#no ma ora mi si spegne anche il telefono
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sali, quelli che a breve mi serviranno per riprendermi
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Monday what else?
7:15 gatto rompi palle, 7:30 sveglia del telefono della mia compagna che però spegne il tel e torna a dormire, ma io ho perso il sonno e quindi mi alzo e preparo il caffè. Alle 8 lei viene in cucina e mi comunica che dovrei spostare il carrello, ieri hanno portato il legno, allora mi prendo di coraggio mi butto su giubbotto, cappello e guanti e sposto sto trabiccolo, fuori c'è 1° scarso, la brina è congelata sull'auto, nell'erba del giardino e sulle foglie degli alberi, le nuvole si muovo veloci e minacciano sorridenti, sembrano dire "Preparati che nevicherà presto", lo sapevo già perché quando l'estate è inesistente l'inverno arriva prima. In tutto questo apro il pc e guardo le notizie, tutti a puntare il dito contro Hamas e i palestinesi dopo l'attacco di un paio di giorni fa, mentre per più di 70 anni israele ha massacrato i palestinesi e nessuno dice niente di quella invasione illegale, poliziotti che picchiano e arrestano bambini di 10 anni basterebbe questo per mandarli all'inferno, ma non è questo il discorso che voglio fare oggi, questo schifo è colpa dei soliti noti. Passo quindi sui social irritato vedo che su FB molti parlano della stessa cosa, che palle, poi vedo un post di un contatto, un musicista anche lui one-man band ma più verso il punk, allora apro il link e WOW un documentario sulla scena Punk a China town, dura quasi un'ora ma si dai, adoro i documentari musicali dove ci sono le interviste alle persone che erano li in quel momento, a quelli che hanno creato qualcosa che è restato indelebile nella storia della musica, ma posto il link in fondo così potete constatare voi stessi se avete tempo (naturalmente è in inglese). Adoro il Punk perché come genere ha dato una scossa al mondo, l'ultimo vero movimento cultural-musicale poi il vuoto, lo so molti dicono che il grunge è stato il punk degli anni 80/90 ma anche no, i motivi sono vari, a differenza del punk che si diffuse a macchia d'olio nell'occidente come genere rivoluzionario e di protesta contro il sistema, il punk diede inizio anche al DIY (do it yourself, oramai un must) perché molti musicisti di quel periodo non avevano l'educazione musicale di quelli precedenti, se si pensa che il punk ha ucciso il progressive rock si capisce perfettamente che la tendenza dei super musicisti era finita anche se non del tutto. Ma il punk era politicamente scorretto, ma non solo per gli attacchi diretti al sistema, democratico o monarchico, ma anche a livello sociale i ragazzi erano visibilmente anticonformisti e al dire dei conformisti vestiti in modo terribile, certo è bello essere vestiti come un manichino dei grandi magazzini e tutti uguali eh? Ma c'è molto di più dietro il punk, c'è la ribellione di una generazione a cui i dogmi di una società non solo stanno stretti ma non piacciono, se si pensa che è nato negli stati uniti e non in UK come si pensa con i Sex Pistols che quando iniziarono la loro carriera i Ramones erano già al terzo album, c'era il malcontento di quella porzione di popolazione giovane che non gradiva l'omologazione, il conformismo, il 9to5 (lavoro d'ufficio) e tutto quello che la società americana imponeva se si voleva fare una vita agiata e senza problemi, un pò quello che abbiamo ora in tutto il nostro bel mondo marrone occidentale, solo che in quel periodo, più o meno dalla metà degli anni 70, le voci che contrastavano il sistema erano un numero alto e gridavano forte anche e soprattutto attraverso la musica, quindi il punk come il rock'n'roll negli anni 50 era uno stile di vita e non soltanto un genere musicale. Sappiamo che ci sono band punk in ogni decade, che hanno raggiunto un successo mainstream intendo, ma essendo appunto famosi il genere si è come dire ammorbidito o adattato alle esigenze di giovani ribelli ma non troppo, di quelli che dicono "Si ascoltavo punk ma poi sono cresciuto", l'ho sentito anche del rock, del metal e di tutti quei generi che oramai sono così smussati che spesso mi sembra di vedere i manichini dei grandi magazzini suonare.
Non dico che oramai la musica ribelle è stata rabbonita dal sistema per evitare ribellioni dei giovani perché risulterei complottista, ma è così, lo sdoganamento e i dogmi hanno fatto si che la musica nel tempo ha perso la sua forza rivoluzionaria, forse nei paesi in via di sviluppo è ancora viva quella scintilla che da ai giovani la forza di andare contro il potere, mentre nel nostro occidente civilizzato chi fa musica vuole solo guadagnare soldi, non tutti come giusto che sia, ma se parli con un giovane musicista difficilmente ti dirà "Faccio punk perché odio il sistema e lo combatto". I tempi sono cambiati e anche il sistema è cambiato, bisognerebbe ribellarsi e gridare comunque NO FUTURE, ma dovrebbero essere i giovani non io che ho quasi 51 anni, ma han trovato il sistema per evitare di essere criticati aspramente, inutile che vi dica quale lo sapete. Con questo non voglio dire che tutti i giovani sono amminchiati e non si ribellano ad un sistema che per com'è sta distruggendo il mondo, ma se ne guardano bene dal disobbedire perché sanno che gli verrebbe negato lo status di "brava persona", personalmente me ne fotto dello status di normale, visto che la normalità è stata inventata da persone prive di fantasia (Alda Merini). Potrei continuare a libitum sul sistema sul fatto che non ci si ribella ecc ecc, ma tanto è solo un discorso come un altro oramai, giusto per iniziare la settimana bene dai 😁
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28 giu 2023 11:24
“NON HO ANCORA DIGERITO IL PALLONE D’ORO A RIVERA” – VITA, GOL, ROSICATE E RIMPIANTI DI GIGI RIVA: "LE AMMIRATRICI HANNO FATTO DELLE FOLLIE PER ME, COSE CHE NON ERANO NORMALI" – IL NO AL MILIARDO DELLA JUVE, HOF, IL "BOIA DEL PRATER" CHE GLI SPEZZÒ UNA GAMBA NEL 1970 (“L’HO PERDONATO MA POTEVA EVITARE QUELL’ENTRATA” ), LA DEPRESSIONE E IL DOCUFILM SU SKY IN CUI VIENE RACCONTATO L’INCONTRO CON DE ANDRÈ: “A CASA SUA, BRINDAMMO CON UN PO’ DI WHISKY, VINCENDO ENTRAMBI LA TIMIDEZZA” - VIDEO -
Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il Corriere della Sera
Ha sentito Ranieri?
«Gli ho telefonato prima della partita con il Bari. Mi raccomando, gli ho detto, guarda che tutta l’Isola è a tuo favore. Lui era un po’ commosso e un po’ teso per la gara».
Cinquanta minuti al telefono con Gigi Riva sono quasi un miracolo. Per certo un regalo della leggenda del Cagliari, l’uomo che ha riscattato un intero popolo con il suo tiro mancino, portando in Sardegna l’unico scudetto della storia. Era il 12 aprile del 1970 e sul campo dell’Amsicora Rombo di Tuono infilava con Bobo Gori i due gol della vittoria allo stesso club contro il quale i rossoblù di Claudio Ranieri hanno appena riconquistato la Serie A. Spegne la televisione, si mette comodo sulla poltrona, giura che non sta fumando nessuna sigaretta: «Le ho già fumate prima, ma non chiedermi quante perché mi vergogno».
Il suo ricordo più bello?
«Beh, lo scudetto. Avevamo festeggiato con tutta la squadra. Gli scapoli vivevano insieme in una foresteria e i tifosi venivano anche di notte a tenerci svegli».
(…)
De André è stato la sua colonna sonora. Ha mai visto un suo concerto?
«Sì, una volta, ma non l’ho aspettato alla fine perché dovevo prendere l’aereo. Ero già stato a casa sua, avevamo brindato con un bel po’ di whisky, vincendo entrambi la timidezza».
Nel docufilm che da ieri sta trasmettendo Sky, «Nel nostro cielo un rombo di tuono», c’è una scena in cui voi due siete di spalle. Per coglierne tutta la dolcezza bisogna aspettare i titoli di coda.
«Lo so... Anche se devo dire la verità: il film l’ho visto solo all’anteprima e ho una gran confusione in testa, ero emozionatissimo. Devo rivederlo da solo in casa con calma».
È riservatissimo: come ha ceduto a Riccardo Milani, che ha firmato la pellicola?
«Ma infatti la prima volta che mi ha mandato a dire che voleva fare un film su di me non ho detto sì. Poi è venuto lo stesso a trovarmi, mi ha spiegato cosa intendeva fare ed era una bella storia. È stato molto corretto sia con la Sardegna, perché la ama anche lui, sia con noi giocatori».
Oggi quale squadra le piace?
«Non seguo più il calcio. Cagliari a parte, mi piace solo la Nazionale: ora, dopo il buio, si è rimessa a posto».
Le sue partite più belle?
«Le partite importanti erano quelle di campionato contro Juventus, Milan e Inter: quando le battevi era una bella soddisfazione».
Tutti la volevano e lei, testardo, non ha ceduto nemmeno al miliardo offerto dalla Juve.
Ride. «Quando Arrica, il mio presidente, scoprì che non andavo, non fu contento per niente. Ma non sono testone: io ero una persona chiusa, avevo avuto un’infanzia tragica, i miei genitori erano mancati presto. Poi sono venuto a Cagliari e abbiamo costruito una gran bella cosa: lo scudetto era il sogno di ogni squadra».
Lo avete realizzato con Manlio Scopigno.
«È stato un maestro, un fratello maggiore: mi ha insegnato a vivere. Mi diceva: perché ti incavoli? Vieni, risolvi il problema. Lo sogno ancora».
E i suoi genitori li sogna?
«Sì, anche se so già che è impossibile ritrovarli in casa il giorno dopo e mi devo rassegnare. Mi spiace solo di non aver dato loro niente delle soddisfazioni che mi sono tolto io, non ho potuto farli partecipare, non hanno vissuto quel periodo, anni meravigliosi. È un vero dispiacere».
Come va con Gianna, la mamma dei suoi figli Nicola e Mauro?
«Bene. Mi viene a trovare tutti i giorni. Era un nostro desiderio: per me è un punto di riferimento».
Chi altro riceve in casa?
«Qualche compagno di squadra di allora e tutti gli amici importanti. Organizziamo delle cenette qui, cucino io le bistecche, mi piace rigirarle e portarle a tavola».
(...)
Ha perdonato Norbert Hof, il «boia del Prater» che le spezzò una gamba durante Italia-Austria nel 1970?
«Ma sì, l’ho perdonato. Certo, poteva evitare quell’entrata. Però dopo due anni mi sono fratturato un’altra volta e lì mi sono fatto male da solo...».
Ha digerito il Pallone d’oro dato a Rivera e non a lei?
«No, non ancora. Mi era stato promesso che l’anno dopo sarebbe toccato a me e poi invece mi sono fatto male».
Vogliamo parlare delle ammiratrici di allora?
«Aspetto ancora un po’ prima di raccontare le follie che hanno fatto, cose che non erano normali...».
A quale maglia è più affezionato?
«Ne ho di tutti colori, ma per me la maglia più bella resta quella bianca, pulita, senza sponsor, dello scudetto».
Quando torna allo stadio?
«Mai più. Mi piglia l’agitazione. Invece mi devo mettere in testa che la vita è questa».
Pochi mesi fa è scomparso Pelè, due anni prima Maradona: leggende che ha conosciuto. Un giorno lontanissimo giocherete insieme in Paradiso.
«Eh, non so se sarà lontanissimo... La loro morte mi ha fatto effetto. Alla mia età prima di dormire sei un po’ teso al pensiero: non è che la morte sia una grande cosa».
La depressione come va?
«Va e viene. Ma adesso l’ho un po’ superata».
(...)
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Se controlli le informazioni, puoi controllare la maggior parte degli imprevisti.
mood: sollevata. // craving: Monica. // ost: i rumori dell'aeroporto e dei povery come me che aspettano i voli di domani.
Mi mancavano tutti tantissimo prima di partire. Avevo tanta ansia, perché c'erano solo tre treni che facevano al caso mio, che mi avrebbero portata qui, sana e salva.
Ho preso quello più vicino all'orario di imbarco (04:45), cioè quello che mi avrebbe portata all'aeroporto alle 23 e qualcosa, del giorno prima.
Ho guardato su TripAdvisor se era effettivamente possibile sostare tutta la notte.
Quattro anni fa, dicono online, sì. Però meglio farsi trovare prima delle 22, ora di chiusura dell'aeroporto, a eccezione del terminal partenze, aperto H24.
Potevo fidarmi di un vecchio scambio di messaggi pubblici e assumere che ciò che veniva detto valesse anche ora in epoca Covid? Siete molto ottimisti, se pensate di no.
Cambio prenotazione e scelgo il primo treno della sera, che mi avrebbe portata qui alle 21:05.
Arriviamo comunque a qualche ora prima della partenza: tampone ancora da fare, valigie sfatte, nessuna bilancia in casa, fogli importanti da stampare, carta da caricare...
Alle 19:15 avevo appena terminato di fare gli zainetti (7 kg in tutto, alla faccia vostra, compagnie aeree & sfruttamenti).
Il treno + navetta aeroportuale previsti per le 19:58.
Ma né mamma, né soprattutto io, ci muoviamo.
Abbiamo parlato poco, litigato tanto e ci manchiamo già, io lo manifesto, lei meno.
Resto con lei e i gatti fino alle 20:15. Mangio in quel quarto d'ora fra le otto e le otto e un quarto.
Partenza prevista, a piedi, per le 20:15. Usciamo alle 20:30.
Torniamo indietro, lei ripone la bici (e sottolinea a caso che sono lenta, a nemmeno tre metri dal cancello di casa, con le scarpe che mi stritolano i piedi, kekzzvuoiii), prende le chiavi del furgone, saluto Elliot per "l'ultima volta" e partiamo.
In stazione siamo stranamente puntuali - stranamente, perché nessuna delle due è capace di controllare il tempo. Possiamo instradarci anche con ore d'anticipo, il modo per entrare in una dimensione spazio temporale solamente nostra, lo troviamo comunque.
Ho le lacrime agli occhi. Sta anche per vendere la macchina. Sta per cominciare il trasloco verso la nostra vera casa (per ora), senza di me.
Mi manca già tanto, glielo dico, lei guarda il cielo, come per dire "🤦".
Entriamo in stazione, scendiamo e saliamo usando le scale e ler una volta non l'ascensore coi valigioni pieni di vita, con calma, cosa che non accadeva da un anno.
E poi, boh, aspettiamo quella decina di minuti su un binario ormai fin troppo familiare, in una stazione che ormai è casa essa stessa.
E quei minuti sembrano non passare mai, non sappiamo che dirci, non riesco a calmare l'ansia del non sapere se mi faranno la multa (NB: coi regionali e i regionali veloci, non dovrebbero, mai, perché dovrebbe fare fede la prova d'acquisto, nei casi di ritardi, ecc. Così mi avevano detto, il giorno in cui dovevo assolutamente partire per Firenze e ho quasi fatto venire un attacco di cuore allo Shōgun, cioè alla genitrice, perché avevo perso il treno all'alba, primo di tante altre coincidenze ecc. Ecc.).
E poi, pensavo, avendo due biglietti (di cui uno non più valido, ma chi se ne, uno che avevo volutamente perso e l'altro che avevo volutamente ignorato, e trovandomi su "quello di mezzo" tra le due fasce orarie, avrei dovuto considerarmi "in ritardo" o "in anticipo"?
Il treno arriva e parte quando sono ancora faccia a faccia con mamma, io dentro, in piedi, nel corridoio e lei fuori, sulla banchina.
Il macchinista non aspetta nemmeno un po' e le porte scorrevoli si incontrano a metà, chiudendosi sull'immagine di mamma con gli occhi pieni di lacrime che non verserà perché almeno io posso partire ed esplorare un'altra piccola parte di mondo.
A lei, chissà quando toccherà. Chissà quando potrà permettersi di dire ad alta voce e con orgoglio "vado in ferie"?
Durante il viaggio in treno, mi scrivo con Monica e Abigail. A Moni, racconto il programma della serata, le mie ansie e le mie preoccupazioni, lei mi rassicura e dice che, in ogni caso, dovessi trovare l'aeroporto inagibile, la notte resterà (forse) sveglia a studiare. Mi basta, scherziamo un po', poi cerco di collegare il telefono alle prese del treno: non funzionano le mie e non funzionano quelle delle mie vicine tedesche.
"Vbb, tanto, ho il telefono di ricambio".
Il mio non va quasi più, ma mi ostino a usarlo. Lo sanno tutti e tutti si chiedono il perché.
Perché mi affeziono. Con poca cura, ma mi affeziono.
E poi, detesto gli sprechi.
Arrivo in stazione a Verona Porta Nuova con il cuore che batte ancora un po' perché non è passato alcun controllore.
Sono capace di mantenere questo stato d'animo irrequieto e inquieto anche quando ho perfettamente ragione perché non si ha mai perfettamente ragione.
Il mio cervello è così, non si spegne mai, è sempre in allerta, pronto a esaminare insieme una quantità esagerata e al limite dell'ossessivo, qualunque informazione.
Spero di fare presto quell'esame per l'ADHD, parte seconda di un capitolo infinito.
Esco nel piazzale insieme a una marea di altra gente, perlopiù tedeschi, e noto subito il tabellone gigantesco degli autobus.
"199".
È alla mia destra, poco più distante.
Ad accogliermi, un autista annoiato, che vorrebbe solo staccare dal turno e farsi i cavoli suoi. È gentile, comunque, a modo suo perché chiarisce in modo molto laconico e netto i miei dubbi sul nascere.
Partiamo, in due (l'autista e io), in un autobus ENORME e deserto.
Arriviamo all'aeroporto dopo una quindicina di minuti, proprio come indicato nell'orario.
Scendo, di fronte al terminal arrivi, e ricordandomi la mappa della stazione, mi dirigo alla mia sinistra.
Insicura e pigra come sono, finisco comunque col domandare, balbettando, se la direzione che ho preso è giusta e le guardie mi dicono di sì.
Ed ora, eccomi qui.
Accanto a me, si è seduta una combriccola di ragazzi, chissà se condivideremo anche lo stesso aereo?
Ormai non è nemmeno più il 3, direi che sta andando bene. Però non ho ancora scattato nessuna foto e sinceramente ha proprio bisogno di quella cioccolatMilka.
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Finito il massaggio, continuiamo a parlare. Lei è più tranquilla, più rilassata. Io sono evidentemente stanco dopo 10 gg di lavoro continuo, e comincio a cedere; metto la testa sul cuscino, sul suo cuscino. Lei si mette di fianco a me, e sento di nuovo il suo odore sottile e morbido, vicino. Continuiamo a parlare. Lei è lì di fianco a me, io quasi dormo. Le prendo la mano, le abbraccio il ventre, mentre la ascolto parlare; lei si lascia abbracciare. Parliamo avvinghiati come vecchi amici, come Jules e Jim, e Catherine, come due amanti che non si vedono da anni, come due fratellini di 10 anni. Non so perché, io ho voglia di abbracciarla, sarà quel suo odore così seducente, o la stanchezza, o l’atmosfera che si è creata. Dopo alcuni lunghi minuti, controllo l’ora. Lei mi guarda e mi dice: “Vuoi rimanere qua a dormire?” “Be’.. magari se sto qua solo per un po’ e poi vado; devo passare da casa per forza prima di tornare al lavoro” “E’ che non riesco a dormire, se tu stessi qua finché non mi addormento.... Puoi lasciare la porta aperta quando vai” “Va bene.” Le sorrido. Stiamo lì sul letto vestiti, abbracciati, stretti. Riconosco la differenza tra un abbraccio e quel cercarsi reciproco, fatto di affinità istintive tra due persone. Spegne la luce, io la abbraccio da dietro la schiena; lei mi prende la mano sinistra e la tiene, come una bimba. Come un’amante. Io cerco il suo seno, lei mi sposta la mano “Non voglio… sono stanca” Ma tiene la mia mano stretta a sé, vicino al seno, come si stringe il corpo di un gatto, o di un cane nel cuore della notte; e il mio corpo, che nel frattempo comincia a reagire senza chiedermi il permesso, la avvolge. Cerco ancora il suo seno, ma lei si sposta. Poi si addormenta. La mia mano tra le sue, stretta al corpo come un orsacchiotto. Sono un po’ inquieto, perchè non so cosa succede, non sono a casa mia e sono stanco. Mi alzo, sfilo a fatica la mia mano dalle sue braccia, che lei tenta di stringere nel sonno. vado sul balcone per riflettere. Telefono. […] Dopo alcuni minuti torno nel letto. Appena mi siedo, lei assonnata si butta su di me come una ragazzina; mi avvolge con le sue braccia il corpo. “Non te ne andare; non te ne devi andare” “Va bene, ma dovevo andare in bagno" le dico, "dormi ” Lei si riaddormenta. Dormiamo un po’ assieme. Ma dopo una mezzora io mi sveglio ancora. Le cerco di nuovo il petto, le tocco il seno piccolo e fresco; trovo il suo bottone rosa, morbido. Il capezzolo si irrigidisce. Lei non sposta più la mia mano; forse dorme, ma non so. Bagno le mie dita e le tocco il capezzolo, che è sempre più intenso e rigido. Non capisco se dorme, o se finge; allora le tocco anche l’altro seno, piccolo e morbido, sta tutto nella mia mano sinistra. Lei si gira verso di me, e mi abbraccia, mi stringe forte. Non capisco se è un modo per dirmi di no, o se è altro. Le tocco il seno morbido e lei si lascia andare, apre il torace alla mia mano. Allungo la mano sul suo ventre; lei è magra, sento il monte di venere, le tocco il pube tra i vestiti. Lei non dice nulla, non mi respinge; allora metto la mia mano sotto il vestito, e sento la sua vagina completamente bagnata. Ora capisco, non sta dormendo, e non è vero che non mi voleva. Sento il sottile strato umido, tra le sue mutande, sento la sua vagina bagnata, piccola, e i peli del pube sottili e setosi; il clitoride piccolo sotto le mie dita. Le metto le dita nella vagina, e li si lascia andare. Allora le cerco la bocca, e lei si lascia baciare. E lì capisco tutto. Bacia in modo passionale, le labbra morbide, la bocca che profuma come un fiore. Erano anni che nessuna donna mi baciava così- Capisco tutto. Non è solo il corpo. Non è solamente sola. La sua bocca è un fiore, la sua vagina un crogiolo di umori, l’interno un morbido desiderio che si lascia usare. La desidero. Vorrei fare l’amore con lei. Le tolgo i pantaloni, poi gli slip, e lei si lascia spogliare con passionalità. Voglio baciarle il sesso, quindi scendo verso il suo ventre e comincio a baciarla lì. E… proprio in quel momento, quando sto per entrare dentro di lei, sento la sua voce. “No, per favore...” [...]
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Notte fonda, coperta da felpe e giacche non mie, collant rotti mi fanno venire la pelle d’oca, sento il freddo e la nausea che sale. Ho bevuto troppo, di nuovo. Eyeliner e mascara colano sul mio viso, pulisco con le maniche quello che riesco a vedere attraverso il riflesso sullo schermo spento del mio cellulare. Sono sola, me ne rendo conto dopo, perché sono sola? Dove sono tutti?. Bottiglie vuote ed altre mezze piene di fianco a me, non ricordo cosa stavo facendo. Perché mi trovo qua? Non riesco a collegare i pochi ricordi che mi attraversano la testa. Passa la nausea ma sale l’ansia. Metto a fuoco la situazione e riconosco il verde che mi circonda, il parco, mi sento più sicura ora. Mi alzo in piedi e tiro su il cappuccio della felpa, fa freddo cazzo. Una bottiglia di vodka mischiata a qualcos’altro mi sembra l’unica cosa positiva in questo momento, la prendo e butto già un sorso, fa cagare cazzo come faccio a spaccarmi ogni sera bevendo ste cose?. Provo ad accendere il cellulare, dopo vari tentativi ci riesco. Cazzo il pin della sim, dimentico ogni volta di toglierlo, provo a ricordare mentre mando già altri sorsi. Sbaglio alla prima, ma la seconda sembra essere giusta, sblocco il telefono, quante cazzo di persone ho chiamato prima che si spegnesse? Merda. Trovo il tuo numero, non che fosse difficile, ti avrò chiamato 10 volte nel giro di pochi minuti, vado sui messaggi, hai scritto che eri deluso da me e che te n’eri andato. Dio, non riesco a capire, eravamo assieme? Che cazzo ho fatto sta volta?. Provo a chiamarti, ho il 5%. L’ansia di sapere che probabilmente non risponderai si mischia alla speranza che tu possa farlo per poter venire da me. Squilla, cazzo dai rispondi. “oh”, merda hai risposto davvero. “ei, senti non ricordo nulla, sono al parco” silenzio, non dici niente per interi secondi, “non so che dirti, mi hai rotto il cazzo, continua pure a bere”. Colpo al petto, sento la chiamata che si chiude, provo a richiamare, hai bloccato il numero. Mi scende una lacrima, la caccio via e mi siedo su una panchina continuando a bere, ti odio, perché non sei qua con me? Avresti potuto incazzarti appena mi sarei ripresa.. inizio a pensare senza capire un cazzo, mi sta salendo di nuovo l’alcol, vorrei smettere ma non sono mai stata brava a gestirmi ne tantomeno a riconoscere i miei limiti. Bevo, piango, mi si spegne il telefono per completare l’opera. Mi alzo, non so più come cazzo si cammina, mi viene da ridere mentre cerco di seguire la strada asfaltata che circonda il parco, cerco la strada per arrivare in stazione, sono le 5, quanto tempo è passato cristo non capisco più nulla. Guardo il riquadro degli orari del treno, ne arriva uno tra un po’, ho deciso di venire da te, non so se sei a casa, in realtà credo sia un pessimo piano. Scelte sbagliate che completano la descrizione di disastro che ormai fa parte di me. Sta finendo anche l’alcol, butto giù gli ultimi sorsi, tiro fuori una siga, la accendo, le siga da ubriaca hanno un altro sapore, altro valore, non ne avessi probabilmente mi sarei messa a cercare per terra, si lo so, ma l’avrei fatto davvero. Ora ho caldo, fanculo. Arriva il treno, devo fare poche fermate, spero di non trovare il controllore, non sono neanche in grado di capire quello che sto facendo figuriamoci provare a non farmi multare per non avere il biglietto. Salgo, mi siedo appena vedo un posto, guardo fuori dal finestrino, fuori è ancora un po’ buio, inizio a pensare e a piangere, l’alcol non fa per me. Il treno è vuoto e del controllore ho smesso di preoccuparmi. Scendo accorgendomi all’ultimo di essere arrivata alla fermata. Cazzo barcollo, c’è più luce, spero solo di non beccare i tuoi a casa. Arrivo da te dopo una camminata che mi è sembrata infinita nella quale mi sono fermata altrettante infinite volte per fumare e per cercare di non sbagliare strada. Le poche persone in giro mi hanno guardata male, mi sono sentita peggio di quanto già non stessi. Suono il citofono, non risponde nessuno, riprovo, si lo so sto esagerando. Finalmente rispondi, vieni alla porta in pantaloncini senza maglia, non mi guardi neanche in faccia, tieni la porta e mi dici di andare in camera. Non dico una parola, non riesco neanche a controllare il respiro, ti guardo mentre cerco di svestirmi, mi dai una maglia, la metto, sa di te. Per un secondo mi guardi, fai un sorriso, “che capelli”, ti avvicini, “scusa se ti ho lasciata sola”, come se fosse la prima volta che succede, come se fosse solo questa sera ad avermi fatto capire quanto in realtà non conti nulla per te. Continuo a pensare ma non dico nulla, vorrei urlarti addosso che se sono qua è solo perché ho deciso di venire senza che nessuno mi dicesse nulla, vorrei piangere e picchiarti per provare a farti capire quanto tutto questo non abbia senso, ma poi mi rendo conto che è stata una mia scelta venire, che non ti sei preoccupato minimamente ne di lasciarmi sola tutta la notte ubriaca fradicia in lacrime, ne di dirmi qualcosa quando ti ho chiamato un paio d’ore prima. Mi hai chiesto scusa.. come pensi che possa servire a qualcosa..? e perché me lo faccio andare bene? perché sono qua cazzo non dovevo venire, mi sta scendendo l’alcol. Ti guardo ma tu non capisci, l’unica cosa che riesci a fare è chiedermi una sigaretta, ho l’ultima e te la do. Inizi a fumare prendendo in mano il telefono, mi ignori. Resto nuovamente sola con me stessa, anche se ti ho di fianco, anche se probabilmente l’unica persona davvero sola tra noi, sei tu. Mi rivesto, non mi sento a mio agio qua, sono stanca cazzo vorrei dormire ma non ha senso.. Mi guardi, “che cazzo fai?”, “nulla me ne vado, ho sbagliato a venire qua”. Non aggiungi altro, mi lasci andare. Sento la porta chiudersi alle mie spalle, non voglio pensare più a tutto questo, scendono lacrime, mi copro più che riesco e sola con i miei pensieri inizio a camminare. Una delle tante storie che ho vissuto finite con me in queste condizioni, una delle tante volte in cui niente di ciò che faccio serve a qualcosa. Guardo il cielo, mi perdo nel silenzio, smetto di capire, di capirmi. Continuo a camminare senza voltarmi. Dubbi, delusioni, brividi. Non esistiamo più ma soprattutto non esisto più io.
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A novembre già nessuno gioca più nel campetto dietro al supermercato, l’erba è di nuovo a chiazze e qualcuno ha portato via le reti dalle porte, pronti a rimontarle con l’arrivo della bella stagione. Non è neanche il freddo, a dir la verità, a scoraggiare i ragazzi che ogni estate si radunano in quella macchia verde, ché negli ultimi anni il tempo è diventato via via più clemente e giornate di grosse nuvole innocue ed umidità hanno sostituito le lunghe ore di pioggia della sua infanzia,.
È forse solo una sorta di rito di passaggio che porta tutta al gioventù di quel buco di mondo a transumare verso il campetto coperto in cima alla collina non appena si supera il quindici ottobre, una piccola tradizione che porta il bar della palestra accanto al campetto coperto a fare affari d’oro sei mesi l’anno.
Infila le mani nelle tasche del giacchetto e salta un po’ sul posto, non tanto per scaldarsi quanto più per svegliarsi, i libri nello zaino che si muovono su è giù contro la sua schiena e le chiavi di casa che suonano nella tasca della tuta.
Di Antonio ancora nessuna traccia, constata, dando un’occhiata all’orologio a cui deve decidersi a cambiare il cinturino - è un regalo di suo zio e gli costa fatica pensare che potrebbe non essere più com’era quando glielo ha regalato cinque anni prima, ognuno ha i suoi problemi
Può darsi che quello di Antonio sia, un po’ come al solito, il tizio delle ripetizioni di matematica che non lo lascia andare e che poi pretende anche di farsi pagare le mezz’ore in più che lui si prende senza che nessuno glielo chieda.
«Dovresti cambiare tizio delle ripetizioni.» è il modo in cui si salutano ogni giovedì intorno alle cinque e mezzo, quando finalmente Simone lascia andare il suo amico e possono farsi due tiri in porta senza che nessuno si metta tra il pallone e la cornice di ferro.
«In paese c’è solo lui, io non mi faccio venti minuti di autobus per sentirmi dire che so fare le cose e poi prendere tre e mezzo ai compiti.» è la risposta di Antonio mentre appoggia lo zaino contro gli scalini di cemento a bordo campo e controlla che il piede non gli faccia troppo male per giocare.
Flavio l’ha conosciuto due estati fa, saltellante su un piede solo, l’altro ingessato e, a suo dire, dolorante, mentre se ne stava seduto su quegli stessi gradini di cemento a guardarli giocare sotto alla calura di un fine agosto stranamente spensierato anche per Giacomo che, per la prima volta, non si era portato a settembre neanche una materia.
Avrebbe scoperto solo a settembre che era il figlio della nuova preside delle scuole medie, che si era rotto il piede trasportando il tapis roulant che sua madre aveva comprato, e che abitava nell’appartamento proprio accanto a quello di Gabriele - il quale, dal canto suo, non l’aveva visto che due volte perché passava la maggior parte delle sue giornate a casa di Flavio.
Quell’agosto di un anno fa Antonio era una persona diversa: più silenzioso, quasi imbronciato, troppo preso dal suo telefonino per essere al cento percento dentro alle conversazioni.
«Sto avendo un po’ di problemi con una persona che ho lasciato giù.» aveva ammesso, mesi dopo, lanciando il telefono sul divano di casa di Giacomo mentre tutto il resto della ciurma è nella stanza accanto a torturare il microfono di un Canta Tu ad un volume improponibile, il festeggiato che urla più degli altri, qualcuno che va fuori tempo.
«Hai lasciato la spasimante a Napoli e questa ancora pressa?» s’era sentito in dovere di chiedere, con aria da gran rubacuori, da Dottor Stranamore che se ne intende di storie e sentimenti e poi non ha mai avuto una ragazza come si deve.
Ricorda ancora il modo in cui aveva arricciato le labbra, quasi infastidito, prima di annuire e rispondere con un vago «Sì, una cosa del genere.» che lo aveva poi portato ad alzarsi con la scusa di andare ad unirsi al coro stonato in sala da pranzo.
Di quella serata ricorda solo la forza di volontà che gli era servita per non provare a vedere il nome della tizia ossessionata da quello che stava, lentamente, diventando il suo amico e lo strisciante senso di invidia che gli aveva fatto prudere le mani e lo aveva portato ad andarsene che non era neanche mezzanotte e senza aver mangiato la torta di mamma Silvia.
C’erano voluti mesi interi per capire che quell’invidia, che avrebbe dovuto in realtà chiamare gelosia ma certo non sta qui a formalizzarsi sui termini, non era minimamente legata al fatto che Antonio avesse una ragazza e lui no.
Anche perché poi era arrivata Francesca, e qualsiasi cosa loro due abbiano insieme, e quella brutta sensazione ogni volta che Antonio si eclissa per rispondere al telefono non la riesce comunque a superare.
Torna a sedersi sui gradini di cemento, le mani ancora ostinatamente in tasca, la coda dell’occhio che registra l’altro avvicinarsi con passo svogliato, addosso la felpa che usa per starsene in panciolle sul divano, nessuno zaino sulle spalle e nessun telefonino stranamente in vista.
«Scusa se ho fatto tardi.» esordisce, scavalcando la rete bassa e già rovinata che dovrebbe fungere da limite invalicabile «È che non mi andava di venire.» continua, senza il suo solito sorriso, tanto che quello sulle labbra di Flavio si era spegne con una velocità disarmante perfino per lui.
«Non eri obbligato.»
«Lo so. Ma se restavo a casa mi spaccavo anche l’altro piede prendendo a calci le cose.» borbotta, salendo un gradino per sedersi dietro di lui, fissando un punto indefinito sullo scheletro di quel palazzo in costruzione da almeno dieci anni.
«Hai intenzione di spaccare qualcosa anche qui? Perché ci sono solo le porte e mi sembrano abbastanza resistenti. Magari dopo il piede ti giochi un braccio.»
Antonio sembra pensarci un attimo, arriccia un angolo della bocca nell’ennesima smorfia del pomeriggio, sembra quasi non gradire la solita dose di umorismo da due soldi che si rifilano a vicenda.
«Nelle prossime due ore hai intenzione di farti vedere molto innamorato di qualcuno per poi dirgli che la distanza uccide il sentimento?» chiede, a bruciapelo, e Flavio si ricorda di aver spento il telefono proprio perché non voleva davvero sentire nessuno in quelle due ore che si prende per lui una volta a settimana, che a fare quello innamorato di qualcuno non c’è ancora mai riuscito e probabilmente mai ci riuscirà
«Non penso.»
«Allora non spacco niente.» ribatte Antonio, con lo stesso tono secco che ha caratterizzato le ultime due settimane e a cui Flavio riesce a far caso solo ora che sono in due, senza il vocione di Gabriele che sovrasta le loro chiacchiere, senza Giacomo che urta cose a caso ed inizia ad imprecare, senza tutti gli altri.
« Se vuoi non dico più niente e ci mettiamo a dare du’ calci. Io in porta e tu tiri. »
« Poi le spese del dentista te le devo pagare io, però. »
« Se riesci a non spaccarmi di nuovo l’incisivo già spaccato facciamo che offro io, lo so che le ragazze ti fanno diventare scemo, bisogna in qualche modo sfogarsi. »
Il «Già, le ragazze…» di Antonio si perde nel ma vaffanculo! che urla mentre gli tira una pallonata intimandogli di borbottare meno e giocare di più. *
Sono seduti ai due lati opposti del tavolo ovale di casa sua, Antonio che continua a sfogliare avanti e indietro il dizionario di latino alla ricerca di quella specifica frase già tradotta.
«È Tacito, no? Io non l’ho mai tradotto davvero Tacito: sta tutto già fatto, che fatico a fare?» ripete ogni dieci minuti, ormai da mezz’ora, continuando a stropicciare la carta sottilissima di cui sono fatte le pagine di quel librone già piuttosto fatiscente.
Più che quello di sua madre, sembra venire direttamente dall’Unità d’Italia.
La maturità è ancora lontana eppure i due giorni consecutivi di sole in un febbraio altrimenti terribile, gli fanno sentire giugno sempre più prossimo e la consapevolezza del loro non aver assolutamente voglia di uscire con un voto di merda ancora più forte. Cicerone starnutisce, acciambellato sulla poltrona, facendoli sussultare e rompendo il silenzio teso che si è creato in quella stanza piena di soprammobili a cui neanche il gatto ha il coraggio di avvicinarsi.
Alza, con non poco imbarazzo, gli occhi su Antonio e nota come abbia spostato gli occhiali un po’ più giù sul naso perché non riesce a trovare una posizione in cui non gli diano fastidio a quel maledetto nervetto sul lato destro; a come stia facendo e disfacendo la stessa frase, il foglio del quaderno quasi consumato a forza di cancellare i segni a matita.
L’ultima volta che si è proposto di aiutarlo, che, per inciso, è stata anche l’ultima volta in cui hanno studiato insieme, risale alla settimana prima delle vacanze di natale, ed è finita così male da spingerli a non provarci più per almeno qualche mese, a lasciar passare le vacanze senza parlarsi.
Se lo ricorda ancora quel pomeriggio, ricorda che si erano chiusi in camera per ordine di sua nonna, troppo presa in una fitta discussione con sua zia per aver voglia di disturbarli con quell’incessante blaterare di parenti morti e figli sposati, che avevano tirato fuori i libri e che, per un discreto numero di minuti, avevano anche tentato effettivamente di studiare. Ricorda poi che avevano cominciato a ridere per una cazzata, e già a partire da qui inizia a dimenticare e non sa dire quale fosse effettivamente la parola che li aveva distratti, che aveva portato ad un discorso che era poi degenerato.
Ricorda bene Antonio che gesticola, tanto e con i suoi soliti gesti ampi, e ad un certo punto aveva perso la concentrazione ed il filo del discorso perché, ad un certo punto, non sono più le mani dell’altro che sta fissando ma la sua bocca.
E la porta chiusa.
Gli occhi che saettavano dall’una all’altra cosa e, no, non capisce come da una versione di latino si sia finiti a parlare di biciclette e telescopi, ma sa che quel pensiero è così semplice e gli ronza in testa da così tanto tempo che un po’ lo blocca e un po’ lo riempie di adrenalina, nello stomaco la stessa sensazione di quando ti fanno battere il rigore decisivo.
Ricorda gli occhi di Antonio che lo avevano inchiodano sulla sua sedia con le rotelline non appena aveva avuto il coraggio di tornare a guardare lui e non le sue labbra, o le sue mani, o la porta della camera chiusa, e ricorda come lo aveva scrutato con aria quasi afflitta.
«Io non so se ho capito quello che vuoi fare » aveva esordito, appoggiando il gomito contro la sedia della cucina che avevano trascinato in camera, continuando a fissarlo anche se con meno sicurezza nonostante la posa disinvolta, lo sguardo di sfida «Però se è quello, tu sappi solo che non è che poi devi invitarmi a cena o cose del genere.»
Erano finiti a baciarsi contro l’armadio a ponte di camera sua, portandosi via con la schiena un poster con la formazione della Roma di un paio d’anni prima, ad un certo punto Antonio aveva dato una capocciata al muro tale da farli fermare, immobili, aspettandosi i passi di sua nonna lungo il corridoio, ricominciando a respirare, o meglio baciarsi, solo dopo averla sentita ridere due stanze più in là.
E per questo ora, con gli esami di maturità che non sono così vicini ma con lui che fa comunque schifo in matematica e Antonio che ancora, dopo cinque anni di classico, non digerisce il latino, Flavio ha paura di alzare di nuovo lo sguardo e vederlo di nuovo fissarlo con la stessa espressione negli occhi, i pensieri che, ormai da due ore, non vanno che in una sola direzione. Possibilmente una direzione in cui sono entrambi sulla poltrona da cui Cicerone è appena sceso con aria scocciata e riprendono il discorso da dove lo hanno lasciato qualche mese prima, questa volta magari senza gli imprevisti annessi e connessi.
Senza Francesca e la sua sfuriata assolutamente fuori luogo, senza che lui si senta una merda.
«Francesca che dice di questa cosa che sono tornato a studiare da te? Intende venire a mandarmi a fanculo di nuovo davanti a tutti o…?» Antonio posa la matita una volta per tutte, si appoggia al dizionario con aria annoiata.
Ricorda come era arrivata sul piazzale, la sua Seicento nera parcheggiata storta, ed come era scesa senza neanche chiuderla solo per raggiungere Antonio, seduto a fumare su un gradino delle scale antincendio, e davanti a tutta la cricca sputargli uno sprezzante «Vai a fare in culo lontano dalla mia vita.» che alludeva a qualcosa di cui un po’ tutti sembravano ignari, lasciare un libro a Flavio, ed andare via come se niente fosse sgommando sulla discesa che portava alla piazza.
«Boh? Niente? Non gliel’ho detto, mica deve sapere ogni cosa che faccio, mica stiamo insieme.»
«Verso ottobre mi sembravi meno sicuro di questa cosa. »
«Te l’ho già detto che abbiamo rotto non appena se n'è partita per l'università.»
«Sì, me lo hai già detto. Ma mi ha comunque mandato a fanculo davanti a tutti. Cioè, ci è scesa da Bologna per farmi quella scenata?»
Flavio abbassa lo sguardo, sposta un po’ il piede mentre il suo gatto decide che i lacci delle sue scarpe sono esattamente ciò con cui vuole giocare al momento.
«Comunque Gabriele e Giacomo non hanno fatto domande…»
«Mica è detto che non le faranno, però. E in quel caso che dovremmo dirgli?»
Gli dà fastidio il tono di Antonio, così pacato e semplicemente curioso, gli dà fastidio il modo in cui non sa esattamente cosa rispondere e come rispondere - lui ha sempre detto la verità, a dicembre era già tutto finito, non è uno che mette sottosopra la sua esistenza a sei mesi dall'Esame di Stato per niente, senza essersi rosicchiato lo stomaco a suon di rimuginare.
Al contempo, però, sa che Antonio ha ragione.
Lo sente sospirare, chiudere il dizionario, e la mano dell'altro è sulla sua con discrezione, gli dà una pacca perché la apra quel che serve per poterla stringere.
«Io non lo so dove andrò dopo giugno, però.» ammette l'altro, ed ha le sopracciglia un po' inarcate di chi cerca di capire la reazione della persona che ha di fronte.
«Intanto devi riuscire a diplomarti anche sei fai schifo di latino.»
«Io più ti conosco più capisco perché quello di religione ti voleva sospendere in secondo.»
*
Gabriele lo chiama che fuori è ancora notte, sono le quattro ed è l’undici agosto solo da poche ore. Il mondo è ancora lo stesso, il suo gatto sonnecchia sulla sua scrivania e il suo migliore amico è appena diventato padre di una bambina che sarebbe dovuta arrivare tra due settimane è si e presentata all'improvviso.
Come ogni cosa nella vita di Gabriele, anche sua figlia è arrivata cogliendolo di sorpresa e lui, con la resilienza di chi ne ha viste tante e le ha raccontate tutte trasformandole in aneddoto, ha vissuto il tutto con quella calma che agita gli altri.
Ha la voce concitata, probabilmente i capelli legati sulla nuca come ogni volta che è preso in qualcosa e deve pensare lucidamente, e può sentire distintamente i passi che fa mentre, sottovoce, gli dà la lieta novella, gli chiede per favore di dirlo anche a Giacomo e agli altri, risponde “arrivo subito” a qualcuno che gli dice di raggiungerlo appena ha fatto.
Gabriele è il primo a diventare padre, la pancia di Rosa che sembrava crescere con esasperante lentezza, la strana convinzione che il tempo sarebbe rimasto sempre così, immobile, niente sarebbe cambiato: i suoi amici sempre quasi genitori senza mai diventarlo davvero. Un'eterna età adulta senza tutti i doveri che questo comporta.
Si passa una mano sulla faccia per cercare di portarsi via il sonno strofinandosi gli occhi, cerca a tastoni il telefono per scrivere a Giacomo, un messaggio breve a cui sicuramente riceverà subito risposta, e poi a Lorenzo, a Chiara, a Francesca - non ha senso non scriverle in questo caso, si dice, dopotutto Gabriele e Rosa sono ancora amici suoi.
Le spunte blu non tardano ad arrivare, il telefono che vibra di messaggi sulla chat di gruppo che non ha usato per educazione nei confronti di quei pochi fortunati che di notte hanno tempo per dormire.
Vede Lorenzo inviare l’ennesimo vocale che nessuno ascolterà con grande delusione del suo animo narcisista, toglie anche la vibrazione prima di buttare il telefono da qualche parte sul materasso e si ritrova ad avere un solo pensiero in mente: è come l’ultima puntata di Friends e lui è Joey.
Antonio sbadiglia alla sua sinistra, si alza a sedere con il telefono in una mano mentre, con l’altra, tasta il comodino alla ricerca degli occhiali e dell’interruttore dell’abat-jour.
«Se mi sbrigo riesco ad arrivare all’ospedale una decina di minuti prima di te.» e deve fermarsi ogni due parole per sbadigliare, i movimenti rallentati dal sonno mentre scende dal letto e fa per infilarsi i pantaloni che ha appoggiato sul davanzale poche ore prima, cerca con gli occhi le scarpe sotto al letto.
È tornato da poco nella sua vita, in un giorno qualsiasi ha ricevuto una sua chiamata a cui non ha fatto in tempo a rispondere e l’ha poi ritrovato seduto sotto ad uno degli alberi della passeggiata con un husky al guinzaglio e l’aria annoiata.
«Non vivevi in Spagna, tu?»
Antonio aveva sorriso, annuito con poco entusiasmo, tirando appena il guinzaglio del cane fin troppo preso dall’annusare il nuovo arrivato.
«In teoria sì. In pratica mi è scaduto il contratto ed eccomi di nuovo qui a cercare lavoro a Roma senza vivere a Roma.»
«Se sei tornato per i supplì di Dina devo darti una brutta notizia...»
«Ha chiuso, lo so, me l’ha detto Rosa. Era l’unica a sapere che, sai no?, sarei tornato. Sono atterrato l’altroieri, oggi è la prima volta che esco.»
Flavio aveva annuito, Antonio si era alzato dalla panchina, aveva dato uno sguardo intorno come se stesse ancora prendendo le misure di quel che è cambiato in quel paese da quando l’ha lasciato più di dieci anni prima.
«Mi dispiace per la storia...io e Lucia, tutto il resto» aveva detto, giocando col guinzaglio.
«Non stavamo insieme, potevi fare quel che ti pareva.»
«Non cambia il fatto che mi dispiace.»
Glielo aveva ripetuto ogni giorno negli ultimi dieci mesi. Glielo aveva ripetuto mentre si davano appuntamento “per caso” nel bar vicino al capolinea dell’autobus, mentre andavano da qualche parte in macchina, a cena in quella casa in cui doveva entrare di nascosto per non farsi vedere dai genitori del suo migliore amico.
Ed ora è in piedi dall’altra parte del letto a cerca di sistemarsi i capelli mentre cerca di decidere se la maglietta che sta per indossare sia sua o meno, se ha voglia di sentire lo sguardo di Rosa perforargli la nuca mentre cerca di capire se ha qualcosa da dirgli o se, almeno per questa volta, può passare la mano.
«Statte bono.» ha appena la forza di dire, gli occhi ancora chiusi e la mano stesa ad aspettare quella dell’altro perché torni a stendersi accanto a lui, possa rinunciare a tutto quel teatrino che continuano a montare su da quando hanno ricominciato a frequentarsi dopo la grande crisi del post diploma, quella di cui nessuno sa niente ma di cui tutti erano al corrente
«Dieci minuti e mi alzo, mi sveglio, e andiamo all’ospedale.»
«Si sono rotte le acque anche a te? Devo sbrigarmi? Diventerò padre? Hai avvertito Aniello che avrà un fratellino?»
«Sì, sì per tutto, quindi guidi chiaramente tu.»
«Strada tutti tornanti, sarà divertente, tu ami la mia guida.»
Il telefono continua a vibrare sul letto, la sveglia segna le quattro e venti dell’undici agosto di dodici anni dopo, il campetto dietro al supermercato è stato smantellato e Gabriele è appena diventato padre, Francesca presto sposerà Giacomo e lui sta cercando il modo di capire quando, e soprattutto come, gli ultimi undici anni siano passati lasciandoli immutati in quel che conta, cambiandogli solo i connotati, il colore dei capelli, la taglia dei vestiti.
Per il resto è come avere di nuovo diciassette anni ed aspettarsi sugli scalini di cemento del campetto, pronti a togliersi i segreti dalle tasche e a dire che del futuro si può parlare più tardi. ________________________________________________ Come ogni anno, in ritardo e vagamente spettinata, eccomi con il consueto TANTI AUGURI ANNA !!!! Latito ormai da mesi e lo so, questo è il pensierino che riesco a farti tra una corsa in macchina e l’altra per ringraziarti 1) di esistere 2) di aver creato gli unici personaggi su cui riesco a scrivere in questo brutto periodo della mia vita. BOH, ENJOY, SPERO CHE TI PIACCIA, QUESTO È SEMPRE PARTE DEL GRANDE PIANO (o piano ineffabile) (a te la scelta) @blogitalianissimo ma anche @pomodorotiamo
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AAA consigli Android cercasi
Nonostante al momento il mio fidato Asus Zenfone 3 stia ancora facendo il suo lavoro, sta dando inequivocabili segnali che LA FINE È VICINA.
Cosucce come "oh, la sims non è collegata” che ho navigato fino a 30 secondi prima”, spegnersi a caso, l’app dell’interfaccia che si spegne e riaccende (questo spesso), oggi che ho aperto Whatsapp e mancavano tipo 7 caratteri su 10 in tutti i testi, freeze e lag vari, etc... e poi la Asus carinamente non rilascia aggiornamenti da quasi un anno (strunz).
Di conseguenza è ormai un candidato a “telefono di riserva” (che quello che comprai di riserva non so nemmeno se lo donerei perché sarebbe come voler male alla gente).
Veniamo al dunque. Abbisogno di:
- una marca affidabile. lo so che Xiaomi e varie vanno forte ma con la Asus mi sono trovata bene ed è una marca classica (e poi voglio la garanzia due anni, nessuno mi proponga la Apple che lo massacro male)
- una fotocamera decente. diciamolo chiaramente: se si vuole fare fotografia ci si compra una reflex, ma riuscire a fare foto di un più o meno quasi tutte le condizioni di luce (anche in manuale), non dover usare i filtri di Instagram per rimediare o accendere tutte le luci di casa per permettergli di vederci, sarebbe carino
- spazio base interno non inferiore ai 64gb. si, lo so che esistono le schedine SD, ma se non si ha uno spazio base sempre libero poi non installi più le app. ho imparato questa lezione nella maniera peggiore.
- uno schermo con una risoluzione adatta ai tempi che corrono (HD)
- non superiore ai 6″ (vorrei tanto rimanere sui 5″, ma da una veloce ricerca ho capito che non va più di moda avere le mani piccole).
- buona sopportazione di app di gioco (e di più app aperte) senza mi lagghi o mi dreni la batteria in un’ora
Ora, io sono più che capace di farmi le ricerche su Androidiani e varie da sola, non vi sto chiedendo di farle per me, quel che vi sto chiedendo è:
avete smartphone che rientrano nelle caratteristiche sopra descritte che vi sentireste di giurare, non dico sul vostro gatto, ma almeno sul canarino del vicino?
ah, e meno di 300 euri grazie. se stiamo sotto i 250 pure meglio.
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Mentre le nostre vite rallentano, tutto si spegne, si cancella, si ferma e non ci resta che aspettare, ci sono italiani che stanno correndo e lavorando in maniera più intensa di quanto avessero mai potuto immaginare. Sono i medici e gli infermieri che stanno combattendo il #Coronavirus.
Per raccontarli oggi inizio un viaggio con un numero speciale di #altrestorie che continuerà anche venerdì. Il primo protagonista è Antonio Castelli, qui vi anticipo una parte della sua storia che potete leggere integralmente su www.mariocalabresi.com
«“Antonio, cosa ne pensi?”
“Ne penso il meglio, bellissima vacanza, Praga è meravigliosa”.
“No, Antonio, parlo della notizia”. Resto un momento in silenzio, il tempo esatto in cui mia moglie mi mostra un titolo dal suo cellulare che annuncia i primi casi nel Lodigiano.
“Antonio, è arrivato anche da noi, si fa unità di crisi, vieni subito”».
Sono le 7:40 del mattino di venerdì 21 febbraio quando Antonio Castelli, 56 anni, responsabile della Rianimazione dell’Ospedale “Luigi Sacco” di Milano, riceve la telefonata del direttore della Terapia intensiva del Policlinico, Giacomo Grasselli. Antonio sta guidando, accanto a lui c’è la moglie, cardiochirurga nello stesso ospedale: si sono conosciuti quando studiavano Medicina. Sulla via del ritorno da Praga avevano programmato di fermarsi due giorni in montagna in Austria. Invece si dirigono subito al Brennero. Alle 14 Antonio Castelli arriva nel suo reparto a Milano. Lo trova deserto, completamente svuotato, capisce immediatamente che anni di esercitazioni, simulazioni e studi ora sono diventati realtà. Non è un film. È venuto davvero il momento di tagliarsi la barba, quella barba che portava da più di trent’anni.
«Entro nella mia Rianimazione ed è vuota, tutto abbandonato, non ci sono i malati ma solo il disordine di una fuga improvvisa. Allora vado alla Terza Divisione Infettivi, quella del professor Massimo Galli, dove avevamo organizzato gli spazi per fronteggiare Ebola cinque anni fa. Lì invece c’era il mondo. Nel tempo che io avevo impiegato per arrivare dal Brennero a Milano erano riusciti a svuotate il reparto, a organizzare quattro letti con il biocontenimento per accogliere gli altamente contagiosi e a occuparli con i primi malati arrivati da Codogno. Uno di loro era il cosiddetto paziente due, di soli 42 anni, collegato al paziente uno. Tutto aveva preso una velocità sconosciuta. Il lunedì successivo, il 24 febbraio, i letti in Terapia intensiva erano già diventati undici».
Giovedì 27, appena riaccende il telefono alla fine del turno di notte, viene chiamato nuovamente da Giacomo Grasselli, gli chiede di andare all’Ospedale di Lodi per capire come si possa sostenerli di fronte a un’escalation del coronavirus così massiccia e drammatica. Antonio sale in macchina, non immagina nemmeno lontanamente cosa lo aspetti. «Sono entrato nel Pronto soccorso, era letteralmente stipato di pazienti in gravi difficoltà respiratorie. Erano ovunque e quando dico ovunque intendo che ogni mattonella del pavimento era occupata. Il malato meno grave era una donna che respirava ossigeno puro, alla sua barella era stata appesa una bottiglia d'acqua, un particolare che mi è sembrato un segno di grande sensibilità. Era sovraffollato: 70 uomini e donne tutti insieme che non riuscivano a respirare. Ma non c’era caos, piuttosto un ordine e una dedizione straordinari. Una cosa che ricorderò per tutta la vita».
Il responsabile del Pronto soccorso, Stefano Paglia, era lì da otto giorni, non era mai uscito, comunicava con la moglie e le figlie solo su WhatsApp e dormiva per periodi di due ore tra un��ondata e l’altra. Perché arrivavano due ondate al giorno, dieci-quindici malati alla volta, la mattina presto o al tramonto. Arrivavano le persone che non erano riuscite a dormire la notte, che avevano aspettato l’alba angosciate e con la prima luce si erano decise ad andare all’ospedale o quelle che dopo una giornata di peggioramenti avevano paura del buio che stava per arrivare.
Antonio Castelli incontra tutta la direzione: «Avevano facce stravolte e la sensazione che non fosse compresa la dimensione del problema. Ho detto subito: “Non sono venuto qui per controllare, ma per testimoniare cosa fate”. E allora è giusto che si sappia cosa hanno fatto a Lodi, quando Codogno era già stata chiusa: hanno fatto un lavoro da eroi e non uso questa parola nel modo abusato che va di moda oggi. Sono stati eroi nel senso letterale del termine. Mentre mi raccontavano la situazione mi sono commosso per la capacità di tenuta ed efficienza di quel gruppo di medici e infermieri».
Quella stessa notte dieci malati da Lodi vengono trasferiti al “Sacco”, i più gravi vanno alla Rianimazione dell’Humanitas, che aveva appena messo a disposizione alcuni posti in Terapia intensiva. Quarantotto ore dopo, il sabato, riescono a chiudere per un giorno l’accettazione di Lodi, per far respirare tutto il personale.
Stefano Paglia ed Enrico Storti, che guida i rianimatori di Lodi, creano un metodo di grande buon senso per individuare subito i pazienti Covid-19, un metodo che potremmo chiamare “Lodi”, destinato a fare scuola: «Non si basa sulla febbre, ma sulle difficoltà respiratorie e sulla zona di provenienza – spiega Castelli - su questa base facevano la prima divisione dei pazienti e li mettevano in isolamento. Poi per separare i più gravi dai meno gravi facevano una lastra toracica e misuravano il tasso di saturazione dell’ossigeno nel sangue, dopo averli fatti camminare lungo i 50 metri del corridoio. Così hanno fatto fronte all’emergenza con estrema lucidità già nel cuore di quella notte tra il 20 e il 21 febbraio».
Il pomeriggio di quel 27 febbraio Castelli scrive la sua relazione, paragona Lodi a uno scoglio «che riceve continuamente lo schiaffo dell’onda». È il punto più esposto d’Italia, ma è una zona a bassa densità di popolazione; bisogna circoscrivere il contagio perché, se si allarga, allora si rischia la catastrofe: «Se l’onda supera questo scoglio – scrive - dietro c’è Milano. Non ce lo possiamo permettere».
Lo interrompo. Sono passate due settimane da quel giorno, gli chiedo se l’onda sia arrivata a Milano: «No, non con quella forza. Ma la possibilità che uno tsunami ci travolga è alta. Tutto dipenderà dalla capacità dei cittadini di stare in casa, separati gli uni dagli altri. Io non so cosa stia succedendo nelle strade, ma mi dicono che finalmente la città sia vuota; quando nei giorni scorsi ho visto le foto dei bar sui Navigli, pieni all’ora dell’aperitivo, e la gente a cena nei ristoranti, ho pensato che fosse follia, follia pura. Un’idea distorta e onnipotente che i giovani siano immuni dal contagio»
https://www.mariocalabresi.com/stories/ci-faremo-ricrescere-la-barba/
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Nessuno si salva da solo, dicevano. Tu salvi me, si sono detti.
A @brandyamber e alle sue magnifiche idee, senza di te questa storia non avrebbe mai avuto un finale.
Grazie, grazie mille. ❤
parte uno.
Inspira l’aria fresca che sa di pioggia e erba bagnata, Marco l’aveva portato in montagna. Non che a Ermal dispiaccia, assolutamente, ma preferiva di gran lunga il mare.
Sta sul balcone di legno di quella piccola baita, i gomiti appoggiati alla balaustra e una sigaretta accesa tra l’indice e il medio della mano destra. Aveva ricominciato a fumare per evitare di sentire il nervosismo che gli attanagliava il cuore, per evitare di sentire il tremore incontrollato delle sue mani. Per tenermi occupato si diceva.
L’aria frizzante di settembre era arrivata e aveva rinfrescato l’aria di quella torrida estate, il sole è alto oltre l’orizzonte e irradia la valle con la sua forte luce dorata. Ne è meravigliato. Soffia il fumo verso l’alto osservando i suoi fili grigi salire danzando.
Sente delle braccia stringersi attorno alla sua vita, sobbalza leggermente. Non era più abituato a quel tipo di contatto ed ogni volta che Marco lo sfiorava percepiva un certo disagio farsi strada nel suo cuore. “Hai dormito bene Erm?” sussurra posando il mento sulla sua spalla. Ermal annuisce appena, spegne la sigaretta nel posacenere nelle vicinanze e prende un respiro profondo, si volta verso il ragazzo osservando i suoi lineamenti, i capelli arruffati e il segno del cuscino sulla sua guancia destra. Gli sorride e Ermal può sentirsi meglio, può smettere di tremare nella sua presa. “Ti va di fare colazione?” e Ermal si schiarisce la voce, “Certamente.” ma il suo stomaco si era già chiuso al pensiero di dover per forza sedersi ad un tavolo e mangiare.
Marco era così premuroso nei suoi confronti, sapeva un sacco di lui e dei suoi progetti futuri e Ermal gli aveva aperto il cuore ma non l’anima, l’anima la teneva sotto chiave lontano dagli occhi della gente. Solo Fabrizio l’aveva attraversata, l’aveva vista e sentita, solo lui aveva curato quegli spigoli laceranti.
Fabrizio, non lo vedeva dall’ultima udienza, a fine giugno quando le giornate si erano allungate e il sole ancora non era calato alle otto di sera. Quel pensiero gli attanaglia il cuore ma lo respinge, ora è con Marco. Ora deve sentirsi felice. Gli lascia un bacio a fior di labbra, leggero, fugace osservando poi la reazione dell’altro che, sotto a quel tocco, si illumina. Difficilmente Ermal gli dava un bacio, arido ancora di emozioni e pensieri positivi, e Marco non perde tempo. Fa incontrare di nuovo le loro labbra chiedendo il permesso per poter approfondire il bacio, lo fa passandogli la lingua sui denti bianchi di Ermal, questo freme ma lo lascia fare schiudendo di poco la bocca.
Ma quello che si trova a pensare è altro, se lo immagina. Fabrizio e le sue mani sulla sua schiena o tra i ricci sfatti, sulla pelle nuda e tra le cosce un po’ sudate, i brividi che corrono giù per la spina dorsale e i polmoni che bruciano perché mancava l’aria. Perché i loro baci erano così: passionali e da farsi mancare il respiro, pure negli ultimi mesi dove di amore non ce n’era più e ogni passione era scemata ricercando la carnalità e soddisfazione.
Con Marco, ora, è tutto diverso: c’è dolcezza, c’è voglia di scoprirsi ma Ermal non trova la passione. Lui non è Fabrizio. Lui non è Fabrizio. Quasi si mette a piangere perché quel bastardo non vuole andarsene dalla sua testa, perché lo tormenta ma non può che amarlo, non può che sentire che lui è stato davvero l’uomo della sua vita.
“Ermal, c’è qualcosa che non va?” chiede Marco abbastanza perplesso, l’altro tossisce slegandosi da quell’abbraccio e: “No Marco, la montagna mi mette sonno. Sono ancora stanco.” sussurra ridacchiando.
(...)
Il suo appartamento è inondato di scartoffie, non riesce più a venirne a capo. Ha troppi documenti inutili che non riesce mai a buttare via, ha trovato tra tutta quella confusione la sua pagella della seconda media. Ottimi voti, comportamento eccellente, il primo della classe e sorride un po’ ricacciandola nella cartelletta rossa in cui era custodita. E poi c’è quella cartelletta, quella blu, quella del divorzio. La lettera dell’avvocato spuntava dall’angolo, sulla copertina un post it bianco recita “Lunedì, ore 14.30” e l’ennesimo appuntamento, l’ennesima chiamata e l’ennesima volta in cui avrebbe dovuto vedere Fabrizio.
Troppi pensieri, prende il telecomando accendendo la tv, forse può pensare ad altro. Forse.
Lo schermo si accende sul canale tv di RTL, una speaker bionda saluta e in sottofondo il classico jingle della radio. “Buon pomeriggio Italia, sono le sedici e due minuti e oggi a Roma fa ancora caldo. Tra pochi minuti con noi avremo un ospite, un cantante che da poco sentiamo in radio. Un romano come me, trentacinque anni, mille storie e tanti tatuaggi sulla pelle, lui è Fabrizio Moro.” gli sfugge il telecomando di mano, il cuore batte nel petto e tenta di calmarlo facendo dei profondi respiri. Fabrizio Moro, il suo Fabrizio che gli aveva confidato di voler cambiare cognome se mai avesse dovuto sfondare nel mondo della musica. I Keane cantano Somewhere only we know e non ci può credere, sposta tutte le carte dal divano e si fa un posticino per sedersi, il cellulare stretto tra le mani e il cuore che non accenna a calmarsi.
E quando il videoclip finisce e viene inquadrata la classica sala rossa della radio lo vede. Bello, tanto bello con quel cappello calcato in testa e la camicia di jeans sbottonata, sorride alla speaker con quel velo di tensione negli occhi. Gioca con i bracciali per contenere il nervosismo, nota anche quello di corda nera che gli aveva regalato tempo fa. “Fabrizio ciao, come stai? Tutto bene?” apre la voce squillante della speaker, impacciato bofonchia al microfono aggiustandosi le cuffie: “Tutto bene, tutto a posto.”.
Ermal non vorrebbe seguire quell’intervista, vorrebbe cambiare canale. Non lo fa. Ascolta con un nodo al cuore le battutine che si scambiano, le domande sui suoi sogni e sui mesi chiusi in sala di registrazione per incidere quel disco tanto desiderato. “Ma adesso ascoltiamo un tuo estratto. Sai una cosa Fabrizio, mi sono emozionata la prima volta che ho sentito questa canzone.” Fabrizio ringrazia e sorride, un sorriso amaro per poi: “Sapessi quanto ho pianto io.”. “Ma dimmi un po’, a chi hai pensato mentre scrivevi questo pezzo?” e riconosce quell’espressione, quella che fa quando non vuole rispondere alla domanda, svia rispondendo solamente: “Alla persona più importante della mia vita.” e ad Ermal si mozza il fiato in gola.
La sala rossa scompare e al suo posto trasmettono il videoclip della canzone, Fabrizio seduto su di uno sgabello con una chitarra poggiata sulla coscia. L’ambiente è spoglio, grigio, solo un letto sfatto sulla sinistra e un tavolo con due sedie sulla destra. Su di esso una candela accesa.
Cercare un equilibrio ogni volta che parliamo e fingersi felici di una vita che non è come vogliamo Ermal non regge, ha il telecomando puntato verso la tv e il pollice sulla freccia per cambiare canale. Sono solo parole, le nostre e quante parole si erano detti? Quante promesse si erano fatti? Tante ma mai troppe.
E ora penso che il tempo che ho passato con te ha cambiato per sempre ogni parte di me. “Fabrizio, ti prego.” riesce a sussurrare a denti stretti
Tu sei stanco di tutto e io non so cosa dire, non troviamo il motivo neanche per litigare. “Ne avevamo troppi di motivi, troppi e tu te ne sei andato.” soffia ancora con una punta di rabbia nella voce.
Siamo troppo distanti distanti tra noi ma le sento un po' mie le paure che hai. “Le abbiamo condivise tutte le paure, Fabrizio.”
Vorrei stringerti forte e dirti che non è niente ed Ermal quasi glielo vuole urlare di raggiungerlo e stringerlo forte, vuole gridargli che non sono solo parole e che forse potrebbero aggiustare tutto ma ... piange.
Piange ed era troppo tempo che non lo faceva più, singhiozza scosso da tremori, la testa tra le mani e le lacrime calde che scorrono giù per le guance scarne e arrossate. Spegne la tv con un gesto improvviso, la spegne senza occuparsene poi più di tanto prendendosi la testa tra le mani. Inspira cazzo, inspira comanda a denti stretti, si passa il dorso della mano destra sugli occhi asciugando le lacrime rimaste impigliate tra le lunghe ciglia.
Guarda l’orologio che porta al polso, rimane per due minuti a fissare il televisore spento, nero. La testa che gira in maniera incontrollata, quasi folle, mille pensieri, mille problemi. Ma di una cosa è sicuro, solo una per cui farebbe pazzie. Lancia la cartelletta blu sul tavolo e raggiunge l’appendiabiti, infila il chiodo di pelle e spalanca la porta.
Si è sempre sentito soffocare nel mezzo della folla, non è a suo agio nel mezzo di una quarantina di ragazzi e ragazze fuori dalla sede centrale della radio. Tutti fremevano sperando che il cantante uscisse da un momento all’altro, che passasse per un saluto e un paio di fotografie, Ermal si tiene a debita distanza ed osserva da lontano quella felicità che invadeva gli occhi dei fan che lo attendevano impazienti. Tiene il telefono tra le mani e il numero di Fabrizio già inserito sulla tastiera numerica, trema e sente il cuore battere come un dannato.
“Ragazzi fatevi da parte.” e Ermal fa scattare lo sguardo verso il cancello d’ingresso, un paio di uomini della sicurezza lo tengono aperto e Fabrizio sgattaiola fuori salutando i ragazzi, fa un po’ di foto, abbraccia e firma un paio di copie del suo cd. Il riccio rimane in silenzio osservandolo, le labbra incurvate in un sorriso genuino e gli occhi nocciola che si strizzano quando rideva di gusto.
“Fabrizio.” chiama ma si accorge che fin troppa gente attorno a lui lo sta chiamando, ci riprova alzando la mano nella sua direzione, alza la voce, si sporge ma non gli riserva uno sguardo. “Bizio!” e il tono si fa quasi disperato, urgente, questo alza lo sguardo dal disco che stava firmando, cerca e gli occhi fanno passare ogni singola persona davanti a lui, lo vede alzarsi sulle punte e, disperato, guardarsi attorno finché i loro sguardi non si scontrano e incontrano.
Dura poco perchè lo chiamano insistentemente dalla struttura, ma non lo molla con lo sguardo. Meravigliato, sorpreso, sbigottito e mille altre emozioni si ingarbugliano nello stomaco del riccio. Fabrizio se ne va, ancora il suo numero composto e il dito sul tasto verde. Si sente abbandonato, lì fermo mentre i ragazzi lasciano il posto e, sorridenti, se ne tornano a casa. Sente gli occhi pizzicare e un forte senso di nausea che gli attanaglia lo stomaco e la gola, è ancora solo. Solo come a cena quando Fabrizio stava in studio fino a tardi, solo come quando pioveva a dirotto e lui lo stava aspettando fuori dallo studio del suo avvocato.
“Tu sei Ermal?” e torna al presente, guarda quell’energumeno vestito di nero oltre l’alto cancello. “Mi rispondi o no?”
“Sì sono io.” sputa piccato, gli fa cenno di seguirlo lasciandogli uno spazio per entrare. Ermal stacca il cervello, deve aver chiesto di me. Scivola all’interno della struttura, tra quei corridoi rossi pieni zeppi di foto e firme di personaggi famosi, “Accomodati qua.” e Ermal guarda l’uomo lasciarlo solo in una stanzetta rossa con un paio di divani.
“Ermal?” si gira di scatto, “Cosa ci fai qui?”
“Fabrizio, ascoltami ti prego.” sputa con la sensazione di dovergli delle scuse, con la paura che non lo ascolti e lo molli in quella camera da solo. “Fabri, non sono solo parole, non lo sono.” sputa.
“Sono i gesti, sono le attenzioni che mi hai sempre riservato, sono le innumerevoli ore a tenermi testa e a litigare ma poi fare l’amore. Scusa se ho sbagliato, scusa per ogni capriccio, ma davvero tu hai cambiato ogni parte di me, non voglio essere distante da te, non lo voglio più.” singhiozza.
“Hai- hai sentito la canzone?” si avvicina Fabrizio levandosi il cappello. “L’hai ascoltata?” e Ermal annuisce, fa sì con la testa.
“Scusami.” fa Fabrizio. “Scusami perchè è stata anche colpa mia.” e ancora una volta sono distanti, l’uno dall’altro. Si studiano come due animali in gabbia, da lontano, timorosi di compiere ancora un passo falso. Si cercano con gli occhi, cercando di interpretare le emozioni dell’altro. Farà male il distacco? Farà male tornare a casa stasera con la consapevolezza di essere stato in sua compagnia? Farà male dormire questa notte?
“Ermal, ascoltami. Ricominciamo.”
“Ho paura.” lo interrompe prontamente. “Non devi, non devi più.” e nel tono di voce di Fabrizio c’è un non so che di supplica. “Ho paura che faccia male.” pronunciò Ermal muovendo un passo nella sua direzione.
“Non farà male, non lo farà più.” singhiozza. Poche volte l’ha visto crollare, ma mai come in quel momento. “Te lo prometto Ermal, te lo prometto. Ti amo e non ho mai smesso di farlo, ho sempre avuto paura di perderti finché non è successo davvero.”
Ermal si allunga e intrappola le labbra dell’altro in un bacio che si scioglie sotto il tocco gentile del marito, gli posa le mani sui fianchi alzando di poco la maglietta e toccando la pelle bollente dell’altro. Lo bacia, si baciano con l’aria che brucia nei polmoni, con le mani che si cercano e scorrono lungo tutto il corpo.
“Nessuno si salva da solo.” soffia Ermal sulle labbra morbide di Fabrizio.
“Tu salvi me.” gli risponde.
Spero di essere stata all’altezza, come al solito.
Un abbraccio come al solito.
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Capitolo 52 - Cervi, medagliette e microonde
Nel capitolo precedente: Angie accetta di uscire con Dave. Eddie la cerca ancora al telefono, è costretta a rivelare a Meg cosa è successo a San Diego e cerca di spiegare all’amica il suo punto di vista sulla faccenda e perché lo sta evitando. Grace e Meg hanno pianificato una serata assieme a casa di quest’ultima, per un caso Grace resta sola quando Stone chiama. Gossard si mostra come sempre molto affettuoso con lei, che ne sembra un po’ intimorita. Grace parla al telefono anche con Eddie e, non sapendo nulla del bacio tra lui ed Angie, pensa di scuoterlo un po’ facendolo ingelosire e raccontandogli dell’uscita tra lei e Dave. Eddie la prende malissimo. Grace se ne pente una volta che Meg le rivela a che punto sono davvero Angie ed Eddie. Quando la ragazza torna a casa è costretta dalle amiche a chiamare Vedder e dirgli la verità. Angie si decide, affronta Eddie e svela che Dave ha iniziato a uscire con la bassista delle L7 e che lei lo ha solo accompagnato a un loro concerto, pur di non farlo andare da solo, per evitargli imbarazzi. Eddie allora si scusa con Angie e le confessa quello che prova come mai gli era riuscito prima. Le amiche di Angie sentono tutto, avendola obbligata a usare il vivavoce.
Intensa fragranza usata in profumeria. Sette lettere. Inizia per M. Mughetto! No, sono otto. Mango... Magnolia... Boh? Stranamente sono riuscita a mettere le mani sulla copia del Seattle Times che ogni tanto entra in casa nostra prima che Angie, come al solito, faccia il cruciverba. Ora però mi sa che mi tocca chiedere aiuto alla mia socia, perché sono nella nebbia più totale.
“Allora, ti stavo dicendo, mi presento al tavolo, solito saluto d'ordinanza con sorriso incorporato, chiedo alla tizia cosa prende e questa mi chiede, testuali parole, un cheeseburger senza formaggio e delle patatine” la porta della sua camera è aperta, mi affaccio con circospezione e la vedo al telefono. Ovviamente non ho bisogno di sapere con chi sta parlando, dalla sera in cui io e Grace siamo miracolosamente riuscite a convincerla a richiamare quel povero Cristo di Eddie ce ne sono state altre di chiamate, tutti i giorni. Per nostra sfortuna senza viva voce. Cazzo, quando ha aperto il suo cuore ad Angie io e Grace ci siamo sciolte in sospiri e aaaaaaw che per un pelo Vedder ci sgamava. Sono un'impicciona? Sì. Mi interesso alla vita sentimentale altrui per evitare di pensare al disastro della mia? Ebbene sì. Sono però anche genuinamente felice che alla mia amica le cose girino per il verso giusto come si merita? Eccome!
“Aspetta, rimango spiazzata per un attimo per il modo in cui si è espressa, poi rispondo: perfetto, allora le porto il menù Go-go con hamburger più patatine più bibita media a quattro dollari e novantanove. Va beh, in pratica non mi fa neanche finire di parlare e mi dice: No, no, io non voglio un hamburger. Voglio un cheeseburger senza formaggio” Angie dondola a destra e sinistra, cullandosi sulla sua sedia con le rotelline, mentre ascolta sorridendo la replica del suo bello.
“Esatto! Ahah stessa cosa che le ho detto io: quindi... un hamburger, signora? NO! Risponde lei seccatissima. Ho detto che non voglio un hamburger, ho chiesto un cheeseburger senza il formaggio! Ti giuro che urlava, mi sono vergognata per me, ma anche un po' per lei” Angie ruota un pelo di più sulla sedia e mi vede, facendomi un cenno.
“Ovviamente non mi sono scomposta e le ho detto: allora vuole pagare un dollaro in più per un cheeseburger, ma lo vuole senza formaggio?” Angie e io scoppiamo a ridere assieme mentre entro in camera sua schiodandomi dalla porta, poi continua “Eh sì, perché il menù col cheeseburger costa di più, è quella la cosa assurda! Se io prendo l'ordine come menù cheeseburger, anche se segnalo alla cucina di non mettere il formaggio, sarà sempre considerato un cheeseburger. Va beh, questa stronza sgrana gli occhi e mi fa: Sì, esatto! Era così difficile da capire? Ahahah eh, te l'avevo detto che era una stronza!”
“Il cliente ha sempre ragione!” esclamo io sedendomi sul suo letto.
“Ehi, tu e Meg avete detto la stessa cosa quasi contemporaneamente! Comunque, visto che il cliente ha sempre ragione e questa qua mi aveva appena dato della menomata mentale senza capire che l'unica ottusa era lei, le ho risposto: Assolutamente no, signora, un menù Marilyn con cheeseburger senza formaggio, patatine e bibita a cinque dollari e novantanove per lei? E quella: ecco, sì, adesso ci siamo, grazie. Ma vai a cagare! Eheh... aspetta un secondo, ok?” Angie se la ride con Eddie, poi gli dice di attendere e scosta solo leggermente il telefono dall'orecchio, rivolgendosi a me “Volevi dirmi qualcosa?”
“Intensa fragranza usata in profumeria, inizia per M, sette lettere” le domando mostrandole il giornale.
“Muschio” risponde subito senza battere ciglio. E' vero! Perché non mi veniva? La odio, cazzo.
“Sì, può essere, in effetti ci sta”
“Non può essere: è!” gongola per poi portarsi di nuovo il telefono all'orecchio “Cosa? La sapevi anche tu? La sapeva anche lui”
“Beh grazie a tutti e due, ma non tiratevela troppo!” ribatto lanciando un cuscino ad Angie, che però riesce a schivarlo, per poi raccoglierlo da terra.
“Purtroppo usata in profumeria, aggiungerei... Come perché? Il muschio è dannosissimo, sia quello sintetico che il muschio naturale... Beh, nel dubbio, tra estinzione totale di una specie animale e inquinamento, meglio non scegliere nessuno dei due e usare altre profumazioni, no? Come che animale? In che senso? Tu sai da dove deriva il muschio, vero?” parte un dibattito tra Eddie ed Angie di cui io sento solo una parte, anche se credo sia comunque la parte più consistente “Pianta? Ma che pianta? Il muschio non è una pianta! Cioè, sì, esiste anche la pianta, ma non è quello che si usa per fare i profumi. No! E' una secrezione animale, di un cervo per la precisione. Ma no, non ti sto prendendo per il culo, Eddie, giuro! Questi cervi hanno una ghiandola, una specie di sacchetto sotto la pancia che secerne questa sostanza, e la spargono nel loro ambiente per marcare il territorio, specialmente nella stagione degli amori... Ahahah no, Eddie, non è sperma di cervo!”
Non la tipica conversazione tra innamorati eh?
“Comunque credo che ora sia per lo più sintetico” commento io dopo aver finito di scrivere la risposta giusta nelle caselle.
“Tanto peggio, perché inquina e finisce pure nella catena alimentare.” risponde Angie sia a me che a Eddie “Come? Ahahah no, niente profumo al muschio in regalo per me, grazie. E niente regali in generale, me ne hai fatti già troppi... Sì invece... Sì invece... Eddie? Per favore... Dai...” ora torniamo più su conversazioni di coppia, Angie stringe sempre di più il cuscino e io penso sia giunta l'ora di togliere il disturbo e tornare di là. Va beh, o di continuare a origliare da fuori senza farmi vedere.
“Aspetta, Meg! Sì, ora glielo chiedo.” mi alzo e faccio per uscire, camminando all'indietro e facendo ciao ciao con la mano, ma Angie mi blocca “Allora vai a vedere i ragazzi domani sera a Portland?”
“Sì, il piano è quello. Quasi sicuramente verranno anche Grace e Laura”
“Sentito? Meg, Grace e Laura, un bel terzetto pronto ad acclamarvi e a lanciarvi i reggiseni”
“Ahahah io ho poco da lanciare!”
“No, Eddie, te l'ho già detto, non posso... Roxy m'incula, è pure un mercoledì, ci sono gli infermieri della scuola serale che finiscono prima... non posso chiedere un altro giorno”
Il nostro piccolo Romeo è impaziente, vedo. I suoi sogni si sono già infranti quando ha scoperto che Kelly aveva programmato per la band un giro promozionale di radio e interviste varie proprio nei due giorni di pausa tra i due concerti in Oregon e che c'era ancora da aspettare prima di rimettere piede qui a Seattle. Eddie ci ha provato a svicolarsi, spiegando che tanto lui non conta un cazzo nella band di Stone e Jeff e che potevano pensarci loro, ma a quanto pare non è bastato.
“E va beh, ci vediamo dopodomani, cosa cambia? Ma piantala, non cambia niente... Ahahah no!” sono ancora qui impalata nel bel mezzo della stanza di Angie, mentre lei giocherella col cuscino e vorrei tanto sapere a cosa si riferisce quell'ultimo no, ma tanto la mia amica non me lo dirà mai.
“Salutamelo, ok?” stavolta mi allontano veramente, fermandomi in corridoio perché, come volevasi dimostrare, i cazzi miei non me li so ancora fare.
“Meg ti saluta! Comunque pensavo a una cosa. Ahahahah no! Pensavo che se domani le ragazze vengono a vedervi... beh, sarà come un'ulteriore perdita della famosa scommessa... non credi? Ahahah non lo so, non conosco Portland, non so se ci sono discoteche anni Settanta, devi chiedere a Stone. No no, chiediglielo, sono sicura che se anche non ce ne fossero, farebbe in modo di allestirne una pur di farsi un'altra risata alle spalle dei perdenti! Eheh sì, sarebbe un momento imperdibile. Ah sì? Perché? Oh sì, certo, la mia presenza o meno fa sicuramente la differenza”
La telefonata dei piccioncini va avanti ancora per un po', con Eddie che presumibilmente le dice cose sempre più carine e lei che ci scherza su, non so se per il suo naturale imbarazzo o perché sa perfettamente che sono qui a origliare. Dopo averlo salutato, dissipa i miei dubbi.
“Meg!”
Taccio.
“Meg? Dai, tanto lo so che sei qui fuori”
“Uhm, stavo andando in bagno” ricompaio magicamente sulla porta, giusto in tempo per beccarmi una debole cuscinata.
“Certo...”
“Allora?” mi siedo di nuovo ai piedi del letto, in attesa delle confidenze di Angie, che mi illudo possa condividere senza che io debba tirargliele fuori con cavatappi.
“Allora Grace viene con voi domani sera?” Angie spegne subito ogni mia speranza.
“Sì, c'è anche lei”
“Sicura?”
“Certo, l'ho sentita stamattina e mi ha confermato che c'è. Perché?”
“Non lo so, è che non mi è sembrata particolarmente impaziente di rivedere Stone... o sbaglio? Cioè, è strano ma...”
“Aspetta un momento. Angela Pacifico che fa del gossip??”
“Ahahah vaffanculo Meg!”
“Chi sei? Cosa ne hai fatto della mia coinquilina?” mi alzo di scatto, indicandola con una mano tremante.
“Non sto spettegolando, faccio solo delle considerazioni su due amici”
“Considerazioni eh?” tiro giù il braccio e la guardo ridacchiando.
“Due cari amici a cui tengo. E mi sembrano carini insieme. E Grace mi sembrava molto presa all'inizio, invece adesso... mah... Insomma, secondo te c'è qualcosa che noi non sappiamo?” la nuova reginetta del gossip cerca di girarci attorno e io decido di starci. Anche perché una conversazione in più su Grace è un discorso in meno su di me e la mia vita sentimentale inesistente.
“Nah, secondo me è tutto normale. Grace aveva una cotta e Stone faceva il figo, adesso Stone non fa più il figo e lei è rimasta spiazzata, tutto qua”
“Più che altro Stone mi sembra super lanciato”
“Oh sì, effettivamente... Mi ricorda qualcun altro di nostra conoscenza” stavolta non posso fare a meno di stuzzicarla, ma lei alza gli occhi e continua.
“Per lui stanno già insieme in pratica, invece lei si è chiusa a riccio” certo, un atteggiamento di cui tu ti intendi parecchio, vero Angie? Stavolta mi trattengo.
“Vedrai che da domani sera il riccio si apre, fidati”
“Vorrei solo non soffrisse” la mia amica alza le spalle e si rigira il telefono tra le mani. Non è che lo stai dicendo a te stessa?
“Chi dei due?”
“Beh, nessuno dei due!”
“Quindi... niente profumo al muschio?” le chiedo dopo un po' e Angie ricomincia a dondolare sulla sedia.
“Ahah no, per carità!”
“Devo ricordarmi di dire a Eddie di prendertene uno alla frutta” le strizzo l'occhio e lei sbuffa facendo un giro di trecentosessanta gradi.
“Per favore...”
“Alla banana sarebbe perfetto”
“MEG!”
“Che ho detto?!”
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Beer-pong. Ventisei anni e ancora mi metto a giocare a beer-pong? Beh, Kim ne ha trenta e li organizza lui i tornei di questi giochi del cazzo, la cosa dovrebbe consolarmi. Ventisei anni, una relazione stabile, un progetto musicale serio, un conto in banca che mi paga le bollette senza arrivare alla fine di ogni mese con l'acqua alla gola... e mi risveglio nella vasca da bagno del mio bassista alle sei del mattino. Cazzo di mal di schiena! E perché cavolo sto ancora in questo condominio di merda? Bestemmio mentre insisto nel premere il pulsante per chiamare l'ascensore che tanto non arriverà mai, dopodiché mi rassegno alle quattro rampe di scale.
Trascino le mie vecchie membra fino alla porta del mio appartamento, ma quando infilo la mano in tasca in cerca delle chiavi la sensazione di freddo metallico è rimpiazzata dal nulla più totale. Non ci posso credere. Matt doveva trovarsela proprio adesso la ragazza? Tasto velocemente tutte le tasche della giacca e dei pantaloni e non trovo un cazzo e mollo un pugno alla porta.
“Cazzo” nello sferrare il pugno sento distintamente un tintinnio di chiavi e torno a cercare meglio in ogni fottuta tasca, ma non trovo nulla. Sferro un'altra botta alla porta ed ecco di nuovo il rumore. Mi metto a saltellare come un coglione davanti alla porta e ad ogni balzo corrisponde un tintinnar di chiavi, mi levo la giacca, la scuoto, stessa cosa. Ispeziono più a fondo le tasche e trovo, non il mazzo di chiavi, ma un bel buco in quella sinistra. Ecco risolto il mistero! Ora devo solo cercare di usare quel po' di lucidità che mi resta per individuare l'esatta posizione delle chiavi all'interno della fodera del giaccone ed estrarle. Mentre mi appresto a recuperarle, un altro rumore, stavolta non metallico, ma “umano”, attira la mia attenzione. Una voce, come qualcuno che canticchia, ma senza parole, mormorando, molto piano. All'inizio penso a qualcuno che magari canta mentre si fa la barba o si prepara, dopotutto per tutto il mondo è mattina. Però la voce, pur essendo flebile, si sente bene, in maniera chiara, e con un piccolo riverbero che fa pensare che la persona sia già uscita dal proprio appartamento. E allora perché non vedo arrivare nessuno? Mi incammino lungo il corridoio e sto ancora tastando la mia giacca quando, girato l'angolo, lo vedo: Vedder, seduto per terra, o meglio, seduto sullo zerbino delle ragazze, che scrive su un quaderno, con un sacchetto di carta appoggiato sulle gambe.
“Eddie?” lo chiamo perché lui non mi si fila proprio.
“Oh ehi, ciao Chris” Eddie smette di scrivere e mi saluta, come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Che ci fai qui? Non dovresti essere in tour?”
“E' finito! Cioè, tecnicamente finisce il tre marzo, ma considerando che le ultime tre date sono qui a Seattle, praticamente abbiamo finito. Nel senso che abbiamo finito di girare” Eddie spiega candidamente, chiudendo la penna e infilandola nel quadernetto, per poi infilarsi il tutto in una tasca interna della giacca. Nel fare questo lascia intravedere la sua maglietta: bianca con su scritto Air Love Bone e la sagoma di un giocatore di basket coi capelli lunghi che somiglia più a Jeff che a Jordan. Ne ho una uguale pure io, ma blu.
“Non avete due concerti in Oregon?”
“Avevamo, abbiamo suonato a Portland ieri sera. Poca gente, ma bella atmosfera, gran concerto” Eddie annuisce a se stesso e non si schioda da terra.
“Avete suonato ieri? E quando sei tornato?”
“Che ore sono adesso? Uh le sette e mezza. Beh, qualche oretta fa”
“Eheh saltati sul van e schizzati a casa subito dopo il concerto? Non vedevate l'ora di tornare eh?” mi sa che soprattutto lui non stava nella pelle, o sbaglio? Non è che Eddie mi abbia mai parlato di queste cose, non sono la sua confidente o Jeff, però forse fra tutto sono uno di quelli, assieme ad Ament, che lo conosce un po' di più. E comunque non ci vuole un genio per capire che se, anziché a letto a dormire per smaltire la stanchezza del tour, è qui davanti alla porta di una ragazza, allora c'è qualcosa di grosso sotto.
“Beh, ehm, questo non lo so... Cioè, non so cos'hanno fatto gli altri, io sono... sono tornato da solo” Eddie perde per un secondo la sua apparente tranquillità.
“Da solo?”
“Sì”
“E come?”
“Autostop” risponde alzando il pollice.
“Autostop?”
“Sì”
“Cioè, tu hai mollato tutto e tutti e sei venuto in autostop fino a Seattle”
“I Village People mi hanno ispirato”
“Eh?”
“Do you want to spend the night?”
“Di che cazzo sei fatto, Ed?”
A quel punto mi spiega che si tratta della solita scommessa del cazzo di Stone e Jeff e che una parte dei nostri amici si è esibita nel parcheggio del Melody Ballroom. Conosco il posto. Ci ho suonato e ci ho visto pure i Fugazi. Mi ha sempre fatto sorridere pensare che li ci facciano anche i matrimoni e le feste dei liceali. Beh, complimenti alla versatilità e all'apertura mentale dei proprietari.
“E a un certo punto mi sono detto: che cazzo ci faccio qui? E ho chiesto a dei tizi che ho già visto ai nostri concerti qui se mi davano uno strappo” il motivo per cui ha avuto quest'illuminazione improvvisa è al di là di quella porta, entrambi lo sappiamo, ma nessuno sente l'esigenza di puntualizzarlo.
“E ci hai messo tutto questo tempo?”
“Non sono mica arrivato adesso...”
“Da quanto tempo sei su quel cazzo di zerbino?” gli domando quando finalmente trovo le dannate chiavi e cerco di tirarle fuori.
“No beh, qui da un'oretta. Facciamo due”
“E perché?”
“Perché era troppo presto”
“Quindi ti sei fatto scaricare qui e poi ti sei accorto che era l'alba?”
“No, non mi sono fatto lasciare qui”
“E dove?”
“A Pike Place” risponde come se fosse la cosa più ovvia e io fossi un coglione a chiedere.
“A Pike Place” ripeto facendo sì con la testa, assecondandolo come si fa coi pazzi.
“Dovevo prendere delle cose” aggiunge afferrando il sacchetto di carta e appoggiandolo a terra alla sua sinistra.
“Ma non hai trovato chiuso?” chiedo scettico.
“Le panetterie aprono presto”
“Ah” assecondare sì, questa è la strategia migliore.
“Ho mangiato qualcosa, ho preso un caffè, ho comprato qualcosina per Angie e poi sono venuto qui”
“In autostop”
“Ahahah ma va, in tram!” ancora una volta mi risponde come se fossi io il coglione e forse non ha tutti i torti.
“Sono arrivato e quando stavo per suonare il campanello mi sono reso conto che erano tipo le cinque del mattino”
“Come recita un altro pezzo dei mitici Village People”
“Uhm sì, ma cosa c'entra?” domanda improvvisamente serissimo e io gli scoppio a ridere in faccia. Con Eddie non capisci mai se è serio o se ti prende per il culo ed è un aspetto che mi piace nelle persone. Di certo l'ha capito che anch'io non sono del tutto a posto, forse dalla prima volta che l'ho portato fuori a bere. O da quando mi sono materializzato al mini market e l'ho portato via a fine turno dicendogli che gli avrei fatto vedere come trascorrono i venerdì sera le rockstar locali. E abbiamo passato la nottata a bere e inseguire i miei cani, o meglio, i cani di Susan nel bosco.
“Ahah niente niente! Allora ti sei parcheggiato qui, giusto?”
“Sì...” risponde ancora scettico “In attesa di un orario più umano”
“Beh dai, le sette e mezza mi sembrano acceettabili” mi avvicino e faccio per suonare il campanello, ma Eddie mi blocca prendendomi per il polso.
“No!”
“Perché no?”
“Non ho sentito rumori, non si è ancora svegliata. Ormai aspetto che si svegli” faccio marcia indietro e mi immagino Eddie con l'orecchio incollato alla porta in attesa del rumore del cicalino del microonde o dello sciacquone del cesso e mi faccio un sacco di risate, internamente. Non voglio ferirlo!
“E la tua roba?”
“Che roba?”
“Le tue cose, i tuoi bagagli”
“Oh avevo solo uno zaino, è sul van. Jeff me lo porterà, credo”
“Credi?”
“Beh, penso di sì”
“Ma... hai detto agli altri che tornavi a casa, vero?”
“Mmm... aspetta... ah sì, l'ho detto a Mike” allora sì che stai in una botte di ferro, amico.
“Era lucido quando gliel'hai detto?”
“Sembrava di...” mentre Eddie inizia a descrivere lo stato apparente di Mike nel dopo concerto di ieri, ecco che la porta a cui era appoggiato si apre di scatto e lui cade giù all'indietro a peso morto, ma capisco che è ancora vivo quando termina la frase dal pavimento di casa di Angie “...sì”
“Che cazz... Eddie? Chris?” la ragazza ci guarda uno ad uno incredula, mentre lega la cinta della sua vestaglia rosa.
“Ciao dolcezza! L'ho trovato sul tuo zerbino. Non ha la medaglietta, però sembra ben nutrito” scherzo, mentre Eddie è ancora a terra.
“Ciao Angie!” esclama con un certo entusiasmo ammirandola dal basso in tutta la sua... confettosità? Esiste? Mah...
“Eddie! Che ci fai a terra, tirati su” Angie gli tende la mano e lui accetta l'offerta, si aiuta aggrappandosi alla maniglia e si alza.
“Sono caduto” ahah sì, che ci sei cascato con tutte le scarpe mi pare evidente.
“Fatto male?” chiede lei perplessa.
“Nah”
“E' proprio così al naturale, fidati. Ehi Eddie, attento” lo avviso indicando il sacchetto di carta che sta quasi per calpestare.
“Oh cazzo, grazie Chris” recupera il sacchetto e lo stringe come se fosse un neonato da cullare.
“Cos'è?” chiede lei sempre più confusa, calcolando anche che si sarà appena svegliata e come prima attività della giornata le tocca avere a che fare con due deficienti.
“La colazione!” risponde Vedder tutto soddisfatto di sé.
“Oh... grazie... beh, facciamo colazione allora” Angie indica l'interno del suo appartamento e io capisco che si è fatta una certa ed è ora di levare le tende, visto e considerato che ho pure recuperato le mie cazzo di chiavi di casa.
“Ottima idea” Eddie le lancia uno sguardo sornione, ulteriore segnale che è arrivato il momento di levarsi dal cazzo.
“Beh, allora io vado eh?”
“Non fai colazione con noi?” mi chiede lei in maniera apparentemente innocente. L'occhiata di Eddie mi basta per trovare la risposta.
“No, grazie, dolcezza, ma ho troppo sonno. E alla sola idea di ingerire ancora qualcosa di solido o liquido sento le mie budella chiedere pietà”
“Mmh ok, ci vediamo allora”
“Ciao Chris!” Eddie mi saluta e sparisce nell'appartamento.
“Buona notte ragazzi... Cioè, buongiorno... Insomma, avete capito”
“Notte Chris”
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“Che ci facevate qui fuori a chiacchierare? Ho sentito dei rumori e-” richiudo dopo essermi accertata che Chris cammini dritto a sufficienza per arrivare al suo appartamento e non appena mi giro vengo travolta da Eddie che mi inchioda alla porta abbracciandomi.
“Scusa se ti abbiamo svegliata”
“N-no, ma no! Ero... ero già sveglia”
“Mi sei mancata”
“Oh, ehm, anche tu” rispondo e spero tanto che il colluttorio che ho usato ieri sera sia davvero ad azione prolungata come sostenuto in etichetta perché Eddie sta praticamente respirando sulle mie labbra strofinando il naso contro il mio.
“Da morire...” è sempre più vicino e io non so dove guardare, se guardare, se chiudere gli occhi, se baciarlo, se aspettare che lo faccia lui, se stare zitta e godermi il momento.
Ma io sono zitta...
Beh zitta nella tua testa, cretina che non sei altro!
Ma è impossibile non pensare, anche il pensiero di non pensare è qualcosa che pensi in fondo, no?
Ma perché pensi a queste cazzo di cose mentre Eddie ti sta torturando in questa maniera? E le mani? Dove cazzo le hai messe le mani?
Aspetta, ce le ho... sospese, a mezz'aria, praticamente lo sto abbracciando coi gomiti.
Coi gomiti? Che cazzo sei un meccanico con le mani sporche di grasso?! Sembri il pastore del presepe della nonna, quello che si stupisce, con le mani alzate al cielo.
Riesco a smettere di litigare con me stessa per un attimo e ad appoggiare le mani sulle spalle di Eddie, che deve percepire il gesto come un segnale di via libera e mi bacia.
Dave Gahan non si vede né si sente, idem per i suoi compagni di band, lo zio Tom Jones non si fa vivo, di Sonny e Cher neanche l'ombra. Per un attimo mi sento quasi un'adulta, almeno finché non sento partire le nacchere e Phil Spector butta letteralmente il trio delle Crystals sul palco senza tante cerimonie.
He kissed me in a way that I've never been kissed before
He kissed me in a way that I wanna be kissed forever more
Il concerto non finisce neanche quando Eddie si stacca dalla mia bocca per un secondo e mi guarda negli occhi, come se cercasse qualcosa. Forse sta cercando di capire se in questo momento sono su questo pianeta o no e sa già che chiedermelo direttamente non servirebbe a molto. Quello che trova deve piacergli perché sorride mostrando bene le sue cazzo di fossette... come se avessi bisogno di altri stimoli! E mi bacia di nuovo. Stavolta sono piccoli baci che piano piano si spostano dalle labbra alla guancia, per poi indirizzarsi giù verso il collo. Una delle sue mani invece risale dai fianchi, mi sfiora forse sì, forse no, forse l'ho sognato, il seno, mi solletica, qui sì, sono sicura, le braccia anche attraverso uno strato non indifferente di pile, mi accarezza la guancia e si infila tra i miei capelli, mentre sul collo decide di affondarci anche i denti.
Devo fare qualcosa.
Ma non voglio!
Ma devi, non vedi che ti stai impanicando? Vuoi aspettare di avere la testa che giri, vedere i puntini e cascare giù lunga tirata per terra?
E' così piacevole però...
E se gli viene in mente di fare qualcosa di più piacevole?
Magari...
Angie, cazzo, torna in te!
“Cosa c'è nel sacchetto?” riesco a chiedere dopo un po'.
“Uhm?” mormora Eddie senza staccarsi dal mio collo.
“Nel sacchetto, che hai portato...”
“Te l'ho detto... prima... la colazione” risponde seguendo il percorso di prima all'inverso, tra un bacio e l'altro.
“Ovvero?”
“Brioches” rivela prima di stamparmi un bacio sul naso.
“Alla crema?” domando improvvisamente davvero interessata all'argomento e non solo usandola come stupida scusa per spezzare questo momento piacevolissimo.
“E al cioccolato.” annuisce lui in maniera deliziosa, quasi infantile “Le ho prese stamattina prestissimo per te, appena sono arrivato a Seattle”
“A proposito, quando sei arrivato?”
“Presto” e mi racconta del suo viaggio in autostop e delle tappe che lo hanno portato fino a casa mia. In tutto questo io sono ancora tutt'uno con la porta. E con Eddie, che non ha la minima intenzione di mollarmi. Ha fatto tutto questo casino... per me? Per vedermi qualche ora prima del previsto?
Beh, è messo veramente male se fa l'autostop di notte per vederti con gli occhi incollati, la doccia ancora da fare e i denti da lavare, i capelli tirati su a caso col mollettone.
“Gli serve una scaldatina allora”
“Eh?”
“Dico, bisognerà scaldarle un pochino...”
“Che cosa?”
“Le brioches, saranno fredde adesso”
“Ah! Eheh beh, sì” perché arrossisce? Ma soprattutto quante mani ha? In teoria ne ha una ancora tra i miei capelli mezzi raccolti mezzi no e un'altra sul mio fianco sinistro, ma io mi sento accarezzare ovunque.
“Mangiamo adesso? Tra un'oretta scarsa devo essere a lezione” cerco di tornare alla ragione.
“Oh... devi proprio?” e tu devi proprio guardarmi così?
“Eh... sì, c'è il monografico su Renoir e oggi il prof spiega il passaggio al sonoro, che è una parte importantissima che c'è pure nell'esame, quindi...”
“Ok” molla la presa, ma mi prende la mano portandomi verso la cucina, dove il sacchetto ci aspetta sul tavolo. Mi stavo giusto chiedendo dove lo avesse messo.
No, non è vero, non te lo stavi chiedendo per un cazzo.
Allora?! La piantiamo di battibeccare qua dentro? Sto cercando di restare cosciente e non perdermi neanche un secondo di questa cosa. E poi adesso si mangia.
Le mani di Eddie sono sulle mie spalle mentre tiro fuori il l'incarto all'interno del sacchetto, lo apro velocemente e viene fuori che ha comprato una montagna di brioches allettanti.
“La colazione è per tutto il condominio?” gli chiedo sogghignando.
“No, solo per noi” la presa sulle spalle si fa più stretta e un bacio tanto veloce quanto rovente mi viene stampato sulla guancia.
“Facciamo che ne scaldo quattro, ok?”
Eddie non mi risponde e si limita a un altro bacio sull'altra guancia e io non so se ci arrivo a vedere La Chienne.
“Le scaldi nel microonde?” mi fa mentre sistemo il piattino con le brioches nel fornetto.
“Sì, ma per poco e a bassa potenza se no... ehm, se no diventano dure... come i sassi e immangiabili” e pensandoci sono un po' come me, che a furia di baci e carezze e abbracci, come quello di adesso, stretto, da dietro, coi riccioli di Eddie che mi fanno il solletico sul collo, mi irrigidisco come un baccalà e divento completamente inutile.
“Mi fido di te” mi sussurra nell'orecchio.
Io invece no, non mi fido, perché mi vuoi chiaramente morta.
Quando sono pronte, estraggo il piatto fumante dal microonde e praticamente schizzo in sala, lo appoggio sul tavolino e mi siedo sul divano, pensando così di essere al sicuro. Al sicuro da cosa non si sa. Ma non faccio altro che cadere dalla padella nella brace perché Eddie mi raggiunge, si china su di me e mi bacia di nuovo, con una certa decisione, ancora prima di toccare il divano sedendosi accanto a me. La decisione si concretizza nello buttarmisi praticamente addosso e come previsto credo di essere entrata in modalità stoccafisso, perché Eddie si stacca da me quasi subito.
“Tutto ok?”
“Eh? Sì”
“Qualcosa non va?”
“No, perché?”
“Sicura? Sembri strana” continua con quei suoi occhi indagatori azzurro oceano che visti dal basso e da così vicino sembrano ancora più profondi.
“No, è che... beh, è tardi e-”
“Troppo?”
“Beh, non è proprio così tardi, ma...”
“No intendevo... io, troppo? Troppo veloce?”
“NO!” gli urlo praticamente in faccia e quasi lo spettino. Gli spunta un ghigno sulla faccia e a questo punto sono più che certa che sappia perfettamente l'effetto che ha su di me “Ehm, no, non è quello, è che... davvero, ho lezione e non posso...”
“Hai ragione, scusami.” Eddie mi da un bacio piccolo piccolo sulle labbra che mi lascia con la voglia di averne altri dieci mila subito e si risiede “E poi le brioches si raffreddano” aggiunge con un sorriso fossettato, mentre ne prende una alla crema.
Io no, non credo di correre questo pericolo invece.
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SPILUNGONE!AU
in risposta a questo prompt :
Ciao, sono l'anon dei bacini che torna a romperti le scatole ❤️ Ho visto che stai cercando idee per una MetaMoro ignorante e volevo suggerire una AU dove si conoscono ad un concerto ed Ermal è sempre in mezzo col telefono perché vuole dimostrare di essere gggiovane (anche se sappiamo che non lo farebbe irl) e dopo un po' Fabrizio Si Scazza perché va beh che pure il tipo ricciolino non è affatto una brutta vista ma lui era lì per il concerto.
spero ti piacerà
disclaimer: non seguite gli insegnamenti di Ermal; scusate i luoghi comuni sulla metro romana;
Fabrizio, 28 anni d’età, pensava fosse terminato il tempo dei concerti nei luoghi a caso per lui
e invece no, perché si ritrova pressato tra un omone che era facilmente il suo doppio e un paio di ragazzine che avranno avuto la metà dei suoi anni ad ascoltare l’amico del suo amico che quella sera faceva il concerto e che fai, non ci vai?
e chissenefrega che aveva smontato letteralmente un’ora prima del concerto e che quell’ora l’abbia impiegata per arrivare al locale lui era ancora giovane e queste cose evoglia che le poteva fare, si si, fucking watch me
Poi la musica non era neanche malaccio i mean non esattamente il suo genere ma già che era in italiano e non era quello strano hip hop che andava di moda adesso a lui diceva culo
non ha fatto in tempo a finire di pensare quella cosa che la gente nella fila d’avanti si muove e dal nulla compare sto’ albero di persona esattamente nella traettoria che si era trovato per vedere il palco
e come se non bastasse il tizio agitava pure il telefono come un ossesso manco fossero al concerto di Vasco dio santo placati coso
cosa Fabrizio avrebbe voluto dire: gentile signore, comprendo il suo entusiasmo dovuto a l’attività culturale che stiamo sperimentando e di conseguenza vuole esternarlo con il moto ondulatorio del cellulare ma la prego di metterlo via e se possibile spostarsi un po’ di là cosicché anche io possa beneficiare della visione del concerto, oltre che dell’atto uditivo.
Cosa Fabrizio, stanco dopo 8 ore di lavoro a giugno, ha detto: AO’ MA TE LEVI DAR CAZZO.
Col senno di poi, la cosa poteva essere gestita meglio. Ma almeno il tizio effettivamente si sposta -non prima di avergli mandato un’occhiataccia di quelle potenti- e Fabrizio può guardare in pace il ragazzino sul palco
quindi tutto super fun Fabrizio sogna il letto di casa sua può letteralmente sentire le coperte attorno a lui
è tanto stanco che pure in mezzo al casino si sarebbe potuto appisolare
quindi recupera la macchina e si mette per strada felicissimo che quella giornata fosse finalmente giunta alla fine e chi ti vede sul ciglio a camminare?
ora, chiariamoci, non stavano in città e Fabrizio stava guidando su una strada statale dove NON C’ERANO MARCIAPIEDI
e si trova il ragazzetto di prima, il palo della luce che non gli permetteva di vedere il concerto, che se la stava apparentemente facendo A PIEDI da là
e siccome mamma Mobrici raised no strunz, (e perché Fabrizio si sentiva leggermente in colpa per prima), gli si mette affianco e apre il finestrino
“aò, ti serve un passaggio?”
a Ermal poco poco piglia un infarto perché aveva la musica a palla nelle cuffiette
perché la vita gli stava stretta e aveva deciso di finirla così, a quanto pare.
Ovviamente la prima risposta sarebbe NO GRAZIE perché le possibilità che non sia uno psicopatico sono davvero, davvero molto basse
E INVECE TE DICE CULO CHE E’ FABRIZIO MORO
ma aveva riconosciuto quel “aò” divino e soave come quello del tizio di prima e gli era tornato l’urto
“No, grazie.” e riprende a cammiare MA DOVE VAI CRETINO
Fabrizio pare della stessa idea perché lo segue al passo suo ed è tipo “meh, sali, che con la macchina ci vuole un quarto del tempo che impiegheresti tu”
“che ne sai dove vado io, sei uno stalker?”
“so che da qui alla città non c’è un cazzo”
he had a point, tho
“dai, sali, per farmi perdonare dell’uscita di prima”
“AH MA ALLORA SEI TU”
(vi prego, immaginate sto cretino che punta il dito a una 500 scassata nel mezzo della notte)
però è ancora un filo titubante perché non si sale in macchina degli sconosciuti sapete bambini non si fa MAI
neanche se somigliano a Fabrizio Moro
E Ermal queste cose le sa da quando aveva sei anni e ora ne aveva 22 nella grande città ‘nsomma non mi pare il caso di mandare al diavolo tutti gli insegnamenti, no?
però poi alla radio (che andava ancora a c a s s e t t e) parte una vecchia canzone dei Muse e uhm, well, Ermal credeva nel destino
ma sopratutto credeva nel non farsi i km a piedi di notte, ma quello non era nei piani e si stava arrangiando
quindi attiva il gps sul suo cellulare e stoppa la musica, mentre il tipo stoppa la macchina
“io so’ Fabbrizio” gli dice come prima cosa appena entra in macchina “Ermal” “eh?” “E r mal”
“mai sentito, vabbe’, senti, scusa pe’ prima. So’ sbottato male”
Ermal non dice nulla, più preoccupato del fatto che non ci fosse la cintura di sicurezza in quell’auto sgangherata
“mannaggia ai taralli oggi muoio” pensa, mentre cerca di mettersi più dritto possibile e mantenersi al sedile
“meh, dove ti porto?” “su una stella” “eh?” “no dicevo, va bene anche alla fermata della metro”
Fabrizio lo guarda, vede le borse che ha e spalanca gli occhi
Sta a vedere che si era caricato su uno spostato
“ma...famme capì, ti fa schifo una vita tranquilla? ami il pericolo? Prima i kilometri a piedi di notte in mezzo alle frasche, ora la metropolitana che pure di giorno è un azzardo..”
“oh e che devo fare se ho degli amici di merda che mi promettono passaggi e poi mi appendono per andarsene con le ragazze”
Ermal mette su il broncio e b o i isn’t he cute
insomma, Fabrizio non era cieco, ecco
“dai, damme l’indirizzo che ti ci porto”
Ermal è: touched
ma anche creeped out perché, di nuovo, non si danno gli indirizzi di casa agli sconosciuti
così come non si sale in macchina con loro
“ma che stalker sei che non sai l’indirizzo?” “è che mi piace lasciare alcune cose nel mistero, capito?”
Ermal gli dice l’indirizzo e per poco Fabrizio non inchioda perché “ma sei impazzito a voler arrivare fino a là? manco i vestiti ti trovavi addosso”
Fabrizio c’ha un po’ ragione
e quindi dai di viaggio in macchina con la musica bella e Ermal, che fermo e zitto non sa stare, si mette a chiacchierare della musica che avevano ascoltato
“oh, bravo il tizio” “si si, è n’amico de un mio amico” “eh è pure il fratello del bassista della mia band”
(in pratica sto concerto stavano solo gente amica di amici)
“ah tu suoni?”
oh, l’apertura del vaso di Pandora
in pratica tutta la politica “non dare troppe info private agli sconosciuti” è andata a farsi fottere in tre due uno perché meh come fai a non parlare di musica
cioè poi Ermal stava tutto gasato che lo avevano chiamato con la band finalmente stava inseguendo il suo sogno e tutte cose tutte cose
e Fabrizio lo interrompe solo quando sente il nome del concorso a cui avevano partecipato la settimana scorsa (e perso VABBEH)
“ma sai che c’ero pure io?” “nooooo possibile” “eccerto” ma stavi da solo” “si” “ma dai? ma che culo ci vuole?”
“ma quindi canti pure tu?” “a tempo perso, ormai. All’età mia uno deve pure pensare alle bollette e altre cose”
“ma che siginfica, se uno ci crede davvero alla fine ci arrivano pure gli altri”
“seh, ma nel frattempo devo magnà, che dici” “dico che m’hai fatto venire fame”
perché che vuoi fare alle due di notte con un semi sconosciuto se non pigliarti un kebab e piazzarlo sullo stomaco?
e pure alle luci a neon brtt del kebabbaro Fabrizio appare carino cioè Ermal mica lo aveva visto bene prima, eh
e non si è neanche rivelato un psicopatico che sta cosa schifo non fa mai vorrei dire
Fabrizio c’ha solo fame, e giustamente magna pyccolo ancyelo che si era mangiato giusto una girella prima di uscire
poi avevano pure parcheggiato sotto casa di Ermal quindi la serata gli ha detto pure culo meglio di così
EPPERO’
più se lo spizza più il giovane corpo di Ermal è poco favorevole al mollarlo là
però che vuoi fare, mica ti inviti uno sconosciuto a casa no?
voglio dì, va bene tentare la fortuna, ma me pare esagerato
e Fabrizio pare si stia per addormentare
quindi saluti alla prossima magica avventura ce se vede quando ce se vede
Fabrizio monta in macchina, Ermal sale a casa
MOMENTO TOPICO CON LO SCHERMO SEPARATO IN DUE CON FABRIZIO CHE PENSA A ERMAL E ERMAL CHE GUARDA FABRIZIO ANDARE VIA CON LA SCASSA-MOBILE
e let’s call it a night anzi mettiamo la sveglia che sennò domani so’ cazzi, vero E’?
Ermal fa per pigliare il cellulare e OH TU GUARDA NON C’E’
contemporaneamente, Fabrizio, spegne la macchina nel garage, fa per prendere il borsello e COSA TROVA ABBANDONATO SUL SEDILE?
esatto, il cellulare del genio
ma era davvero troppo tardi quindi una volta recuperato e messo nel borsello decide senza troppe cerimonie di andare a dormire, glielo avrebbe riportato l’indomani
ALLORA DITEMI CHE NE PENSATE SE DEVO CONTINUARE SE HA SENSO PERCHE’ BOH NON SO MANCO IO CHE STO A SCRIVE’ SO SOLO CHE QUA LE COSE COSANO
@ anon dei bacini pls il tuo feedback è necessarissimo
ECCO LA PARTE DUE ACCORRETE
bye
#metamoro#spilungone!au#Ermal meta#fabrizio moro#Ermal è alto#per un momento ho pensato di fargli fare il serial killer#ma quella è un'altra storia#prompt#anon ask#anon dei bacini
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È l'alba di un ordinario giovedì di inizio febbraio. Il cielo si tinge di rosa e indaco per rendere giustizia al sole che sta per nascere, ancora una volta. Non fa freddo, si sta bene con un maglioncino e il parka addosso, ma Anna ha le mani rosse e screpolate. In mezzo alle dita, soprattutto. Le succede ogni inverno.
Lorenzo tira su col naso, poi espira con la bocca facendo uscire l'aria, che si condensa. Stanno in silenzio, ancora troppo stanchi, troppo assonnati, con le borse sotto gli occhi e i capelli inumiditi.
Anna scatta una foto col cellulare. Viene sgranata, con in risalto la luce accecante di un lampione, che proprio non dovrebbe stare lì in quel momento. Eppure c'è, e la sua presenza infastidisce, rendendo insignificante qualcosa che potrebbe essere magnifico.
Non si tengono più per mano da troppo tempo. Non si toccano più, nemmeno di notte, nemmeno al buio, e faticano a guardarsi negli occhi. Lorenzo fuma una sigaretta dietro l'altra. Accende, consuma, spegne. Poi ripete tutto da capo. Le mette in bocca come fossero caramelle per la gola e lui avesse il fuoco in bocca.
Litigano per scemenze, proprio come stanno facendo adesso, in quel posto in cui si sono sorrisi così tante volte da perderne il conto.
Anna quando si arrabbia ha un'espressione terribile. La faccia è tesa, le labbra sembrano rimpicciolirsi e smettono di emettere suoni o parole. Rimane così finché non le passa del tutto. Non bastano più le scuse, i tentativi di rimettere insieme i pezzi e i “mi dispiace”. Prima deve esaurirsi tutta la rabbia che porta in corpo, come quando si rimane a piedi con la macchina o si spegne il telefono, arrivato ormai allo zero per cento di batteria.
In quel preciso istante, lì, alla stazione, aveva esattamente quel broncio. Non sapevano neanche perché stessero litigando. Forse una risposta data con un tono sbagliato, o al contrario una risposta mancata. Certe volte si discute senza neanche essere arrabbiati per davvero. Si litiga per gusto, per orgoglio, per noia. Ma non loro due.
Anna era nervosa già da prima di uscire da casa. Aveva messo su cinque chili da quando stava con lui, e quasi quasi credeva fosse colpa sua. Si sentì terribile dopo averlo pensato.
Lo amava, più di quanto avesse mai fatto, cosa che riteneva impossibile. Essere capace di amare, per intendersi. Eppure era tutto reale, vero, concreto. Ricorda ancora il fiato corto ogni volta che scorgeva la sua presenza su quell'autobus, e come persino un suo sguardo le facesse quasi fermare il cuore.
Però era complicato stare con lui. No, era complicato stare con chiunque. Mettere d'accordo tutte le versioni di Anna con la realtà là fuori. La vita vera.
Ora quel ragazzo le stava davanti, in piedi, con le bracia conserte e la testa girata altrove. Lei immobile, con le braccia penzoloni e la sua solita aria sgomentata. Sentiva tutti i nervi del viso tirati come fili usati per stendere i panni. Come le corde di una chitarra mai consumate, toccate, usate.
Aveva paura di perderlo. Credeva che lui potesse stancarsi di lei. Non era cambiato niente sotto questo punto di vista. Come esattamente prima di sapere il suo nome, credeva di non meritare né lui né tanto meno le sue attenzioni. Rimbombava nella testa quel pensiero lancinante, capace di bruciare i neuroni come uno spinello.
Sapeva di amarlo, ma era convinta che non potesse in alcun modo e per nessuna ragione al mondo essere, anche solo lontanamente, abbastanza.
Era passata poco meno di un'ora quando cominciò a piovere. Dopo il litigio con Lorenzo, Anna era scappata via dalla stazione, per finire a vagare sotto la pioggia. Non tornò a casa, né tanto meno telefonò a qualcuno. Si mise a piangere, dopo un'eternità di tempo trascorso ad illudersi che tutto fosse perfetto.
Ricorda di una volta, poco prima di partire per Venezia, in cui ammise la propria fragilità a voce alta, come una confessione.
Mi sto sgretolando davanti ai tuoi occhi, disse a sua madre. Stava succedendo di nuovo. Stava andando in frantumi come i biscotti inzuppati nel latte per troppo tempo. Alla fine si spezzano e cadono. È inevitabile.
Sente il telefono vibrare nella tasca del giubbotto, lo prende e legge sulla schermata il nome di Lorenzo. Mi dispiace così tanto, pensa, e butta giù. Ma lui ci riprova, non si sa bene quante volte, ma sufficienti abbastanza da farle rispondere.
“Dove sei?”, le domanda, con un tono di voce talmente furioso da metterle paura.
“Non lo so, Lore, in giro”
“Perché sei andata via in quel modo? Cazzo Anna possiamo risolvere, basta parlarne un attimo”
Perché. Che ne so, avrebbe voluto dirgli. Non era arrabbiata, non con lui, almeno.
Quando tutto si fa troppo pesante, Anna scappa e si va a nascondere. Tiene le parole serrate in gola finché non diventano un grumo di frasi mai dette che non riesce più a muoversi. Anna, Anna, Anna. Lorenzo ripete il suo nome, vorrebbe baciarla, pensa.
“Mi rispondi?”
“Senti..” si mette le mani nei capelli, li tira fino ad aver paura di se stessa “non lo so, non..sto bene”
“Dimmi dove sei”
“Dove ci siamo baciati la prima volta”
Inconsapevolmente era finita nel loro posto. Un parco minuscolo con solo un paio di panchine e qualche gioco per bambini. Si erano dati il primo bacio seduti, un po' impacciati, quasi goffi. Nessuno dei due era abituato a sentirsi amato, evidentemente. Si erano messi a ridere subito dopo.
Adesso Anna stava immobile, seduta sulla stessa panchina, mentre aspettava Lorenzo. Si era calmata, non sentiva più il cuore palpitare fino a quasi scoppiarle nel petto. Non aveva più paura, né tanto meno sentiva le gambe venire meno. Le era rimasta una sorta di amara tranquillità.
Lorenzo arrivò correndo, le si inginocchiò davanti e prese il viso di lei tra le mani. Aveva l'aria estremamente preoccupata, mentre Anna sembrava rassegnata, quasi passiva, dinnanzi a qualcosa di terribile e che non aveva mai provato prima d'ora.
“Come stai?”
“Ora sto meglio, siediti qua”, e indicò l'altra parte della panchina.
“Mi hai fatto perdere dieci anni di vita, lo sai questo?”
“Scusa, la prossima volta non scapperò più in quel modo”
Lorenzo si accese una sigaretta, fece qualche tiro, poi, non riuscendo più a contenersi, scoppiò come una pentola a pressione. Dolcemente, però.
“Io ti amo, Anna. Ti amo nonostante tutti i tuoi spigoli, che sono innumerevoli, lo ammetto, e alle volte è così difficile riuscire a capirti che avrei voglia di mollare tutto e andarmene. Ma non lo faccio, e non perché tu sia qualcuno da dover sopportare, ma perché ti amo e accetto che dietro questa ragazza meravigliosa si nasconde anche una bambina che ha paura del mondo, e per questo dice di odiarlo. Io lo so, che tu pensi ancora di non meritare niente, e alle volte ho il terrore che per questa tua stupida e bastarda convinzione tu decida di non continuare a vivere, o almeno non assieme a me. Non voglio perderti, Anna.”
Fece una pausa, spense la sigaretta che ormai aveva letteralmente sprecato, e ne accese una seconda.
“È curioso, sai. Ogni giorno ci imbattiamo in persone così diverse tra loro ma allo stesso tempo così incredibilmente identiche. Donne, uomini, anziani, ragazzi. Tutti con un'espressione particolarmente stanca sulla faccia. Le sopracciglia sempre corrucciate, la fronte tesa, le labbra serrate. Ovunque ci si giri c'è qualcuno con il broncio e l'aria infastidita. Le rughe spuntano prima nonostante le mille creme in commercio e si spengono i sogni a pari passo con lo smalto bianco dei denti. Però c'è un momento. Un momento. In quell'istante tutta la stanchezza sembra svanire. Non è un'emozione ben precisa, definita, quantificata. Non ha neanche un nome.
Stare nelle braccia della persona amata, è questo che fa stare bene. Lo si capisce da come il viso si distende, gli occhi si chiudono e non c'è più traccia di dolore su quei volti. Non si è più esausti, oppressi, rinchiusi della gabbia invisibile della routine, che obbliga a dover sopravvivere ai mille impegni, tra una pioggia improvvisa e l'autobus che passa in ritardo e per cui si è costretti ad aspettare. Ecco perché non ho intenzione di darti ragione, Anna. Tu sei convinta di essere un pezzo di quella quotidianità, un qualcuno o qualcosa a cui da dover sopportare pur di stare meglio. Ma non è così. Tu sei l'attesa alla fermata dell'autobus, quando c'è silenzio e puoi avere un po' di tempo solo per te e la canzone che stai ascoltando nelle cuffiette. Anna non sei sola, lo vuoi capire? Tu ne vali la pena. Potrebbe anche finire il mondo, mi basteresti tu.”
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Ora che so che hai letto TRC l'unica cosa a cui riesco a pensare è Gansey che guida con l'aria condizionata accesa. E poi la spegne. E poi la riaccende ed Adam dal sedile di dietro è tipo "Ma Gansey, ma scusa, l'aria condizionata o l'accendi o la spegni" citando una nostra conoscenza Al che Gansey la spegne e si spegne pure la macchina così tanto per. Perché Gansey è un po' il Marco di Adam e chi lo nega non ha letto TRC. Ciao.
ANON SEI UN GODSEND TVB💕
IL CATORCIO CHE APPARE GIUSTO PER LASCIARE LA GENTE IN PANNE LMAOOOOO MOOD Gansey è assolutamente il Marco di Adam, che in questo scenario suppongo (??? non ho idea della citazione???) sia Ermal. Fabrizio è, ovviamente, Ronan. Però ha la stessa rabbia di Blue, anche, quindi diciamo che Ermal/Adam ha,,,, un,,, tipo,,,, Ci sta tantissimo, ora che penso al carattere dei personaggi! Kavinsky è chiunque abbia provato a vendere il fumo a Fabrizio da giovane (so che Ronan è più da alcool,,, quindi,,,,) Niccolò è Noah
Fabrizio sogna. Sogna un mondo dove non esistano ingiustizie, dove gli ultimi abbiano un posto per loro e non solo sotto le suole dei potenti, dove non si debba lottare ogni giorno per riuscire a ricavarsi uno spazio
Ma Fabrizio, a venticinque anni, è anche abbastanza disilluso
Perché comunque non è che proprio la vita gli abbia dato la possibilità di dimostrare quello che vale, di ricavrsi il suo angolino
Marco, per ragioni di headcanoning, è il suo migliore amico ricco sfondato
Che lo prende a vivere con sé per, boh, non gli piace troppo il Pack di Kavinky e non gli piace troppo il fatto che Fabbbrizio quelli proprio non è che li disprezzi
(Cioè, sì, Kavinsky è una serpe in seno (non sto facendo bashing, io ho una cotta assurda e masochista per K) ma ‘nsomma, ogni tanto ‘na birretta, ogni tanto ‘n superalcolico e Marco prega tutti i santi che K non faccia la cazzata di offrire droghe a Fabrizio e che Fabrizio non faccia la cazzata di accettare)
(A volte ci va vicino)
(Tipo quando è troppo incazzato col ondo per fare alcunché)
(Ma ehy, quello schifo sintetico Fabrizio non lo tocca manco morto)
(Quindi niente, K, stai fermo, cazzo, t’ho detto che non ne vojo)
(Eh vabbè, vorrà dire che sarò solo io a divertirmi, Fabrizietto)
(S’o dici te)
Cioè, anche Fabrizio in realtà c’ha la grana
Ma non è che troppo gli giri di usare i soldi della famiglia
Quindi c’ha il macchinone, rompe il cazzo a tutti correndo in macchina e quasi ammazzandosi, beve occasionalmente con il Kavinsky della situazione
E non sa usare il telefono manco per il cazzo
Ye, Fabrizio is Ronan confirmed
But that’s enough for now
Enter Ermal
Che è il ritratto sputato di Adam: intelligente, determinato, orgoglioso e testardo come un mulo
E lui un posto se l’è ricavato, ma non è quello che sperava
Insomma, sì, canta e suona, ma comunque gn
Vuole finire l’uni
Ma gli manca,,,
Come si dice, Vige?
N’ghe n’ha minga de dané
E quindi starebbe per fare ciao ciao all’uni con la manina
Se non che dalla sperduta città di Henrietta (che non sarà mai bella quanto Bari, me disp) si trasferisce un po’ più in là perché alla bacheca del liceo comunale trova sto posto abbandonato nel mezzo del nulla
Che è molto creepy, e gli fa accapponare la pelle sul collo
Ma ‘n costa letteralmente ‘n cazzo de niente
Silvia, la Blue di questa storia, sua migliore amica da quando si conoscono - cioè dall’asilo - lo incoraggia a provarci
Quando bussa, Ermal si aspetta un assassino e invece troverà un fantasma lmaone
Ma gli apre uno vestito completamente di nero, incazzato abbestia
Pieno di tatuaggi
E bello e dannato come un poeta maledetto
Eh va beh ma ditemi voi come si vive
“Nun se vive, regazzì. Qui è tutto ‘n sopravvivere”
Scherzone: Henrietta in realtà è la cittadina palesemente inventata di Santa Enrica, ovviamente giusto fuori Roma
“L’ho detto ad alta voce?”
“Eh già”
“Ops”
“Beh, hai intenzione di entrare o stai qua tutto il giorno?”
Se mi lasci qui ad ammirarti io non mi lamento eh
“Uh, così, senza neanche ciao come stai? senza nemmeno chiedere il mio nome?”
Il tipo alza un sopracciglio
“Sei Ermal, no? T’ha chiamato er mi amico, Marco”
“Già, sono io”
Questo sta usando tutti i trucchi per chiederti il tuo, di nome, a Fabbrì, ti stai arrugginendo proprio
Il punto è che Fabrizietto è troppo starstruck per fare alcunché, pure lui non sa come si vive
E non perché sta cercando di fare l’emo, ma perché Belli Veri: MetaMoro Edition torna in tutta la sua potenza e appena ha visto Ermal si è scordato come respirare
Che, come tutti sanno, è una parte piuttosto fondamentale della vita
E così entrano nella casa dei fantasmi. Beh, del fantasma sicuramente
Occhio agli spoiler da ora in poi!
E tra un po’ se riesco pubblico una seconda parte, ché Opal!Anita e Matthew!Libero ce li voglio tanto tanto
#ask and ye shall receive#trc!au#metamoro#gli anon quelli >>>>>#ho finalmente capito dove inserire le mie elucubrazioni su tre piani diversi nei cosi a punti
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L'hanno fatto.
L'hanno messa di nuovo in ginocchio.
Così come un animale messo in un angolo riesce a far soltanto una cosa: ringhia, e nel farlo non le importa nulla. Non le importa se sta calpestando ogni singolo ideale, ogni singola persona che ha guardato negli occhi e gli ha detto che le voleva bene. Tutto per quello per cui ha lavorato è stato semplicemente cancellato in una singola nottata. Tutto il lavoro di mesi, spazzato via. Osserva quella scritta in rosso della Thorne, quel meno di fianco alla percentuale stratosferica con cui l'azienda ha chiuso. Si ritrova lì ad ascoltare la voce dell'ennesimo cronista che non sa nulla, e che nella sua presunzione spara a cazzo notizie sulla sua azienda. Nomina di nuovo la crisi prima di Magnus dopo il collasso delle due realtà e Josephine sorride appena, per quanto possa divertirsi in un momento come questo. «Idiota.» nel dirlo, nell'insultare quel povero giornalista, vi è odio dentro a quelle parole, un disprezzo vero. Non si piace quando è così. Non si piace quando la spingono a tirare fuori quella parte di lei. E' troppo razionale, troppo egocentrica, le importa soltanto dell'amarezza che sta provando e non di tutto il resto. Ogni singolo pensiero diverso dalla vendetta non viene contemplato e neppure preso in considerazione. Tutti i risultati dell'azienda sono stati vanificati, tutte le vette raggiunte e i sacrifici fatti in questi mesi. Idee, strette di mano, sorrisi, vedere la Thorne che si prende il merito per la chiusura del contratto sul quartiere. Tutto quello che ha dovuto ingoiare per aver la possibilità di far del bene, per costruire un pezzettino di futuro migliore per quelli che verranno. Ed è come se le avessero strappato via le ali dopo essersele costruite da sola. Vi è solo odio e dolore, è soffocata da queste emozioni che non permettono di provare altro.
«Miss Foster, c'è Mr Thorne al telefono.»
La voce di Nigel la scuote e la fa ritornare nel presente. Senza esitazione, va a premere quel pulsante che la mette in collegamento con Mr Thorne. In un secondo arriva l'ologramma sulla propria scrivania in piedi, autoritario anche se al momento misura poco più di dieci centimetri, ma la sta osservando con un drink in mano, la sta osservando come se la potesse guardare negli occhi per davvero.
«Mr Thorne.»
«Miss Foster, vado dritto al dunque.» Lo stronzo non gira intorno alla questione. «Confido nella sua lealtà nell'azienda e che faccia uno dei suoi discorsi motivanti.»
Josephine non risponde, lo guarda come se in qualche modo volesse farlo esplodere o semplicemente farlo mandarlo a fanculo e poi spegnere tutto.
«Spero che i suoi impedimenti emotivi di un tempo non siano di intralcio.»
Di nuovo silenzio dalla piccola Ceo, che sta iniziando a tamburellare con le dita sopra al tavolo.
«Mi convinca di non aver fatto un azzardo.»
L'ologramma si spegne e si ritrova di nuovo in silenzio in quel grandissimo appartamento che è il proprio ufficio. Osserva la città che le sta sotto, tutti sono più in basso di loro, nessuno riesce a competere con la maestosità di quel palazzo. Appoggia la fronte sopra alla vetrata e sente il fresco di quel vetro, intanto che gli occhi si chiudono e fa affluire senza difficoltà ogni singolo pensiero che può scavarle dentro. Parole, discorsi, occhiate, sputi, che le sono stati lanciati addosso, che vengono dati in pasto a quel falò che si è acceso dentro di lei.
«Nigel»
Richiama il proprio segretario.
«Convoca una conferenza stampa per le 18 e una dopo per le 20. La prima la facciamo nella sala stampa più grande e l'altra nella più piccola.»
«Miss..?»
«Oggi faremo sentire la nostra voce, sia quella incazzata, sia quella in lutto.»
Sente la porta chiudersi e lei si gira solo ora, andando a guardare la scrivania che è ancora piena di pagine web aperte, che parlano della Thorne, del messaggio della G.A. Testimonianze e tutto il resto. Con un gesto della mano le chiude tutte.
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23 set 2020 19:49
È MORTO IL DOTTOR FRANZ. ERA UN AGENTE SEGRETO, CHE DA PRAGA MANDÒ UN CABLOGRAMMA: ''MORO È IN VIA GRADOLI''. MA QUALCUNO NASCOSE QUEL MESSAGGIO IN UN CASSETTO - IL RACCONTO DI MARCO GREGORETTI LO INCONTRÒ: ''I SERVIZI ITALIANI MI INGAGGIARONO PER PEDINARE I BRIGATISTI CHE SI ANDAVANO AD ADDESTRARE IN CECOSLOVACCHIA. LI HO VISTI CON I LORO ISTRUTTORI, TUTTI AGENTI DEL KGB E CON I TERRORISTI DELLA RAF, DELL’ETA, E QUELLI LIBICI. GLI EX KGB NEL FRATTEMPO SONO DIVENTATI MILIARDARI DELLA MAFIA RUSSA, CHE FINANZIANO E FORNISCONO ARMI AI TERRORISTI OCCIDENTALI''
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Marco Gregoretti per il suo sito, www.marcogregoretti.it
Stanno per iniziare i lavori della Commissione Moro. Questo mio articolo del 2001/2002 racconta l’incontro con l’agente del Sid a Praga. Lo chiamavano dottor Franz e tutti credevano che fosse un dentista MG
Prologo. Cabras, terra di bottarga di muggine e di spiagge colorate, di boschi impenetrabili a picco sul mare e di cuniculi sotterranei scavati dai Fenici. È la Sardegna dell’oristanese: bella e poco turistica. Un sabato di settembre la sala del museo civico si popola di uomini con facce particolari, segnate dall’esperienza, circospette in ogni minima postura. Nascoste da Ray-Ban neri. Molti di questi, sebbene arrivino da diverse parti d’Italia, in passato si sono già incontrati. Si salutano con battute strane, chiamandosi per sigla. Efisio Trincas, il sindaco di Cabras, sta presentando alcuni scrittori locali. Quando pronuncia il titolo “Ultima missione”, l’autore, Antonino Arconte, e la sigla G-71, quelle facce di agenti segreti, di ex agenti segreti, di uomini del controspionaggio italiano, si contraggono come per trattenere un: «G-71, sei tutti noi!». ”Ultima missione” è il libro di memorie dell’agente segreto scovato due anni fa da GQ.
Più di 600 pagine sconvolgenti, con documenti inediti: da Gheddafi a Moro, da Bourghiba a Craxi, da Andreotti a Cossiga, racconta tutte le missioni segrete che lui (soldato della Marina militare, comsubin, gladiatore del super Sid) e altri militari in incognito hanno fatto in giro per il mondo per conto del governo italiano. G71 il suo libro se l’è scritto da solo, si è fatto da solo il progetto grafico, copertina compresa, e l’ha messo on line. Migliaia di copie vendute con il semplice tam-tam. Ammiratori in ogni continente, davvero. Posta elettronica intasata. E uno Stato, quello italiano, che lo perseguita e l’ha “cancellato” perché sa troppo e non vuole stare zitto. Ma questa è un’altra storia…
«Quello è del Sismi…»
Mescolato tra i tanti colleghi ed ex colleghi, vicino al buffet offerto dal comune di Cabras, c’è uno che ha l’aria di essere, oltre G71, il pezzo da novanta. Lo capisci da come tutti “gli spioni” si rivolgono a lui. È sicuramente sardo, ma può sembrare arabo o, perfino, non è uno scherzo, tedesco. Parla il dialetto sardo, si esprime in arabo, conosce un tedesco perfetto, il cecoslovacco, l’inglese, il francese e lo spagnolo. Per gli Stati Uniti è laureato in medicina e fa il dentista. Per l’Italia no: è un abusivo. I modi e il look non sono appariscenti, ma si percepisce il carisma. Avvicinarlo, pur essendo in una sala piccola, è difficile. Capita sempre qualcosa sul più bello: uno che lo chiama, un altro che “involontariamente” lo urta e il bicchiere cade per terra, il cellulare che squilla, ma nessuno risponde.
È lui, poi, che risolve la situazione: «So che le interessa sapere qualcosa sulle nuove Brigate rosse. Che poi sono le vecchie: non è cambiato nulla». Sussurra: «Sono Franz. Il dottor Franz. Per i servizi segreti di mezzo mondo questo nome di battaglia vuol dire qualcosa. Ma qui c’è troppa gente, non mi fido. Ci vediamo domani ad Alghero». Ma chi è il dottor Franz?
«Un bravo dentista», dice lui. Ci vuole proprio una gitarella ad Alghero. Seduti intorno al tavolo della cucina, nell’appartamento di un amico che non c’è, Franz sembra più tranquillo. L’inizio del racconto è assai umano: «Sono entrato nei servizi segreti italiani per amore. Per amore di una donna dell’Est». Fino a quel momento Franz era un mozzo che lavorava sulle navi e guadagnava molto bene per i primi anni Settanta: un milione e mezzo al mese. «D’altronde dovevo mantenere una famiglia numerosa (mamma, due fratelli e tre sorelle), che dopo la morte di mio padre non aveva alcun sostegno».
«Ho visto Franceschini in Cecoslovacchia»
Girando per il mondo conosce la figlia di un colonnello della Stasi, che vive in Cecoslovacchia. «Appena rientravo da un viaggio in nave, la raggiungevo al suo Paese. Così ho imparato la sua lingua e soprattutto a muovermi con grande disinvoltura in uno Stato così vicino, ma anche così lontano». Nel 1974 la proposta indecente. «Ero in via Colli della Farnesina, a Roma. Stavo bevendo qualcosa al bar vicino all’ambasciata. Mi avvicinano due tizi che non conoscevo. Che, invece, di me sapevano tutto. Uno era Antonio La Bruna, incaricato dal Sid di ingaggiare personale civile. Non sapevo che fosse la Gladio. Mi chiedono se voglio collaborare. Se voglio entrare nei servizi segreti. “Ci pensi un paio di mesi”, mi dice La Bruna con garbo, “poi mi chiami a questo numero”».
Franz è un freddo. Passionale, ma freddo. Gli offrivano un milione al mese fisso per fare quella che lui riteneva una vacanza: vivere nel Paese della sua donna. «Dopo due mesi ho accettato. La Bruna mi ha convocato a Roma, in via XX settembre, presso l’ufficio decimo. E mi ha affidato i compiti: pedinare i terroristi che dall’Italia andavano in Cecoslovacchia per addestrarsi. L’ho fatto per cinque anni. Anche dopo il rapimento Moro. Ogni volta La Bruna mi chiamava da un telefono pubblico. Mi convocava. Mi segnalava tipo di macchina, targa e luogo di partenza… Neanche mia madre sapeva nulla».
Per esempio. Il furgoncino targato… parte da Padova alle ore… «Io mi mettevo dietro. Lo seguivo, fino a Linz, alla frontiera austriaca con la Cecoslovacchia. Avevo notizia di chi proseguiva il pedinamento dopo di me, per non rischiare di perdere i terroristi al posto di blocco. Oppure li prendevo io a Ceske Budejovice, la prima città in Cecoslovacchia e gli stavo addosso fino a Brno. I campi di addestramento erano a Carlovi Vari, oppure vicino a Brno, a Litomerice, a ovest di Praga. Ufficialmente erano delle terme. Già, perché magari, dopo qualche rapina fatta in Italia, dovevano riposarsi un po’…».
Una bomba! Francesco Cossiga ha appena detto, a proposito delle Brigate rosse, che non esiste alcuna connessione internazionale, che sono un fenomeno soltanto italiano. Ipotesi confermata anche dalle dichiarazioni di Mario Moretti e di Paolo Persichetti, l’ex Br recentemente estradato dalla Francia. Dottor Franz, ma lei è certo di quel che dice?
«Io li ho pedinati e fotografati. Anche dopo il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. So da chi compravano le armi e l’esplosivo. Li ho visti entrare nei ristoranti popolari, mangiare senape e würstel. Li ho visti che si beccavano qualche cameriera. Non solo per copertura. Li ho visti parlare con i loro addestratori, tutti agenti del Kgb e con i terroristi della Raf, dell’Eta, e quelli libici. Noi seguivamo i loro. La polizia ceka seguiva noi. Come mai? Direi a Cossiga che ho lavorato per il mio Paese in condizioni difficili: pedinare in Cecoslovacchia un terrorista che ha la copertura del Kgb è quantomeno arduo. Non parlo a vanvera: il materiale scritto e fotografico io l’ho regolarmente spedito in Italia o consegnato ad agenti italiani. Uno, Tano Giacomina, è morto in uno strano incidente. Due mesi fa mi ha cercato Franco Ionta (il magistrato che indaga sul delitto Moro, ndr). Ho parlato con un maresciallo dei Ros, il reparto operativo speciale dei Carabinieri. Ma non è successo nulla».
Incredibile: sono documenti che provano l’esistenza di un collegamento tra colonne delle Br e servizi segreti stranieri. E nessuno fa niente. Nomi? «Niet». Franz, dai. «Guardi che è pericoloso. Perché io ho pedinato e seguito gente che non è mai stata arrestata…». Qualcuno di quelli arrestati può dircelo? «Per esempio Alberto Franceschini. L’ho seguito e l’ho segnalato. Quindi non è vero, come è stato detto, che lui arrivava dalla Germania dell’Est. Lui arrivava da Praga. L’ho visto recentemente, in tv. Com’è cambiato: sembra un professore».
Franz a Praga prende una casa in affitto da un dissidente: tra i suoi compiti c’era anche quello di aiutare gli oppositori o i perseguitati dal regime a scappare in Occidente. Per farlo rischia la vita. «Un giorno La Bruna mi dice: scusa, ma perché non metti su a casa tua uno studio dentistico come attività di copertura? Avevo molti pazienti. Anche la mia donna. Che essendo figlia di un generale della Stasi, mi dava un sacco di notizie… Per tutti diventai il dottor Franz. In realtà ero il responsabile della base di Gladio in Cecoslovacchia. La parola d’ordine era: ho male al dente numero…».
«Ieri si chiamava kgb, oggi Mafia russa»
Questo pezzo di racconto è da shock. Sono le 11 di mattina e Franz si è già fumato mezzo pacchetto di sigarette. Nella sua mente investigativa si susseguono i pensieri. Spegne l’undicesima cicca. E dice secco: «È da un mese e mezzo che hanno ricominciato a minacciarmi. A farmi certi discorsetti via e-mail. Fanno così, “loro”. Poi, bum-bum. E tu sei morto. Come è successo a quei due, D’Antona e Biagi. E Landi, quella specie di hacker che aveva scoperto troppo. Suicidato, ma va’… Io i miei figli voglio vederli crescere in diretta. E non dall’alto dei cieli. Non voglio fare una brutta fine ed essere consolato da un ministro che si dimette. Ora mi sono rotto».
Dietro la facciata aggressiva, strafottente e ironica, adesso si legge tanta paura. «Guardi, io lo so per certo: sia D’Antona che Biagi avevano ricevuto un sacco di minacce. Tutti e due stavano indagando sulla provenienza degli attacchi minatori. Avevano scoperto i mittenti. Sapevano chi sono i terroristi e chi li protegge. Ma sono stati fatti fuori». Franz racconta un fatto davvero inquietante che riguarda il presunto strano suicidio (giovedì 4 aprile 2002) del tecnico informatico Michele Landi. «Poco prima di morire aveva mandato un’e-mail a un mio amico che era nei servizi con me. C’era scritto che aveva scoperto la provenienza delle rivendicazioni dell’omicidio Biagi. Arrivavano dal computer di un ministero».
Ecco perché ha paura il dottor Franz: lui sa tutto quello che sapevano le tre persone uccise. E forse anche molto di più. Sa per esempio nomi e cognomi. Conosce le connessioni internazionali. Su un fatto il nostro uomo è certo: «Dietro ci sono sempre gli stessi. Ieri si chiamava Kgb. Oggi si chiama mafia russa. Il terrorismo non può vivere senza una potenza alle spalle. E il disfacimento dell’Urss ha fatto sì che fosse messo in vendita l’arsenale di una superpotenza» .
“Loro” sarebbero ex agenti del Kgb, che nel frattempo sono diventati miliardari della mafia russa, che partecipano al gioco mondiale della destabilizzazione finanziando e fornendo armi ai terroristi occidentali. «Che agiscono insieme ai terroristi islamici: niente è cambiato. Ho visto documenti esplosivi che lo dimostrano. Come quello che riguarda il mitico Sciacallo. Non ci sono nuove Br, nuova Eta, nuova Ira. Ci sono Br, Eta e Ira. Usano le armi di ieri e l’esplosivo di ieri: i kalashnikov e il Semtex, fabbricato, guarda caso, in Cecoslovacchia. L’unica differenza è che hanno stretto un patto d’acciaio tra loro». Tanta paura? «Sì, ma anche lei deve averne: le ho parlato di fatti che non ho voluto dire neanche ai Ros».
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