#notte e mistero
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Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli: una poesia tra mistero e nostalgia. Recensione di Alessandria today
La poesia simbolica di Pascoli esplora la fragilità della vita e il legame tra i vivi e i defunti in una notte intrisa di profumi e silenzi
La poesia simbolica di Pascoli esplora la fragilità della vita e il legame tra i vivi e i defunti in una notte intrisa di profumi e silenzi. Il gelsomino notturno è una delle poesie più celebri di Giovanni Pascoli, un capolavoro che rappresenta l’essenza simbolista e malinconica della sua produzione. Pubblicata nel 1901, questa poesia è un’esplorazione della notte come luogo di mistero e di…
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Il mistero della luce che tremava nella candela
La luce tremolante della candela danzava sulle pareti della piccola stanza, proiettando ombre mutevoli e fugaci. Il crepitio del fuoco era l’unico suono che rompeva il silenzio della notte, insieme al battito del mio cuore, troppo forte per essere ignorato. Ero seduta su una sedia di legno antico, con il libro aperto sulle ginocchia. Le parole, che fino a pochi istanti prima mi avevano rapita,…
#Connessioni profonde e sguardi rubati#Emozioni e mistero nei racconti#Racconti romantici ambientati di notte#Racconti romantici misteriosi#Storie d’amore con atmosfera magica
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Nel silenzio profondo della notte, quando le stelle tessono trame di luce nell'oscurità, l'anima mia si desta in un fremito. Attraverso i labirinti interiori, mi smarrisco e mi ritrovo, guidato da ardori ineffabili e desideri inconfessati. La passione infiamma il mio spirito come fuoco indomito, un impeto che travolge ogni argine della ragione. Sospeso tra estasi e contemplazione, navigo mari di emozioni tumultuose. Ogni battito del cuore è un sussurro di promesse taciute, un richiamo verso abissi inesplorati dell'essere. L'impeto dell'amore mi avvolge come un manto di stelle cadenti, incendiando i sensi e l'immaginazione. Le mie giornate sono intrise dei colori vividi dei sentimenti più profondi, tinte di carminio e oro antico. Ogni pensiero è permeato da un languore dolceamaro, un'eco di melodie lontane che risuonano nell'intimità più recondita. I sensi si affinano, percependo sfumature sottili e profumi evanescenti che destano memorie sopite. Il desiderio scorre come un fiume sotterraneo, alimentando la terra fertile dell'anima. È un'energia primordiale che plasma emozioni e alimenta sogni di indicibile dolcezza. In questo viaggio solitario, abbraccio le contraddizioni dell'esistenza, trovando bellezza nell'intensità che mi attraversa. Non cerco approdi certi né risposte definitive. Mi lascio trasportare dalla corrente impetuosa dell'essere, esplorando i confini tra luce e ombra, tra quiete e tumulto. Ogni istante è un dono prezioso, un'occasione per immergermi nel mistero dell'esperienza umana. Così proseguo, pellegrino dell'anima, assaporando la sublime complessità delle emozioni che mi animano. Lascio che la passionalità tracci il cammino, che l'erotismo sussurri tra le pieghe dei pensieri. In questo percorso, ogni sensazione è un tesoro, ogni emozione un universo da esplorare.
Empito
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Ci sono state raccontate due grandi falsità su Cleopatra: innanzitutto, non era affatto una bellezza convenzionale; in secondo luogo, non era neanche egiziana. Gli storici hanno cercato di spiegare come una donna sia riuscita a sottomettere gli uomini più potenti del suo tempo, ma i documenti storici testimoniano che Cleopatra non era semplicemente una seduttrice, bensì una donna di intelligenza straordinaria.
Plutarco scrive di lei che era incredibilmente affascinante, anche se non bella nel senso classico del termine. Racconta che fosse impossibile dimenticarla. Cleopatra aveva una voce così melodiosa e magnetica da incantare chiunque le parlasse.
Era una donna dotata di un’intelligenza eccezionale.
Cleopatra era profondamente istruita e padroneggiava diverse discipline, tra cui matematica, astronomia, oratoria e filosofia. Fu la prima e unica sovrana della dinastia tolemaica ad abbracciare la religione e la cultura egiziane. Nessuno dei suoi predecessori aveva mai mostrato interesse per le tradizioni del popolo che governavano: tutti veneravano esclusivamente gli dèi greci.
Inoltre, Cleopatra era una poliglotta straordinaria: parlava almeno nove lingue. Fu la prima tra i Tolomei a imparare l’egiziano, una lingua che nessuno prima di lei si era mai preoccupato di studiare, nonostante governassero l’Egitto. Tra le altre lingue che conosceva c’erano l’ebraico, l’etiopico, l’arabo, il persiano e il latino.
Cleopatra ebbe quattro figli: il primogenito, Tolomeo XV Cesarione, probabilmente nato da Giulio Cesare, e tre avuti da Marco Antonio. I gemelli, figli di Antonio, portavano nomi che in traduzione significano "Sole" e "Luna".
Dopo la morte di Cleopatra, Cesarione fu giustiziato da Ottaviano, il figlio adottivo di Cesare. Gli altri figli furono portati a Roma per essere allevati. Si sa che la figlia si sposò con un re della Mauretania, ma il destino degli altri figli rimane avvolto nel mistero.
Cleopatra e Marco Antonio morirono insieme. Avevano deciso che, in caso di sconfitta, si sarebbero suicidati. Antonio si tolse la vita con la spada, mentre si crede che Cleopatra abbia usato il veleno di un serpente.
La regina, rinchiusa in una stanza con le sue ancelle, fu minacciata da Ottaviano: se si fosse suicidata, avrebbe colpito i suoi figli. Nonostante ciò, Cleopatra decise di togliersi la vita. Secondo i romani, un servo le avrebbe portato un serpente nascosto in un cesto di fichi, ma molti storici ritengono più probabile che Cleopatra avesse nascosto del veleno in una forcina cava tra i capelli.
Prima di morire, Cleopatra scrisse una lettera a Ottaviano chiedendo di essere sepolta accanto a Marco Antonio. La sua morte fece infuriare Ottaviano, poiché lo privò del trionfo di esibire la regina sconfitta.
Ad oggi, la posizione esatta della tomba di Marco Antonio e Cleopatra rimane sconosciuta. Esistono solo ipotesi e supposizioni.
Così si concluse la vita di Cleopatra, un’incredibile sovrana, ultima regina d’Egitto e ultima rappresentante della dinastia tolemaica. Con la sua morte, l’Egitto perse la propria indipendenza e divenne una provincia dell’Impero Romano. La caduta di Cleopatra segnò la fine della grande civiltà egizia.
Informatevi meglio, prima di scrivere cazzate, mondo di Tumblr.
Notte ✨✨✨
(Angela P.)
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“forever close” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Nel cuore di una cittadina senza tempo, dove il grigio delle strade si fonde con il grigio del cielo, c'è una storia d'amore che resiste all'implacabile corso del destino. Le vite di Alex e Morgan si intrecciavano tra i vicoli stretti, un'amicizia che si sviluppò in qualcosa di più, un sentimento che sfidava la monotonia delle giornate grigie.
Alex, un lavoratore locale, e Morgan, una mente creativa senza un posto fisso nel mondo, si scoprirono l'un l'altro in un piccolo bar buio. Il loro amore crebbe nell'oscurità di strade poco illuminate, dove le luci pallide delle insegne creavano un'atmosfera di mistero e desiderio. Ma come talvolta capita, la vita ha avuto una strana maniera di chiedere il conto.
In una fredda notte d'inverno, Alex e Morgan persero la vita in un incidente che spezzò le loro storie ancor prima che potessero scrivere il loro epilogo. Le loro famiglie, spesso spartite da vedute diverse, si trovarono unite dalla stessa tristezza e rimpianto. Troppe parole non dette, troppe emozioni represse, ora sprofondavano nelle tombe di due anime che avevano trovato il loro rifugio l'una nell'altra.
Le loro tombe erano inclinate, appoggiandosi l'una all'altra come se la morte avesse finalmente concesso loro il conforto negato dalla vita. La pietra fredda divenne il testimone di un amore che, sebbene interrotto prematuramente, continuava a vibrare nell'eternità. Nelle notti tranquille, quando la pioggia scivolava via senza rumore, si diceva che le anime di Alex e Morgan si ritrovassero, non più limitate dai confini terreni.
#graveyard#france#graves#bnw#cemetery#grave#death#photography#graveyardphotography#streetphoto#cemeteries#bw#gravestone#history#art#lensblr#original photographers#photographers on tumblr
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Il caldo mi ammazza, rinvengo solo di notte, come i vampiri, di giorno dormo come un pipistrello. Devo prendere i minerali, il magnesio, il potassio, il topazio, l'opale, il quarzo citrino, tutta la tavola di Mendeleev e un po' quella di Tiffany. Che nomi curiosi che hanno i minerali, per esempio l'ametista. Améthystos in greco vale per "non ebbro". Per i greci era un rimedio contro l'alcol: versando acqua in una coppa d'ametista, questa prendeva i riflessi violacei del minerale, dando l'illusione di bere del vino. Il potassio invece viene estratto dalle cave di banane, o dalle banane cave. Nessun mistero invece sul suo nome: deriva dall'inglese "pot ash" (cenere di pentola), poiché in passato veniva ricavato dalla lisciviazione delle ceneri di legna. Il potassio farebbe bene ai muscoli, peccato che io ne sia quasi completamente sprovvisto, percepisco la loro presenza solo quando iniziano a dolermi.
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- tratta da ” Voci Indiane del Nord America”
Io sono il lupo. La fame è la mia compagna, la solitudine la mia sicurezza eterna, triste condanna. Io sono l'istinto. Passi svelti nella notte, il freddo è il mio giaciglio, il vento la mia sola coperta. Io sono il silenzio. Un'ombra nella foresta, impronte lungo il fiume, occhi di brace nel profondo buio. Io sono il mistero. Canti d'amore alla luna, lunghe corse inseguendo fantasmi, ombre e tracce di odori e suoni. Io sono il sogno. La libertà pura, assoluta che tracima violenta su stagioni senza tempo. Io sono alfa e omega, neve rossa d'ignare prede, soffio di nuova vita e chiusura del naturale anello. Io sarò ucciso ma mai distrutto. Io sono il Lupo.
● It's me in the photo. (C) @saayawolf
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La verità è che nessuno si regge più in piedi da solo, sulle proprie gambe. Nessuno regge più il dolore, la perdita, la frustrazione, l’attesa.
Insomma, le cose della vita.
Abbiamo bisogno di normalizzare i processi della vita: nascere, crescere, ammalarsi, ferirsi, invecchiare, morire.
Un tempo si moriva sazi di vita, appagati, senza rimpianto alcuno, in modo del tutto naturale.
Oggi si muore insoddisfatti, delusi e stanchi.
Il lutto non rientra più nelle categorie del vivente.
Abbiamo inventato questa parola: “elaborazione”, dimenticando che i lutti non si elaborano, ma si accolgono, come parti integranti dell’esistenza, tutt’al più si contemplano come espressioni mutevoli del flusso continuo della vita.
“Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore
e cerca di amare le domande,
che sono simili a
stanze chiuse a chiave
e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte
che possono esserti date
poiché non saresti capace
di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.”
Aveva ragione Rilke.
Abbiamo disimparato il valore del piangere insieme, di condividere il pasto, dono gentile e premuroso gesto della vicina di casa, la sera, quando si raccontava ai bambini dove sta il nonno adesso, e si passava la carezza della mano piccola sul suo viso freddo e immobile, disteso sul letto.
I sogni facevano il resto, perché si aveva tempo per dormire e per sognare. E al mattino, appena svegli, per raccontare.
Così chi non c’era più continuava ad esserci, a contare, a suggerire, a consolare.
I morti stavano insieme ai vivi.
Complicato allora non è il lutto, ma il modo di viverlo, di trattarlo, come se fosse una malattia in cerca di una cura. Ma la vita non è un problema da risolvere.
Ancora Rilke. Piuttosto un mistero da sperimentare. Una quota di ignoto inevitabile che spinge lo sguardo oltre la siepe.
Chi ha ancora desiderio di quell’infinito che solo l’esperienza del limite può disvelare?
Oggi tutti reclamano il diritto alla cura della psiche, forse perché i medici del corpo non riescono a guarire certe ferite dell’anima.
Ma così si sta perdendo il valore della psicoterapia. Così si confonde la patologia con la fisiologia dell’esistente, che contempla nel suo lessico le voci: malattia, solitudine, sofferenza, perdita, vecchiaia, morte.
Qual è l’immagine del nostro tempo, che rappresenta il senso estetico dominante? Una enorme superficie levigata, perfetta, specchiante.
In questo modo, privata delle increspature, delle imperfezioni, del negativo, della mancanza, l’anima ha smarrito il suo luogo naturale, la sua origine, il respiro profondo della caducità, della provvisorietà, della fragilità del bene e del male.
Perché alla fine, tutto ciò che comincia è destinato a finire e l’unica verità che rimane è questo grumo di gioia che adesso vibra ancora nel cuore, qui e ora, in questo preciso istante, nonostante la paura, il disincanto, la sfiducia.
Non c’è salute dunque che non sia connessa alla possibilità di salvezza.
Alle nostre terapie manca quel giusto slancio evolutivo, che spinga lo sguardo oltre le diagnosi, i funzionamenti, i fantasmi che abitano nelle stanze buie della mente.
Un terapeuta non può confondere la luna con il dito che la indica.
Può solo indicare la direzione e sostenere il desiderio di raggiungerla.
Per questo ogni sera mi piace chiudere gli occhi del giorno con una poesia, ogni sera una poesia diversa, per onorare la notte con il canto dei poeti.
Perché la notte sa come mantenere e custodire tutti i segreti.
Perché le poesie assomigliano alle preghiere.
Dicono sempre cose vere.
Stanotte per esempio ho scelto questa:
“Si è levata una luna trasparente
come un avviso senza minaccia
una macchia di nascita in cielo
altra possibilità di dimora. E poi.
Siamo invecchiati.
Il volume di vecchiaia
è pesato sul tavolino delle spalle,
sugli spiccioli di salute.
Cos’è mai la stanchezza?
Le cellule gridano
chiamano l’origine
vogliono accucciarsi
nel luogo prima del nome
nello spazio che sta tra cosa e cosa
e non invade gli oggetti
li accarezza e li accalora.
Non smettere di guardare il cielo
ti assegna la precisa misura
fidati della vecchiaia
è un burattino redentore.
Dopo tanta aritmetica
la serenità dello zero.”
Chandra Candiani
Testo di Giuseppe Ruggiero
foto dal seminario " In Quiete". Introduzione alle costellazioni Familiari con Anna Polin
Gloria Volpato
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AMALIA
Nel centro della Città Vecchia, a Riga - meno sette gradi sotto lo zero - troviamo un bar per riposarci dal freddo e riprendere fiato. Il bar si chiama Libertà. Esiste. Potete cercarlo sulle mappe, se volete: Kungu iela (il nome della via) o giù di lì.
Per pagare le poltrone e il tepore, ordiniamo due bicchierini del loro balsamo liquoroso, prodotto tipico della città, che odorano di manicomio ed hanno il sapore del metano. Beviamo, e alla radio passano - esperanto della Terra - un pezzo classico del rock anni ’80 e che ai tempi in cui il pezzo è stato scritto, qui lo si poteva ascoltare solo se qualche eroe, in odore di martirio, riusciva a passarti sottobanco la sua cassetta registrata intercettando una radio della Germania Ovest, oppure se eri uno psicopatico al soldo di altri psicopatici che ti avevano assunto nel KGB per mantenere un ordine, che nelle regole dell’universo e nelle fantasie del dio che avevano ammazzato non sarebbe mai potuto esistere. Se avevi questa attitudine per la macelleria industriale, oltre al disco di Under Pressure, ti era concesso anche un hamburger e un pacchetto di Lucky Strike per digerirlo meglio.
Le nostre mani, comunque, al bar Libertà, possono permettersi il lusso di muoversi a inseguire il mistero delle note intrecciate che colano dalla bocca di Bowie e di Mercury quando raggiungono il picco del sublime.
Poi, senza accorgercene, le mani continuano a muoversi e tutti lì dentro capiscono: siamo italiani. I gesti, però, non sono sguaiati. In tono calmo, rilassato, riflessivo, mettono delle linee e pongono degli accenti melodici sotto le nostre parole. Parole sottili, che si raccontano le brutture, le banalità e le meraviglie di un’amicizia pluridecennale.
Le nostre voci, in qualche strano modo, diventano come un caminetto acceso nel pallido pomeriggio di Riga.
E qualcuno sente freddo.
La ragazza che ci ha servito pochi minuti prima i bicchieri di Riga Balzam - un donna che in Italia avrebbe tappeti rossi stesi davanti ad ogni bettola, o casa, o raccapricciante postribolo dove il potere si mesce in carte intestate con lo stemma della Repubblica, e che qui, dove la bellezza sui visi delle donne abbonda, come se a dio fosse scappata la mano, è solo una tra le tante - questa donna di vent’anni, che De Gregori avrebbe descritto come una ragazza la cui espressione del viso somiglia alla frana di una diga, si avvicina.
Inizia con il parlare del liquore che ci ha servito. Dice che ne esiste una versione migliore, benché la ricetta non sia quella della tradizione, che ha un sapore fruttato, più aromatico, più bevibile e che ti trita il cervello allo stesso modo dell’originale. Dice anche che è quello che beve quando stacca dal lavoro.
Lei è rilassata e accogliente, e noi le chiediamo della Lettonia. Le chiediamo come mai alle undici della sera le strade diventano un deserto. E lei risponde che il motivo risiede nel fatto che qui si inizia a uscire e a far baldoria alle due di notte. Poi è lei a chiederci dell’Italia. E noi rispondiamo alla sua domanda. Finisce che passiamo due ore - mentre lei ogni tanto si allontana per lavorare - a conversare, in inglese - esperanto del potere - su Dante, la perestrojka, i russi, di come io sia diventato maggiorenne e del perché lei voglia diventare un medico e come mai, invece, io non ho voluto.
D’un tratto le sorge un dubbio. Ci fa - lei, la donna per cui gli Achei avrebbero spostato le loro navi fino alla cima del monte Olimpo per muovere guerra a Zeus in persona se solo avesse osato violarla, come aveva già fatto con Europa e Aracne - ci fa: non è che forse sono di troppo? Che magari sto violando i vostri spazi e il vostro tempo?
E mentre lo dice, arrossisce; le sue mani bianche e grandi davanti al petto come a volere farsi già lontana. E a noi pare ancora più bella, ed estranea, forestiera, straniera, in una maniera ormai irreparabile, in un mondo di ombre e panini al salmone del baltico e kvas, venduti solo per fottere i turisti. Straniera in Italia, e in Lettonia e sulla Terra e, forse, anche in cielo.
Ma il balsamo finisce.
E’ ora di pagare, ché Riga domani tramonta, e anche Amālija - questo il suo nome - dietro agli uffici, alle maschere e ai sogni americani.
Non ero mai andato all’estero, prima d’adesso. Mi faceva paura volare, mi faceva paura il mondo. Ma, aprendo finalmente la scatola cranica del pianeta, come prima figura, ci ho trovato dentro questa Elena di Troia che invece di spargere guerre, semina i campi di domande e di risposte feconde.
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La noche, la luna: L’incanto poetico di Pippo BunorrotriUn viaggio tra emozioni, sogni e i misteri della notte. Recensione di Alessandria today
La raccolta poetica di Pippo Bunorrotri, intitolata La noche, la luna, è un capolavoro che esplora il profondo legame tra l’essere umano e la Luna, musa per eccellenza della poesia.
La raccolta poetica di Pippo Bunorrotri, intitolata La noche, la luna, è un capolavoro che esplora il profondo legame tra l’essere umano e la Luna, musa per eccellenza della poesia. L’autore riesce a trasmettere, con pochi versi, un intenso stato d’animo che si intreccia con il mistero e il silenzio della notte. Ogni poesia rappresenta un dialogo intimo, un racconto sospeso tra la realtà e…
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Il calore del suo cappotto in una notte d’inverno
Era una notte che sicuramente sarebbe rimasta nei miei ricordi, una di quelle che, anche con il passare degli anni, riaffiorano improvvise, come il profumo di un fiore che sboccia solo di notte. La neve cadeva lieve, coprendo tutto con un silenzio surreale. Camminavo per le vie del centro, stringendomi nel mio cappotto leggero. Qualcosa mi faceva pensare che quella notte non fosse come le altre,…
#Amore e ricordi: racconti per giovani donne#Il fascino degli incontri casuali#Incontri romantici in una notte d’inverno#Racconti brevi di amore e mistero#Storie romantiche ambientate nella neve
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- “Maestro, non riesco a dormire in queste notti.” “Se non dormi è perché non riesci ad abbandonare il controllo. La notte ti mette a nudo, ti chiede di fidarti di lei, di togliere tutte le maschere, di lasciare andare. È la dea della verità.” - “Come faccio ad abbandonarmi?” “Con il respiro. Che è la tua danza interiore. Ciò che hai dentro il tuo corpo, anche se non lo vedi, fa parte di te. Esiste. E tu non gli stai dando attenzione. Impara a cullare i tuoi organi interni con il ballo del tuo soffio. La notte è il buio che è giunto. Come fai a farti travolgere da lei se non ti prendi cura del buio che hai dentro?” - “Il respiro, maestro? Come faccio a farlo danzare?” “Nel tuo corpo ci sono infiniti ritmi che tu non riesci a sentire: c'è il battito del tuo cuore, lo scorrere del sangue nelle tue vene, il flauto del tuo respiro. Ascoltali. Chiudendo i tuoi occhi che ti portano a concentrarti solo sul fuori di te stesso. Senti la melodia che il tuo buio crea. E fatti trasportare da questo ritmo.” - “E mi addormenterò?” “Al contrario. Ti sveglierai! Dalla tua sonnolenza interiore. Riacquisterai vitalità, attenzione, presenza. E finalmente potrai dolcemente entrare nel mondo notturno che ha così tanto da donarti: messaggi, ricordi, intuizioni. Li puoi cogliere solo se hai lasciato il controllo, se hai fiducia nella notte, nel mistero. Il problema non è riuscire ad addormentarsi ma rimanere svegli. Soprattutto nel buio.”
-Elena Bernabè-
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🛑12 DICEMBRE 1969:
IL PERCORSO DELLA BOMBA
CHE FECE LA STRAGE
GLI ULTIMI DUECENTO METRI🛑
Si è soliti dire che persista più di un mistero riguardo alla strage del 12 dicembre 1969 in piazza Fontana. Nulla di più falso. Sappiamo moltissimo, quasi tutto, di questa tragica vicenda. Non ci si lasci ingannare dalle sentenze. Nelle attività di indagine sono state acclarate le ragioni che ispirarono la strage in funzione di un salto di qualità nel percorso della “strategia della tensione” e messo a fuoco il complesso dei mandanti, tra vertici militari e ambienti Nato, complici ampi settori delle classi dirigenti e imprenditoriali, tentati da avventure eversive. Sono anche stati individuati gli esecutori materiali, ovvero gli uomini di Ordine nuovo, con il riconoscimento delle responsabilità personali di Franco Freda, Giovanni Ventura e Carlo Digilio.
Sulla base delle carte che si sono accumulate, interrogatori, confessioni, incrocio di indizi, sarebbe addirittura possibile ricostruire il percorso compiuto dalla bomba collocata all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura. Ne riassumiamo i passaggi fondamentali, omettendo doverosamente alcuni nomi che pur sono emersi. Sono mancati, infatti, quei riscontri inoppugnabili che altrimenti avrebbero determinato dei rinvii a giudizio. Personaggi comunque ad oggi non tutti più processabili, dato il venir meno delle loro esistenze negli anni precedenti le indagini.
DALLA GERMANIA IN ITALIA
Sulla provenienza dell’esplosivo siamo in possesso di due versioni diverse. La prima è stata fornita dal generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’Ufficio D del Sid, che in più occasioni (sia nel 2001 a Milano nel corso del dibattimento di primo grado nell’ultimo processo e sia in una lunga intervista nel 2010) ha sostenuto che fosse «esplosivo di tipo militare» e provenisse da una base Nato della Germania, poi transitato con un tir dal Brennero per essere alla fine consegnato a una «cellula» di neofascisti del Veneto. Questa versione è stata in parte ribadita dall’allora vice presidente del Consiglio Paolo Emilio Taviani che nelle sue memorie scrisse testualmente «un americano […] portò dell’esplosivo dalla Germania in Italia».
La seconda versione la fornì Carlo Digilio, l’armiere di Ordine nuovo, che parlò di un esplosivo prodotto in Jugoslavia, il Vitezit 30. Come noto un foglio di istruzioni per l’utilizzo di questo esplosivo fu rinvenuto nell’abitazione di Giovanni Ventura.
DA MESTRE A MILANO
L’esplosivo che sarà alla fine rinchiuso in una cassetta metallica Juwel (poco meno di tre chili), trasportato da due esponenti di Ordine nuovo nel bagagliaio di una vecchia 1100, venne periziato qualche giorno prima del 12 dicembre in un luogo tranquillo ai bordi di un canale a Mestre dall’esperto in armi della stessa organizzazione, Carlo Digilio. Il timore era che potesse deflagrare lungo il tragitto verso Milano. L’esperto li rassicurò a patto che venisse utilizzata un’altra vettura, con sospensioni adeguate. I due gli fecero presente che già si era pensato a una Mercedes di proprietà di un camerata di Padova. Una figura nota nell’ambiente, protagonista di azioni squadriste, con anche un ruolo pubblico nella federazione del maggior partito cittadino di estrema destra. La notte prima del viaggio, destinazione Milano, la Mercedes, di color verde bottiglia, venne posteggiata sotto la casa di un ancor più noto dirigente ordinovista.
L’esplosivo doveva essere consegnato in un luogo sicuro, un ufficio in corso Vittorio Emanuele II con un’insegna posta all’esterno che all’imbrunire si accendeva di un color rosso. Qui la bomba, meglio le bombe (una era destinata alla Banca Commerciale Italiana di piazza Della Scala), vennero assemblate. I temporizzatori che dovevano innescarle, acquistati da una ditta di Bologna, davano un margine di un’ora. Gli uffici in questione offrivano un riparo sicuro, bisognava percorrere solo qualche centinaio di metri per raggiungere i posti prescelti per gli attentati. Nel caso di un qualche intoppo o contrattempo si poteva tornare velocemente sui propri passi e disinnescare gli ordigni. Un’operazione di questo genere non poteva essere certo affidata all’improvvisazione. Non si poteva neanche lontanamente pensare alla toilette di un bar o l’interno di una vettura posteggiata. Troppo rischioso.
DA CORSO VITTORIO EMANUELE II
ALLA BANCA NAZIONALE DELL’AGRICOLTURA
La bomba per la Banca Nazionale dell’Agricoltura venne portata a mano. Chi la trasportava non era solo. Uno di loro se ne sarebbe in seguito anche vantato in una festicciola tra camerati e con l’armiere del gruppo.
Provenienti da corso Vittorio Emanuele II, attraversata la Galleria del Corso, in piazza Beccaria, al posteggio dei Taxi, uno degli attentatori metterà in opera una delle più grossolane operazioni di depistaggio per incastrare gli anarchici. Rassomigliante a Pietro Valpreda farà di tutto per farsi riconoscere dal taxista Cornelio Rolandi. Si farà portare per 252 metri fino in via Santa Tecla, distante 117 metri a piedi dalla banca, per poi tornare al taxi, percorrendo in totale 234 metri a piedi, per non farne 135, ovvero la distanza da piazza Beccaria all’ingresso della Banca nazionale dell’agricoltura. Si farà infine scaricare in via Albricci, dopo soli 600 metri, a soli 465 metri dalla banca.
Forse sappiamo tutto, anche cosa accadde negli ultimi duecento metri o poco più. Sarebbe possibile anche fare i nomi, ma siamo costretti a far finta di non saperli e a raccontare le mosse e gli atti di costoro come in un film o in un romanzo.
SAVERIO FERRARI
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Una delle più note leggende greche ci rivela la più oscura natura dell’amore, e lo fa tramite il racconto di una fanciulla di nome Psiche, talmente bella da far ingelosire Venere stessa, che ordinò a suo figlio Cupido, il dio dell’amore, di scoccare una delle sue frecce e di farla innamorare dell’uomo più brutto della terra.
Cupido però sbagliò mira e si colpì un piede, avvampando subito d’amore per la bella Psiche. Per non incorrere nelle ire della madre, non gli restò che incontrarla in segreto, al buio, senza che lei potesse riconoscerlo.
La fanciulla però cominciò a essere curiosa e avrebbe voluto vedere in volto il suo amante, quindi, una notte, mentre Cupido le dormiva accanto, accese una lampada, scorgendo i lineamenti perfetti di Amore in persona. Sussultò per l’emozione e una goccia d’olio schizzò via, colpendo il dio e scottandolo. Svegliatosi e compreso che Psiche aveva trasgredito al divieto, Cupido dovette andarsene.
Psiche però non si diede per vinta, e affrontò le dure prove a cui Venere la sottopose, suddividendo una gran quantità di semi in una singola notte, portando alla dea il mitico Vello d'Oro e recuperando persino in uno scrigno un frammento della bellezza della dea infera Proserpina, dopo una lunga e complessa discesa nell'oltretomba.
Infine, stanca e afflitta, decise di aprire lo scrigno per recuperare un poco della bellezza che aveva perduto affrontando tutte quelle ardue imprese, ma nello scrigno non vi era ciò che si aspettava, bensì il terribile sonno dello Stige.
Psiche cadde in un sonno profondo, e non si sarebbe più ridestata, se solo Cupido non avesse avuto pietà di lei. Colpito dalle prove che aveva affrontato pur di ritrovarlo, comprese che il suo amore era sincero e le offrì dell'ambrosia, il nettare degli dèi, rendendola immortale.
I greci sono famosi per la loro capacità di trasporre il pensiero sotto forma di immagini, infatti questo mito ha un significato molto profondo: l’amore è un sentimento ammantato di mistero, e colui che cerca di analizzarlo e imbrigliarlo entro i lacci della razionalità, finirà solo con il farlo volare via.
Alla favola si è ispirato Antonio Canova nella creazione del gruppo scultoreo"Amore e Psiche
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ANDREA BRANZI_CIVILIZATIONS WITHOUT JEWELS HAVE NEVER EXISTED
La figura di Andrea Branzi è piuttosto originale : architetto, designer, studioso, animatore culturale è stato tutto questo o forse niente di tutto questo specificatamente, ma certamente la sua carismatica figura ha lasciato un originalissimo e indelebile segno nel mondo delle arti visive. Mi piace ricordarlo anche come curatore di mostre e, di una tra le più particolari per concezione che mi sia capitato di visitare in Italia e fuori d’Italia, ovvero “Neo Preistoria. 100 verbi”, tenutasi alla Triennale di Milano nella primavera del 2016 (con Kenya Hara): un’esposizione di oggetti di autori anonimi che hanno fatto la storia dell’umanità. Branzi fu anche “compasso d’oro” alla carriera nel 1987, ma certamente più che un designer, penso sia stato un poeta degli oggetti (creati da lui o da altri poco importa). La piccola, ma puntuale mostra di 10 Corso Como Gallery, intitolata “Civilizations without jewels have never existed”, merita certamente una visita. Non ci sarebbe civiltà senza gioielli: questo presupposto pone l’attenzione sulla dimensione antropologica della vita e sui suoi valori segreti e immateriali di cui il gioiello, nel suo significato culturale e simbolico, è ancora portatore. E i gioielli di Andrea Branzi sono davvero inconsueti, ma soprattutto hanno qualcosa di ancestrale, legato ad un mistero “essenziale” e non al semplice capriccio del suo creatore. Mi torna in mente un trucco dei vecchi lupi di mare per vedere nel buio della notte, ovvero quello di non guardare avanti mentre si naviga, ma di fissare un punto nel vuoto leggermente laterale e ciò permette di intuire visivamente quello che sta loro di fronte. Nello stesso modo, per interiorizzare la bellezza di questi gioielli, questi si possono contemporaneamente anche ammirare nelle fotografie di Malou Swinnen che accompagnano (e commentano) l’oggetto, in particolare quelli della serie “Silver & Gold”. Inutile nascondere che nella ricerca dell’artista c’è qui, ma anche nelle altre produzioni di oggetti e arredi, una rottura decisa con quella teoria del disegno razionalista che discende in via diretta dalla Bauhaus: ghirlande d'oro e d'argento, corone e collane scintillanti sono i gioielli che ornano il corpo umano in un paesaggio, esaltandone l'aura con foglie ed elementi naturali e sottolineando la dimensione mistica dell'ornamento, nel suo significato primordiale di mezzo per avvicinare l'uomo al divino e che appartiene più alla cultura antropologica che a quella orafa. Lo stesso discorso vale per gli oggetti ibridi della serie Wood and Stones del 1995, che si modellano in forme archetipiche delle arti applicate in Silver and Wood del 1996, con i bizzarri servizi da té divenuti ben presto pezzi da museo. Presenti in mostra anche poltroncine e sedie della celebre serie di sedute Domestic Animals degli anni 1983-85. Tra gli oggetti in scala monumentale, le opere “Trees & Stones” presentate nel 2012 a New York nell'omonima mostra alla Friedman Benda Gallery, tra cui è qui esposta Stones 2A, tronchi e pietre, nella loro unicità di oggetti naturali. Molto spesso è lo sguardo contemplativo dell’artista a creare oggetti d’arte che hanno già lo statuto di oggetti, ma che vengono elevati ad opere vere e proprie , grazie alla intenzionalità dell’artista stesso che sembra indicarceli. Su scala urbana, Branzi studia il rapporto tra arti applicate e città fin dalla fine degli anni Settanta, e quindi dobbiamo ricordare il “Grande Vaso” a Gand del 1999 del quale è presentata qui una versione piuttosto grande, costituita da due vasi di colore blu e giallo, basati su un gioco di corrispondenze e scale diverse. In “Domestic Animals” del 1983-1985 Branzi gioca con la smaterializzazione degli spazi cittadini, dimostrando un certo eclettismo. Una mostra di un artista affascinante e multiforme ed assolutamente fuori dagli schemi. Da tutti gli schemi.
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Prospettiva di notte, #47
Mancava la notte, in questo mosaico di piccoli tormenti, di occasioni speciali lasciate a maturare - e poi a macerare, incolte. Mancava la spina dolce della nostalgia di una vita che, in tutta onestà, oramai nemmeno ricordo, eppure era già completa di tutto. I miei vent’anni che sembrava non sarebbero mai potuti essere diversi dai futuri trenta, o mille. La tragedia sottile di una velleità in costruzione che andava dispiegandosi nel cantiere a cielo aperto di certi sogni ubriachi, sogni privati e, lo avrei capito dopo, sogni di tutti. Come vedere il cerchio e respirare l’aria pulita e fredda dell’essere fuori dal coro (coro muto, solerte, ciononostante sterile di canzoni). Come la lucidità misteriosa di conoscere un corpo altero, la magnificenza della rabbia, l’incosciente tenerezza. I ciottoli sulla strada li ho carezzati tutti, erano miei, erano umani, erano disparati: pochissimi fiori sono sbocciati, solo quelli che mi hanno chiesto di ballare con voce ferma ed occhi stropicciati da un qualche dolore. Poi ero soprattutto io, ancora in silenzio: lo specchio, il muro screpolato, il bicchiere vuoto, un sipario quasi sempre calato, tantissima notte. La notte non ha più sapore: adesso. Il sale è diluito da una pioggia impercettibile, l’umidità dell’aria. Quando penso, oggi, penso pensieri sintetici privi di scadenza organica, sono sempre lucida ossia priva di alcun mistero: ad annientarmi la notte non più l’irriducibile distanza tra pensiero e azione (tra il silenzio ed il coro), piuttosto una folla di si deve, un parlamento di corvi in attesa del proprio tavolo, formula business e poi si torna ciascuno alla propria giusta occupazione. Quello che varrebbe la pena di essere, mi sembra, è invece questo: affascinata, intensa, e giovane.
Ma quale silenzio, quale canto, quale fascino e destino? Qui la pioggia cade anche se non ti bagna. Siamo una lotta impari, perduta in partenza. Siamo la schiera dei momenti goduti e poi perduti, siamo tutti. Siamo il coro che conosce la vicenda e ancora dal cerchio la osserva, l’occhio di chi partecipa al mondo, il braccio che si alza e poi si abbassa nel fare quotidiano. Il becco tagliente, che conosce e riserva giudizi, l’azione collettiva che arriva con la violenza della normalità. Siamo la strada quando non sai di camminarla, alla notte ti ritiri, da noi poi ritorni - e con noi, alla fine, canti.
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