#narrativa senza tempo
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pier-carlo-universe · 3 days ago
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"Il Grande Gatsby" di F. Scott Fitzgerald: La bellezza e la tragedia del sogno americano. Recensione di Alessandria today
Un'analisi del capolavoro che cattura l'essenza dell'età del jazz e del desiderio umano di grandezza
Un’analisi del capolavoro che cattura l’essenza dell’età del jazz e del desiderio umano di grandezza Il Grande Gatsby è uno dei romanzi più iconici della letteratura americana, scritto da F. Scott Fitzgerald e pubblicato per la prima volta nel 1925. Ambientato negli anni ruggenti del jazz, il romanzo esplora le sfaccettature del sogno americano attraverso la storia dell’enigmatico milionario Jay…
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falcemartello · 7 months ago
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IL PARADOSSO DEL TOTALITARISMO
di Andrea Zhok
Da tempo la strategia narrativa neoliberale, di matrice angloamericana, passa attraverso due mosse:
1) il tentativo di definire il mondo liberale come l’unico mondo possibile, per cui, nel lungo periodo non c’è alternativa (da Fukuyama alla Thatcher), e 2) il tentativo di sussumere tutte le forme di vita, tutte le organizzazioni politiche e tutti gli impianti culturali che pretendono di non ridursi al paradigma liberale come “illiberali-e-dunque-totalitari”.
Finiscono così nel calderone degli “illiberali-e-dunque-totalitari” ogni religione che pretenda di essere più che fatto privato (es.: l’Islam), tutti i paesi che pretendono di mantenere sovranità senza genuflettersi all’impero americano (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord ma poi anche, a seconda di come girano i governi, Cuba, Venezuela, Bielorussia, Ungheria, Serbia, Sudafrica, ecc.), e poi tutte le ideologie che hanno storicamente rigettato l’impianto liberale (socialismo/comunismo in primis, conservatorismi pre-liberali dove esistono, e nella modesta misura in cui hanno elaborato una teoria, i fascismi tra le due guerre).
Naturalmente gli elementi che compaiono in questo calderone presentano, a chi voglia prendersi la briga di guardarli da vicino, una miriade di soluzioni politiche, istituzionali e culturali diverse, ma questo per la narrazione neoliberale è irrilevante: su di essi ricade la scomunica dell’“illiberalità-e-dunque-totalitarismo”.
Ci si ritrova così con il seguente quadro, altamente ironico, per cui il liberalismo, l’unica ideologia che si pretende l’ultima e definitiva verità della storia, da estendersi in forma planetaria, denuncia tutte le altre culture e soluzioni politiche della storia come “totalitarie”.
✅In sostanza l’unica cultura che oggi ha pretese realisticamente totalitarie denuncia tutti gli altri come totalitari.
E siccome in una visione totalitaria, ciò che appartiene alla propria ortodossia è per definizione il Bene, le società liberali (oggi neoliberali) riescono con perfetta serenità e buona coscienza a prodursi in spettacolari doppiopesismi, in un profluvio di doppi standard, perché i nostri delitti sono errori contingenti, i vostri ignobili abiezioni, i nostri massacri sono danni collaterali, i vostri espressione di malvagità innata, le nostre proteste interne sono tafferugli di minoranze ingrate, le vostre sono manifestazione popolare di un anelito alla libertà, ecc. ecc.
La denuncia neoliberale di “tutti i totalitarismi” è la perfetta esemplificazione del proverbiale bue che dà del cornuto all’asino.
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muffa21 · 3 months ago
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Ho avuto un'infanzia meravigliosa. Con i monti e i torrenti e gli alberi e le lucertole assolati del mio Paesello. E Dio che ci sorvegliava, sonnacchioso dentro ai tabernacoli delle chiese, insieme alle vecchiette con la bocca piena di caramelle Rossana e canti sacri nella luce colorata che filtrava attraverso le vetrate della Matrice.
A undici anni, il declino. Abusato il primo anno di scuole medie da un compagno di classe pluri-ripetente. Mi costringeva a masturbarlo di fronte a tutti. Nessuno mosse un dito. Temo che qualche professoressa sapesse; ma meglio non andarsi a infilare in faccende più grandi di sé... soprattutto se ti ritrovi disgraziatamente a buscarti il pane nel quartiere più violento e feroce di Palermo, a pochi anni della guerra e delle stragi di Mafia. Nessuno si vergognò. Né l'abusante, né i compagni, né chi sapeva e non ha mosso un dito. In compenso mi vergognai io. Questo causò una timidezza patologica, una goffaggine che superava il ridicolo. E di conseguenza il bullismo, il male minore fra quelli sopportati, mi costrinse a chiudermi in casa. Ad uscire solo per andare a scuola e incontrare giorno per giorno il mio carnefice. Perché conoscevo già cos'erano i doveri. La mia famiglia mi ha sempre amato - le uniche persone ad averlo mai fatto - e li ho ripagati essendo sempre ligio ai miei doveri di figlio.
Le superiori andarono un po' meglio. Ma anche qui, amicizie superficiali che si basavano sulla simpatia che sucitava il mio essere goffo e ridicolo e brutto - avevo denti sporgenti e pesavo quanto una vacca - e per il resto cinque anni passati in casa a leggere narrativa fino alla nausea.
En passant: Prima e unica esperienza sentimentale. Rifiutato e umiliato.
Botta di culo. Passo i test di medicina. Volo a Pavia. Ci resto sei anni.
Il primo anno, fantastico. I miei sono lontani. Mi sento in diritto di mollare la presa sulle mie remore morali. Inizio a fumare tabacco e a bere, quasi ogni sera. Passo alla marijuana. Sembra la svolta. Ma dietro l'angolo c'è il baratro. Divento dipendente dall'erba - sì, gente, come si può essere dipendenti da quella porcheria che è il porno si può benissimo essere dipendenti da un fumo magico che fa svanire le proccupazioni - fumo fino a 15 canne al giorno; e le fumo solo, uscendo fuori dalle grazie di Maria. Dimentico che sto lì per studiare e inizio a mandare a troie la possibilità di laurearmi, dicendomi c'è tempo, e raccontandomi un fottìo di fregnacce. Ma sono consapevole delle fregnacce e per tre anni non faccio niente, se non spendere soldi in droga, vedere film d'essai su megavideo e masturbarmi fino a stordirmi, perdere i sensi e finalmente dormire.
Un gruppi di belle persone mi raccatta dal fango a 22 anni. Tra i 22 e 24 finalmente vivo, mi diverto, sono felice, quasi quasi mi viene pure voglia di studiare e dare una bella ordinata alla mia vita... ma i traumi dell'infanzia sono troppo pesanti e mi ammalo. Esordio psicotico acuto. Fottuto. Per 10 anni passo la vita, tra ricoveri, farmaci, psicologi, psichiatri, testi di roschark (o come cazzo si scrive) e le urla, i pianti e la depressione di tutti i miei familiari.
Per 10 anni lotto... e ne vengo fuori. Trovo lavoro a Milano, le miei poesie vengono pubblicate da una piccola casa editrice di Roma che crede in me, mi metto in forma, da dipendente pubblico ho tutte le agevolazioni del mondo e uno stipendio che farebbe invidia al mio psicologo.
Ma perché questa carrellata sulla mia vita? Perché ieri ho visto questo angolino di luce che mi sono costruito a calci e mozzichi e mi sono detto: non ho nessun diritto ad essere così fortunato. E pensavo a Gaza, all'Ucraina, alle carceri libiche, alla barista del mio paese morta a 40 anni, senza aver mai visto la Luce.
Fortunato? Porca Madonna, l'unica fortuna è essere nato in un paese del primo mondo, avere una famiglia che mi ama, ed essere molto meno stupido della media. Tutte cose niente affatto scontate. Ma la Fortuna, cazzo, è un'altra roba.
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multiverseofseries · 8 months ago
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Dune - Parte Due, un sequel imponente, tra continuità e naturale evoluzione
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Ci siamo. Finalmente
Finalmente perché è uno di quei film che sono in grado di portare il pubblico in massa nelle sale. Finalmente perché è indubbiamente il tipo di produzione di cui il cinema ha bisogno per solleticare l'immaginario degli spettatori e mostrare come e quanto il grande schermo possa fare ancora la differenza rispetto all'ormai abituale visione casalinga.
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L’attesa è stata ampiamente ripagata da quanto si è potutto vedere, perché ha contribuito nell’ accrescere l’ hype per questo secondo capitolo e anche perché arriva in un periodo meno carico di novità rispetto lo scorso autunno, quando era programmata inizialmente la sua uscita. 
Dune - Parte Due si presenta al proprio pubblico in una perfetta continuità con quanto visto nella prima parte, non solo continuando ma anche sviluppando la storia che era stata impostata, rappresentandone la naturale evoluzione sia in termini narrativi che  espressivi. Resta il Dune che molti avevano amato nella sua prima parte alzano però l'asticella sotto molti punti di vista.
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Dune - Parte Due riparte da dove ci aveva lasciato, da quella conclusione che a molti aveva lasciato l'amaro in bocca. La seconda parte riprende l'arco narrativo di Paul Atreides (Timothée Chalamet) e le fila del racconto in senso ampio e compiuto. In questa seconda parte molto più spazio è finalmente dedicato al personaggio di Zendaya che nella prima parte aveva un ruolo molto introduttivo. Ed è alla Chani di Zendaya e ai Fremen che Paul si unisce, alla ricerca della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia e per fermare quel terribile futuro che è in grado di prevedere. Una missione che mette Paul davanti a sfide e scelte, portando avanti la componente drammatica ed epica che l'adattamento di Villeneuve aveva già introdotto nel precedente.
Denis Villeneuve ci riconduce in un mondo affascinante e costruisce il film attorno ai suoi personaggi: il suo Dune, pure essendo un grande spettacolo visivo, è anche sopratutto la loro storia che il regista asseconda sia in termini di scelte visive che per la fotografia. L'autore di Arrival e Blade Runner 2049 ci mette faccia a faccia con le scelte che deve compiere Paul per poter portare avanti la sua missione, ma sopratutto si affida per dare cuore e forza al racconto alla Chani di Zendaya, forse uno dei personaggi con il percorso più solido e strutturato. Se però lei non è una novità assoluta, lo è invece Austin Butler con il suo Feyd-Rautha Harkonnen, figura enigmatica e folle, a cui l'attore dà vita sia nello sguardo che nelle movenze, in un perfetto equilibrio su un filo sottilissimo senza scivolare in eccessi che l'avrebbero potuto rendere una macchietta.
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Peccato per le altre New Entry che hanno poco spazio, che come per Zendaya nel capitolo precedenti fanno capolino nella storia in attesa di avere maggior spazio e ulteriore importanza nel seguito. È il caso di Florence Pugh e Christopher Walken, la cui valutazione andrà ragionata sulla lunga distanza e sulla trilogia che Villeneuve ha in mente. Si tratta in ogni caso di limiti dovuti alle scelte di scrittura e costruzione narrativa su più film, piuttosto che valenza e qualità degli attori, perché tutto il cast e la relativa resa visiva è sempre a fuoco e ottimale.
C'è infatti continuità narrativa e visiva in Dune - Parte Due rispetto al suo precedessore. Il nuovo film riprende e amplifica quanto già visto con coerenza stilistica e contenutistica, un aspetto che consideriamo come uno dei suoi pregi, ed è qualcosa di non così scontato come potrebbe sembrare. Il Dune di Villeneuve si dimostra un'opera unica e potente. Nessun compromesso a cui sottostare, Villeneuve, nel dettare i tempi del suo racconto, lo porta avanti con un andamento calmo e ragionato ma allo stesso tempo potente e travolgente: non c'è scena di Dune - Parte Due che non lasci il segno, che sia un semplice dialogo o una battaglia che lascia senza fiato.
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Ci si sente travolti dalla sabbia del deserto di Arrakis, tremano le gambe quando ci si trova faccia a faccia con i possenti vermi che abitano quei luoghi, e si freme di emozione nei momenti più intensi ed emotivi. Si partecipa alla visione e ci si immerge al suo interno sostenuti dalla musica di un Hans Zimmer e da una fotografia d'impatto capace di adattarsi ai diversi momenti e luoghi del film e dei personaggi. Dune - Parte Due prende a piene mani quanto c'era già di buono nel capitolo precedente e fa quel passo in avanti che ci si aspettava e augurava. E travolge lo spettatore come una tempesta di sabbia.
Concludendo Dune Parte 2 è un sequel in perfetta continuità con quanto visto nel precedente, un secondo film che affonda a piene mani in quanto di buono e forte era già presente nel primo capitolo e lo sviluppa con coerenza. Una vera e prorpia evoluzione, più che una sola continuazione di quanto già visto, che porta alla realizzazione del percorso di alcuni personaggi, sviluppandone altri soltanto accennandoli e guarda avanti introducendo altri elementi che la possibile e probabile terza parte avrà modo di approfondire. Molto a fuoco tutto il cast, ma è la messa in scena del racconto da parte di Denis Villeneuve a lasciare davvero senza fiato, grazie alla potenza e magnificenza della costruzione audio-visiva. Un film da vedere e da ammirare.
Perché ci piace
- La coerenza con cui vengono sviluppati i discorsi introdotti nella prima parte, sia dal punto di vista narrativo che visivo.
- La potenza della messa in scena e tutto il comparto audio-visivo del film.
- Un Hans Zimmer in stato di grazia nel sostenere il racconto con la sua colonna sonora.
- La Chani di Zendaya, su cui è stato fatto un ottimo lavoro di scrittura e costruzione narrativa.
- Timothée Chalamet, Zendaya e tutto il cast.
Cosa non va
- … al netto di un paio di personaggi che sono solo introdotti e che dovremo aspettare di veder sviluppati nella possibile Parte Tre.
- Se eravate scettici dopo il primo film, è possibile che anche il secondo non vi travolga. Ma per qualità e potenza vale la pena di provare.
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chez-mimich · 2 months ago
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LIMONOV
Quando si conversa di un film, tratto da un libro, è inevitabile che qualcuno si interroghi se il film sia meglio o peggio del libro e viceversa. Allora sgombriamo subito il campo dall’equivoco: un film è un film e un libro è un libro, quindi niente paragoni. “Limonov” (il film) di Kirill Serebrennikov, se non è un capolavoro, va molto vicino ad esserlo. Com’è noto (almeno a chi ha letto il libro di Emmanuel Carrère), Eduard (Eddie) Limonov è stato un poeta, un dissidente sovietico, un rivoltoso, un sognatore, un teppista, un leader politico, ma anche un maggiordomo, un metalmeccanico, un senza fissa dimora. A raccontarne la storia (stavo per scrivere la ballata e forse non sbagliavo) è stato Emmanuel Carrère nell’omonimo libro di qualche anno fa (edito in Italia da Adelphi) e ora la stessa storia la riscrive, con grande perizia narrativa cinematografica, Kirill Serebrennikov che riesce nell’impresa di raccontare la profonda anima russa di Limonov e allo stesso tempo riesce a ritagliare, con altrettanto spessore poetico, la figura del rivoltoso, quello che considerava i lavoratori “i cornuti della storia”, quello che sta con “i rossi, i neri, i gay, i portoricani, ossia con chi non ha niente da perdere”. Limonov nel 1974 lascia l’Unione Sovietica e le ristrette vedute di un ambiente intellettuale e dissidente sempre troppo ancorato ai riti, ai temi e alla poesia della tradizione in un ambiente soffocante e privo di grandi stimoli. La sua destinazione è la New York psichedelica e decadente degli anni Settanta, dove conduce una sregolatissima vita, ma sempre innervata della sua poesia, a contatto con fotomodelle e puttane, con una po’ prevedibile, benché adeguatamente distorta, “Walk on the Wilde Side” che fa da colonna sonora. Come si dice in questi casi, Limonov ama essere rotto a tutte le esperienze sia letterarie che sessuali e in questo, occorre dire, assomiglia molto ai bohémien di ogni latitudine e di ogni periodo, ma quel che di nuovo sembra portare il suo personaggio è una non-visione del mondo, sostituita da un lucido delirio guidato da un sano desiderio di sovversione che, parafrasando Leo Trotskj potremmo chiamare “sovversione permanente”. Ma tanto è forte la sete di rivolta, tanto è irresistibile il richiamo della (santa o meno) madre Russia. Tornato nella Mosca della Perestrojka, Limonov, inquieto poeta agit-prop, anarchico e ribelle come sempre, crea un movimento bolscevico-nazionalista più vicino alla cultura punk che a quella patriottica, movimento col quale partecipò fattivamente all’assalto al parlamento di Mosca nel settembre del 1993. Del resto il KGB lo temette sempre, proprio in virtù della sua difficile collocazione all’interno di un profilo di dissidente tradizionalmente inteso. Occorre aggiungere, e non è una questione di poco conto, che il titolo originale del film è “Limonov: the ballad”, titolo che indica molto più efficacemente, che non quello della versione italiana, che Serebrennikov abbia inteso girare un film sul personaggio, più che sulla sua epoca, e che i fatti e le cronache di quegli anni non hanno avuto una specifica rilevanza, poiché in altre epoche Limonov avrebbe trovato altre motivazioni ma sarebbe rimasto un poeta dall’anima tempestosa. Ricordiamo che Serebrennikov, da sempre in contrasto col regime di Putin, è stato costretto ad interrompere la lavorazione del film a causa dell’invasione dell’Ucraina. “Se i tuoi eroi sono Jim Morrison, Lenin, Mishima, Baader, sei già membro del nostro partito…” urla Limonov al suo esercito di disperati, quanti di noi, sono potenzialmente parte del suo partito?
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abr · 6 months ago
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Cinco de Mayo
Non per i Chicanos di qua e di là del Rio Grande ma per tutti coloro che come me han fatto le scuole quando ancora insegnavano il Manzoni, il 5 maggio è legato al ricordo del Napoleone ei fu.
Personaggio la cui fine vien sempre collegata con l'invasione della Russia la quale, secondo la narrativa ancora corrente di origine gramscian-sovietica, fu ciò che ne stroncò l'Empeur. Bah.
La storia è un po' diversa. Napoleone é sempre giocatore d'azzardo, inseguito-inseguitore, sotto assedio come un inquilino moroso: perde e abbandona l'esercito in Egitto nel 1801 (Abukir), poi bastona fragorosamente tutti a Austerlitz nel 1805; ancora, perso tutto con la fatal ritirata di Russia nel 1812, caccia i russi dalla Germania nel 1813, rivince ancora i coalizzati europei ma infine perde a Lipsia nell'ottobre 1813 (la "battaglia delle Nazioni", noi dei russi). Non è finita: Napo risorge dall'Elba e a Waterloo, 18 giugno 1815, é a un passo dalla vittoria che va alla coalizione anglo-tedesca (senza russi).
Quindi no, la storia di Napo non insegna falsi storici tipo "chi tocca la Russia muore" (i figli di Gengis Khan se la ridono). Il punto è che per quanto geniale, con truppe eccellenti e tecniche più avanzate, prima o poi l'Europeo Continentale sarebbe stato comunque sconfitto.
Esattamente come capitò all'imbianchino austriaco: é la strategia, bellezza. Il mondo dipendeva dai mari già ai tempi dell'Impero Romano, anche se ti fai tutto il (sub-)Continente sei isolato, circondato, col tempo diventa sempre più stretto e affamato e prima o poi le prendi.
Lezione sull'isolamento strategico applicabile oggi forse, dico forse, più a Putin che alla Nato. O forse a entrambe (o tre, vale anche per la Cina): ecco perché per fortuna siamo ancora nello stallo equilibrista tipo Guerra Fredda. Meditate strateghi, meditate.
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3nding · 1 year ago
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Proposta di analisi narrativa dello Spot Esselunga con la bimba, la pesca e una serie di elementi e sentimenti colpevolizzanti che, secondo me, associare a un brand non è mai un buon affare, altrimenti ti trovi gente che piange e si sbatte davanti alle pesche e non solo per il prezzo.
SCENA 1: Corsie di supermercato semi vuoto, roba da 4 del pomeriggio: bimba scompare con ansia materna. La supervisione della genitrice era forse rapita da un rapido calcolo sul genere "comm' cazz' facimm' 'a campa' stu mese?". Non è dato sapere. Quello che sappiamo è che la mamma si perde la bimba e chiede ad altre madri se l'hanno vista ma queste se ne fregano. Paura. Timore. Law&Order SVU. Chiaro riferimento allo spot Barilla anni 80, quello del gattino, a sua volta citazionissima cinematografica dal capolavoro dell'espressionismo tedesco "M. il mostro di Dusseldorf" di Fritz Lang, anno 1931.
SCENA 2:Banco di pesche che io non ho visto così belle nemmeno quando era stagione, figuriamoci adesso, sono sicuramente importate. Comunque, dove sta il prezzo? La bambina lo sta chiaramente cercando quando viene raggiunta dalla madre che non le dice "mannaggia a chitebbiv", no, ma tenta di fare un ragionamento filosofico induttivo, chiedendo un mozzicato: "Emma! Ma ti sembra che si scappa via così? Vuoi una pesca? Va bene, prendiamo la pesca". La bambina è in realtà una maestra zen perché nun se ne fuje, ma resta a prendersi la cazziata, molto blanda, che arriva in questo momento: non lo fare più! Direbbe Eduardo De Filippo: non lo facciamo più! Ma questa è una pubblicità dell'Esselunga e dunque. Dunque, perché la bambina mette le mani nella frutta senza utilizzare l'apposito guanto e bustina? Dove sta l'addetto? Possibile che rompano le scatole solamente a me quando mi succede di andare di fretta? Non è solo una questione igienica, che pure esiste perché è 'na criatura e chissà quanta roba ha toccato, ma - se vi fidate di me - potrebbe essere un GRANDE INDIZIO*.
SCENA 3: Qua mi scoccio di fare la disamina, fatela voi grazie: la bimba e la mamma tornano verso casa, la bimba è disinteressata quando la mamma chiede della scuola (non lo siamo stati tutti?) e la mamma pare un po' naive a tenerle il finestrino aperto davanti la faccia, attraverso il quale la bimba forse si prende la bronchite, di sicuro guarda il bimbo che va sul monopattino con entrambi i genitori se non sbaglio, chiaro riferimento al fatto che quando il criaturo si fa male devono essere almeno due gli adulti presenti per potersi dare reciprocamente la colpa. POSSIBILE SPIN-OFF DELLO SPOT: mamma e papà del bambino scunucchiato vanno al supermercato a comprare i cerotti, ma passando davanti al banco dei preservativi fanno pace e ne acquistano una bella scorta.
SCENA 4-5: Poi la bambina mostra le funzioni multitasking dell'infanzia AI producendosi contemporaneamente in cinque azioni diverse, che sono comunque mentitrici e qua lo spot dovrebbe valicare la soglia dell'incredulità, quel patto tacito tra il narratore della storia e chi ascolta la storia. La bimba, infatti, guarda i cartoni alla tv giocando con un cuofano di giocattoli sparsi sul tappeto mentre parla con la mamma e poi la mamma fa il solletico e poi fanno una coreografia di TikTok nella luce del sole che arancio filtra dalle tende bianche da rivista di arredamento tipo AD, Domus, Elle Décor. Tutto bellissimo ma una domanda: dove sta il cellulare con i cartoni animati di COCOMELON E MASHA E ORSO e la bambina che allucca e si sbatte quando la madre dice no, Emma, vir' 'e te movere ca' mo vene pateto a te piglia'?
SCENA 6: Il padre ovviamente arriva e ovviamente lui non ha dovuto fare prima la spesa, anzi appare molto più rilassato, del resto è lui a vestire una bella camicia color cielo, la mamma se ne stava smortissima in una camiciola beige con dei segni orizzontali tipo quelli che fanno i carcerati sul muro in certi film, per contare il tempo che passa. Vi faccio anche notare che la bimba ha per tutto il tempo una maglietta azzurrina, come a dire: a parte che io e papà tifiamo Napoli (tiè)(ah, no, quella è un'altra pubblicità) secondo voi a chi appartengo?
TURNING POINT: la funzione della pesca. Nell'analizzare la favola di magia russa, Vladimir Propp - tizio che ai più non dirà niente, ma se beccate uno studente di semiotica ve ne parla per 4 ore (tipo me) - è stato in grado di estrarne una tipologia, più o meno fissa, di struttura narrativa. C'è quasi sempre una vacca (che scappa, fugge, scompare, va recuperata), c'è quasi sempre un uomo, che mi pare si chiami quasi sempre Ivan. Nella quattordicesima funzione narrativa rintracciata da Propp nella struttura della favola (sono 31 e immaginate a studiarle tutte) c'è il cosiddetto oggetto magico. Gli stivali del gatto con gli stivali, la zucca di Cenerentola, e così via, fino ad arrivare a questo spot con la pesca di Emma. Alla pesca, Emma attribuisce non solo un significato, ma un potere: quello di accomodare le cose tra i suoi genitori. Scopriamo adesso, infatti, il perché di ogni cosa.
WTF MOMENT: tra la mamma e il papà di Emma, la cosa sentimentale non è andata a buon fine e, pur avendo raggiunto un accordo che pare partecipativo alla vita della piccola, la piccola ovviamente ne risente. Ma. In qualche modo e per qualche ragione a noi taciuta, e che pure suggerisce, la piccola parrebbe recepire una rigidità dalla parte materna ad accomodare le cose, al punto di attribuire alla pesca la stessa valenza simbolica del rametto di ulivo che ci scambiamo la Domenica delle Palme. Emma mente al padre dicendo che la pesca - che tanto allarme ha causato nella prima scena al genitore 1 - viene proprio da quest'ultima. Il papà, con fare un po' cazzone, un po' ci crede, un po' vorrebbe crederci, ma come tutti gli uomini che non devono chiedere mai pecchè già sanno ca nun hanno niente, lancia un melanconico sguardo al balconcino vuoto. La mamma non c'è più. Sta chiagnenn' lacrime amare? È sull'orlo del melt down, del burn out, o sta semplicemente facendosi una doccia, finalmente? Chissà. Lui, uomo scosso dai rimorsi che nemmeno Tonio Krogër, guarda la finestra come farebbe Eduardo De Crescenzo in Ancora (fortunatamente non fa lo sbaglio di tirare sassi o prendere a calci la tua porta chiusa, chiuuusaaa) e se ne va.
PLOT TWIST POSSIBILE E PIÙ TOLLERABILE DI QUESTA MELASSA SPARSA in un paese in cui divorzi, separazioni e fine rapporto amoroso tra due adulti, spesso vedono un adulto, spesso di sesso maschile, non prenderla proprio benissimo e agire in modi che non discuterò qui. Il punto 2, come vi dicevo, si chiude con un GRANDE INDIZIO*. Eccolo: il padre è allergico alla pesca, la cui peluria gli può procurare uno shock anafilattico.
SIPARIO, grazie per l'attenzione, fa piacere se vi siete fatti una risata, io le pesche comunque solo al mercatino e solo di stagione.
Raffaella R. Ferrè - fb
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abatelunare · 1 year ago
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Un pezzo
Due notazioni - vabbè, sono più di due, ma voi non vi formlizzerete, spero - sulla trasposizione live action dell'anime che tutti conosciamo come One Piece: 1) Ha indubbiamente il dono della sintesi. Un arco narrativo di svariati episodi condensato in sole otto puntate. 2) I personaggi sono abbastanza somiglianti e ben caratterizzati. Luffy ha la faccia da stupido, ma pazienza. 3) I combattimenti, specie quelli di Zoro, sono ben coreografati. 4) Discreti gli effetti speciali. La gommosità di Luffy, tra l'altro, sembra essere resa senza tante esagerazioni. 5) In linea di massima, la serie televisiva mantiene una certa fedeltà al cartone animato. Sorgono, però, alcuni interrogativi. Come riusciranno a rendere la complessità narrativa di manga e anime? Quanti episodi realizzeranno se vogliono rispecchiare l'interminabile storia originale? E gli effetti speciali terranno il passo della serie animata senza scadere nel ridicolo? Nonostante io sia contrario a operazioni di questo genere, sono obbligato ad ammettere che ne è venuto fuori un prodottino simpatico. Però siamo ancora all'inizio. Fanno sempre in tempo a sprecare tutto quanto.
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theladyorlando · 1 year ago
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The Lady Orlando
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Orlando è così bello che a volte mi chiedo come sia possibile che esista una cosa del genere a questo mondo. Come è possibile che davvero una persona abbia dentro la testa e nel cuore così tanta bellezza, io non lo so. Mi fa essere felice perché riesco a vederla, la bellezza, è per me, e sono anche inspiegabilmente triste al pensiero che il resto del mondo non stia leggendo Orlando, in questo preciso istante. Per me Mrs Dalloway era stato memorabile. ricordo di averlo letto in metro, nei pomeriggi di ritorno dall'Università, e intanto ascoltavo Antony and the Johnsons. è stata l'unica volta che in vita mia sono riuscita a leggere qualcosa ascoltando della musica. E questo perché Virginia Woolf e quella musica si conoscono, parlano la stessa identica lingua. Quella musica è così trasparente, così profonda che mi fa pensare spesso alla morte. E così anche Virginia Woolf. Ci sono tantissimi pensieri dentro Mrs Dalloway che vanno lì senza cercare scuse, senza mezzi termini. È bellissimo. Bellissimo ma vertiginoso. E Orlando lo scrive subito dopo Mrs Dalloway: questo mi ha fatto pensare, quando l'ho scoperto, che tra i libri di uno stesso autore esiste una relazione di parentela che è inversa rispetto a quella che c'è tra i figli di una stessa madre: i primi nati non sono i più grandi; i figli maggiori sono gli ultimi partoriti dalla mente dello scrittore. per capirci, Orlando è il fratello più grande di Mrs Dalloway, e questa è una garanzia di buona condotta nel ragazzo, lui è presumibilmente maturo, assennato, serio almeno quanto la sorella, probabilmente lo è anche di più. E invece, quando lo conosci bene, vedi subito che Orlando è sbarazzino come un fratello minore. Con lui Virginia Woolf si è voluta concedere una "writer's holiday": e si sente tutto, perché lei se la concede gloriosamente. Questa è una vacanza in un hotel di cinque stelle, e l'hotel si chiama Knole. In vacanza, si sa, uno ci va spensierato e leggero, ma Virginia Woolf non lascia niente al caso, tutto è preparato e organizzato nel minimo dettaglio, prima ancora che per se stessa, per la sua compagna di viaggio, Vita. Perché in fondo questa non è solo una vacanza da scrittore, no: è una lettera d'amore. La più lunga lettera d'amore della letteratura. Ogni parola in questo libro è una parola d'amore. E di un amore invidiabile, almeno io lo invidio: perché è fatto proprio di letteratura, costruito con pezzi di quella, raccolti con cura da ogni epoca passata. E a leggere bene, è un amore fatto di poesia, ecco in realtà perché lo invidio. Poesia, proprio come nell'incipit di quella lettera bellissima in cui Virginia annuncia a Vita la sua intenzione di scrivere questo romanzo. Una poesia travestita da lettera, ché a guardar bene quelli a me sembrano proprio pentametri
Never do i leave you without thinking/
it's for the last time. and the Truth Is,/
we gain as much as we lose by this./
E Orlando è una poesia che trasuda arguzia da ogni poro, ed è travestita da narrativa che è travestita da biografia. Ogni idea dentro questo libro è una trappola, fin troppo intelligente, per far capitolare Vita: è un incallito tentativo di compiacerla, di sedurla con le parole, un corteggiamento letterario, un glorioso e velleitario occhiolino: vuole farla ridere, vuole farla innamorare. Difatti per tutto il tempo si ha la netta sensazione di essercisi seduti per sbaglio ad un tavolino che era prenotato per due. E quelle due del tavolino si guardano negli occhi e, appunto, ridono: tu se vuoi puoi pure sederti, tanto loro non ti sentono proprio.
Virginia Woolf inizia a scrivere la sua biografia proprio quando Vita Sackville-West sembra più incostante, le volta le spalle, passeggia con altre donne. Allora deve riprendersela, allora l'invenzione deve essere altissima, deve farla cadere ai suoi piedi, deve lasciarla senza parole con le uniche armi che ha, lei che non sa neanche riconoscere il davanti di un abito dal dietro: allora le regala il tempo, e le regala l'ironia. Le regala un corpo da uomo, e un paio di calze nere perché possa sfoggiarci dentro le sue gambe perfette, le più belle gambe su cui un nobiluomo si sia mai messo in piedi; le regala una vecchia regina Elisabetta, infatuata di lui; le regala una risalita del Tamigi di fronte alla nuovissima Londra di Wren; le regala le coffee houses appena fondate, e le regala i poeti. I poeti sono il suo più grande asso nella manica: sono le sue parole d'amore più irresistibili, e Virginia Woolf lo sa perfettamente. Perché è impossibile che Vita non si sciolga al pensiero di aver cenato con Pope, pranzato con Addison, e preso il tè con Swift. Meglio ancora: i poeti glieli porta dentro casa, e lì dentro Vita può finalmente ridere anche di loro, fino quasi a vergognarsene, può vederli in tutti i loro miseri difetti e in tutti i loro piccoli limiti. Può vederli umani insomma, può vederli davvero. E allo stesso tempo, mentre è così impegnata a disegnare Vita, a dirle quanto è bella, a dimostrarle quanto a fondo la conosce, quanto può riuscire a compiacerla, Virginia Woolf si sta spogliando davanti alla signora Orlando, si sta arrendendo a lei, senza pudore. Il suo amore per il 700 inglese è una confessione spudorata. È seducente persino sentirla descrivere il passaggio di secolo, l'umidità che si arrampica su per le pareti delle case insieme alle rampicanti di edera, le barbe che crescono, i tappeti che avanzano, che conquistano ancora una stanza: i matrimoni che si stringono al freddo del nuovo secolo e la conseguente, inevitabile nascita dell'impero britannico. È un libro intimo: è una conversazione a un tavolo per due.
Verso la fine di questa vacanza nel tempo, sento distintamente che Virginia Woolf comincia a prepararsi per il rientro a casa. Gli ultimi capitoli del libro sono più impegnativi, sembra quasi di sentirla ogni tanto tirare un colpetto di tosse, a far uscire la sua voce di sempre, quella della signora Dalloway, la sorella minore ma più assennata. Con quella stessa voce raccoglie finalmente tutti i fili seminati per la sua biografia fittizia e, senza curarsi di te che stai lì al tavolino, li mette in mano alla sua interlocutrice, la vera questione di questa lettera d'amore: cara Vita, ha forse senso questo mio rincorrere la tua bellezza nei secoli? esiste davvero la poesia? ha qualcosa a che vedere poi con la vita? e dimmi, Dryden può mai essere una parola d'amore? Avvicinati ancora una volta, ascolta: Dryden.
La questione era già perfettamente formulata nella meravigliosa lettera che annunciava il concepimento di Orlando: alla vigilia della scrittura, quando ancora il libro è quasi solo un'idea. Questo è un momento mitico, come quando per la prima volta si incontrano gli sguardi di due amanti della leggenda. Sto per scrivere Orlando perché non voglio più lasciarti: never do I leave you without thinking, It is for the last time. Prima ancora che Orlando abbia iniziato la sua gestazione, molto prima che abbia aperto gli occhi sul mondo, la domanda c'è già, rotonda, sbigottita: come faccio a restare con te? come faccio a tenerti per sempre? come faccio a evitare che questa sia la mia ultima lettera? come può la poesia vincere la vita, o meglio, vincere la morte?
La risposta io credo sia in quella cassaforte dove, allo scoppiare della guerra, Vita aveva nascosto i suoi smeraldi insieme al piu inestimabile dei tesori in suo possesso: il manoscritto di Orlando, che Virginia Woolf le aveva fatto recapitare a casa un giorno prima della pubblicazione del libro per il resto del mondo. Loro due sono ancora sedute a quel tavolo, e lo saranno nei secoli, a ripetersi tre semplici parole d'amore:
Addison, Dryden, Pope.
E a guardare bene, Vita Sackville-West ride e piange allo stesso tempo:
Never do i leave you without thinking, it's for the last time.
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pier-carlo-universe · 3 days ago
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Alla scoperta dell'intramontabile "Orgoglio e Pregiudizio" di Jane Austen. Recensione di Alessandria today
Una recensione del romanzo che ha definito il genere del romanzo d'amore e di costume
Una recensione del romanzo che ha definito il genere del romanzo d’amore e di costume Orgoglio e Pregiudizio è uno dei romanzi più celebri della scrittrice inglese Jane Austen, una delle autrici più influenti della letteratura inglese. Pubblicato per la prima volta nel 1813, questo capolavoro continua a essere apprezzato per la sua vivida esplorazione delle dinamiche sociali, dei pregiudizi di…
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thegianpieromennitipolis · 2 years ago
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti 
L'ESSERE UMANO NELLA PITTURA DI GIOTTO
Un corpo che giace senza vita tra le braccia di una madre disperata. Questo è il punto di passaggio più evidente che compie lo strappo dall’iconicità, strappo ormai pienamente accolto da molti precedenti eppure reso qui con il carattere di plasticità degli umani sensi e dell’umano patire, fino a condurre la resa drammatica in un territorio alieno rispetto alla tradizionale mediazione simbolica.  La disperazione diventa, nei diversi personaggi, anche composta rassegnazione, in un misurato equilibrio tra questa e la forza dell’impeto passionale lacerante: come nella figura di un palpitante San Giovanni proteso fin quasi allo spasimo nel gridare il proprio dolore.  E ancora più evidente è il segno lasciato da angeli incapaci di controllare i propri sentimenti e che per questo si abbandonano ad un volteggio scomposto in un cielo che stinge l’azzurro in un colore livido, poiché esso stesso influenzato dal carattere intensamente drammatico della scena.  Una forma di rappresentazione religiosa che si rivolge agli uomini di un nuovo tempo, ad uomini che si pongono domande e che animano di dubbi la relazione con lo spirito, uomini che obbediscono ad una coscienza insolita, più consapevole, influenzata da una tumultuosa crisi di maturità, orientata verso un marcato senso dell’individuale.  Sono gli uomini dei rifioriti centri urbani, protagonisti di una nuova prosperità, espressione della rivoluzione commerciale dei secoli XI e XII.  Giotto, a cavallo tra due epoche, riesce a cogliere le nuove sensibilità, mai ritraendosi rispetto alla sperimentazione pittorica.  Anzi, investendo sulla differente modalità interpretativa del pathos espressivo delle figure, sull'uso intenso di un'ampia scala cromatica, sulla capacità di organizzazione narrativa della scena concepita come ricerca di un'efficace sintesi estetica in un'aurorale, acerba visione prospettica.   Ma la rilevanza di Giotto non è solo nella capacità di raccontare il proprio tempo – questa è dote diffusa negli artisti degni di questo nome – ma soprattutto nella modalità con la quale sembra intuire il ruolo della pittura come potente strumento di rappresentazione: isolando la scena dal rapporto con lo spettatore e fornendole autonomia.  Così, è da lui che si dipana quel lungo, coerente percorso che condurrà la pittura fino alle estreme espressioni dell'arte contemporanea. 
Giotto (1276-1337): "Compianto sul Cristo morto", 1303 - 1305, Cappella degli Scrovegni, Padova
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riflussi · 11 months ago
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"Girlhood" - M. Febos
Sono passati solo sei mesi da quando ho cominciato a leggere questo libro e, finalmente, l'ho finito.
Vi dirò, non è un libro perfetto. Non è quel libro che si legge per distrarsi (infatti non è narrativa, buongiorno riflussi) ed è un saggio che non ha esattamente una tesi da supportare. È come se fosse un libro di viaggio, ma il viaggio percorso è la vita dell'autrice (seguitemi, non fatevi ingannare da questa frase scontata). Una vita non straziante, ma che accomuna fin troppe persone nate femmine. Ed è questo che lo rende "imperfetto", ha quella crudezza che da un lato permette di riconoscere i sentimenti più veri e simili alla realtà (senza troppi fronzoli) e dall'altro quasi impone di distogliere lo sguardo, perché quei sentimenti sono stati ripudiati - da tutt3 - da sempre. Non è un libro semplice, a questo giro non è stata solo la mia lentezza a diluire la lettura nel tempo. Ho dovuto digerire esperienze mie, non mie e realtà non troppo lontane da me. Illuminante e complesso, si può essere d'accordo come no su alcune riflessioni, ma è proprio la forza del libro: riuscire ad avere un dialogo aperto con sé stess3, dal momento che l'autrice è la prima a farlo.
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jamessixx · 1 year ago
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Toss a coin to your Witcher, oh valley of planty. Difatti, fai un salto nell'universo epico di "Toss a Coin to Your Witcher" con la nostra esclusiva analisi e descrizione. Questa canzone, ispirata dalla serie Netflix "The Witcher", incanta con la sua melodia avvincente e le liriche coinvolgenti. Esplora il significato delle parole e la magia dietro ogni nota, scoprendo come questa canzone abbia catturato l'immaginario di fan in tutto il mondo. La nostra disamina dettagliata svela la profondità emozionale di "Toss a Coin to Your Witcher", rivelando la sua influenza sulla colonna sonora della serie e oltre. Unisciti a noi in questo viaggio attraverso la musicalità e l'emozione di una delle canzoni più iconiche degli ultimi tempi. Toss a coin to your Witcher e immergiti nella magia di questa traccia che ha conquistato il cuore di migliaia di appassionati di musica e fantasy.
Inoltre, scopri la magia e l'epicità di "Toss a Coin to Your Witcher" con la nostra esclusiva analisi e descrizione. Questo brano avvincente, ispirato alla celebre serie "The Witcher", cattura l'essenza dell'avventura e del destino. Approfondisci il significato delle liriche e immergiti nei suoni avvolgenti che hanno reso questa canzone un'icona. La nostra disamina dettagliata ti guiderà attraverso ogni nota, svelando la forza narrativa e emotiva di "Toss a Coin to Your Witcher". Unisciti a noi in questo viaggio musicale, dove la magia si fonde con la melodia, regalandoti un'esperienza unica. Per esplorare a fondo l'universo sonoro di "Toss a Coin to Your Witcher", affidati alla nostra guida esperta e scopri il motivo per cui questa canzone ha conquistato i cuori di fan in tutto il mondo.
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ladyswartzrot · 2 years ago
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Oggi afronteremo un mattone di ben 2238 pagine di puro divertimento ( io personalmente me la sono presa comoda e ci ho messo circa 3 mesi anche perché sono tutti racconti autoconclusivi).
La raccolta di racconti di Harlan Ellison intitolata Visioni ed edita da Urania Mondadori contiene ben 67 racconti celebri dell'autore che vi darà un pugno se lo chiamate fantascientifico ( o gli rubate le idee).
Per Harlan Ellison la categoria della narrativa fantascientifica è riduttiva e richiama i temi triti e ritriti degli anni 50 mentre lui usava il futuro come un contorno alle tematiche importanti come il disagio di un diverso in una società conformista dal punto di vista religioso sessuale e morale.
I  racconti che ho amato sono:
- Il Tempo dell'Occhio
- Dolorama
- Gli Scarti
- "Peniti, Arlecchino!" Disse il Tictacchiere
- Battaglia senza bandiere
- La voce nel giarlino
- Lo faaresti per un penny?
- Noi piangiamo per tutti...
- Non ho bocca, e devo urlare.
- Soldato
- Il morso della seggiola
- Fenice
- La regione intermedia
- 480 secondi, o la città condannata
- Il guaito dei cani battuti
- L' amica fredda
- Il gatto
- Spaccabato
- Jefty ha cinque anni
- L'uomo ossessionato dalla vendetta
- Sudore da Flop
- L'uomo che mise in banca i ricordi più brutti
- Il paladino dell'ora perduta
- Dura da scontare
Lo consiglio non solo agli appassionati della fantascienza ma anche agli amanti dei racconti che fanno riflettere e lasciano il vuoto della domanda dentro, la lettura e scorrevole e i temi e ambienti dei racconti sono talmente vari che si possono leggere uno dopo l'altro senza avere la pesante sensazione di leggere sempre la stessa cosa.
Ciò che mi è piaciuto di più è il fatto che la fantascienza non è onnipresente con i paroloni che ti fanno venire il mal di testa ma agisce da materia che trasmette il messaggio dell'autore.
P.S. Questo libro mi è stato consigliato dal mio ragazzo appassionato di fantascienza e se volete più info su questo libro vi consiglio il video di Broken Stories su youtube.
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gregor-samsung · 2 years ago
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“ Alcuni anni fa Roberto Benigni girava l’Italia con uno dei suoi indimenticabili Tuttobenigni. Era quasi alla fine di una lunga tournée. Lo spettacolo, dopo tante repliche, aveva raggiunto la perfezione: garantiva quasi due ore di risate continue. Un bel giorno Benigni accettò di recitare alla Festa nazionale dell’Unità. Salì sul palcoscenico e si vide davanti una folla spropositata, che arrivava fino allo svincolo autostradale. Vedeva migliaia di teste nella nebbiolina accesa sotto i lampioni lontani. Ebbe un tuffo al cuore che gli fece perdere la sensibilità della pelle e dei muscoli. Malgrado lo spavento cominciò a recitare come aveva sempre fatto (o almeno così credeva), sbracciandosi e rimbalzando sulla pedana un po’ più del solito. Il successo fu straordinario, memorabile. Ma quando finalmente Benigni, dopo i bis, uscì di scena, si rese conto che lo spettacolo non era durato più di un’ora. Non aveva tagliato neanche una battuta eppure, senza accorgersene, era arrivato quasi a dimezzare la durata dell’esibizione. Evidentemente aveva recitato a un ritmo forsennato, trinciando le battute e abbreviando le frasi. Niente virgole e punti e virgola, era andato avanti a colpi di punti e a capo. Invece del fioretto aveva usato il cannone. Ogni serata, in misura diversa, richiede e implica da parte del comico la capacità di creare un tono. Sarà poi questo tono che detterà la forma dell’improvvisazione. Eduardo De Filippo diceva che l’attore deve sempre guardare con un occhio il pubblico e gli deve porgere una sola mano, altrimenti «…ti tira giù!». Vale a dire che il comico recita e nello stesso tempo studia il pubblico per regolarsi, per eventualmente modificarsi. E vale a dire anche che non deve rincorrere le risate, la cui ingordigia fa perdere all’attore ogni controllo drammaturgico. Il vero segreto della comicità sta infatti nel nascondere l’intenzione di suscitare ilarità. “
Vincenzo Cerami, Consigli a un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio, Garzanti, 2002; pp. 175-176.
[1ª edizione: Einaudi, 1996]
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automatismascrive · 1 year ago
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Qualcuno ha detto Ghost: Signor Mardi-Gras Delle Ceneri
Alzi la mano chi non apprezza le storie sull’aldilà. Ecco, sì, tu lì in fondo che ti aggiri per questo blogghino semideserto, clicca pure sulla x rossa in alto a destra, perché oggi si parla di quanto è bella tutta quella narrativa che parla di che cosa succede dopo che la nostra anima esala l’ultimo respiro e lascia le nostre spoglie mortali. SIGLA!
OK, scemenze a parte, ho sempre trovato il fantastico che si propone di immaginare la vita dopo la morte particolarmente intrigante proprio perché si dà un compito difficilissimo: sciogliere in maniera soddisfacente il mistero cruciale con cui passiamo tutta la vita a venire a patti, cercando sì di non dipingere un’immagine dell’aldilà trita e banale che non sia capace di rispondere alle esigenze di complessità che la domanda “che cosa succede dopo?” necessariamente pone, ma allo stesso tempo di non raccontare in maniera eccessivamente criptica e incomprensibile, con un linguaggio vago e privo di specificità che permettano la narrazione di una storia soddisfacente, quel post-vita che tanto ci sta a cuore e di cui vogliamo leggere un’interpretazione coerente e tangibile. E quando qualche autore riesce a trovare il perfetto bilanciamento tra queste due esigenze, la storia che racconta è capace di toccare un sacco di temi che ci stanno molto a cuore: il fascino dello svelamento dell’ultimo mistero che non abbiamo alcuna possibilità di penetrare mentre siamo in vita, l’angoscia terribile nello scoprire che è davvero “tutto qui” e che il resto dell’eternità sarà passato a fare quello che stai leggendo e nient’altro – specialmente quando quello che ci accoglie non è l’equivalente del paradiso dantesco ma qualcosa di molto più sinistro, bizzarro e terrificante. Che è poi il caso del consiglio di oggi, il fumetto sceneggiato e disegnato da Éric Liberge dal titolo Signor Mardi-Gras Delleceneri, edito con mia sorpresa anche in Italia, che s’immagina un aldilà a tinte cristiane deliziosamente blasfemo che ha catturato la mia attenzione senza alcuna difficoltà.
Infatti il signor Mardi-Gras Delleceneri che dà il titolo all’opera altri non è che un cartografo recentemente deceduto proprio in quei giorni che compongono il patronimico che gli viene assegnato una volta arrivato nell’aldilà; il fu Victor Tourterelle viene dunque scortato da un misterioso postino via dal deserto angosciante in cui si è risvegliato fino alla città di Santa Cecilia, pur con qualche pezzo mancante: infatti tutto ciò che rimane ai defunti che approdano in questo luogo è il loro scheletro, epurato di organi, carne e tutto ciò che non sia tessuto osseo, ed è dunque un mondo in cui ogni singolo metatarso è prezioso, poiché perdere pezzi per strada può facilmente risultare nell’impossibilità di muoversi, parlare o di fare alcunché che non sia attendere in agonia per l’eternità. Victor non è in grado di rassegnarsi allo squallore della vita dopo la morte, in cui orde di scheletri ciondolano senza meta e si svuotano in gola (... o qualcosa del genere) ogni sorta di sostanze tossiche per imitare le bevande che erano in grado di ingerire in vita, ma proprio per questo viene immediatamente preso di mira dall’organizzazione clericale della Salamandra, che governa Santa Cecilia con il pugno di ferro e che non esita a spedire i dissidenti nelle segrete di San Luca per impedire qualsiasi cambiamento nelle regole dell’oltretomba.
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La copertina italiana del primo volume. Notare che Liberge ha voluto complicarsi il lavoro con una bici, nella top ten delle cose difficili da disegnare assieme agli scheletri.
C’è però un’altra setta misteriosa che vorrebbe accaparrarsi Victor per le sue abilità di cartografo: la Cornice, ribelli e dissidenti che mirano a tracciare, contro il volere della Salamandra per cui la conoscenza è eresia, una mappa di Santa Cecilia e poi dell’intero regno dei morti… Victor potrà fidarsi almeno di loro, o anche i postulanti della Cornice hanno piani scomodi in serbo per lui? Nel corso dei due volumi che compongono l’opera seguiremo il suo viaggio disperato ai confini del tempo e dello spazio per conoscere la verità che si cela dietro questi lugubri inferi, accompagnato da una pletora di scheletri più o meno inquietanti, un’aeronave dal design assai vintage e soprattutto litri e litri di caffè.  Ebbene sì, in questo fumetto il caffè è la bevanda dell’oltretomba per eccellenza, capace di indurre potenti visioni – o allucinazioni? – nei deceduti e di risvegliare loro ricordi delle loro incarnazioni passate; questo punto cruciale di worldbuilding dovrebbe farvi facilmente intuire il primo motivo per cui ho trovato Signor Mardi-Gras così interessante: Liberge riesce a costruire in soli due volumi un aldilà ricco di trovate affascinanti, di architettura folle e ammantato da un’estetica curatissima e se non originale, perlomeno molto riconoscibile e dettagliata. Come avrete già ampiamente avuto modo di notare dalle tavole che vi ho mostrato finora, sono piuttosto sicura che se anche l’autore non è un fan sfegatato dei Ghost, perlomeno ha assorbito un certo tipo di immaginario cattolico fatto di reliquie, ossa e mix audaci di pietra e metalli preziosi per creare edifici tanto elaborati quanto maestosi; è un vero peccato che ci siano poche splash page nel corso dei volumi, ma nonostante ciò la tentazione di fermarsi ad ammirare ogni pagina per diversi minuti accompagna costantemente la lettura e scaturisce chiaramente dall’abilità di Liberge non solo nel disegno dei fondamentali (anatomia check: superato), ma anche nel creare un’estetica coerente con sé stessa e con i temi che la serie tratta. Infatti, al di là delle splendide tavole che di certo costituiscono un motivo a sé stante per procurarsi la serie, il fascino dell’aldilà che l’autore narra si estende anche e soprattutto alle modalità con cui l’oltretomba viene narrato: fin da subito è evidente quanto l’influenza cristiana non sia un mero fatto estetico ma abbia radici profonde nel setting in cui Victor si trova catapultato. L’aldilà come luogo di espiazione, di attesa senza scopo come penitenza per i peccati commessi in vita si intreccia con la possibilità di una reincarnazione di stampo tutt’altro che cristiano, in cui le vite precedenti dei residenti degli inferi hanno accumulato peccati e infrazioni che devono essere espiati in un luogo privo di colori, odori, sapori e tutto ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta.
Infatti, al di là del fascino razionalizzabile che permea questo aldilà dall’architettura intricata e dai motivi religiosi sovrapposti ma mai incoerenti, la forza viva e pulsante de Signor Mardi-Gras Delleceneri sta in quell’intimo e doloroso scavare nella vacuità della vita dopo la morte. Ogni tavola è soffocata da mucchi di scheletri, ingombranti casse toraciche, pile di femori e ulne accatastate le une sulle altre che si trascinano stancamente dalla piazza di Santa Caterina al mercato della città gonfio di guardie della Salamandra, fino alla totale solitudine del penitenziario di San Luca; l’ossessione ricorrente delle anime per il caffè, unica bevanda dei vivi penetrata nel mondo dei morti che causa violente crisi nonché una morbosa dipendenza poiché è l’unica ancora alle vite passate di quei defunti che sono stati privati persino persino della lingua per sentirne il vero sapore. Quanto sia schiacciante l’ingiustizia di questo mondo oltre la Terra e le motivazioni che possono aver portato alla creazione di un luogo così pieno di sofferenza sono le domande che premono sul lettore e che lo incoraggiano a seguire il viaggio di Victor, primo portavoce di queste istanze e che fin dal primo momento della sua permanenza a Santa Cecilia appare il solo a rifiutare la crudeltà senza scopo di un tale sistema. Liberge ha ben chiari quali sono i temi che desidera affrontare nel corso della storia, e non ha nessuna difficoltà a far emergere prepotentemente quelle caratteristiche degli inferi che ci suscitano più angoscia e terrore ma allo stesso tempo anche morbosa curiosità circa i misteri che li circondano.
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Una pagina dell’originale francese. Purtroppo i caratteri scritti a mano sono molto più belli del font utilizzato per l’edizione italiana.
Quando però il focus si allontana da quello che è chiaramente il punto di forza del fumetto – l’esplorazione della cosmogonia celeste e delle leggi assolute che regolano questo oltretomba bizzarro e angoscioso – la qualità complessiva della narrazione perde colpi. Di tutta la carrellata di personaggi che viene messa in scena per aiutare o ostacolare Victor nei suoi viaggi (di solito entrambe le cose, talvolta anche in contemporanea) solo un paio vengono caratterizzati in maniera meno bidimensionale: il misterioso postino che sembra avere bene in mente il ruolo che Victor dovrebbe giocare nel destino di tutte le anime, e Petronilla, la psicopompa e contrabbandiere di caffè della Cornice che offre a Victor un posto nella sua nave in cambio di risposte sulla struttura dell’aldilà; anch’essi rimangono tuttavia saldamente ancorati ai loro archetipi fondamentali, senza presentare un’evoluzione significativa in linea con quella del protagonista. Victor Tourterelle stesso, che pure nel corso del suo viaggio attraverso i cerchi dell’aldilà scoprirà tutto del suo passato da vivo e dovrà fare i conti con verità molto spiacevoli circa la persona che era stato prima di scivolare su quella fatidica macchinina giocattolo nel suo bagno, fatica all’inizio a catturare l’empatia del lettore pur essendo gettato in un contesto per cui dovrebbe essere facile provarla nei suoi confronti a causa della sua petulanza e generica sgradevolezza, fastidio che fatica ad essere compensato dalle rivelazioni successive sul suo passato e da un percorso di crescita che verso l’ultima parte della storia viene scavalcato dal pressante sfaldamento politico e sociale dell’oltretomba. Non si tratta di un fumetto che brilla per caratterizzazione dei personaggi o per la loro evoluzione, complice anche lo spazio ridotto con cui Liberge deve raccontare una storia densissima di concetti, nomi e avvenimenti.
La densità della storia si riflette anche nelle pagine estremamente affollate di scritte, balloon e frasi. Al di là della mia personale crociata contro i balloon quadrati che sospetto sia semplicemente una delle mie tante idiosincrasie senza importanza, le tavole di Liberge sono piene di frasi lunghissime in cui i personaggi riversano fiumi di spiegazioni statiche che rendono la lettura talvolta inutilmente faticosa; è difficile far immergere il lettore in mondo così alieno dandogli anche tutti gli strumenti per comprenderne gli elementi fondamentali, ma un medium così visivo avrebbe senz’altro beneficiato di più show e meno tell soprattutto nelle sue fasi conclusive, permettendo anche una maggiore comprensibilità del senso di lettura, che in molte pagine è poco lineare e costringe a tornare sui propri passi per seguire il filo di un discorso già di per sé tortuoso.
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Buongiornissimo, merkurio???? (Scusate.)
In ultima analisi, però, Signor Mardi-Gras Delleceneri è un fumetto che potrebbe interessare a chiunque ami le storie che vogliono parlare di quello che succede dopo la morte. Se siete stati tra quelli che si sono divorati Queste oscure materie da piccoli o da meno piccoli e non faticate di fronte a narrazioni a cui interessa poco l’approfondimento psicologico dei personaggi coinvolti vi direi di spararvi questa roba direttamente in vena, ma se anche solo uno degli elementi che ho citato vi suona vagamente intrigante – caffè allucinogeno, cattolicesimo, i Ghost – il fumetto vale di certo una lettura.
(Nota dolente: il recupero non dev’essere facilissimo. Ho letto l’edizione cartacea grazie ad un prestito fortuito e mi pare di capire che almeno un volume non sia disponibile in italiano – confido che ci sia la possibilità di leggerlo almeno virtualmente attraverso canali legali ma non solo, ma non posso confermarlo con certezza.)
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