sera prima, mentre ero ancora con la mia ragazza.
Arrivai alla biglietteria in un mare di precoci foglie ed infida umidità nonostante il sole. Inizia a rimpiangere il mio giubbotto leggero rimasto sull'attaccapanni mentre la gente iniziava a sedersi sulle transenne urlando e ridendo ed era giusto così. Lo sgabbiotto del bigliettaio imbrattato di bombolettate mentre dallo stadio arrivava la musica, arrivavano le pubblicità locali, argomentando ferramenta e odontoiatri. L'Entella non avrebbe dovuto essere una rivale così difficile ma non si sa mai, la gente montava a ripetizione dubbi sulla voglia di Galabinov e davanti giocava la coppia Masucci – Caputo che più attaccanti di loro non si può. I liguri, poi, giocavano chiusissimi in trasferta, con una difesa a quattro nella quale giocava uno sconosciuto terzino sinistro magro, il maliano Keita, che sin dal fischio d'inzio iniziò a correre a più non posso dalla parte opposta alla mia, dove ero seduto io. Partita mogia e disillusa, noi la partita non riuscivamo proprio a farla e Galabinov continuava ad essere oggetto di critiche. Contrasti, rimpalli, ma dal lato sinistro dell'Entella Keita non faceva passare un ago. A tratti sembrava instabile e flebile, ma era solamente un'impressione: diligente e accurato, il suo difendere risiedeva soprattutto nel non mettere i compagni di squadra nella condizione di sbagliare prima o appena dopo la mediana. Nel secondo tempo si spostò sotto al mio lato di tribuna e sì, davvero, non sbagliava un passaggio o una rimessa, non lasciava che la nostra ala si accingesse a crossare, non gli era nemmeno fondamentale vincere rimpalli o contrasti. La difesa a quattro di serie B dovrebbe essere sempre così, col terzino arretrato e marcatore, a cui non serve essere una scheggia o forte fisicamente, a cui basta essere ponderato, preciso ed elegante. Quando avanzava era sempre sicuro che alle sue spalle qualcuno avesse preso il suo posto, altrimenti non si accingeva nemmeno a superare la linea di metà campo, quando chiudeva lo faceva stringendo, anche da solo, verso la rimessa laterale.
Quella partita la vincemmo con un gol da fuori area di Manconi, che fu abilissimo a raccogliersi e girarsi per calciare in porta nello spazio concessogli dai due difensori centrali, dopo un calcio piazzato e la successiva mischia. Keita era in marcatura, ancora in area, e si vide passare il tiro a pochi centimetri dal piede sinistro, che per tutta la partita aveva usato di piatto con una raffinatezza e una calma assurde. Non si lamentò coi compagni, in tutta la partita non disse una parola.Il match rotolò sino alla fine con quel risultato, e forse mi ricordo di Cheick Keita in questo modo perché, alla fine, la mia squadra vinse.
Ho da poco saputo che Keita sia stato ceduto al Birmingham, squadra di Championship inglese, l’equivalente della nostra serie B, per intenderci. Questione, immagino, di budget per la piccola realtà calcistica ligure indicata da molti come la maggior sorpresa dell’anno, per ora, nel variopinto panorama del calcio italiano. Ma una cosa è certa, Aglietti lo ha sempre fatto giocare bene con il resto della squadra e soprattutto lo ha sempre fatto giocare tanto in quel ruolo, da terzino esile e tecnico, che spesso calcia di piatto.
A partita finita, mandai un sms a Bologna e fui entusiasta di annunciare la vittoria. Poi passai al bar e raccontai del gol di Manconi e dell'impegno di Galabinov. In coda al Bancomat, vedendomi indossare la sciarpa bianca e blu, un ragazzo mi chiese del risultato e gli risposi che fosse ovvio che avremmo vinto alla fine, seppur soffrendo, sorridendo. Ma una volta in macchina e a casa, ricominciai a pensare a quel terzino marcatore del Virtus Entella, che non aveva sbagliato un passaggio in tutta la partita e che avrebbe potuto rappresentare la chiave di volta difensiva per almeno tre quarti delle squadre della serie cadetta, la serie che seguivo da vicino.
Il calcio è così, noi tutti lo sappiamo.
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