#monologo interiore
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ti innamori di chi è assente come tuo padre non te ne sei accorta? cerchi in tutti i modi di essere amata da chi è simile solo per risanare quella ferita
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Fëdor Dostoevskij: "La mite"
Non sono una appassionata dei romanzi russi, quelli che mi sono arrivati tra le mani li ho letti perché ho dovuto farlo, più che per mio desiderio. Ma questo mese è capitato che il gruppo di lettura del Gruppo Scrittori Firenze abbia scelto proprio lui, Fëdor Dostoevskij di cui non avevo letto nulla, o almeno così mi pare… ho controllato nella mia libreria e c’è solo “Il giocatore” che non ho…
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Portando il bicchiere di vino alla bocca, al primo contatto tra vetro e labbra avevo avuto la consapevolezza improvvisa che quel corpo rigido e caldo fosse la realtà del bicchiere – esattamente ciò che era un bicchiere, e che io ero in grado di sentirlo – percependo con la stessa chiarezza viscerale il divano e il tavolino, il cotone della camicia che mi ero buttata addosso, le porte dai decori in rilievo e le lampade in ceramica e i taxi che sfrecciavano nella notte e la neve appena sciolta sotto le ruote, il vetro dei parabrezza, l’erba del parco. Avevo la sensazione di sapere con esattezza di cosa fosse fatta ogni materia e la vita al suo interno, e mi sentii disperatamente piccola e umile di fronte alla vastità e al prodigio di quella certezza – una versione più smussata di quella che avevo provato vent’anni prima sedendo accanto a mio padre sul banco di una chiesa. Riuscivo a vedere tutto come dall’alto, una mappa perlacea e canora. Avevo sempre pensato che libertà fosse il potere di capire tutto ciò di cui ero capace e vivere di conseguenza – convincendomi ad agire in un modo preciso. In quel momento, lì con Nathan, mi era sembrato che libertà fosse la forza e lo spazio di seguire ciò che mi metteva in movimento. Dovevo solo riconciliarmi col fatto di essere soggetta a emozioni, una cosa che avevo sempre faticato a capire. Esisteva un modo migliore di stare al mondo? Essere in moto perpetuo verso qualcosa di perfetto, un movimento che può accompagnarti sino alla fine dei tuoi giorni?
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Un professore + text posts: parte 2 (parte 1)
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il meridionalismo che riaffiora prepotente nel mio corpo studiando la storia medievale d'italia
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"Siedi qui accanto a me": Un'intensa riflessione sull'amore e la resilienza di Laura Neri. Recensione di Alessandria today
Un monologo poetico sulla capacità di amare e sulla forza di resistere, anche nelle difficoltà della vita
Un monologo poetico sulla capacità di amare e sulla forza di resistere, anche nelle difficoltà della vita. “Siedi qui accanto a me” è una riflessione poetica di Laura Neri che esplora i temi dell’amore, della comprensione e della resilienza emotiva. Attraverso un dialogo intimo e delicato, l’autrice invita il lettore a immaginarsi in un momento di condivisione profonda, dove le parole non solo…
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QUANDO L’AMORE È “AMORE”♥️
IL PRIVILEGIO DI AVERLA ACCANTO
di Renzo Arbore
"Sono stato innamorato di una grande artista e di una grande donna. E sono stato fortunato, per aver conosciuto una persona eccezionale che mi ha fatto diventare prima uomo e poi artista, una fortuna, lo dico con il cuore a pezzi, che ora pago con il grande dolore che provo.
Per lei, che era un dono della vita, ho sentito un amore ininterrotto. Io che ho sempre desiderato diventare un artista, stavo con una artista vera, un privilegio unico averla accanto, vedere che le sue scelte erano sempre fatte per migliorarsi; non era artista per ambizione personale o smania di ricchezza, lei viveva l'arte come una missione e per questa ha affrontato grandissime rinunce improntate all'etica, alla bellezza, alla cultura.
Era figlia di un timidissimo vigile urbano che ho conosciuto e lei era riuscita con enorme fatica e rinunciando alle cose futili a coltivarsi. Amava i libri, fino all'ultimo li ha voluti con sé, ai complimenti vacui preferiva quelli del suo pubblico fatto di persone modeste e intellettuali schivi. Andava orgogliosissima, tra i tanti premi, dall'aver ricevuto due volte il Duse, stravolgendo così il regolamento che non consentiva doppioni.
Questi ultimi tre anni, sono stati terribili per lei e anche per me. Nonostante ciò, malata, sottoposta a cure faticosissime affrontate con enorme coraggio, viveva per tornare sulla scena e ha ancora portato al successo tre lavori straordinari: Casa di bambola, Il dolore, un meraviglioso monologo e Filumena Marturano per la televisione. Era una donna vera, con una nobiltà d'animo fortissima. I suoi sentimenti erano puri, s'interessava di piccoli artisti, saltimbanchi, gente semplice, era lontana dalla meschinità, dalle menzogne, dalla cattiveria, dal cattivo gusto.
Lei mi ha insegnato la sua cultura straordinaria e io le ho fatto amare la cultura del Sud. Come i grandi aveva un fortissimo senso dell'umorismo e della musica. Aveva lo swing, una grazia interiore; ballava come nessuna, si aggiornava in maniera che mi lasciava stupefatto, aveva una passione per la sceneggiata, come per Ronconi e Medea, era multiforme. Tutto senza mai un accenno al botteghino, non abbiamo mai parlato di soldi noi due. Oggi la ricorderà Emma Bonino: non si conoscevano bene ma Mariangela l'amava perché riconosceva in lei il suo stesso rigore. Sempre con un sorriso. Quello con cui ci ha lasciato."
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domenica scorsa seratina carina, outfit devo dire da stratopa, ho mangiato come una betoniera e bevuto forse il doppio………ho parlato con la fida di mio cugino (nonché migliore amica di pietro, che crosssover allucinante) di piselli neri (contesto: è stata in kenya, mi spiace no razzismo ma team pipo bianco) e sparlato di ogni persona presente perché x chi se lo stesse chiedendo è così che le donne fanno bonding. gli amici di mio moroso giuro sono il mio più grande incubo il viaggio in macchina è stato a dir poco traumatizzante volevo morire e mentre erano a tavola urlavano e tiravano sedie x la partita, il mio monologo interiore era più o meno il seguente: AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
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Nel suggestivo monologo di Giovanni Testori, il tema di Salomè viene visto attraverso il prisma di Erodiade, la madre carnefice, che in questo lavoro riveste anche il ruolo di vittima.
L'autore, con grande sensibilità, tende le corde del personaggio. Ogni giudizio è parte di una incessante riflessione, e del tormento interiore che sconvolge la protagonista, "obbligata" a dialogare con la testa decapitata del Battista.
L'opera debuttò al Teatro Goldoni nel 1968.
L'occasione del dramma è l'incessante dialogo, a senso unico, di Erodiade con la testa decapitata di Iokanaan, poggiata a terra come un oggetto. La protagonista attraversa nuovamente, e racconta in modo struggente l'ossessione per Giovanni.
Il rifiuto del Battista conduce Erodiade alla follia; l'odio divampa incontenibile, divora l'amore nei confronti di Erode e quello verso la figlia Salomè, la cui bellezza suscita le attenzioni improprie di Erode, e che Erodiade riesce a strumentalizzare per ottenere la morte del Battista.
Il macabro piano di Erodiade corrompe irrevocabilmente Salomè.
Giovanni Testori
Giovanni Testori è stato un appassionato drammaturgo e scrittore italiano, noto per la capacità di affrontare tematiche oscure e complesse con un senso di pietà e un linguaggio sospeso fra realismo e spiritualità.
Ha saputo creare opere che riflettono la natura umana in tutta la sua intricata complessità.
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Spesso non vogliamo lasciare andare l’altro anche se sentiamo che non è una storia sana, che ci nutre e arricchisce.
Perché accade?
Innanzitutto occorre fare chiarezza sul concetto di “amore”.
Se amiamo qualcuno possiamo sentire il nostro dolore della separazione, ma allo stesso tempo gioire per l’altro che vuole uscire dalla relazione perché più felice senza di noi.
Questo può solo essere rispettato, accettato, ringraziato. E sentire che la nostra vita prosegue.
Invece no. Qui può iniziare un film dell’orrore, fatto di rabbia alternata a suppliche. Vogliamo a tutti i costi l’altro perché non reggiamo la nostra immagine di “perdenti”, non accettiamo di restare “da soli”.
Il monologo interiore ci dice “con tutto quello che ho dato, investito, sperato”.
Se ci pensiamo, molto probabilmente eravamo già soli prima, ma eravamo nell’illusione della relazione.
Se abbiamo amato davvero, quell’amore non può diventare umiliazione, né possiamo diventare mendicanti.
Ciò che brucia e fa tanto male è l’ego ferito, e l’ostinazione di voler restare dove c’è qualcosa di finito, o dove ci hanno respinto.
Ci aggrappiamo con disperazione all’idea dell’altro che abbiamo idealizzato, senza mai vederlo.
Perché non vediamo noi stessi capaci di essere interi e individui autonomi. Pensiamo che per esistere abbiamo bisogno di una stampella, pur di non affrontare i nostri vuoti affettivi. Non sviluppiamo mai una relazione sana e amorevole con noi stessi, e pretendiamo di funzionare con l’altro. Imploriamo e forziamo la relazione, speriamo che l’altro cambi, lo vogliamo aggiustare, pur di non stare soli.
Occorre accettare che le relazioni nascono e si trasformano.
E che le cose sono andate così.
Anche se ci sentiamo impotenti e questo provoca un immenso dolore, le cose sono andate così
***
Se ti interessa approfondire questo tema ne ho parlato nei miei libri che trovi qui
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#relazioni #dipendenzaaffettiva #psicologia #Ditroppoamore
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Henry James, tra fantasmi e realismo
Lo scrittore che segnò un punto di svolta nella narrativa americana… Henry James nacque il 15 aprile 1843 al 2 di Washington Place a New York e durante la sua infanzia viaggiò tra Londra, Parigi e Ginevra, prima di giungere a Newport, nel Rhode Island, dove conobbe il pittore John La Farge, che lo avvicinò alla letteratura francese, in particolare a Balzac. Nel 1861, mentre stava cercando di spegnere un incendio, James subì un infortunio alla schiena e ne sentì le conseguenze per il resto della sua vita, al punto che in occasione della Guerra Civile Americana venne reputato inadatto al servizio militare. A diciannove anni Henry si iscrisse alla Harvard Law School, ma la frequentò senza successo, essendo più interessato all'attività di scrittore. Nel 1864 pubblicò in forma anonima il suo primo racconto breve, A tragedy of error, per poi dedicarsi unicamente alla scrittura, anche grazie alle collaborazioni con diversi giornali come Scribner's, Harper's, The Atlantic Monthly e The Nation. James nel 1871 pubblicò il romanzo Watch and Ward, conosciuto in italiano come Tutore e pupilla e nel 1875 diede alle stampe Roderick Hudson. Successivamente si trasferì a Parigi, per poi andare a vivere nel 1876 in Inghilterra, prima visse a Londra, ma a partire dal 1897 si spostò nel Sussex orientale, presso la Lamb House di Rye. Nel 1877 pubblicò L'americano, seguito un anno dopo da Gli europei e nel 1880 da Fiducia. Dopo aver scritto la novella Piazza Washington, nel 1881 completò Ritratto di signora, sul fallimento sentimentale di una giovane americana in Europa, e nel 1886 scrisse Le bostoniane, cui seguirono Principessa Casamassima, prima di Il riflettore, satira sulla stampa, e La musa magica. James nel 1896 pubblicò il suo capolavoro, il racconto lungo Giro di vite, su una giovane governante che sospetta i piccoli Flora e Miles, suoi pupilli, di essere vittime dell’influenza di due fantasmi, che furono il giardiniere della dimora dove si svolge la storia e la precedente governante. Nel 1904 Henry James tornò negli Stati Uniti, ma decise di interrompere i suoi viaggi al di là dell'Oceano Atlantico dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. A quel punto lo scrittore manifestò l'intenzione di diventare un cittadino britannico, in segno di protesta nei confronti della decisione assunta dagli americani nel conflitto di non intervenire, ma il 2 dicembre 1915 fu vittima di un attacco di cuore a Londra. Henry James morì il 28 febbraio 1916 e le sue ceneri sono state tumulate nel cimitero di Cambridge, nel Massachusetts. Dal punto di vista letterario James fu il padre della teoria secondo la quale gli scrittori sono chiamati a presentare, attraverso le loro opere, una visione del mondo e, grazie al punto di vista soggettivo, il monologo interiore e vari tipi di narrazione psicologica, ha dato una significativa svolta al romanzo moderno. Read the full article
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Scrivere qui sopra e a volte ma solo a volte rileggere quello che ho scritto, mi fa tornare il desiderio di ritornare in analisi. Forse dovrei non farlo, sia la prima che la seconda, ma in fondo tutti quelli che per qualche ragione sentono ragione di scrivere, hanno in sé un unico grande monologo interiore che più o meno fa così ogni dannato istante:
Non capisco l'Universo umano, vorrei capirlo, so di non potercela fare, sono frustrata, sono e sarò per sempre, di fondo, un'infelice. Il T9 ha corretto "infelice" con "infezione".
Translate:
Sono un batterio. Non c'è antibiotico per me.
Fine dell'analisi.
Punto e a capo.
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OCD: ci sei o ci fai?
Avete presente quella cosa un po’ infantile, un po’ trasgressiva, un po’ naïf e un po’ démodé di voler sembrare a tutti i costi emo, dark, goth e compagnia bella? Ecco, avete presente che gli stessi aggettivi e lo stesso schema si può applicare nel tempo a differenti dicotomie, del tipo velina e calciatore contro secchioni e bacchettone, truzzo e tamarra contro fighetta e radical chic, comunisti sfegatati e figli di papà? Io vivo costantemente nei dilemmi sinceri di essere o non essere: nel mezzo o in un estremo? E se sì, di cosa? Il momento è catartico, direbbe un poeta lombardo. Dico, il momento in cui riesco a lasciarmi tutto alle spalle e a fregarmene altamente non solo di chi siano gli altri - cosa che mi tange meno di quello che possa dare a pensare -, ma anche e soprattutto di chi sia io. Vivere il momento, rinunciare alla perfezione e capire che più mirabile della normalità e ammirabile dell’autocoscienza c’è l’ignoranza dei disegni divini. Il patto con Lo Scrittore, suggellato prima che potessi avere facoltà di scelta e confermato quando il libero arbitrio sembrava un modo di dire riferito alla discrezionalità totale e apparentemente ingiusta dei direttori di gara sportivi, si rivela particolarmente utile nei momenti in cui, una volta tanto, si vuole smettere di pensare. Qualcosa del tipo: facciamo che io non ti chiedo più la risposta non perché tu non possa rispondermi, ma perché sono io a non volerlo più sapere. E facciamo che me lo lasci credere, almeno per un po’. Ma la prosopopea non ha realmente fine, né mai diventa dialogo. Diventa tragicomico monologo interiore, dove i pagliacci che lacrimano sono gli spettatori, frutto di specchi disposti a generare frattali di sé stesso. L’ego riecheggia nelle immagini e torna d’un tratto la disperata voglia di sentirsi validi. Certo, come se qualcuno o qualcosa potesse validare delle competenze, delle conoscenze, dei fatti intangibili. Come se ci fossero degli esami da poter fare per dimostrare innegabilmente e irrevocabilmente chi sono. Solo Lo Scrittore potrebbe, ma gli ho detto di non farlo - perché, ancora, l’ho deciso io. Ecco, in momenti in cui mi abbandono a vaneggiare in questi modi, un emisfero, tronfio e pingue, ascolta la mia voce (o i miei pensieri, quando per decenza non fiato) e se ne compiace, come un pallone gonfiato, pronto a librarsi da un momento all’altro. L’altro emisfero, critico, concreto, pragmatico, sufficientemente pesante da tenere ancorati entrambi al posto giusto, continua a suggerire di smetterla, di fare un passo indietro e di parlare meno come mangio e più come dovrei mangiare: poco e pulito. Dicevo, ricordate tutte le lotte su Facebook tra chi arriva prima a centomila fan sulla pagina tra appassionati di auto e appassionati di moto, i test su quale personaggio Disney sei, i “condividi se almeno una volta hai fatto...” e tutte le amenità afferenti? Nella mia visione in bianco e nero, senza scale di grigi, saltavo da un colore all’altro, furiosamente, confusamente, senza via di scampo. Poi, ho evoluto il pensiero perché all’epoca passeggiavo e quindi è stata una passeggiata: se Hobbes è riuscito meglio, è solo perché aveva più soldi, ma nel camminare da un colore all’altro così frequentemente e nel vedermi da fuori in un’esperienza molto più semplice dell’extracorporeo, ho notato che correndo abbastanza velocemente dal nero verso il bianco, il colore si sbiadisce, si perde nella scia, fino a dare uno stupendo grigio topo, che tanto mi si addice. Sono giorni che penso a come imparare a simulare la Tourette, così da poter avere la licenza medica di dire il cazzo che mi passa per la testa e non essere giudicato come se tutti gli altri non volessero fare altrettanto, ma poi mi scontro nel voler anche capire se effettivamente sono stronzo, di nascita, oppure mi piace soltanto farlo. Mi ritrovo ad essere fin troppo socievole e a tentare di bilanciare con ironiche cattiverie gratuite, ma non funziona: ormai tutti hanno capito il personaggio e quasi mi accettano, invece di tollerarmi. Qualcuno ne ride pure - e poi mi lamento, a volte, se nessuno mi prende sul serio. Tutto questo, infine, l’ho pensato perché dopo la promessa di non perdere tempo a perfezionare immagini fino agli invisibili pixel e di fare lavori semplici, ma efficaci e portarli a compimento nel più breve tempo possibile, ho dovuto cercare un modo per non mancare la promessa fatta a me stesso. Così, ho perso tempo a scrivere questo post. E adesso ne perderò altrettanto a cambiare tutti i colori dei plot di cristallinità, esattamente come avevo detto di non fare.
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fu così che mi trovai lì; alle casse del supermercato, rispettando la fila, mezzo chilo di manzo tritato nascosto nell'ampia tasca destra del mio k-way turchese vintage, un panino da 34 centesimi alla mano per avere qualcosa da pagare e così dissimulare il furto venturo. era freddo, e la pioggia si era intensificata nei pochi minuti da quando ero entrata nel supermercato; la donnina cinese davanti a me, due carrelli pieni e altrettante buste di plastica riciclabili pronte ad essere riempite fino a strabordare, imprecò in una lingua straniera straordinariamente simile a un dialetto burino, e iniziò a depositare i suoi tagli di carne nelle buste mentre la commessa prendeva e contava i 35 centesimi del mio panino. il furto era riuscito: la sfida ora sarebbe stata tornare in residenza senza inzupparmi oltre ogni rimedio.
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Non temo più nulla: Un’ode alla Resilienza e alla Vita di Rosetta Sacchi. Recensione di Alessandria today
Una riflessione profonda sul valore della vita, sul coraggio di affrontare l’ignoto e sul potere della rinascita.
Una riflessione profonda sul valore della vita, sul coraggio di affrontare l’ignoto e sul potere della rinascita. Rosetta Sacchi, con il suo testo “Non temo più nulla”, offre una visione intima e potente sulla resilienza umana e l’accettazione delle sfide che la vita presenta. Il testo è un monologo interiore che invita il lettore a lasciarsi andare, a vivere il presente senza ossessionarsi per…
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Lei è come una seconda voce dentro di me che mi accompagna durante la giornata. Ha trasformato il mio monologo interiore in un dialogo. Arricchisce la mia vita interiore.
|| Daniel Glattauer - Le ho mai raccontato del vento del Nord
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