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Han Kang è premio Nobel per la Letteratura 2024: un riconoscimento alla profondità dell'animo umano
La scrittrice sudcoreana Han Kang ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2024, un riconoscimento che celebra il suo contributo straordinario alla letteratura contemporanea
La scrittrice sudcoreana Han Kang ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2024, un riconoscimento che celebra il suo contributo straordinario alla letteratura contemporanea. L’opera di Han Kang, conosciuta per la sua esplorazione delle dinamiche psicologiche, la violenza interiore e il desiderio di libertà, è diventata un punto di riferimento per chi cerca di comprendere le complessità…
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12 Anime Psicologici
Capita giunga un anime che guardi con la bocca spalancata, così che il tuo cervello richieda costantemente delucidazioni? Quando pensi: “Che cosa sta realmente accadendo?".
Questo articolo prende così in esame quei titoli con sceneggiature complesse, stili e personaggi che lasciano riflettere seriamente il pubblico su quanto abbia appena visto. Molti di questi potrebbero richiedere una seconda visione e la maggior parte di essi avrà un'interpretazione diversa a seconda della mentalità e dei punti di vista dello spettatore.
L'anime di Neon Genesis Evangelion (incluso End of Evangelion)
La punta di diamante. Impossibile non citarlo né iniziare altrove, Neon Genesis Evangelion ha ispirato e influenzato la maggior parte degli altri titoli di questa lista. Non solo: è anche considerato uno dei migliori anime di tutti i tempi. Ha rivoluzionato i paradigmi di come vengano percepiti i prodotti animati (meramente come un mezzo?) e ha fornito un'analisi completa dei messaggi e della filosofia che veicolano. Con la sua trama labirintica e contorta, Evangelion ti farà certo dubitare di ogni suo minimo particolare.
Serial Experiments Lain
Acclamato come uno degli anime visivamente più sperimentali e narrativamente provocatori di tutti i tempi, Serial Experiments Lain ha una trama magistralmente ben congegnata e complessa. Potrebbe perciò essere necessaria una seconda visione. Offre infatti un viaggio psicologicamente impegnativo impossibile da eguagliare.
Monster
è l'unico anime che ti farà costantemente chiedere: come si può partorire un'idea tanto geniale? Una delle narrazioni più impegnative e complicate mai prodotte. Con la sua brillante attenzione per i dettagli, rende ogni scena estremamente vitale. Perfect BluePerfect Blue è stato il primo lungometraggio di Satoshi Kon. Questo film mostra di cosa sia capace l'artista quando ha completa libertà creativa. Una linea distorta tra fantasia e realtà. Agli spettatori la possibilità ed il compito di individuarle entrambe. Darren Aronofsky ha acquistato i diritti di Perfect Blue e ha ricreato una scena identica nel suo film Requiem for a Dream.
Mousou Dairinin (Paranoia Agent)
è una pesante critica sociale mascherata da thriller psicologico. Tratta abilmente temi come depressione, alienazione e una falsa salvezza. I personaggi sono unici e dinamici: affrontano vari dilemmi morali come rappresentazione metaforica della nostra società.
Paprika
è stato, invece, l'ultimo lungometraggio di Satoshi Kon e probabilmente il più impegnativo. È uno spettacolo visivo che pone l'accento - in senso lato - sull'esplorazione e possiede una struttura narrativa filosoficamente complessa. L'anime ha infatti ispirato il celeberrimo Inception di Christopher Nolan, nominato agli Oscar nel 2010.
Ergo Proxy
Ergo Proxy esplora la profondità dell'umanità e la sua sopravvivenza. Ambientato in un mondo futuristico, gestisce l'impostazione distopica mescolando la sua atmosfera tenebrosa e le fantastiche musiche. Trama complessa e simbolismo religioso fanno di Ergo Proxy un anime brillante che riesce a trasmette i suoi messaggi filosofici in modo davvero unico.
Ghost in The Shell
è un traguardo molto speciale nella storia degli anime. Non solo per l'influenza che questo film fantascientifico del 1995 ha avuto sul futuro dell'intero genere animato, ma anche per il modo in cui gestisce una trama filosoficamente complessa in soli 90 minuti. Nonostante ciò, riesce a mantenere una certa solidità.
Shoujo Kakumei Utena (Revolutionary Girl Utena)
Sulla carta Revolutionary Girl Utena potrebbe sembrare una serie molto ordinaria. Superficialmente appare solo come la banale storia di una ragazza magica. L'elemento fantasy è un espediente per lasciare che la trama progredisca. Un anime stimolante con una vivida direzione artistica.
Yojouhan Shinwa Taikei (The Tatami Galaxy)
La struttura narrativa di The Tatami Galaxy è la sua parte più complessa. È semplice comprendere il finale, ma difficoltoso è capire come ci arrivi. La sua trama labirintica è ben congegnata e ogni scena è studiata alla perfezione. L'anime sub ita è disponibile online e utilizza immagini dal contenuto assurdo e scenari verosimili per creare un'esperienza quasi surreale.
Boggiepop wa Warawanai (Boogiepop Phantom)
Boogiepop Phantom vanta un montaggio sonoro unico e una direzione artistica senza precedenti. La sua complessità si rivela ostica, tanto che senza il necessario approfondimento suscita più dubbi che risposte.
Ciò lo rende un anime quasi scoraggiante da guardare, con le sue ambientazioni surreali.
Fonte: https://animequiz.it/
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Quando una stella muore: Stars Die
Che c’è di meglio per risollevare gli animi di un po’ d’apocalisse? Mi pare proprio il periodo giusto per segnalare della narrativa appartenente all’ameno filone dell’orrorifico – specificamente, quella che parla di come gli esseri umani si comportano davanti alla fine del mondo. Alieni, guerre nucleari, carestie o una semplice influenza che si scopre contagiosissima e mortale: artisti di ogni genere sono (insospettabilmente?) prolifici nel descriverci gli ultimi giorni dell’umanità contro qualcosa più grande di lei, anche se forse mai come adesso, per qualche misteriosa ragione che proprio non riesco ad immaginarmi. Su una nota meno goliardica, sono però convinta che questo genere di storie non alimentino necessariamente solo ansia e terrore, ma che siano in grado di disinnescare la paura della morte, se lette con lo spirito giusto; leggere della fine del mondo può riconciliarci non solo con la nostra mortalità, ma con quella di tutte le cose: “mal comune mezzo gaudio” sarà anche una frase fatta un po’ troppo comoda, ma mi è sempre parso molto confortante sapere che tutto ciò che vive affronterà prima o poi la sua fine.
Certo, inscrivere il nostro personalissimo percorso dalla nascita alla dipartita in un ciclo universale può essere fonte di smarrimento e alienazione, specialmente quando toglie importanza alla nostra individualità, ma questa relativizzazione dell’importanza delle nostre paure e il suo inserimento in una dimensione comunitaria può anche essere tranquillizzante, seppur in maniera poco ortodossa. Insomma, leggere della fine del mondo può essere un passatempo terapeutico! Oppure solo un modo per passare qualche ora della vostra vita a guardare gente morire in modi creativi – lungi da me insinuare che non si tratti di una ragione più che valida per godersi qualche disaster story.
Certo, avrei potuto scrivere un post sulla fantascienza apocalittica senza citare una canzone di Giorgia, ma mi piace pensare di aver reso il mondo un posto migliore scegliendo di non farlo.
La segnalazione di oggi è un videogioco – tecnicamente un walking simulator, ma non riapriamo quel dibattito – di ispirazione dichiaratamente lovecraftiana che ci cala nei panni di Dybowski, una misteriosa osservatrice che arriva con una barca su un’isola sorta in mezzo al mare dopo una criptica conversazione con un interlocutore a cui promette di registrare tutto ciò che succederà. Sembra che la sua presenza lì sia dovuta ad una crisi causata da un Varco (Hole) comparso al centro dell’Europa pochi anni fa; esso ha dato inizio ad un’ondata di malattia e di morte ancora inspiegabile, ma un piccolo gruppo di ricercatori, convinti che l’isola sia l’unica speranza di salvezza per l’umanità, vi si sono recati per studiarla e comprendere che cosa sia e perché sia comparsa all’improvviso in concomitanza con l’aggravarsi della malattia del Varco. Una volta messo piede sull’isola, però, Dybowski ha davanti a sé completa libertà: è possibile interagire con gli scienziati presenti e scoprire le motivazioni che li hanno portati lì e le scoperte che hanno fatto fino a quel momento, ma è una scelta altrettanto valida quella di esplorare l’isola per conto proprio, senza badare minimamente alle altre persone presenti sul sito di ricerca. Il modo in cui sceglieremo di passare il tempo ci indirizzerà verso un finale in cui avremo alcune risposte circa il destino del mondo e l’origine del Varco, nonché sul passato di alcuni personaggi, protagonista compresa.
Tutto normale. Il gioco è un po’ meno giallo di così, ma qualcuno ha dimenticato di disattivare flux prima di fare qualche screenshot.
L’ambiente nel quale ci muoveremo per la mezz’ora necessaria ad arrivare al primo finale è indubbiamente spiazzante. L’isola è a tutti gli effetti una gigantesca massa di carne aliena, piena di protuberanze, bozzi e conformazioni anomale del terreno; la torre che svetta su tutta l’isola (ribattezzata Hollow Tower) è un alto ammasso di tunnel e cavità dai colori bizzarri e dalla consistenza viva. La resa complessiva è parecchio inquietante, considerando anche i ristretti mezzi tecnici del videogioco indie, anche grazie al filtro pixellato che permette di nascondere i limiti più evidenti del motore grafico e di rivelare le forme più strane della flora dell’isola gradualmente man mano che ci si avvicina, aumentando il senso di meraviglia di fronte a queste strutture incomprensibili; siamo oltretutto gettati in una situazione in cui abbiamo pochissimi riferimenti su dove andare o che cosa cercare. Infatti la premessa del gioco, carica di urgenza per un mondo che ha i giorni contati, permette agli altri personaggi di offrire solo spiegazioni scarne e minimali, presupponendo dettagli geopolitici che la protagonista conosce ma il giocatore certamente no; unendo questa prima confusione con la natura aliena dell’isola in gran parte inesplorata – niente bussola e niente mappa: le indicazioni degli scienziati sono l’unica guida che abbiamo – l’esperienza di Stars Die consiste in larga parte nell’interfacciarsi con misteri e problemi che comprendiamo in maniera molto parziale. È una scelta che per forza di cose alienerà molti giocatori e che in certi momenti risulterà frustrante, ma è senz’altro la più coerente per un horror che, cogliendo il senso dei migliori racconti di Lovecraft, vuole mettere a confronto l’uomo con l’assolutamente Altro: l’alieno, una forma di vita talmente differente da quelle a cui siamo abituati che ogni interazione con essa non può che generare fraintendimento, confusione e terrore.
Eldridge che scruta il cielo. Tra pochi secondi inizierà ad urlarci contro, ma sua discolpa siamo effetivamente un po’ delle teste di cazzo.
Infatti l’Altro con cui Dybowski si interfaccerà nel corso della ricerca sarà mistico e sfuggente: se iniziate quest’esperienza sperando di ottenere tutte le risposte sul Varco e sull’epidemia mortale che ha colpito l’umanità, arrivati ai titoli di coda sarete pronti a lanciare il mouse contro il muro. Il gioco fornisce naturalmente una serie di interpretazioni e di punti di vista sul rapporto che si costruisce tra le strutture dell’isola e il resto dell’umanità, ma di fronte al contatto con entità non-umane è impossibile comprendere appieno i nessi causa-effetto e le motivazioni che li hanno portati fino a noi; paraculo? Per la maggior parte del gioco mi sento di dire di no. I finali migliori di Stars Die sono sicuramente quelli che riescono a dosare con abilità il fascino dell’ignoto e le sequenze d’impatto che ci mostrano in che modo l’isola misteriosa è collegata al destino della Terra, coerentemente con le nostre scelte finali. Ciascuno dei membri del team di ricerca ha infatti le proprie motivazioni per essere lì e un’idea precisa su che cosa sta succedendo: a seconda di chi scegliamo di supportare verso la fine vedremo il finale da diversi punti di vista e descritto coerentemente con essi, dal militare Eldridge che è lì perché tiene famiglia alla fredda capo-spedizione Miyazawa che vuole assicurare un futuro all’umanità con ogni mezzo necessario.
Purtroppo non tutti i finali sono all’altezza delle premesse. Quelli che portano a rimanere per l’inizio della fine permettono effettivamente di ottenere qualche risposta in più circa la natura dell’isola e delle entità responsabili dei suoi fenomeni più bizzarri, ma gli altri sono frettolosi e poco significativi in termini di contenuto (quello di Eldridge in particolare), limitandosi ad un effetto shock seguito dai titoli di coda, senza nemmeno farci ottenere qualche informazione in più sul personaggio principale dell’ending; la curiosità spinge immediatamente a cercare gli altri finali ricominciando a giocare, ma più si ripete l’esperienza e più ne vengono messi a nudo i limiti. Uno degli elementi più interessanti e originali del gioco dovrebbe essere lo svolgimento in tempo reale, per cui è possibile mancare eventi o conversazioni a seconda di come si sceglie di impiegare il proprio tempo: ci si potrebbe aspettare che ciò abbia un impatto significativo sulle scelte del giocatore e sul finale, ma non è così; troppo spesso la scelta è tra “assistere ad una conversazione” o “non fare nulla”, considerando anche la scarsa interagibilità degli elementi dell’isola, e all’atto finale potremo comodamente parlare con tutti i personaggi disseminati nella zona di gioco prima di fare la nostra scelta, con una sola eccezione. Ad una struttura molto più lineare del previsto che allontana replay dopo replay il senso di urgenza dal giocatore si aggiungono anche dei dialoghi rigidi e tremendamente innaturali, spesso anche privi di punteggiatura (le maledette virgole!), che tendono alla sbrodolata filosofica più che ai ritmi di una naturale conversazione, anche tenendo in conto delle circostanze particolari in cui avvengono. Insomma, una serie di mancanze che rendono l’esperienza ripetuta per la caccia ai finali un’esperienza più seccante che coinvolgente; il mio consiglio è quello di giocarlo al massimo due volte e arrivare almeno ad un finale che coinvolga Rygg o Miyazawa, che sono quelli più ricchi di interazione con le forme di vita aliene che dovrebbero essere al centro della storia raccontata.
Senza filtro si vede tutto un po’ più nitidamente, ma alcune texture smettono di avere senso; se non avete problemi di vista consiglio di tenerlo attivato.
Facendo un rapido bilancio, le mie considerazioni possono sembrare meno entusiaste rispetto a quelle fatte in segnalazioni precedenti, e a tutti gli effetti Stars Die è, a causa di limiti tecnici e di storytelling, un’esperienza adatta ad una nicchia di giocatori persino più piccola di altra narrativa che ho consigliato; tuttavia, se siete fan di Lovecraft e l’atmosfera degli screenshot vi ispira abbastanza, consiglio di investire una mezz’ora del vostro tempo: costa poco, si può ottenere anche gratis da un drive su itch.io per volontà stessa dello sviluppatore (ma se potete cacciate il denaro, ché son meno di cinque euro), ed è una tra le esperienze nel panorama indie fantascientifico duro&puro che mi è rimasta più impressa degli ultimi tempi.
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I ragazzi di Krillbite Studio rilasciano sul Nintendo Switch eShop un narrative game misterioso e onirico, Mosaic, che porta il giocatore ad esplorare la quotidianità nel modo più contorto.
Dopo aver rilasciato sul Nintendo Switch eShop il loro primo progetto, Among the Sleep, un adventure horror in prima persona con cui riscossero un buon successo, i danesi di Krillbite Studio ci riprovano anche il loro secondo e personale videogioco indipendente, Mosaic, già disponibile sullo shop online Nintendo
Modaic è un’adventure game moderno e surreale che tratta argomenti importanti come la monotonia lavorativa e l’utilizzo dei dispositivi intelligenti come mezzo di distrazione e alienazione.
Vestiremo i panni di un uomo e seguiremo i suoi movimenti giornalieri e ripetitivi tra casa e lavoro. In un mondo futuristico (ma non troppo) avremo a che fare con tecnologie dei giorni nostri, lo smartphone su tutti. Infatti, il nostro povero uomo potrà accendere il suo dispositivo intelligente in qualunque momento della sua noiosa giornata per leggere i messaggi dei suoi famigliari, le ultime notizie o giocare a BlipBlop, uno smartphone game insignificante dal grilletto, o meglio, dal click facile.
Capiterà spesso che il nostro uomo, nel tragitto tra casa e lavoro (non poteva mancare la classica mega-corporazione), si troverà ad esplorare zone della città non ben definite e luoghi assai misteriosi. La linea narrativa è pressoché assente (ci riferiamo a dialoghi tra PNG, la linea narrativa è presente ma in un suo modo particolare) e il gioco si sviluppa su un binario di azioni ben definite, cosa che comporta un alto tasso di ripetitività, ma infondo, il gioco parla di questo.
La prima ora di gioco è abbastanza monotona, con azioni ripetitive e un gameplay dall’interazione bassa, ma appena passata l’ora di gioc abbiamo notato un netto aumento del ritmo. Questa avventura dark e surreale coinvolge il giocatore verso la parte centrale dell’opera (opera che dura sulle 2 ore complessive) culminando con alcuni interessanti colpi ad effetto.
Beh, che dire, il gioco è tutto qui. Parlando della sua parte tecnica, Mosaic soffre di alcuni micro freeze prima e dopo i caricamenti in cui l’azione si stoppa, addirittura, e riprende subito dopo. Non un granché, visto che già il ritmo iniziale è parecchio basso.
Per quanto riguarda la modalità portatile, Mosaic è compatibile con il Touch-screen della console, cosa che va ad aumentare la godibilità e l’intuitività della giocabilità del gioco sviluppato da Krillbite Studio. Lo stile grafico è azzeccato e si sposa molto bene con le atmosfere moderne e surreali del titolo mentre la colonna sonora, realizzata da un team di ragazzi danesi, è più che altro ambient ma pecca di un vero brano importante.
Mosaic è l’ennesimo indie game di valore pubblicato da Raw Fury, seppur dal ritmo basso ma dalle tematiche moderne e assai importanti. Dategli un’opportunità, magari quando lo troverete a metà prezzo.
Mosaic è disponibile sul Nintendo Switch eShop dal 23 gennaio 2020 al prezzo di € 17.99 (attualmente in sconto del 15% se si ha in libreria un titolo dell’ampio catalogo Raw Fury) per 1.8 GB di spazio su console o microSD. Compatibile con il Touch-screen della console, con il Cloud dei dati di salvataggio, Pro Controller e localizzato (testi) in italiano.
Pro:
Atmosfera dark onirica e surreale
Stile grafico azzeccato
Contro:
Alcuni fastidiosi micro freeze
Inizialmente, molto lento e monotono
Link utili:
Pagina gioco su Nintendo.it
Pagina gioco su RawFury.com
Colonna sonora su Spotify:
https://open.spotify.com/album/4ZVj7IHjYa0rmBLerBC68j?si=iB3kqnVHS_qSJ7QUYx9v8Q
Mosaic – Recensione I ragazzi di Krillbite Studio rilasciano sul Nintendo Switch eShop un narrative game misterioso e onirico, …
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“Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”: leggete Evgenij Zamjatin, l’antidoto contro l’esteticamente corretto
La frattura, qui, è scomposta. Intanto: bibliografia liofilizzata e un titolo. E poi: poetica in forma di ideologia. Partiamo dalla seconda. Dei molteplici sguardi che ci sono dati, ci accontentiamo di uno. Narrare, oggi, significa quasi sempre pattinare sulla superficie: una forma di giornalismo con pathos, far cronaca della propria fantasia. Occorre ‘farsi capire’ – mica capire! Non si elabora, dico, altra strategia narrativa che quella dell’italiano in America, mero scimmiottamento della trama. Allenamento alla stupita stupidità dei ‘fatti’. Alienazione dalla lingua – perché tutto ciò che è lingua sa di intransigenza, ha una autenticità al diamante, insopportabile.
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Di Evgenij Zamjatin, ad esempio, sappiamo solo Noi, la cui scrittura iniziò un secolo fa, fu pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 1924, “è il capostipite di tutte le distopie del Novecento”, come insegna la ‘quarta’ dell’edizione Mondadori, a cura di Alessandro Niero, pubblicata nel 2018. La versione Mondadori ripiglia quella Voland del 2013, segue quella di Barbara Delfino per Lupetti del 2007 e soprattutto quella di Ettore Lo Gatto pubblicata da Garzanti e da Feltrinelli. Insomma, Zamjatin è risolto lì. Morto nel 1937 a Parigi, dove era riuscito a espatriare nel 1931, grazie all’avallo di Maksim Gor’kij, Zamjatin, esaltato come un nuovo Gogol’, fu ‘rivoluzionario’, poi spina nel fianco della Rivoluzione, con la penna intinta nell’acido. Fu decisamente celebre: nel 1930 l’Anonima romana editoriale traduce la “tragicommedia in quattro atti” Mister Kemble: la società degli onorevoli campanari. Eroe del gruppo dei “Fratelli di Serapione” – teorico di una narrativa formalmente ineccepibile, con tecniche di montaggio scacchistiche, in reazione all’egida dell’impegno ‘sociale’ – nell’anno della morte è censito così da Lo Gatto, che mise una pietra sopra all’incontenibile: “Originariamente comunista, lo Z. si allontanò sempre più dalle idee sovietiche, ma all’estero visse solitario, senza aderire all’emigrazione politica. Scrittore originale di contenuto e di stile tra il raffinato e il popolare, Z. non aveva ancora dato piena espressione alle sue grandi possibilità artistiche”. Fu, anche in gruppo, solo a se stesso, per questo morì, poeticamente, da poveraccio.
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In un memorabile articolo del 1921, dal titolo indicativo, Ho paura, Zamjatin delinea la cruna dell’arte in contrasto con la politica imperante, contro lo Stato dilagante. “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.
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Sostanzialmente, Zamjatin è risolto in Noi. Tra gli sparuti testi altri, Il destino di un eretico (Sellerio), Racconti inglesi (Voland), A casa del diavolo (Mup). Così, quando Dafne Munro mi invia il trittico di racconti edito da Edizioni Urban Apnea – sia lode all’iniziativa editoriale che pubblica una invidiabile varietà di testi riesumati dall’oblio, da Ambrose Bierce a Camillo Boito, da Horacio Quiroga ad Antonio Ghislanzoni, da Bruno Schulz a Gertrude Barrows Bennett – resto ingenuamente sbalordito. L’ironia corrosiva di Zamjatin, il genio nello strutturare situazioni apodittiche e apocalittiche, la sinuosità del linguaggio, tra coltello e piuma, me lo fa preferire a tanti narratori americani precipitati nel canone (Carver? Ma che è al confronto? Un cioccolatino nella fabbrica di cioccolato…). Zamjatin, ecco, è una specie di antidoto all’esteticamente corretto.
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Zamjatin flirta con il paradosso e la sinestesia (“Caldo. Le giornate sono gialle, cariche della gialla pienezza delle mele mature pronte a cadere al primo tocco, al primo sguardo o soffio”), ha il talento della metafora esistenziale (“Se una pietra cade in acque sonnolente, le agita creando mulinelli che ne increspano la superficie. Ma poi i mulinelli si espandono, lasciando solo irrilevanti increspature simili alle rughe che si formano nell’angolo di un occhio sorridente. E alla fine tutto torna piatto e immobile”), pone gli occhi, su ogni situazione, di sbieco, puntati sull’inatteso e sulla vergogna. Il racconto X è spassoso, racconta l’abiura di un diacono, non tanto attratto dal marxismo quanto dal ‘marthismo’, cioè dalle dolci forme dell’ambita Martha: “la fondatrice di questa dottrina (totalmente avulsa da qualsiasi riferimento filosofico alle classi sociali), al momento solo accennata tra le righe, un giorno di primo mattino, si dirigeva verso il fiume per un bagno. Si spogliò, appese il vestito su un ramoscello, mise in acqua la punta del piede destro… e a un paio di metri a sinistra, sotto a un cespuglio, stava accovacciato nudo il diacono Indikoplev (non ancora pentito)”. Zamjatin, con esasperante bravura, passa dallo sketch divertito alla descrizione lirica, dal grottesco all’appagato, dal colto al greve.
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Il racconto più bello – a varietà di stili corrisponde pluralità di invenzioni narrative – s’intitola La caverna, riproduce una nuova era del ghiaccio, postumana. Questo è l’esordio. “Ghiacciai, macerie, mammut. Le buie scogliere notturne sono case da rivivere in qualche modo. Nelle scogliere, le caverne. E nessuno che conosca l’origine di quel rumore notturno sul sentiero pietroso degli scogli, chi sia a soffiare la nevosa polvere bianca sniffando su per il sentiero. Forse un mammut color grigio-tronco, forse il vento. O il vento stesso è il ruggito ghiacciato del re dei mammut. Una cosa è certa: è inverno. E tu devi stringere i denti più forte che puoi per non sbatterli; devi fare legna con un’accetta di legno e ogni notte devi trasportarla di caverna in caverna, sempre più in profondità. Poi devi coprirti il più possibile con ispide pelli di animali. Anni fa, un mammut grigio-tronco si aggirava tra le scogliere di notte, dove sorgeva San Pietroburgo. Uomini della caverna avvolti in stracci, pelli e mantelle si spostavano di caverna in caverna”. I mammut a San Pietroburgo – lo spettro di Zamjatin dovrebbe irrorare le nostre vite, dovrebbero usarlo nelle scuole di scrittura, dovremmo leggerlo per dare profondità a furor di farfalle a questa bieca ‘realtà’. (d.b.)
*In copertina: Evgenij Zamjatin (1884-1937)
L'articolo “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”: leggete Evgenij Zamjatin, l’antidoto contro l’esteticamente corretto proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2XJccIk
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di Marta Zoe Poretti
"Grazie a questa incredibile giuria e la sua incredibile presidentessa(…) Grazie ai produttori e tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca, grazie per averla preso seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi.”
Così Alice Rohrwacher ha ringraziato la giuria di Cannes e Cate Blanchett, che hanno scelto di premiare il suo Lazzaro Felice per la Migliore Sceneggiatura. Come per Marcello Fonte, Miglior Attore grazie Dogman di Matteo Garrone, quella della giuria è una linea precisa: premiare la diversità, il coraggio di un cinema che prende solo strade traverse, capace di mirare al cuore senza cedere alle lusinghe dello spettacolo, né agli artefatti tipici dell’autorialità (vera o presunta).
Il cinema italiano conquista così il Festival di Cannes 2018, con due film che non potrebbero essere più diversi, eppure hanno un sostanziale punto in comune: raccontare la tenerezza, attraverso due protagonisti dal candore assoluto, esclusi brutalmente dalla società e dagli uomini. Come a dire che bontà, gentilezza e dedizione rappresentano ormai un dato non realistico, un sintomo di alienazione, o forse la più inaccettabile tra le provocazioni.
Lazzaro Felice arriva oggi nelle nostre sale. Fin dal primo fotogramma, il terzo lungometraggio di Alice Rohrwacher dichiara la sua diversità, che parte dalla scelta di girare il film in 16 millimetri. Lontana dall’estetica del digitale, ma anche dalla perfezione del 35 millimetri (suo nobile fratello maggiore), il 16mm è la pellicola delle avanguardie e del cinema a basso costo, la cui grana spessa, non perfettamente definita risulta oggi quasi straniante. Nell’era del 4K, la scelta stessa del Super16 rappresenta un invito: abbandonarsi a una fiaba insolita, dai tempi dilatati, imperfetta e fuori dal tempo.
Lazzaro (Adriano Tardiolo) è un mezzadro: come a dire uno schiavo, la cui vita appartiene e dipende dalla Marchesina Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi). Il ragazzo non conosce altra realtà che l’Inviolata, le sue piantagioni di tabacco, il casale dove vive con Antonia (prima Agnese Graziani, poi Alba Rohrwacher) e altre decine di contadini, ammassati come fossero bestiame. Come ogni estate, la Marchesa raggiunge l’Inviolata con suo figlio Tancredi (Luca Chikovani). A differenza della madre, il Marchesino odia la tenuta, e nel disperato tentativo di sfuggire alla noia, sceglie come amico proprio Lazzaro. La bontà di Lazzaro ne aveva già fatto una sorta di scemo del villaggio: quello a cui tutti si rivolgono quando hanno bisogno di qualcosa. Ma tra l’indolente nobile e il candido ragazzo, nasce un’amicizia istantanea e vera. Un legame così autentico che finirà per rivoluzionare la vita di tutti, rompendo quel “grande inganno” che esclude l’Inviolata dalla realtà.
Lazzaro felice è un film senza coordinate: attraversa lo spazio e il tempo, mescolando presente e passato, la realtà più cruda e l’incanto della fiaba. Ma le differenze tra città e campagna, libertà e schiavitù non si rivelano che illusorie. Da Vetriolo e Bagnoregio, dagli scenari del viterbese a Castel Giorgio e la provincia di Terni, fino a una strana modernità metropolitana (che è il mash-up di Milano, Torino e Civitavecchia), il film di Alice Rohrwacher racconta una ferita italiana: ancora quella illustrata nel 1975 da Pier Paolo Pasolini con “La scomparsa delle lucciole”. Una società che ha annientato i valori della cultura rurale, senza riempire il vuoto di autentico progresso.
Uno scenario ferale, dove la sopraffazione e l’esclusione dei più deboli si consolida come norma, finalmente invincibile, già che non corrisponde più a una Signora Marchesa, ma al muro senza volto di una società intera.
lazzaro felice
lazzaro felice
lazzaro felice
Sia il film di Alice Rohrwacher che Dogman di Matteo Garrone sono l’esempio di un cinema italiano finalmente moderno, che conosce e interpreta le sue radici, su tutte la lezione neorealista: infinitamente replicata, ma raramente così meditata, compresa e riscritta nell’ottica di un racconto contemporaneo.
Con Dogman, Garrone proietta una leggenda della cronaca nera (quella del Canaro della Magliana) nel tempo presente e nello spettrale scenario del Villaggio Coppola di Castel Volturno. Un luogo letteralmente ai confini della realtà, paradiso balneare della criminalità organizzata, ormai tetro monumento alla speculazione edilizia.
Se Garrone è tornato alla stessa location de L’imbalsamatore (2002), anche il legame con Primo Amore (2004) è dichiarato: il volto sinistro e beffardo di Vitaliano Trevisan (che del film era protagonista e sceneggiatore) è tra i primi ad accogliere l’arrivo di Marcello in carcere.
Marcello Fonte è Dogman ma resta Marcello: il premio a Cannes per il Miglior Attore è anche un premio per l’autore, che (ancora una volta) ha scelto un attore vissuto ai margini dello spettacolo per interpretare un uomo ai margini della società. Più oltre, il lavoro di Garrone con Marcello Fonte trova un equilibrio irripetibile tra tragedia classica e quella “teoria del pedinamento” che è alla base della nascita del Neorealismo.
In Dogman, come nella tragedia classica, il destino dell’eroe è noto fin dall’inizio, mentre la storia procede fatale verso una rovina ineluttabile.
Il dispositivo più antico e potente della tragedia incontra qui il cinema di Cesare Zavattini: l’idea di pedinare il personaggio, in un corpo a corpo che rivela attraverso espressioni e gesti comuni l’anima profonda del personaggio.
Dogman diventa così una perfetta tragedia contemporanea, dove umanità e verità si rivelano nel paradosso dell’alterazione iperrealista.
dogman di matteo garrone
marcello fonte, dogman
dogman di matteo garrone
Meno perfetta la pellicola di Elice Rohwacher, bislacca per la sua stessa autrice, che rinuncia all’equilibrio e rifiuta la dittatura del ritmo, perché risplenda la magia del silenzio, dei primi piani, del suo Lazzaro.
Anche il realismo magico di Lazzaro felice, fiaba e racconto morale dal sostrato dichiaratamente politico, è intimamente legato al Neorealismo e la sua rivoluzionaria idea di profondità e “pedinamento”.
Per questo, poco importa delle imperfezioni: in un mercato impazzito, schiavo di continue nuove uscite (destinate presto a bruciarsi in nome della moltiplicazione dell’offerta) Dogman e Lazzaro felice sono l’affermazione di un cinema necessario, dalla vera urgenza narrativa, che domanda tempo, sensazioni e tutta la nostra attenzione.
#thelovingmemory
#Dogman #LazzaroFelice
#Dogman e #LazzaroFelice : cosa raccontano i film italiani premiati a #Cannes di Marta Zoe Poretti "Grazie a questa incredibile giuria e la sua incredibile presidentessa(…) Grazie ai produttori e tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca, grazie per averla preso seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi.”
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All’Àp Teatro Accademia popolare dell’antimafia e dei diritti è andato in scena Requiem for Pinocchio, spettacolo vincitore del Premio Anteprima 2012 e del Premio Bianco e Nero della Civica Accademia di Arte Drammatica Nico Pepe. Una riscrittura, purtroppo debole, della celeberrima favola collodiana.
Contemporaneo al Cuore di De Amicis (1886), Le avventure di Pinocchio (1881) segnò l’avvio strutturale della cosiddetta narrativa per ragazzi, specifica declinazione della letteratura di formazione che tanta fortuna ebbe in Europa a partire dal XIX secolo.
Non solo Collodi pose un bambino a protagonista della propria opera, ma lo concepì con lo specifico obiettivo di promuovere un modello in cui le giovani generazioni potessero identificarsi. Le conseguenze furono molteplici e di complessa decifrazione, con la promozione di un clima pedagogico asservito alla coercizione e all’omologazione dell’individuo, ma anche con la divulgazione di un’opera in verità catartica perché, autorappresentando il proprio male (una società arretrata, ignorante e lassista), intendeva favorire il progresso civile e morale di un’Italia appena nata, portandole in grembo una nuova generazione (i propri lettori) capace di promuoverne «le magnifiche sorti e progressive» (La ginestra, Giacomo Leopardi).
La portata ideologica fu enorme. La diffusione di Pinocchio fu capillare già all’inizio del XX secolo e diventò planetaria grazie all’omonimo film di Walt Disney del 1940. Tuttavia, se le conseguenze materiali furono determinanti, la valutazione su di esse attraversa almeno tre prospettive, paradossalmente, opposte tra loro.
Tra la posizione di chi critica senza se e senza ma una proposta educativa fondata sul terrore e sulla minaccia (nonché sull’idea che si possa essere amati solo a patto di conformarsi a una norma eterodiretta); quella che vede in Pinocchio lo specchio ironico e profetico di una drammatica situazione di alienazione esistenziale (annunciata negli stessi anni e con inaudita potenza dalla filosofia di Friedrich Nietzsche e dalla letteratura di Charles Dickens); e il pragmatismo di chi riconosce le condizioni storiche e sociali in cui il romanzo nacque (un periodo cruciale in cui «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani» ed era, allora, assolutamente prioritario formare cittadini onesti e capaci di dare un contributo attivo alla società, di adempiere al proprio dovere e, dunque, di essere responsabili e coscienziosi), Simone Perinelli rigetta l’indigesta ipocrisia della terza, ignora la profondità della seconda e, con puerile idealismo, affida completamente la propria drammaturgia alla prima, immaginando Pinocchio che depone, a un giudice/gorilla, il rimpianto di quanto pure aveva odiato da burattino («stavo meglio col cappio al collo che col nodo di cravatta. Se non dispiace a Vostro Onore tornerei alle mie peripezie, piuttosto il paese dei balocchi, ma non quello delle lotterie»).
Lo fa, nonostante non manchino le qualità a questo Requiem for Pinocchio, con un allestimento non solo, o non tanto, didascalico nella restituzione visiva, quanto clamorosamente ridondante rispetto alle proprie premesse e finalità culturali.
Convincono, infatti, oltre a una prova d’attore d’applausi, la capacità con cui Perinelli recupera quasi ogni aspetto del romanzo originario e dona omogeneità a un testo non scevro di poesia. Tuttavia, la tenuta drammatica del monologo di un Pinocchio che chiede di tornare burattino di legno cade rovinosamente nel momento in cui consegna la propria bohémien e metateatrale difesa dell’eccezionalità e dell’unicità («avrei anche una richiesta: vorrei giustappunto tornare burattino!») tanto al disfattismo di un’unilaterale critica di una cultura pop trasfigurata da Perinelli, con la consulenza artistica di Isabella Rotolo, in un continuo citazionismo massmediatico, quanto a una sublimazione estetica immediata nell’uso degli oggetti scenici (dalla maschera del Ciuchino di Sherk e dal salto della corda per rappresentare la trasformazione nel Paese dei Balocchi e la sua esistenza da burattino, alla descrizione chimica di un chupa chups al non-mandarino per contestare «questo vostro viver che – corsivo ndr – si chiama sopravvivenza»).
Se anche l’inserto dell’estratto da Emporium di Marco Onofrio può essere considerato ridondante (già Carmelo Bene, dalla cui interpretazione Perinelli attinge a piene mani, aveva scelto di utilizzare nella riduzione di un Pinocchio una citazione tratta da Timore e tremore di Søren Kierkegaard), a risultare particolarmente stucchevole è la stessa intenzione compositiva volta a costruire una narrazione irrazionale e onirica; una scelta che certamente funziona nel mostrare l’abilità interpretativa dell’attore, ma che esonda pericolosamente il rischio della noia e risulta inconsistente nella reiterazione con cui amplifica il paradosso dell’artificialità del linguaggio, enfatizza il proprio attacco dall’interno al modello educativo collodiano della società e sottovaluta totalmente la possibilità di leggere come opportunità le potenzialità offerte dal progresso tecnologico.
Quello che perplime e, onestamente, sconforta è allora il continuare a riscontrare «l’atteggiamento di una generazione di anime belle recluse nella loro inattualità» (Alessandro Alfieri), ossia i limiti di chi interpreta la contemporaneità esclusivamente come negativa («da burattin mai nessuno mi disse che divenir bambin significasse crescere diventare ometto, uomo, vecchio e poi morire. Ma la morte niente poi sarebbe, se non fosse che nel bel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai a dover lavorar per campare e la via della felicità s’è smarrita!»). Di chi esalta un passato mitico che, ammesso che sia mai esistito, probabilmente rappresenta quella stessa causa e radice del male che si intende contestare (il presente).
Requiem For Pinocchio (4)
Requiem For Pinocchio (2)
Requiem For Pinocchio (1)
Lo spettacolo è andato in scena Àp Teatro Accademia popolare dell’antimafia e dei diritti via Contardo Ferrini 83, Roma 11 gennaio 2018, ore 21.00
Requiem for Pinocchio di e con Simone Perinelli con un estratto di Emporium di Marco Onofrio aiuto regia e consulenza artistica Isabella Rotolo progetto grafico e foto di Guido Mencari
Requiem for Pinocchio All'Àp Teatro Accademia popolare dell'antimafia e dei diritti è andato in scena Requiem for Pinocchio…
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“La scrittura non salva, è una lotta per la sopravvivenza”: Matteo Fais dialoga con Marco Vetrugno, autore di “Apologia di un perdente”
Sarà pur vero che “il dolore è eterno,/ ha una voce e non varia”, ma certo è in buona misura scomparso dalla scena letteraria. A quanto pare non è granché commercializzabile, proprio come l’ironia nella canzone popolare. Un libro per vendere deve far ben sperare, indurre al sogno, essere catartico nel senso più basso del termine. O, alla peggio, lo può toccare un’appena percettibile malinconia di fondo, così da non turbare oltremodo le nostre anime già tenute chimicamente a bada da qualche goccia di Xanax che ne cheta ogni angoscia, per quanto giustificata possa essere. Meglio che lo spirito sia leggero, pronto a spendersi con tutte le proprie forze per la produzione e l’accumulo. Perciò, lascia basiti vedere come qualcuno – e non una casa editrice qualsiasi, ma la Elliot Edizioni – abbia deciso di pubblicare Apologia di un perdente di Marco Vetrugno.
L’autore, lettore infaticabile, poeta e scrittore teatrale, licenzia un nuovo monologo che riporta in scena in grande stile la riflessione esistenziale più cruda e abissale. Forte di un’esperienza di vita che avrebbe annichilito tre quarti degli scrittori attuali, Vetrugno aggredisce con rabbia e disincanto il lettore-spettatore riportandolo alla cogenza di quello che Camus considerava “il solo problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”. Ha senso vivere? E generare? Quando l’esistenza non è più vita, ma un qualcosa che si trascina? Può sembrare che le domande siano banali e forse effettivamente lo sono – da sempre –, ma le risposte avanzate dall’autore risultano tutt’altro che scontate in un testo che vi coglierà di sorpresa come un fulmine a ciel sereno.
Il primo interrogativo che mi è venuto in mente leggendo il tuo monologo è stato: ma come fanno a pubblicarlo? È un testo duro, diretto, sincero, per niente consolatorio. Ed è scritto da un autore non propriamente notissimo, diciamo così. Quindi, toglimi una curiosità: come hanno fatto a pubblicarti?
(Ride) Devo tutto a un curatore del gruppo editoriale Lit. Avevo visto su Facebook che cercava nuovi autori. Sai come si fa in questi casi: mandare una mail non costa nulla. L’ho fatto, pur essendo consapevole che il mio testo, essendo teatrale, non rientrava in ciò che lui presumibilmente cercava, ovvero della narrativa. Ho inviato comunque. Era uno di quei tentativi disperati in cui pensi di partire già sconfitto, ma ti butti alla o la va o la spacca. Sta di fatto che, per una volta, mi sbagliavo a essere tanto negativo. L’opera è stata letta e ha suscitato immediatamente un’impressione positiva. La Elliot Edizioni ha poi deciso di inserirla in una collana apposita, Lampi, composta di testi brevi di natura sperimentale e sono così finito in mezzo a tutta una serie di mostri sacri, da Proust a Balzac.
Ipotizziamo di voler fare una breve sintesi della trama… Dico la verità, avrei qualche difficoltà, anche perché in questa tua opera – come nella maggior parte delle opere ben riuscite – non succede granché. Non per niente, si tratta di un monologo. Tu come spiegheresti l’intreccio del tuo testo ai nostri lettori?
Per stare alla semplice trama, direi che questo è un monologo in cui un uomo, Ezra, di cui non conosciamo il passato, confessa la sua condizione di alienazione e solitudine. Il suo disincanto è tale da non riuscire neanche più a trarre giovamento dalla sublimazione artistica. L’opera è ambientata in un museo. Di volta in volta, un quadro funge da semplice background o da cornice in cui si svolge un determinato atto. Il protagonista ha in mano una figura fetale, fasciata con dei panni, e lì, vicino a lui, è contenuto in una teca il teschio della sua compagna trapassata. Questo per quel che concerne l’intreccio. Mi sembra però il caso di metterlo in parallelo con il mio precedente lavoro, anch’esso un monologo, Mutilo, Musicaos 2017, di cui Apologia di un perdente costituisce per così dire il contraltare. Il protagonista, che dà anche il titolo al testo, è uno scrittore che si è fatto saltare le mani per perdere l’uso della scrittura e quindi dell’arte. Alla fine si ucciderà, sull’onda di una presa di coscienza e di coraggio. Mutilo è un incurabile, come è un incurabile Ezra. Entrambi sono alienati. Ezra però, a differenza di Mutilo, è un uomo che ha vissuto per inerzia, che a un certo momento ha perso e ha convissuto con la sua sconfitta. Debbo confessarti, a questo punto, che io sono figlio di un suicida. Mio padre era bipolare. Si è ucciso quando avevo 16 anni. Non ti sembri strano, quindi, se tutta la mia produzione, o almeno la gran parte, verte su questioni tanto controverse, oltre ad avere molte affinità con il mio vissuto. Ho avuto esperienze forti e questi due monologhi ne sono una diretta conseguenza. Ezra è simile a me, nel senso che non è riuscito a cambiare e neanche è riuscito a trovare il coraggio per morire. Al contrario Mutilo, che a un certo punto prende coscienza del dolore e rifiuta l’alienazione, è più vicino a mio padre. Per entrambi, quando la pena è diventata insostenibile (nella fattispecie di mio padre, dopo anni di malattia) c’è stata una presa di coraggio – o almeno io così l’ho vissuta. A una vita che non era più vita, hanno deciso di mettere un punto. Contrariamente a me, contrariamente a Ezra che invece accetta l’alienazione, la solitudine, la propria sconfitta.
L’apologia ha una lunga storia nella tradizione europea. Basti pensare alla più famosa, quella di Socrate. Perché tu hai scelto di fare quella di un perdente? Cosa rappresenta questa figura per te?
Devo essere brutale: ho scritto un’apologia di un perdente perché il perdente sono io. La mia vita e il mio presente sono un qualcosa su cui non riesco a intervenire. Ci sono dei meccanismi autodistruttivi a cui non riesco a sottrarmi. Diciamo quindi che in questa figura mi ritrovo. Se mio padre è riuscito a mettere un punto, io non riesco né a migliorarmi né a fare come lui e ciò è piuttosto avvilente. Vivo una costante condizione di malessere e alienazione. Non vorrei dirlo, ma l’apologia è per me. Raccontando questa storia ho raccontato me stesso. Tramite Ezra porto la mia esperienza in scena, restituisco la raffigurazione letteraria di una condizione esistenziale.
Tu provieni dalla poesia e questo monologo è scritto in versi. In che modo queste tue due inclinazioni, il teatrale e il poetico, si incontrano in questo ultimo lavoro?
Questo è un momento particolare nella mia vita dal punto di vista artistico, desidero sperimentare. Io arrivo al teatro da studioso, da lettore e da spettatore, ma senza aver mai fatto corsi. Però, forte di questa semplice base da fruitore, ho capito che questo raccoglie tutto. È un contenitore che ha in sé dalla poesia, alla filosofia, all’arte figurativa…
Insomma, come nella Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale di Wagner…
Sì, ho cercato una via sperimentale per arrivare a una sorta di opera totale che riuscisse a veicolare i vari elementi, secondo un’idea di contaminazione. Insomma, come diceva Carmelo Bene: non si può più fare teatro con il teatro, poesia con la poesia. Certo è rischioso. Infatti, come ben sai, ce ne sono pochi in giro e la mia casa editrice mi ha dovuto mettere in una collana a parte tra gli scomparsi.
Ogni atto ha come protagonista, oltre a Ezra, anche un quadro. Delle volte funge da sfondo, altre volte da scenario, insieme a un museo non ben specificato. E sono tanti i grandi nomi di pittori che citi. Come mai questa scelta e perché proprio questi autori?
Il motivo per cui la scelta è caduta proprio su questi pittori è facile da arguire. Chi ne conosce la vita sa che si tratta in ogni singolo caso di esistenze molto travagliate. Da Van Gogh, a Bacon, a Schiele, tutti questi artisti hanno avuto un privato molto controverso che si è poi trasformato in arte. Anche a livello visivo, facendo una carrellata, persino una persona non appassionata di pittura e storia dell’arte noterà una correlazione, un minimo comune denominatore di inquietudine diffusa. Per tal motivo ho deciso di inserirle materialmente nel testo. Se avessi fatto mettere solo il titolo delle opere, non sarebbe stata la stessa cosa: vedendole, chiunque potrà farsi immediatamente un’idea dello spirito del testo.
Tra i temi che sono riuscito a individuare in questo tuo ultimo lavoro, citerei il dolore, l’angoscia, l’incapacità e il male di vivere, l’antinatalismo, l’illusorietà del concetto di comunità. Insomma, la vita è invivibile per dirla con il già citato Carmelo Bene. Quindi, qual è il ruolo dell’arte in questo inferno?
Per quanto mi riguarda, la scrittura, come la lettura e lo studio, mi hanno salvato letteralmente la vita. A 16 anni ho lasciato la scuola, dopo la morte di mio padre. Sono andato via di casa a 17/18 anni. Di lì a poco, già lavoravo in un bar. Poi ho fatto diversi anni di strada, fino a che non sono stato arrestato. A 27 anni ho ripreso a studiare. Dopo tutto questo casino, ho cominciato a scrivere e la scrittura ha assunto per me la connotazione di una lotta per la sopravvivenza e la legittimazione del mio esistere. Oramai dedico tutte le mie forze a queste attività. Nel libro c’è un passaggio in cui Ezra dice che riusciva a trarre forza dalla bellezza e, in generale, dalla sublimazione artistica, fino a quando non è morta la compagna, e da allora la sua passione non riesce a dargli più nulla e l’arte gli appare come un semplice artificio. Anche mio padre era una persona molto appassionata. A un certo punto, però, neanche i suoi interessi più grandi gli sono stati d’aiuto… Per me, invece, negli ultimi otto anni, l’arte e le letture mi hanno consentito di andare avanti. L’importante è che si capisca che io non penso mai all’arte come un qualcosa di salvifico – aggettivo che non mi si addice minimamente. Casomai io parlo di lotta, perché sono disilluso e non nutro alcuna speranza. Anzi, peggio, non aspiro a nessuna salvezza. Allo stesso tempo, però, tutto ciò che faccio mi aiuta a trovare un motivo per alzarmi la mattina. Nel senso che mi resta solo questo e, se non ci fossero certe passioni a dare un indirizzo alla mia giornata, credo veramente che non mi rimarrebbe niente.
I tuoi ispiratori nella poesia, nel teatro e, in generale, tra le tue letture?
Nel teatro mi colpì molto il Caligola di Camus, A porte chiuse di Sartre, Finale di partita di Samuel Beckett, Sarah Kane. In generale adoro Thomas Bernhard, qualsiasi libro. Tra i poeti Thierry Metz con L’uomo che pende, Paul Celan, Gherasim Luca. Degli italiani Ferrari, Simone Cattaneo, Dario Bellezza, Salvatore Toma. Potrei poi aggiungere centinaia di altri autori e titoli… Ma sono talmente tanti (continua a ripetere per almeno trenta secondi).
Matteo Fais
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